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Violenza sulle donne, un dramma che ci riguarda tutti

Foto Valerio Portelli/LaPresse 23-11-2019 Roma, Italia Corteo Nazionale Non Una Di Meno Cronaca Nella foto: Corteo Nazionale Non Una Di Meno Photo Valerio Portelli/LaPresse 23 November 2019 Rome, Italy National Demonstration of Non Una Di Meno News In the pic: National Demonstration of Non Una Di Meno

Con l’arrivo della pandemia da Coronavirus le nostre vite hanno subito cambiamenti radicali in quasi tutti i modi e ovunque, poiché in tutto il mondo ci sono state limitazioni di diritti fondamentali dell’individuo per contenere la diffusione del virus. Con i lockdown e l’inizio dell’isolamento, sono cominciati ad aumentare le segnalazioni di tutte le forme di violenza contro donne in particolare quelle che interessano direttamente la violenza domestica. Per ricordare la giornata odierna vogliamo affrontare alcuni aspetti essenziali che dovrebbero riguardare le attività di prevenzione. Partiamo da un assioma. La violenza contro le donne è argomento che riguarda ciascuno di noi. Dovremmo riflettere su come riuscire a prevenire e a rallentare quest’ondata di crimini.

Il primo aspetto, e credo il più importante, è quello dell’ascolto. Quando una donna condivide la sua storia di violenza, fa il primo passo per spezzare il ciclo degli abusi, per cui, sta a tutti noi darle lo spazio sicuro di cui ha bisogno per parlare con tranquillità e fiducia ed essere ascoltata. Non dimentichiamoci che quando si discute di casi di violenza sessuale, i vestiti, l’apparenza e la sessualità di una vittima sono irrilevanti. Occorre concentrarsi sull’autore del reato che spesso chiama la vittima in causa incolpandola d’istigazione quasi come se spettasse alle donne evitare situazioni che potrebbero essere viste come “pericolose” dagli standard tradizionali (tipo indossare una minigonna o un vestito attillato). Il primo grave errore che si commette nell’ascolto di una vittima di violenza è di dire “perché non è fuggita?”. La vittima invece va ascoltata, creduta e supportata moralmente e psicologicamente. Un altro aspetto molto importante in questo contesto è l’esempio che diamo alle giovani generazioni. Con i nostri figli occorre parlare dei ruoli di genere delle caratteristiche e dei rapporti tra uomini e donne. È necessario incoraggiare e far comprendere loro l’importanza della cultura dell’accettazione e del confronto.

Chi è vittima di violenza oltre a vedere punito l’autore del reato, ha necessità di servizi essenziali, dal supporto psicologico sino alle attività di consulenza e alle case rifugio per vittime di violenze. Questo ancor di più durante la pandemia di coronavirus. I governi dovrebbero colmare le lacune di finanziamento per affrontare la violenza contro donne, garantire che i servizi essenziali per le sopravvissute alla violenza siano mantenuti durante questa crisi, attuare misure di prevenzione e investire nella raccolta dei dati necessari per adattare e migliorare i servizi salvavita per le vittime. Nella mia esperienza di studio e di ricerca sui crimini violenti ho riscontrato spesso come si tenti di offuscare il confine sul consenso sessuale, attribuendo la colpa alle vittime e quasi scusando l’autore del reato. Quando si tratta di consenso, non ci sono linee sfocate. Un no è un no! Voglio ricordare al lettore che esistono molte forme di abuso e tutte possono avere gravi effetti fisici ed emotivi. Occorre dare immediatamente sicurezza e sostegno senza mai tentare di stemperare i fatti.

