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I diritti della fantasia

«Sogni e favole io fingo» cantava Pietro Metastasio, il più grande poeta del tempo, ma «non sol quelle ch’io canto e scrivo favole son, ma quanto temo o spero, tutto è menzogna, e delirando io vivo!». Vivo nella follia! Poi, conclude Metastasio: «Sogno della mia vita è il corso intero». Tutto è sogno, la realtà stessa è sogno e l’arte, in un’inversione fatale, rischia di essere l’unica realtà. La morale di Pietro Metastasio sembra essere molto vicina a quella Giovan Battista Tiepolo, suo contemporaneo.

«Un’arte ineffabile, indecifrabile, ambigua quella di Tiepolo, come l’espressione della sua meravigliosa S. Agata. Pare che vi si legga chiaramente il dolore della ferita fattale dal manigoldo misto con il piacere di vedersi con ciò aperto il Paradiso», scrive il suo amico Francesco Algarotti, gran conoscitore di pittura, della S. Agata di Padova. Ma ancor più vero è forse nel quadro di Berlino. Tiepolo, l’ultimo dei grandissimi pittori italiani in una sfilata di giganti che allinea Giotto, Masaccio, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio, ma certo molto meno di costoro presente con la sua opera, forse al massimo con il suo nome, nella coscienza degli italiani di oggi. Forse perché mentre tutti questi sommi artisti restituirono un’idea completa della realtà, ci dettero cioè il loro giudizio sul mondo reale, Tiepolo, invece, trasfigurò la realtà in una favola.

Il Tiepolo, ha detto lo scrittore Giorgio Manganelli, non è solo un bugiardo, è un falsario, è l’inventore di un mondo coerente ma inabitabile, seducente ma irraggiungibile. Nel 1951 Roberto Longhi, il grande storico dell’arte, ha messo in scena un dialogo immaginario tra Caravaggio e Giovan Battista Tiepolo, separati da…

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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Device4All, una rete solidale per garantire a tutti il diritto allo studio

Foto Claudio Furlan - LaPresse 25 Novembre 2020 Milano (Italia) News Lezioni nel cortile del Liceo Bottoni per protestare la didattica a distanza Photo Claudio Furlan - LaPresse 25 November 2020 Milan ( Italy ) News Lessons in the courtyard of the Liceo Bottoni to protest distance learning

Su Left del  13 novembre si è ampiamente trattato il tema della scuola e le problematiche emerse, in questa fase di emergenza, dalla didattica a distanza (Dad). La Dad, ora diventata Ddi (didattica digitale integrata) ha ulteriormente esacerbato le disuguaglianze socio-economiche e provocato un aumento della dispersione scolastica. A pagarne le conseguenze sono i più giovani e, particolarmente, quelli appartenenti alle fasce sociali meno abbienti e i minori più vulnerabili.

Come è evidente a tutti, la scuola non solo non è stata una priorità durante la cosiddetta prima fase dell’emergenza sanitaria, nella quale docenti, studenti e famiglie si sono attrezzati al meglio per permettere un minimo di continuità didattica, ma non ha avuto, neanche durante i mesi estivi, una adeguata attenzione in termini di risorse e di strumenti da parte del governo, di modo da consentire alla comunità scolastica di affrontare l’avvio del nuovo anno scolastico. Ancora oggi, il valore dell’istruzione, l’importanza della scuola come luogo (fisico) di crescita collettiva e di inclusione, paiono del tutto secondari. Questo stato di cose ha prolungato il sentimento di abbandono, la solitudine del mondo scolastico, aumentando il divario sociale tra famiglie, tra studentesse e studenti. Insomma, se tutto il mondo della scuola sta cercando di superare, settimana dopo settimana, le difficoltà prodotte dalla crisi epidemiologica, pensiamo a quanto sia ancora più duro e insopportabile questa situazione per i nuclei familiari ulteriormente colpiti dalla crisi economica, ai migranti, alle ragazze e ai ragazzi che necessitano di sostegno.
Per questi motivi si sono moltiplicate le iniziative di solidarietà da parte di cittadine e cittadini che hanno deciso di organizzarsi per tentare, per quanto possibile, di riempire i vuoti lasciati dalle istituzioni.

A Roma, ad esempio, alla fine del primo lockdown, è nata “Rimuovendo gli ostacoli”, un’associazione di promozione sociale che ha come obiettivo quello di supportare le famiglie in difficoltà nell’ambito dei bisogni educativi-scolastici. Dal nome si comprende subito che i soci fondatori si sono ispirati all’enunciato contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, secondo cui «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Nel concreto «la fonte di ispirazione – mi dice il presidente di Rimuovendo gli ostacoli, Giampiero Obiso – è stata il Detroit water project, un’iniziativa messa in campo da alcuni attivisti statunitensi, che permette di incrociare la solidarietà tra coloro che non possono permettersi di pagare le bollette dell’acqua e chi è disposto a fare delle donazioni in modo che queste bollette vengano pagate. In questo modo, le fasce meno abbienti continuano ad avere accesso all’acqua, che dovrebbe essere considerato un bene pubblico, di tutti, in una città come Detroit, una volta il cuore della produzione dell’auto in Usa, in cui delle vecchie fabbriche è rimasto solo il disastro ambientale ed economico, e in cui le differenze in termini di aspettativa di vita tra quartieri ricchi e poveri sono di quindici anni».

L’associazione romana ha creato, sulla falsariga del progetto di Detroit, un portale web con l’obiettivo di raccogliere fondi da destinare all’acquisto di dispositivi tecnologici o di connessioni internet, così come donazioni di vero e proprio materiale inutilizzato, ma funzionante. Questa è solo un piccola parte del progetto dei volontari e delle volontarie di Rimuovendo gli ostacoli: infatti, queste risorse vengono poi messe a disposizione di un circuito mutualistico che va oltre la singola associazione. «Facciamo mutualismo per chi fa mutualismo», commenta Andrea Serra, vice presidente dell’associazione, «vogliamo stare accanto alle tante associazioni che nei territori già svolgono un ottimo lavoro».

È per questo che Rimuovendo gli ostacoli è entrata a far parte della Rete dei Numeri Pari che già unisce centinaia di realtà sociali accomunate dall’obiettivo di garantire diritti sociali e dignità a quei milioni di persone a cui sono stati negati e ha avviato una collaborazione con due realtà che già operano nel territorio romano, quali Nonna Roma e Informatici Senza Frontiere. Con loro hanno dato vita al Device4All, un progetto di contrasto alla disuguaglianza educativa, per permettere a tutti gli studenti di esercitare il loro diritto allo studio e alla formazione. Serra ci spiega come funziona questo progetto: «come è a tutti evidente, in questa fase di emergenza, le fasce più vulnerabili hanno avuto, e continuano ad avere, molte difficoltà a seguire la didattica a distanza. Per questo ci siamo posti l’obiettivo di sostenere questo bisogno: noi di Rimuovendo gli ostacoli recuperiamo i dispositivi elettronici, nuovi o usati; li consegnamo a Informatici Senza Frontiere che procede alla pulizia dei dati dei PC usati e/o all’installazione dei software; infine, insieme a Nonna Roma, individuiamo i beneficiari e alla donazione».

Questa sinergia è fondamentale per rendere tutto questo processo fluido. Per ora, i volontari di Rimuovendo gli ostacoli hanno già raccolto una ventina di dispositivi elettronici e, grazie al lavoro congiunto con Informatici Senza Frontiere e Nonna Roma, si sono consegnati già i primi Pc.
L’altro progetto avviato, questa volta in collaborazione con Asinitas, una onlus che lavora a Roma e svolge attività educative e di promozione sociale con uomini e donne migranti, richiedenti asilo e rifugiati, punta a sostenere la scuola in presenza di Asinitas raccogliendo fondi da destinare alle spese di trasporto di quei ragazzi, ospiti di centri di accoglienza, che frequentano corsi di Italiano.

Questi due progetti sono l’avvio di un percorso di solidarietà concreto. In un paese democratico non ci si può permettere che a pagare le conseguenze dell’inefficienza politica siano le nuove generazioni. Perchè togliere il futuro ai giovani significa togliere il futuro al Paese. E allora, in questa fase emergenziale, che ha ulteriormente messo a nudo le disuguaglianze e i divari socio-economici, è fondamentale sostenere queste realtà mutualistiche che tentano di riempire un vuoto lasciato dalla politica.

Per approfondire leggi Left del 13-19 novembre 2020

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Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Foto LaPresse/Nicolò Campo 12/10/2019 Torino (Italia) Cronaca Presidio contro l'invasione turca del Rojava in sostegno del popolo Curdo e delle forze armata YPG e YPJ Nella foto: Maria Edgarda Marcucci Photo LaPresse / Nicolò Campo 12/10/2019 Turin (Italy) News Presidium against the Turkish invasion of Rojava in support of the Kurdish people and the YPG and YPJ armed forces In the picture: Maria Edgarda Marcucci

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

Che Paese è quello che nega il valore della cultura

L’emergenza sanitaria ha mostrato a tutti come la ricerca rappresenti un fattore determinante per la salute ma anche per il miglioramento della qualità della vita. Ci ha fatto vedere bene l’importanza della ricerca biomedica per la messa a punto di nuovi farmaci e di vaccini. Ora tocca alla politica fare la propria parte e invertire la rotta dopo lunghi anni di mancato riconoscimento della ricerca di base e di suo definanziamento. Ma è importante anche un rigoroso lavoro di divulgazione dei contenuti scientifici, garantire l’accesso ai dati (per es. dei candidati vaccinali anti-Covid19) e il diritto alla conoscenza dei cittadini, in modo che ci possa essere il massimo coinvolgimento della collettività.

Con questo obiettivo il parlamentare europeo Marc Botenga si è fatto promotore di una campagna Vaccino bene comune. La avevamo anticipata su Left qualche numero fa e, ora che sta per partire la raccolta firme, gli abbiamo chiesto di tornare ad argomentare le importanti motivazioni che la sostengono. Anch’esse hanno a che fare con il diritto alla conoscenza: la Commissione europea, infatti, «si rifiuta di pubblicare i contratti negoziati con le aziende farmaceutiche mentre i governi nazionali sono vincolati da clausole di confidenzialità». Purtroppo, scrive Botenga, «meccanismi di cooperazione internazionale, come CoVax, nati per garantire una distribuzione più equa del vaccino al livello mondiale, sono stati ampiamente sconfitti dal nazionalismo del vaccino». Per garantire a tutti i Paesi, anche ai più poveri, possibilità di avere i vaccini bisognerebbe sospendere i brevetti, come propongono India e Sudafrica. Il vaccino, sottolinea giustamente Botenga, dovrebbe essere un bene pubblico mondiale, liberamente accessibile a tutti. Anche in questa battaglia titanica giocano un ruolo fondamentale l’informazione e la divulgazione. La pandemia ha reso ben evidente quanto sia stretto il legame fra sapere e diritti. È una battaglia scientifica e culturale. Ma in Italia ricerca e cultura sono sempre state Cenerentole. La seconda lo è ancor di più oggi.

Tradendo il dettato costituzionale oggi in Italia il diritto alla cultura è ampiamente negato. Una politica miope la considera effimera, un lusso per tempi felici, non rendendosi conto che chiudendo biblioteche, archivi, musei ecc, senza pensare ad alternative, si blocca lo sviluppo del Paese, si pone un freno alla conoscenza e con essa alla possibilità  di elaborare una visione che ci permetta di uscire dalla crisi e guardare avanti. Le discipline umanistiche in questo non sono meno importanti di quelle scientifiche.

Nelle scorse settimane ci siamo occupati molto di scuola e di diritto allo studio che ha subito una gravissima lesione nel nostro Paese. Questa settimana aggiungiamo un altro importante tassello dando voce a archeologi, storici dell’arte, archivisti, ricercatori, artisti che chiedono di poter continuare a fare cultura e ricerca in sicurezza. ll Dpcm del 3 novembre ha imposto la chiusura di «mostre e servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura (di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio)».