La violenza contro le donne è tra le violazioni più gravi dei diritti umani che si perpetua da secoli. Le vittime hanno bisogno di solidarietà e ascolto e non di persuasione a desistere e magari a non denunciare. La cultura dello stupro spesso si forma nell’ambiente sociale e consente di normalizzare e giustificare la violenza sessuale, alimentata dalle persistenti disuguaglianze di genere e dagli atteggiamenti riguardo al genere e alla sessualità. La violenza può assumere molte forme, comprese le molestie sessuali sul posto di lavoro e nei luoghi pubblici. Credo che per combattere efficacemente la violenza di genere, dobbiamo comprendere a fondo il problema. La raccolta di dati pertinenti al fenomeno è fondamentale per attuare misure di prevenzione efficaci e riuscire fornire ai sopravvissuti il ​​giusto supporto. Un dato inaccettabile e gravissimo che va denunciato con forza è che quasi l’80% delle vittime di violenza ha denunciato almeno una volta in suo aggressore! Occorrerà impegnarsi tutti ciascuno nel suo campo per vincere l’attuale immobilismo che, direttamente o indirettamente, ci rende tutti complici di una strage silenziosa ma quotidiana.

Vincenzo Musacchio, giurista, è professore di diritto penale. Associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra

Uomini che ammazzano donne

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 26 Giugno 2020 Roma (Italia) Cronaca Manifestazione di Non Una Di Meno per i diritti delle donne dopo il lockdown Nella Foto :le manifestanti in piazza dell’Esquilino durante la performance i panni sporchi si lavano in piazza Photo Cecilia Fabiano/LaPresse June 26 , 2020 Rome (Italy) News Demonstration for women’s right after the lockdown of the we too Italian movement In the pic : the protesters performing washing dirty clothes in the square

I numeri emergono dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia. Nei primi dieci mesi del 2020 sono 91 le vittime di femminicidio. Qualcuno oggi strumentalmente vi dirà che sono meno delle 99 donne dello scorso anno ma in realtà sono diminuite le vittime femminili della criminalità comune (da 14 a 3 nel periodo gennaio-ottobre 2020) mentre risulta sostanzialmente stabile il numero dei femminici di familiari (da 85 a 81) e, all’interno di questi, il numero dei femminici di di coppia (56 in entrambi i periodi); in aumento (da 0 a 4) anche le donne uccise nel contesto di vicinato. Per dirla facile facile: nel 2020 l’incidenza del contesto familiare è dell’89%, superando l’85,8% dell’anno scorso.

La coppia continua a rappresentare il contesto relazionale più a rischio per le donne, con 1.628 vittime tra le coniugi, partner, amanti o ex partner negli ultimi 20 anni (pari al 66,2% dei femminici di familiari e al 48,7% del totale delle donne uccise) e 56 negli ultimi dieci mesi (pari al 69,1% dei femminici di familiari e a ben il 61,5% del totale delle donne uccise). Gli autori sono “per definizione” nella quasi totalità dei casi uomini (94%), con valori che nel corso dei singoli anni oscillano tra il 90% e il 95%. Le misure restrittive imposte dall’emergenza pandemica hanno fortemente modificato i profili di rischio del fenomeno: osservando i dati relativi ai femminicidi familiari consumati nei primi dieci mesi di quest’anno si rileva come il rapporto di convivenza, già prevalente nel 2019 (presente per il 57,6% delle vittime), raggiunga il 67,5% attestandosi addirittura all’80,8% nel trimestre del dpcm Chiudi Italia. Quando, tra marzo e giugno, ben 21 delle 26 vittime di femminicidio in famiglia convivevano con il proprio assassino.

L’omicidio però è spesso solo l’atto finale di una violenza che si consuma. Il femminicidio all’interno della coppia è spesso soltanto il culmine di una serie di violenze pregresse: violenze psicologiche (20%), violenze fisiche (17,7%), stalking (13,3%) e violenze note a terzi (11,1%). Violenze però denunciate solo nel 4,4% dei casi.