Come fa notare l’archeologa Maria Pia Guermandi nel suo intervento che apre la storia di copertina biblioteche e archivi sono stati liquidati in due parole, nemmeno nominati ma compresi nel mazzo degli «altri istituti e luoghi della cultura». Così ricercatori, dottorandi ecc. non possono portare avanti le proprie ricerche, non possono ottemperare agli obblighi di mandato e sfumano possibilità preziose di avanzamento del sapere come denunciano gli storici David Armando e Paolo Broggio con lo storico dell’arte Fulvio Cervini. Sappiamo bene purtroppo che questo duro colpo al mondo della cultura si assesta su un settore già indebolito da molti anni di politiche che lo hanno emarginato, anni di umiliazione delle competenze (pensiamo all’attacco durissimo che hanno subito presìdi fondamentali per la tutela come le soprintendenze) e di blocco del turn over. A tutto questo ora si aggiunge la grave denigrazione dei  dipendenti pubblici. E si aggiunge la disoccupazione di tanti giovani precari che lavoravano nel settore dei beni culturali con contratti a tempo determinato e di collaborazione, come ci ricorda qui l’archeologo e docente Manlio Lilli dando voce alle crescenti proteste.

I ristori non bastano, serve un piano, una visione, servono investimenti. Ma serve anche un cambio di paradigma e una classe politica colta che capisca che scuola, ricerca e cultura hanno un ruolo strategico per la ripartenza e che la cultura, il patrimonio storico artistico, l’università e la ricerca non sono ambiti separati. Serve una classe politica che capisca che l’accesso alla cultura è fondamentale per l’inclusione. Che studiare la storia serve anche a comprendere questo duro presente e trovare una via d’uscita… Che l’arte ci aiuta a immaginare un futuro migliore…

L’editoriale è tratto da Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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La Biblioteca nazionale che celebra Pino Rauti è una vergogna da censurare

Come migliaia di altri utenti della Biblioteca nazionale centrale di Roma (Bncr) ho ricevuto una giuliva e-mail che annuncia l’acquisizione dell’archivio e della biblioteca personale di Pino Rauti, messi ora a disposizione del pubblico nella più importante Biblioteca italiana diretta dal dottor Andrea De Pasquale.

L’e-mail spiega che la solenne inaugurazione con Conferenza di presentazione presso l’Auditorium, prevista per il 19 novembre («proprio nel giorno che sarebbe stato il novantaquattresimo compleanno» di Rauti), non ha purtroppo avuto luogo a causa del Covid.

Ma il direttore della Bncr non ci fa mancare l’auto-lode per avere «riordinato, inventariato, catalogato e reso quindi disponibile alla fruizione pubblica un bagaglio di documenti e libri tanto ricco e interessante» che «accresce … il patrimonio conservato e valorizzato dalla Biblioteca, utile per gli studi sulla letteratura, ma anche sulla Storia, la politica, la cultura e la società italiane del Novecento», dato che Pino Rauti è definito nella e-mail: «Uno dei personaggi chiave della Storia della Destra in Italia: organizzatore, pensatore, studioso, giornalista, deputato dal 1972 al 1992. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico».

Segue un brano in cui lo stesso Rauti (scomparso nel 2012), parlando di sé in terza persona – come Giulio Cesare – aveva auspicato l’evento, definendo il proprio archivio «una fonte di informazione politica di prim’ordine e anche un valido punto di riferimento di natura culturale. Anzitutto per la storia della destra in Italia, dal primo dopoguerra in poi, anche prima della nascita di quello che fu poi il Movimento sociale italiano e che nacque come, appunto, Rauti testimoniò in prima persona diventando uno dei più noti esponenti giovanili – anche e soprattutto dall’ingresso in politica di migliaia di giovani reduci dalla Repubblica sociale italiana (Rsi). Una “andata” che all’inizio oscillò fra il clandestinismo dei Fasci di azione rivoluzionaria (Far), le avventurose presenze giornalistiche … e le prime prove di presenza politica all’interno del sistema partitico».

Non poteva mancare, nella mail della Bncr, una compiaciuta dichiarazione della figlia del de cuius, l’onorevole Isabella Rauti: «Sarà un pensatoio utile a molti e la narrazione di un personaggio poliedrico e anche il racconto della destra italiana».

L’incredibile iniziativa si commenta da sola: la maggiore Biblioteca della Repubblica ricorda ed onora un esponente di punta del neo-fascismo, gli dedica il lavoro dei suoi bibliotecari e lo spazio dei suoi locali, propone insomma l’opera di Rauti allo studio e all’imitazione dei posteri, come «una fonte di informazione politica di prim’ordine e anche un valido punto di riferimento di natura culturale» (sic!). Viene anche da chiedersi se il personale della Biblioteca diretta dal dottor De Pasquale non avesse lavori più urgenti e più utili a cui dedicarsi, viste le condizioni penose in cui versa quella biblioteca, il ritardo delle schedature, l’indisponibilità delle nuove accessioni, l’inaccessibilità di fondi preziosi etc.

Le dimissioni immediate del Direttore della Bncr, o la sua rimozione da parte del ministro Franceschini responsabile politico del settore, sono il minimo che la decenza impone. Ricordiamo quando Franceschini volle mettere (con visite altamente simboliche) l’intero suo impegno politico sotto l’egida dell’antifascismo: ebbene, egli è oggi chiamato a coerenti comportamenti antifascisti.

Propongo altresì che il dottor Andrea De Pasquale, nel tempo del suo lavoro bibliotecario reso libero dopo le sue dimissioni da direttore, si dedichi a organizzare anche le seguenti dieci linee di conservazione e ricerca di libri e documenti: (a) la partecipazione dei “repubblichini” ai crimini e alle stragi nel ’43-’45 in Italia; (b) le azioni clandestine dei Fasci di azione rivoluzionaria; (c) l’antisemitismo, il razzismo e le radici ideologiche del neo-fascismo; (d) il Convegno al Parco dei principi e la “strategia della tensione” in Italia; (e) i legami fra il terrorismo neo-fascista e i servizi segreti italiani e stranieri; (f) i “collaboratori del nucleo guerra psicologica del Sid”; (g) chi era il “signor P” nella strage di piazza Fontana e nelle altre stragi?; (h) Ordine nuovo, dalla fondazione ad opera di Pino Rauti fino al suo scioglimento in quanto organizzazione terroristica neo-fascista; (i) il terrorismo “diffuso” neo-fascista negli anni 60 e 70, censimento delle vittime e delle sentenze; (l) il terrorismo, la P2 e le coperture dei servizi deviati.

Siccome è probabile che su alcuni di questi argomenti si verifichino deplorevoli vuoti o mancanze nell’archivio di Rauti, consiglierei al direttore di integrarlo con ulteriori accessioni, magari attingendo al casellario Giudiziario, all’Archivio del Tribunale e agli atti delle Commissioni parlamentari sulle stragi.

Quello che questa brutta storia insegna è che il neo-fascismo, nelle sue varie forme, è stato non meno orrendo del fascismo del ’19-’45. Il cosiddetto neo-fascismo ha significato una catena ininterrotta di attacchi contro la democrazia e la stessa civiltà: bombe, aggressioni, provocazioni, razzismo, azioni squadriste, costante opposizione a qualsiasi conquista di libertà, attentati alla Costituzione e tentativi di golpe, fino alle stragi, compiute sempre su comando e sotto la copertura dei servizi, italiani e stranieri. Eppure, come l’incresciosa vicenda della Bncr dimostra, non solo tutto ciò è rimasto sostanzialmente impunito ma neppure è stato fatto ancora oggetto di una unanime ripulsa intellettuale e morale.

Adesso liberiamo la cultura

Foto Claudio Furlan - LaPresse 26 Maggio 2020 Milano (Italia) NewsRiapertura dei Musei Milanesi per la Fase 2 dell’ emergenza coronavirusNella foto: Gam , Galleria d’arte modernaPhoto Claudio Furlan/Lapresse26 May 2020 Milano (Italy)Reopening of the Milanese Museums for Phase 2 of the coronavirus emergencyIn the photo: Gam , Galleria d’arte moderna

L’aggravarsi, non inaspettato, dell’epidemia a livello nazionale, ha tacitato le molte polemiche sui progressivi lockdown che avevano accompagnato la seconda ondata pandemica, e che, in ambito culturale, avevano interessato, da ultimi, musei, biblioteche e ogni luogo della cultura a partire dal 6 novembre, a breve distanza dalle chiusure di cinema e teatri.

Questa seconda sospensione si innesta su una situazione che, al contrario di altri settori, non aveva ancora neanche lontanamente recuperato una “normalità” in questi pochi mesi di riaperture. Fondato è quindi il timore che questa nuova cesura provochi danni irrimarginabili: i sussidi pur stabiliti anche in questo caso per molteplici categorie di operatori culturali potranno costituire un risarcimento indispensabile, ma insufficiente per quantità e durata, ancor più se si pensa che, ad esempio, i 165 milioni destinati a coprire i mancati incassi dei musei statali, sono andati in massima parte alle società private concessionarie dei servizi aggiuntivi (biglietterie in primis).

Come dimostrano i dati dei molti report internazionali, nazionali e locali, relativi ai mesi del primo lockdown, le chiusure avevano interessato il 90% delle strutture museali nel mondo (report Unesco), con perdite dei visitatori in media del 70%. Gravi le ricadute in ambito professionale con tagli del personale interno e soprattutto sugli operatori free-lance, non strutturati, in una parola i precari che, anche per quanto riguarda l’ambito italiano si contano in alcune migliaia (e il fatto che non se ne conosca l’esatta entità è il sintomo più evidente della loro “invisibilità” agli occhi dei decisori politici).

Le riaperture estive non hanno affatto ripristinato una situazione quo ante: le istituzioni museali hanno riaperto in ordine sparso, spesso con orari molto diversi dalla fase pre-Covid e per lo più ridotti. Su una ripartenza stentata ha senz’altro inciso il crollo del turismo internazionale (65 miliardi persi nel settore in Italia secondo i più recenti dati Federturismo), ma anche quel deficit endemico in termini di personale e risorse generali sul quale il fenomeno pandemico ha agito come un detonatore. Insomma, per molte convergenti ragioni, i nostri musei sono rimasti pressoché deserti tanto che, in molti casi, le riaperture sono ben presto diventate addirittura economicamente insostenibili.

Ciò che è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi ribadisce, come era apparso del resto chiaro fin dal primo lockdown, che…

*-*

L’autrice: Maria Pia Guermandi è archeologa e responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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Parliamo di povertà?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 16 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Coronavirus, distribuzione di cibo ai senza tetto a Santa Maria in Trastevere Nella foto : gli operatori distribuiscono le sacche con il cibo davanti alla chiesa Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 16, 2020 Rome (Italy) News Coronavirus Emergency, food distribution to the homeless from the Our Lady in Trastevere church In the pic : the operators of the solidarity organization giving food to the homeless in front of the church

Mi scrive uno sfogo densissimo Filippo. Filippo è uno di quelli con le mani dentro la povertà, ce ne sono tanti nel nostro Paese, anche se ce ne dimentichiamo spesso. È un membro anomalo in un ente religioso: di sinistra, ateo, sbattezzato. Con le mani, per lavoro, dentro gli angusti dolori di chi è stato sopraffatto dalla pandemia. Ma sopraffatto vero, senza la preoccupazione di dove andare a sciare il prossimo Natale.