Poi c’è la violenza delle parole, sì anche quella. Nel suo rapporto Barometro dell’odio Amnesty International ha analizzato i commenti sui social. Le donne continuano a essere vittime di una società profondamente maschilista e sessista, nei luoghi pubblici, all’interno delle mura domestiche e anche sul web. Guardando al dibattito in modo ampio, su oltre 42.000 post e tweet analizzati, più di 1 su 10 (il 14%) è offensivo, discriminatorio o hate speech. Di questi il 18% rappresenta un attacco personale a un influencer, uomo o donna, tra quelli osservati; nel caso delle influencer, tale incidenza sale al 22%. Un terzo di questi ultimi commenti è sessista e si concretizza in attacchi contro i diritti di genere, la sessualità, il diritto d’espressione. Comuni gli insulti di carattere “morale” che bollano la donna come immorale o “prostituta”, che la classificano per il modo di vestire o per la sua vita sentimentale. A partire dalla presa di posizione di queste donne contro la discriminazione di genere, a favore del diritto all’aborto, o alla parità tra i sessi o alla libera espressione delle proprie scelte sessuali.

Scrive Amnesty: «In sostanza, si aggredisce la donna che si presenta come autonoma e libera nelle proprie scelte, o perché la stessa si esprime a favore della altre categorie fatte oggetto d’odio, come accade con migranti e musulmani. Una vera e propria catena di montaggio dell’odio, che mette insieme idee, comportamenti, identità, scelte che rappresentano i diritti e le libertà delle persone, per farle oggetto di pubblico ludibrio e di discriminazione violenta».

Buona giornata contro la violenza sulle donne. Con i numeri in mano.

Buon mercoledì.

Violenza sulle donne, lo stereotipo sessista c’è anche in commissariato e in tribunale

Foto LaPresse - Claudio Furlan 11/04/2017 Milano ( IT ) Presidio della rete milanese 'Non una di meno' per denunciare l'inadeguatezza delle modalita' processuali e la mancanza di preparazione di giudici nel tutelare le vittime dei reati di violenza

Il mese scorso la corte di Strasburgo ha comunicato al governo italiano le considerazioni sulle iniziative assunte in materia di violenza di genere a seguito della sentenza di condanna “Talpis contro Italia” del 2017 da cui emerge che la violenza nei confronti delle donne è un fenomeno ancora poco perseguito e che la risposta giudiziaria è inadeguata.

Le donne non hanno accesso alla giustizia. Eppure questi ultimi cinquanta anni, grazie al movimento delle donne, sono stati caratterizzati da importanti mutamenti legislativi e passi in avanti che hanno segnato la storia del nostro Paese sul tema dei diritti e libertà delle donne in particolare nella relazione uomo donna: da un sistema che fino al 1963 legittimava lo ius corrigendi del marito sulla moglie, che prevedeva la potestà genitoriale e la patria potestà abolita solo nel 1975 e che legittimava il delitto d’onore abolito nel 1981, che considerava il reato di violenza sessuale quale crimine contro la moralità e non contro la persona fino al 1996, da un processo che di fatto trasformava la vittima in imputata, siamo arrivati oggi, a costruire un impianto di strumenti giuridici che considerano la violenza maschile contro le donne una violazione dei diritti umani (Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2014) nonché riconoscono la persona offesa da questi crimini meritevole di attenzione e di protezione (Direttiva dell’Unione europea sui diritti della vittima). Da ultimo la legge n.69/del 2019 (Codice rosso) ha apportato in attuazione delle leggi internazionali, ulteriori modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, a garanzia della tutela dei diritti e delle libertà delle donne che decidono di ribellarsi alla violenza maschile e denunciano il crimine subito.

Senz’altro il nostro ordinamento attualmente si presenta idoneo a reprimere il fenomeno, integrato dalle fonti internazionali e di diritto europeo direttamente applicabili nel nostro Paese in base all’obbligo di interpretazione conforme ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione così come ribadito anche dalla sentenza di Cassazione a sezioni unite del gennaio 2016. Un sistema adeguato a proteggere le vittime e a prevenire quell’escalation della violenza di cui l’uccisione della donna rappresenta l’apice. Il femminicidio infatti è l’estremo atto punitivo ideato e programmato nel contesto di una azione maltrattante o persecutoria commessa dal partner o ex partner.
Parlo di un sistema astrattamente idoneo a contrastare il fenomeno, perché il nodo problematico è la non attuazione delle leggi perché compromessa dalla diffusione di stereotipi e pregiudizi sessisti contro le donne anche in sede giudiziaria che occultano i fatti di violenza, ne minimizzano la…