“Bene, ora, da qualche mese a questa parte, mi trovo quotidianamente a conoscere e a confrontarmi con persone, con famiglie per lo più composte da giovani genitori e bambini poco più che neonati, che, trattenendo le lacrime, si sono trovate, senza capire come, nella condizione di dover chiedere aiuto a me, a noi, ai professionisti e ai volontari di organizzazioni caritatevoli.
Dov’è oggi lo Stato Sociale? La povertà non era stata abolita? Come può pensare uno Stato di essere sulla strada giusta se i suoi cittadini devono dipendere da queste associazioni e non possono fidarsi degli organi pubblici predisposti? È normale che in Italia, in una piccola Provincia piemontese, oggi sia stato fondamentale l’intervento economico di due enti caritatevoli per permettere a due famiglie di riavere luce e gas? E’ normale che vengano spesi 38.000 € (giuro, 38.000 €) per le luminarie natalizie quando la luce ogni giorno viene a mancare nelle case dei cittadini?
Sui giornali, nei tg, in radio, leggo e sento solamente discussioni su quanto sia importante andare a ballare o a sciare, ma le urla e le lacrime disperate di chi non riesce a pagare affitti, bollette per luce o gas non meritano lo stesso interesse dei capricci del Briatore di turno?
“Quando torneremo alla normalità vi restituirò tutto”, è questa la frase che oggi mi sono sentito ripetere più e più volte da persone che rivolgevano lo sguardo a terra, che si vergognavano di essere li, di aver deluso i canoni di questa società fondata sul successo personale, sui beni materiali. Ma io, noi, non vogliamo niente in cambio, tutto quello che facciamo, dalla distribuzione di alimenti, al pagamento di utenze, alla ricerca di offerte di lavoro, lo facciamo perché crediamo nell’umanità (un grazie a quella parte di umanità che sostiene i nostri progetti).
Da un lato aiutare queste persone, sentirmi dire “grazie, senza di voi non so come avrei fatto” mi fa sentire bene, mi da una carica oserei dire “rivoluzionaria”, ma solo per pochi istanti, subito dopo subentra la Disperanza, una sensazione di rabbia mista a impotenza che ti fa venir voglia di mollare tutto, che ti fa sentire piccolo, impotente di fronte a un mostro imbattibile e fa percepire come inutili tutti i tuoi sforzi per garantire un’esistenza dignitosa a chi da questo sistema viene sacrificato.
È normale che uno Stato non sia in grado di garantire uno stile di vita dignitoso ai suoi cittadini? È normale che uno Stato debba dipendere da associazioni caritatevoli per sopperire alle sue mancanze e che non se ne interessi minimamente a livello centrale? Quale è stato il preciso momento in cui il mio Paese, quel Paese per il quale mia nonna ha sacrificato la sua gioventù lottando per un ideale di giustizia e equità, per il quale io mi sono messo in gioco difendendo le cause degli ultimi, dei più deboli, ha abbandonato il suo popolo?
Dopo una giornata emotivamente devastante, dopo essermi trovato di fronte a ragazzi miei coetanei, che spensierati sgargarozzavano birre guardando le partite con me nei bar fino a poco tempo fa e che ora non dormono la notte, tormentati da quella maledetta sensazione, quella maledetta ansia che folgora cuore e stomaco e annebbia la ragione causata dal sentirsi inadeguati, dal convincersi di aver fallito e di non essere degni dei proprio genitori, dei propri figli per non riuscire a garantirgli un’infanzia spensierata come quella da noi vissuta, l’amministrazione comunale cosa fa? Si vanta di aver vinto una causa in tribunale che gli permette lo sgombero di un campo Rom…9 persone, 2 bambini, a fine novembre, in mezzo a una strada. Tanto “qualcun altro” ci penserà….”

Quando torniamo seriamente a parlare di povertà?

Buon giovedì.

Nicolas Cadène: La laïcité est une chance pour tous les citoyens

Close up of graffiti on wall of abandoned building.

Alors que se déroule à Paris le procès contre les attentats de Charlie Hebdo, la France doit faire face à de nouveaux actes de violence de la part de terroristes islamistes. La crise avec les pays musulmans qui a suivi la défense par le président Emmanuel Macron des caricatures de Mahomet, le projet de loi du gouvernement français “contre les séparatismes” et le débat politique qui stigmatise toujours plus la communauté musulmane, mettent en lumière une fracture au sein de la société française concernant l’islam. Left est allé à la rencontre de Nicolas Cadène, juriste et rapporteur général de l’Observatoire de la laïcité, pour comprendre pourquoi nous assistons, en France, à une telle défiance vis-à-vis de l’islam et à une multiplication des discours et des actes de violence.

Aujourd’hui, nous pouvons remarquer en France différentes interprétations de la laïcité qui se confrontent. Il n’y a donc pas une laïcité française mais différents modèles de laïcité, quels sont ces différents modèles de laïcité ? Arrive-t-il que le principe de laïcité soit détourné de son sens véritable ?

Il y a une seule laïcité qui s’applique en droit. En revanche, il y a effectivement plusieurs interprétations intellectuelles de la laïcité et certains voudraient modifier le sens de ce principe. De fait, oui il y a un dévoiement de la laïcité. Force est de constater le remplacement (depuis une vingtaine d’années) par l’extrême droite de son racisme anti-Arabes par une opposition permanente aux Français de confession musulmane, prétendument au nom de la laïcité. C’est évidemment une perversion de ce principe. La laïcité n’est pas un outil anti-religions ou anti-musulmans.

Il y a une polarisation croissante de la société française vis-à-vis de la religion, notamment musulmane. A quand remonte ce phénomène de polarisation et à quoi est-il dû ?

Le sociologue Philippe Portier parle ainsi de la polarisation que nous connaissons : « une partie de la population, croissante, s’éloigne du religieux, quand l’autre au contraire réactive ses appartenances ». Ce recours à la religion comme valeur refuge chez beaucoup de nos concitoyens crée de fortes tensions. Celles-ci sont effectivement plus particulièrement portées sur l’islam. Ce phénomène remonte à plus d’une trentaine d’années déjà (souvenez-vous de l’affaire du foulard à Creil en 1989), mais avec une accentuation au fil des ans, en particulier depuis les années 2000. D’ailleurs, on constate une expression plus visible de la religion chez certains croyants de toutes les religions. Il y a alors parfois une opposition entre ceux qui se sont éloignés de la religion —et ils sont de plus en plus nombreux — et ceux qui réaffirment une identité religieuse. Si l’islam est particulièrement touché, c’est tout d’abord parce qu’il est indéniable que le rapport entre l’islam et l’Histoire de France est complexe notamment en raison du passé colonial. Ensuite, il y a bien sûr, le contexte terrible, et qui n’est malheureusement pas derrière nous, des attentats terroristes islamistes qui créent de possibles, bien qu’inacceptables, amalgames. Aussi, il faut insister sur l’insuffisante mixité sociale qui crée des replis communautaires et augmente les peurs entre Français qui ne se connaissent plus vraiment. Enfin, l’importation dramatique de conflits, en particulier ceux du Proche-Orient. Pour toutes ces raisons -et il y en a d’autres- la visibilité religieuse de l’islam crée davantage de crispations que les autres. Or, force est de constater que de nombreux prescripteurs d’opinion jouent sur ces crispations. Pour des raisons d’audimat ou parfois pour en faire un enjeu politique.