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L’autrice: L’avvocata M. Teresa Manente è responsabile dell’Ufficio legale dell’Associazione Differenza Donna

L’articolo prosegue su Left del 20-26 novembre 2020

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SOMMARIO

Violenza sulle donne, quando anche l’informazione è colpevole

Foto LaPresse - Claudio Furlan 11/04/2017 Milano ( IT ) Presidio della rete milanese 'Non una di meno' per denunciare l'inadeguatezza delle modalita' processuali e la mancanza di preparazione di giudici nel tutelare le vittime dei reati di violenza

A pochi giorni dal 25 novembre, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, l’Italia registra una serie impressionante di femminicidi, stupri e violenze per mano maschile: tra i casi più recenti ed eclatanti la strage di Carignano dove un uomo decide di sterminare moglie, figlioletti e cane, nonché gli stupri violenti, reificanti dell’imprenditore di successo. L’orrore di questi crimini, tuttavia, viene sistematicamente attutito, omesso, rarefatto dalla narrazione sulla stampa. Si compie così quella che potremmo definire una vittimizzazione terziaria delle donne, laddove la primaria è l’atto violento che le colpisce, la secondaria è quella nella quale vengono esposte a giudizio per la loro condotta. La terziaria attiene invece alla mancata giustizia nei loro confronti. Sia nei tribunali, sia, come proponiamo nelle nostre ricerche, nei media.

Alle donne vittime di violenza è difficile che venga immediatamente riconosciuta comprensione, empatia, giustizia. Devono combattere perché la realtà della violenza subìta venga messa in luce e il percorso si rivela sempre accidentato, incerto e faticoso. Contro di loro verrà messo in atto un potentissimo processo di omissione della realtà, che di fatto da un lato favorisce i colpevoli e dall’altra getta sospetto sulle vittime. Nascondendo i primi alla vista e alla percezione e lasciando per contro in piena luce le donne e i loro comportamenti che verranno passati al microscopio. Sulla stampa. Nelle questure. Nei tribunali. La chiamiamo terziaria perché se la secondaria tende ad esporre la donna come potenzialmente corresponsabile della violenza subita («voleva lasciarlo», «era ubriaca», «aveva un amante…») con la terziaria si completa l’opera omettendo di specificare il colpevole, o attenuandone l’atteggiamento, la volontà, il carattere («era tanto una brava persona», «un gigante buono», «un uomo mite, tutto casa e lavoro…»). Una vera e propria chiamata di correo su base semantica.

Un fenomeno né nuovo, né accidentale, né sporadico, come mette in luce la ricerca Step, Stereotipo e pregiudizio: per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media condotta dall’Università della Tuscia in partnership con Differenza donna e con il supporto del Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. La ricerca si è basata sull’analisi della…

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L’autrice: Flaminia Saccà, responsabile scientifica del progetto Step, è professoressa ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici all’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo)