Le gouvernement français parle actuellement d’un projet de loi « contre les séparatismes » ou « projet de loi renforçant la laïcité et les principes républicains ». Ce projet de loi sous-entend que, aujourd’hui en France, la laïcité républicaine est menacée, est-ce le cas ?

Oui, elle l’est. Parce que parfois mal comprise ou dévoyée, mais aussi parce que parfois attaquée par des extrémistes, et en particulier actuellement par l’islamisme radical. Dès lors, il y a, d’une part, nécessité à se doter de tous les outils permettant de lutter contre l’islamisme ; et d’autre part, par nécessité à poursuivre nos efforts de formation sur la laïcité mais aussi sur les faits religieux, pour que chacun prenne le recul nécessaire sur ses propres opinions et croyances. Enfin, je le répète, il y a la question essentielle de la mixité sociale : si celle-ci est insuffisante, il y a alors un risque fort de replis communautaires et religieux, avec une possible opposition à notre cadre laïque.

Les attentats revendiqués par des terroristes islamistes sont très récurrents en France et semblent être un phénomène propre au pays transalpin. Qu’est-ce qui est à l’origine dans la société et l’Etat français de cette radicalisation et de ce recours croissant à la violence ?

La question est évidemment complexe. Tout d’abord, il y a une propagande des groupes terroristes qui se réclament de l’islam (tout en dévoyant totalement cette religion) particulièrement active en France, du fait que notre pays est celui où il y a la plus forte proportion de musulmans en Europe. Ensuite, il y a en France une inculture religieuse qui pose problème. Le recours à la religion et parfois sa réinterprétation et son exacerbation doivent être bien plus étudiés. L’Observatoire de la laïcité a mené une étude considérable sur ce sujet, mais qui n’a malheureusement pas été suffisamment utilisée. Il y aussi la question du passé colonial, qu’il ne faut pas occulter et qui est instrumentalisée par des endoctrineurs. L’importante ségrégation de certains quartiers populaires à forte proportion musulmane l’est également, de même qu’elle favorise des reprises en main par des mouvements rigoristes.

En France, les débats autour de l’islam, et notamment concernant le port du voile sont récurrents. Le 17 septembre dernier par exemple, plusieurs députés LR et une député LREM ont quitté l’Assemblée nationale car une intervenante portait le voile. Est-il facile d’exercer sa religion aujourd’hui en France quand on est musulman?

En droit, ça l’est. La laïcité est justement une chance pour tous les citoyens, notamment les croyants. Car, grâce à elle, ils peuvent librement pratiquer leur culte et exprimer leurs convictions. En revanche, il y a effectivement des mauvaises interprétation, en droit, de la laïcité qui peuvent aboutir à des polémiques inutiles, voire à de sérieuses discriminations. Ceux qui pourraient menacer la pratique de l’islam, ce sont d’une part ceux qui veulent leur imposer un islam rigoriste et radical limitant leurs propres libertés, et d’autre part ceux qui cherchent effectivement à modifier notre cadre laïque, en confondant terrorisme islamiste et pratique courante de l’islam.

L’article a été publié dans Left du 6 au 12 novembre 2020

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Franco Cardini: Les mythes à déconstruire pour comprendre le djihadisme

PARIS, FRANCE - NOVEMBER 20: A French police officer stands guard as Muslim women leave the Great Mosque of Paris (Grande mosquee de Paris) after the Friday prayers on November 20, 2015 in Paris, France. Following the terrorist attacks in Paris last week, which claimed 130 lives and injured hundreds more, the Muslim community of Paris has seen an increase in security as Paris remains on a high security alert. (Photo by Thierry Chesnot/Getty Images)

Après les attentats du 11 septembre et depuis lors, chaque fois que se répète tragiquement un évènement similaire, dans tous les médias italiens et étrangers, on parle d’islam, de radicalisation religieuse et de coexistence entre un État laïc occidental et la religion de Mahomet. Chez ceux qui surfent sur l’islamophobie, mais hélas aussi chez ceux qui prônent une coexistence entre les deux mondes, nous trouvons bien souvent des idées ou des descriptions folkloriques du monde musulman qui tendent à s’enraciner inextricablement dans l’imaginaire du citoyen ordinaire. Afin de déconstruire certains mythes, et d’avoir des connaissances précises sur lesquelles construire notre opinion, nous avons interrogé Franco Cardini, historien et essayiste italien, l’un des plus grands experts de l’histoire des Croisades et du monde et de la culture arabo-musulmans.

En tant que spécialiste du sujet, quel est votre point de vue concernant le débat sur la coexistence d’un État laïc et la religion musulmane ?
Il y a une résistance à traiter le sujet, je ne dis pas de manière scientifique, mais avec un minimum de sérieux et d’impartialité. On ne peut pas généraliser sur l’Islam. L’Oumma (l’ensemble des communautés musulmanes) est composée de 1,7 milliards de personnes dispersées à travers le monde et il existe aucun pays où ne vivent que des musulmans et aucun pays dans lequel ils sont absents. Cette résistance est en partie causée par l’ignorance, mais on peut noter également une certaine mauvaise foi. Si, dans le premier cas, il est possible de faire quelque chose, dans le second, il est malheureusement bien plus difficile d’intervenir.