L’articolo prosegue su Left del 20-26 novembre 2020

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SOMMARIO

Violenza sulle donne, un crimine senza frontiere

Illustrazione di Federica Giglio per Sputnink
  • Stati Uniti

Gli Stati Uniti si sono liberati di Trump, un presidente sessista il quale, nella sua infinita barbarie, ha sostenuto che le donne vanno prese «per la vagina». Biden, il nuovo presidente, dopo essere riuscito a sgusciare dalle accuse di sessismo, resta un uomo a cui la prossemica di rispetto verso le donne evidentemente non è stata insegnata. La violenza maschile negli Stati Uniti resta un problema grave e ogni giorno vengono uccise molte donne dai loro partner. Le violenze, anche per la incontrollata diffusione di armi, determinano circa 10mila uccisioni in ambiente domestico ogni 5 anni. Il patriarcato negli Stati Uniti rimane la causa fondamentale delle violenze degli uomini sulle donne. Qui tra le molteplici e variegate forme di oppressione violenta contro le donne, si registra anche il patriarcato cristiano, un’ideologia religiosa integralista a cui aderiscono in troppi. Secondo questa ideologia l’uomo è il sovrano assoluto perché «le donne che detengono cariche autoritarie, che si tratti di affari, chiesa, famiglia, legge o politica, sono uno dei segni distintivi di una società maledetta da Dio». Il patriarcato negli Stati Uniti, comunque, è trasversale e ne sono protagonisti anche uomini che, per quanto non religiosi, ne hanno assimilato e interiorizzato le devianze. L’unica speranza di riscatto è affidata alle donne. Durante l’ultima campagna elettorale i movimenti femministi statunitensi hanno indetto ben 425 manifestazioni contro Trump, e Biden deve anche a loro la sua elezione.

  • Cina

Pechino ha sviluppato modalità di repressione femminile tanto feroci quanto sofisticate. La storia della repressione femminile ha radici antiche ed è la risultante di un potere maschile violento e crudele, oltre l’immaginabile. Ancora oggi si registrano pratiche di femminicidio infantile quando non è possibile praticare aborti selettivi se il feto è femmina. Le donne cinesi che si ribellano alle pratiche diffuse di violenza e sopruso, vengono accusate di disturbare l’ordine pubblico e vengono internate in lager che le autorità cercano di far passare come centri di rieducazione. Nei centri di rieducazione vengono sistematicamente stuprate, vengono sterilizzate senza consenso, vengono legate a letti di contenzione, subiscono torture come la torsione e l’elettroshock. Vengono costrette a lavorare senza sosta e se non rispettano le consegne, vengono massacrate di botte. La violenza istituzionale determina una violenza equivalente nelle mura domestiche. La violenza domestica è stata considerata legittima fino al 2016, quando finalmente è stata adottata una legge che la vietava. Durante la pandemia le organizzazioni umanitarie che operano in sostegno delle donne cinesi, hanno registrato un numero triplicato di richieste di aiuto per violenze subite, e una impennata si è registrata anche nel numero dei femminicidi. Fortunatamente in Cina è consentito divorziare e dopo la prima ondata di pandemia, si sono registrati poco meno di 5 milioni di divorzi, unica soluzione ad una violenza individuale domestica più che tollerata da una cultura che esprime contro le donne una violenza istituzionale bestiale.

  • Argentina

La convivenza forzata provocata dal Covid-19 in Argentina ha fatto registrare un aumento impressionante di femminicidi. La violenza domestica ripete sempre gli stessi percorsi: donne massacrate di botte, uccise a coltellate davanti ai figli, persino una bambina di due anni impiccata dal padre per fare del male alla madre. L’Argentina sta vivendo la sua quarta stagione del femminismo e il collettivo Ni Una Menos in questi giorni ha registrato una importante vittoria contro l’aborto clandestino, infatti martedì 17 novembre, il presidente Alberto Fernández ha presentato al Congresso un disegno di legge per legalizzare l’interruzione volontaria della gravidanza, mantenendo una promessa elettorale che le donne argentine avevano apprezzato votandolo.

  • Polonia

La repressione contro le donne in Polonia ha la legittimazione della chiesa cattolica, la stessa chiesa cattolica che protegge gli stupratori seriali clericali. Ogni anno in Polonia vengono uccise circa 500 donne ma lo Stato si rifiuta di includere i femminicidi nella qualificazione dell’omicidio di genere. La Polonia ha anche dichiarato di voler recedere dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere. La recente sentenza della Corte Costituzionale che nega l’aborto anche in caso di malformazione del feto, ha determinato proteste di piazza che si protraggono ormai da giorni. Le donne polacche sono decise a non cedere e contro la loro legittima rivendicazione, si è inserito a gamba tesa anche il Monarca vaticano con un assist al governo repressivo, tentando di delegittimare la protesta di piazza. Il Monarca vaticano, come è noto, si presta sempre ad intromettersi nelle questioni che attengono ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne, ma si astiene rigorosamente dall’abrogare le direttive che danno protezione giudiziaria ai suoi preti pedofili. Il giorno in cui si asterrà dall’intromettersi nei diritti sessuali femminili, sarà sempre troppo tardi.