Dans les médias et comme lieu commun, c’est l’idée d’un islam arriéré qui prévaut. Cette vision est-elle juste ?
L’idée que l’islam s’est “arrêté au Moyen-Age” règne encore dans l’opinion commune, qui ignore que c’est une vision historique spécifiquement occidentale et qui n’est pas applicable au monde musulman. L’islam est en réalité une entité qui mute très rapidement. Aujourd’hui, la grande majorité des musulmans s’adaptent, modifiant aussi en partie leur religion. L’aile militante de l’islam est en réalité constituée de personnes qui veulent continuer à respecter les préceptes de leur culture religieuse, mais qui dans le même temps, vivent de manière cohérente avec l’occident moderne, qui au jour d’aujourd’hui, que l’on en dise du bien ou du mal, a donné forme aux traditions politiques et économiques dominantes.

Quel est alors le rapport entre le monde musulman et le radicalisme religieux ?
En réaction au changement dont nous venons de parler, il existe certaines franges de la population musulmane qui, dans leur politique et dans leur programme, sont revenues en arrière. Des groupes fondamentalistes d’utopistes réactionnaires, comme il est arrivé au début du vingtième siècle dans le monde chrétien catholique avec les modernistes, qui veulent d’une part, changer la règle de l’islam, et d’autre part, revenir à la religion des origines. Dans le monde musulman, ils représentent une composante forte, mais minoritaire de la population. A Copenhague au Danemark, une femme imam, Sherin Khankan, fille d’une mère danoise et d’un père syrien, a fondé une mosquée féminine, baptisée “Mariam”, ouverte à tous, mais où les offices religieux sont célébrés exclusivement par des femmes. Les mariages interreligieux et homosexuels y sont possibles. Nous sommes face à une diversité qui n’est pas relayée par les médias mainstream. Ces derniers dépeignent comme représentatif du musulman ordinaire un adolescent de 18 ans, avec un passé d’abus de drogues et d’alcool, qui, armé d’un couteau, se rend coupable d’un crime. Quand Anders Breivik, anti-islamiste d’extrême-droite, a donné la mort à 77 personnes dans un attentat, personne n’a dit ou pensé qu’il était un exemple de l’européen moyen.

Une des grandes accusations faite au monde musulman est de donner à la religion dans les États islamiques un pouvoir prédominant sur le politique. Est-ce le cas ?
On ne peut pas dire que c’est l’islam qui agit sur le politique mais exactement l’inverse. C’est une vision erronée que nous avons. D’ordinaire, l’État moderne musulman contraint ses fidèles à accepter sa propre interprétation des préceptes islamiques. Dans la religion musulmane, surtout chez les sunnites, il n’y a pas une Église ou un clergé comme dans le monde catholique. Chaque communauté religieuse agit pour son compte, et est en moyenne peu puissante. Pour donner un exemple, l’imam de la mosquée de al-Azhar (la plus grande autorité religieuse en Égypte) est un fonctionnaire choisi et salarié par la République égyptienne qui est certes parlementaire, mais aussi autoritaire. Il est donc indéniable que le religieux fait et dit ce que lui ordonne le Raïs.

Nous avons une vision de l’histoire des rapports entre Europe et monde musulman qui les présente comme deux blocs opposés dans un éternel affrontement. En tant que spécialiste des Croisades, qu’en pensez-vous ?
Nous avons un niveau de préparation et d’instruction moyen qui n’est pas tolérable et c’est le premier problème auquel nous faisons face quand nous affrontons ce sujet. Les musulmans ont eu des rapports incessants avec les chrétiens, de type commercial, culturel et diplomatique. Les Croisades ont été huit expéditions en tout, dix en comptant les moins importantes, d’une durée de deux, trois ans. Mises bout-à-bout, cela fait trente ans de guerre en sept cent ans d’histoire, au cours desquels par ailleurs, les rapports, surtout économiques, n’ont jamais été entravés. En réalité, il y a eu un échange, surtout en Méditerranée, qui n’a pas laissé de traces mais des empreintes énormes sur toute notre culture. La vérité historique est exactement à l’opposé de ce qu’on nous fait croire.

La France, où vous enseignez, est l’un des États européens qui a payé le plus lourd tribut en matière d’attentats causés par l’intégrisme islamique. Sauriez-vous en expliquer les raisons historiques ?
La France a deux préceptes de base sur lesquels elle a fondé son Histoire moderne. Le premier est l’assimilation, qui se développe au fil de la période coloniale. À travers l’école et des programmes très rigides, elle enseigne aux citoyens des colonies à être de bons français. La culture du pays d’origine devient une réalité marginale, qu’il faut tenir à l’écart de la vie publique. Le second est la laïcité, née avec la Révolution. Les politiciens français partent du principe que l’État doit être laïc et donc au-dessus des confessions religieuses qu’il doit, dans un certain sens, contrôler. Si on les combine, ces préceptes créent un système rigide qui ne laisse pas de place à l’identité d’un tissu social majoritairement composé de personnes qui sont des citoyens français depuis plusieurs générations, et qui fait partie intégrante et ”fonctionnelle” de l’État. La loi sur le port du voile en est un exemple. En France, il n’est pas possible de porter le hijab (le voile qui couvre seulement les cheveux) à l’école. Quand on fait des lois fondées sur le principe d’assimilation, on peut créer des conditions favorables à une radicalisation religieuse.

Comment voyez-vous en revanche le débat sur l’intégration en Italie ?
En Italie je crains que le débat soit en grande partie gangréné par des préjugés de nature électoraliste et utilitariste. Lorsqu’ils affrontent ces thématiques, les politiciens italiens n’entreprennent pas de résoudre un problème historique, culturel ou religieux, mais ils se demandent quelle est la solution qui leur sera le plus bénéfique d’un point de vue électoral. L’exemple de Matteo Salvini est le plus évident, mais ce n’est pas l’unique. Un politicien doit-il être une figure de leadership, qui modère et indique le chemin à suivre, ou doit-il seulement interpréter les désirs de son électorat de façon mécanique pour obtenir un consensus immédiat ? Aujourd’hui, les élections représentent constamment un enjeu sous-jacent et cela ne laisse plus de place pour une action politique qui tende à une élévation éthico-culturelle de l’électorat. Nous sommes contraints de simplifier des problèmes qui, dans l’intérêt de leur compréhension, devraient être articulés de façon plus correcte et mûre. Simplifier mène peut-être à une compréhension immédiate, mais il est bien probable que ça n’aidera pas à affronter les problèmes concrets.

*-*

Traduction de Catherine Penn e Juliette Penn

L’article a été publié dans Left du 6 au 12 novembre 2020

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La solitudine dei centri antiviolenza

La pandemia ha fatto irruzione nelle nostre vite e provocato inaspettati cambiamenti a ogni latitudine e in tutti gli ambiti della vita quotidiana.

Fra gli effetti registrati in Italia, nel primo semestre 2020, colpisce la diminuzione del 19% degli omicidi volontari (rispetto allo stesso periodo del 2019). Sembrerebbe una buona notizia, se non fosse che i femminicidi e la violenza maschile contro le donne sono aumentati, quale diretta conseguenza del confinamento obbligatorio dentro le mura domestiche imposto dal lockdown.

Cristina Rubagotti è la Presidente del Centro Antiviolenza CADOM – Centro Aiuto Donne Maltrattate di Monza. Conosce bene le storie delle donne che in questi anni si sono rivolte al centro e in questi mesi ha potuto osservare le conseguenze della pandemia. «Lo scorso anno ricevevamo circa 7 contatti di donne al mese mentre in questi mesi sono stati circa 12 di media. Quasi il 50% in più. Il motivo per cui sono aumentati i casi si riferisce al fatto che nella vita normale una persona trascorre fuori casa gran parte della giornata mentre con il lockdown essendo obbligati a stare a casa tutto il giorno, quello che sembrava un piccolo conflitto diventa enorme e degenera».

Le parole di Cristina trovano conferma nei dati delle chiamate al 1522, il numero nazionale antiviolenza e stalking: durante il lockdown, dopo un iniziale crollo, le chiamate tra marzo e giugno sono più che raddoppiate raggiungendo quota 15.280 (+119,6% rispetto al 2019).
Riorganizzandosi per continuare a fornire i propri servizi, nel rispetto delle norme di sicurezza, i Centri Antiviolenza e le case rifugio non hanno mai smesso di essere al fianco delle donne. In Lombardia, ad esempio, c’è stata una forte riduzione dello staff dovuta sia all’età medio-alta delle volontarie sia alla malattia e messa in isolamento delle operatrici ma tutte hanno continuato a dare supporto alle donne. In molti casi i turni di lavoro sono diventati estenuanti – come nel caso della provincia di Cremona, che ha esteso la propria reperibilità h24 con risorse umane ridotte del 50%.

A evidenziarlo è l’indagine svolta da ActionAid e contenuta nel rapporto «Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia», che monitora i fondi statali previsti dalla Legge 119/2013 (la cosiddetta legge sul femminicidio) e l’attuazione del Piano antiviolenza 2017-2020.
«L’epidemia ci ha dato lezioni che non dobbiamo dimenticare, prima tra tutte il ruolo essenziale dei CAV e delle case rifugio nel sostegno territoriale alle donne, che hanno dimostrato una grande capacità di adattamento nel reinventare un modello di intervento rapido che funziona solo con supporti adeguati. È necessario uscire dalla logica emergenziale per creare un sistema forte e duraturo, che funzioni bene in tempi ordinari e molto bene in tempi straordinari» spiega Elisa Visconti, Responsabile dei Programmi di ActionAid.

Il Piano nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020 avrebbe dovuto porre le basi per un sistema antiviolenza nazionale in grado di contrastare a più livelli la violenza contro le donne.

Del Piano antiviolenza 2017-2020 ActionAid ha rilevato che solo il 10% dei fondi 2019, nonostante la pandemia, sono arrivati ai Centri Antiviolenza. In tempi Covid, per rispondere ai nuovi bisogni delle strutture di accoglienza, la Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti il 2 aprile 2020 ha firmato un decreto di procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per il 2019 prevedendo la possibilità di usare i fondi destinati al Piano per coprire le spese dell’emergenza sanitaria. Nonostante l’urgenza, a distanza di 6 mesi dall’incasso delle risorse, solo 5 Regioni hanno erogato i fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto.
Non va purtroppo meglio con i fondi degli anni precedenti. Al 15 ottobre 2020 solamente il 72% delle risorse per il 2015-2016 è stato liquidato dalle Regioni, il 62% di quelle del 2017 e il 39% per il 2018. «Nonostante le Regioni negli ultimi tre anni abbiano fatto qualche passo, i fondi ci mettono ancora dai 10 ai 12 mesi per arrivare» avverte Isabella Orfano, esperta del programma Diritti delle donne di ActionAid e curatrice del rapporto.

Chiara Gravina è legale del centro contro la violenza sulle donne Roberta Lanzino, il CAV più anziano presente in Calabria e per molti anni anche l’unico. «Il Centro lavora in sinergia con le forze dell’ordine che ci riconoscono come punto di riferimento (…). La struttura accoglie circa 100/120 donne all’anno ma i finanziamenti pubblici (regionali e statali) sono sufficienti a malapena a coprire i costi vivi come le utenze, la retribuzione della segreteria e delle consulenze esterne. La situazione che viviamo è anche legata al fatto che i finanziamenti pubblici sono sempre ritardo, discontinui, insufficienti e non sono destinati a finanziare attività di prevenzione e di empowerment socio-economico».

Oggi, alle soglie del nuovo Piano Nazionale Antiviolenza, l’analisi di ActionAid sul Piano 2017-2020 ha mostrato la sua incompletezza: le risorse effettivamente impegnate non sono sufficienti a coprire le azioni programmate ma ancor più grave è la poca trasparenza che non consente di verificare se esse siano state realmente spese.

Diventa quindi sempre più evidente la solitudine dei Centri Antiviolenza che su tutto il territorio nazionale continuano a essere la mano amica per tante donne. Ed è sempre più necessario che l’Italia si doti di un sistema di prevenzione e protezione pienamente funzionante, come chiesto di recente anche dal Consiglio d’Europa.