  • Italia

Nel nostro Paese i femminicidi e le violenze domestiche che «durante il lockdown sono triplicati», non fanno più notizia anche perché la politica in Italia la fa la cronaca nera che dipinge le vittime come artefici del proprio infausto destino, colpevolizzate di fronte a poveri uomini sedotti e abbandonati. In questo scempio, l’Italia attraversa la questione dei diritti femminili con un dibattito su ruoli, identità e categorie da ripensare per superare divisioni e incoerenze. Essere cisgender (sesso e identità di genere coincidono) o transgender (sesso e identità di genere non coincidono), è una contrapposizione che non tiene conto di un altro qualificante elemento che è l’orientamento sessuale, all’interno del quale le specificità biologiche se per alcune persone possono ritenersi superate in favore di una specificità culturale e di superamento del dato biologico (mestruazioni, vagina) per altre invece costituiscono un dato imprescindibile a cui si sono legate lotte di affermazione che non possono essere taciute e ritenute superate. In entrambe le tesi ci sono vissuti ed esperienze che meritano prima di tutto di essere ascoltate, comprese, e non respinte in nome di una pretesa superiorità ideologica dell’una sull’altra. Se la vagina è entrata a pieno titolo nelle strutture simboliche delle lotte di affermazione, delle eterosessuali ma anche e soprattutto delle lesbiche, non può essere celata, nascosta e, in sintesi, negata da chi pretende che si elimini dal dibattito politico, per consentire che all’identità sessuale si sovrapponga d’emblée la sola identità di genere, intesa come identità psicologica e culturale. E’ assolutamente legittimo prescindere dalla identità biologica, soprattutto se a questa si lega con determinismo un ruolo sociale e funzioni riproduttive, intese come orribilmente ineluttabili e non consapevolmente scelte. E’ però altrettanto legittimo non prescinderne, e soprattutto nessuno può imporre ad un altro essere umano cosa sia giusto o cosa non lo sia in termini di identità sessuale, di identità di genere e di orientamento sessuale. Solo le religioni hanno la prerogativa di criminalizzare le teorie diverse dalla propria. All’interno dei dibattiti culturali sull’emancipazione, sulla non discriminazione e sull’affermazione dei diritti, il confronto su posizioni femministe diverse non deve portare necessariamente ad una sintesi. Posizioni differenti possono e devono coesistere con l’unico imperativo categorico per tutte del rispetto e della non discriminazione. Ad una donna, cis o trans, deve essere consentito di auto-qualificare la propria categoria e la propria teoria di riferimento, senza esclusioni, senza che a nessuna venga imposto di aderire ad una definizione piuttosto che un’altra. Rivendicare il primato della propria teoria può comportare la compressione del personale vissuto dalle altre, e già questa è una forzatura. Negare un termine significa negare identità, e negare la differenza sessuale significa negare identità sessuale a chi invece ha legato alla propria condizione biologica il proprio vissuto politico di affermazione e non necessariamente le proprie caratteristiche biologiche, espresse o potenziali. L’affermazione di una posizione non significa necessariamente negarne un’altra. Eppure chi vuole imporre l’identità di genere e il superamento della identità sessuale tout court compie una coercizione, come pure chi vuole imporre l’identità sessuale come prioritaria rispetto all’identità di genere, compie comunque una coercizione. Le teorie non vanno imposte, ma vanno declinate in modo da renderle naturalmente condivisibili, e se ci sono posizioni inconciliabili, significa che si dovrà accettare un dualismo, il pensiero unico di per sé non è grandemente democratico. Dovranno coesistere posizioni differenti senza che l’una ostracizzi l’altra. Ciò che deve valere è il rispetto che trova il suo vaglio nella non discriminazione, sempre.

Del resto la giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne si celebra per fronteggiare una oppressione verso cis, trans, etero e lesbiche, accomunate dallo stesso nemico comune, il patriarcato, che si afferma con la violenza istituzionale, la violenza economica, la violenza sanitaria, la violenza fisica, e che colpisce tutte, comunque. La fine della pandemia potrebbe riservare una società destrutturata e in quel caso le alternative sono due. Da una parte si ricostruisce il tessuto sociale ed economico con un socialismo libertario che rispetti differenze e identità. Dall’altra c’è la prevaricazione e la negazione di ogni diritto, con l’affermazione della violenza quale cifra dell’autoritarismo capitalista patriarcale. L’auspicio è che un fronte femminista internazionale compatto, pur nelle sue declinazioni intersezionale e della differenza, possa celebrare questo 25 novembre nella consapevolezza di essere determinante per decidere il futuro post pandemia, in senso socialista e libertario.

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L’autrice: Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo

A proposito di fiducia e di vaccini

Professor Andrea Crisanti, is seen in his lab at London's Imperial College, London, Wednesday June 11, 2008. In a cramped, humid laboratory in London, mosquitoes swarming in stacked, net-covered cages are being scrutinized for keys to controlling malaria. Scientists have genetically modified them, hoping to stop them from spreading the killer disease malaria. Faced with a losing battle against malaria, scientists are increasingly exploring new avenues that might have seemed far-fetched just a few years ago. "We don't have things we can rely on," said Andrea Crisanti, the malaria expert in charge of genetically modifying mosquitoes at London's Imperial College. "It's time to try something else." Malaria kills nearly three million people worldwide every year, mostly in sub-Saharan Africa. (AP Photo/Alastair Grant)

C’è, com’è normale che sia, un gran chiasso intorno ai vaccini anti Covid che stanno arrivando nei prossimi mesi in giro per il mondo. Nel numero di Left in edicola ne parliamo approfonditamente e proviamo a analizzare la situazione uscendo dagli steccati degli annunci e dei complotti (a proposito, è l’occasione buona per regalarsi e regalare un abbonamento, qui) e siamo in quel momento in cui i complottisti e i tifosi tireranno le bombe per minare la credibilità di ciò che accade. Un film già visto.

Nei giorni scorsi si è fatto molto chiasso su una presunta dichiarazione di Crisanti che avrebbe dichiarato di non volersi vaccinare subito, appena disponibile il vaccino, ma di preferire aspettare qualche tempo per esserne sicuro. Ammetto di essere rimasto piuttosto stupito della leggerezza della comunicazione (del resto si pone il solito tema dei medici che spesso hanno più di qualche falla come divulgatori) ma proprio ieri Crisanti ha voluto tornare sul tema e ha scritto parole che vale la pena leggere. In una sua lettera al Corriere della Sera puntualizza di volere «i dati di efficacia e di sicurezza» vengano «messi a disposizione della comunità scientifica» e «delle autorità che ne regolano la distribuzione». Crisanti fa notare, in effetti, le modalità di annuncio delle case di produzione che si sono concentrate sui proclami senza occuparsi «di condividere i dati con la comunità scientifica». «Se le aziende in questione – scrive Crisanti – sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, queste devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata finanziata con quattrini dei contribuenti»·

La credibilità e la fiducia è qualcosa che si costruisce operando con trasparenza. Sempre. In tutti i campi. Il fatto che si aspetti (giustamente) un vaccino come un popolo assetato aspetta la pioggia non può essere l’unica spinta per proporlo. E sui dati che devono essere pubblici si discute da mesi anche per quello che riguarda i contagi e le modalità del contagio, che ogni regione gestisce un po’ come gli pare. Su un tema come questo si dovrebbe limitare il più possibile la richiesta di atti di fiducia (e talvolta di fede) e giocare a carte scoperte. Sarebbe la risposta migliore e più solida contro negazionisti e altre corbellerie varie. È un filo sottile, la fiducia.

Buon martedì.

Per approfondire, Left del 20-26 novembre 2020

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SOMMARIO

Berlusconi, ancora, torna

Italian former Premier Silvio Berlusconi adjusts his face mask as he leaves the San Raffaele hospital in Milan, Italy, Monday, Sept. 14, 2020. Berlusconi had been hospitalized as a precaution to monitor his coronavirus infection after testing positive for COVID-19. (AP Photo/Luca Bruno)

Piccoli segnali di un riavvicinamento che continua a essere nell’aria: il provvedimento salva Mediaset è un emendamento confezionato su misura per l’azienda di Silvio Berlusconi, proprio come ai bei (brutti) tempi in cui l’azienda del leader di Forza Italia e il suo destino giudiziario erano il centro di tutta l’attività politica. L’ha firmata la senatrice del Pd Valeria Valente e poi quando è scoppiata la vicenda (poco, a dire la verità) il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli (badate bene, uno di quei grillini che Berlusconi lo vedevano come fumo negli occhi) ha dovuto ammettere di avere scritto lui la norma, anche se ha scaricato parte della “colpa” sul ministero dell’Economia guidato da Roberto Gualtieri. In sostanza lo scopo è quello di neutralizzare i voti di Vivendi, la holding azionista di Mediaset, per non disturbare la strategia aziendale della famiglia Berlusconi. Ben fatto.

Lui, Silvio, gioca a fare il moderato (e gli viene facile, di fianco a Meloni e Salvini) e punta all’empatia come ai vecchi tempi. Se notate nessuno ci dice che potrebbe essere “utile”, vorrebbero farci credere che sia diventato “inoffensivo” come se questo bastasse a cancellare tutti i disastri contro la democrazia che ci ha lasciato nei suoi anni di attivismo politico. È un moto basato su una sorta di “perdono” e che serve soprattutto ad avere i senatori che permettano di essere tranquilli con i numeri e aprire la trattativa sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Che nel bel mezzo dei morti, dei danni di certo populismo, della fame che attanaglia le persone, dell’incertezza, dei soldi che mancano per arrivare a fine mese, dei lavoratori che faticano a poter immaginare il proprio futuro, del paternalismo a quintali che ci viene riversato ogni giorno, si giochi per riavviarsi a Berlusconi curando gli interessi della sua azienda è qualcosa che avrebbe fatto strepitare gli strepitanti a lungo. Solo che in questo caso gli strepitanti sono suoi alleati e quindi si rimettono a cuccia mentre gli altri sono al governo. E Berlusconi, ancora, ritorna.

Buon lunedì.

Quei j’accuse di Robert Fisk contro l’Occidente

TIFF (Toronto International Film Festival Inc) documentario di Yung Chang

«Non ci viene davvero chiesto di combattere “il terrore mondiale”. Ci viene chiesto di combattere i nemici dell’America. Se significa catturare gli assassini dietro le atrocità di New York e Washington, pochi obietterebbero. Ma solleva una domanda sul perché quelle migliaia di innocenti sono più importanti – più meritevoli dei nostri sforzi e del nostro sangue – di altre migliaia di innocenti. E solleva una questione ancora più inquietante: se i crimini contro l’umanità commessi negli Stati Uniti l’11 settembre vadano soddisfatti con la giustizia o con assalti militari brutali volti ad allargare il potere politico americano in Medio Oriente».

sCosì scriveva Robert Fisk sul The Independent il 13 aprile 2014. Lo Stato Islamico, Frankenstein nato sulle ceneri di due Paesi falliti, Siria e Iraq, aveva già occupato l’anno prima Raqqa, città nord-orientale siriana, ma in pochi se n’erano accorti. Due mesi dopo avrebbe preso Mosul, seconda città irachena: il “califfato” diventava mostro noto a tutto il mondo. E in buona parte previsto da chi conosceva la regione, come Robert Fisk.
Corrispondente di guerra per eccellenza, Fisk ha trascorso 40 anni in giro per il Medio Oriente. Ha imparato l’arabo, ha pubblicato reportage bussole di professionalità ed etica giornalistica. Si è spento alla fine di ottobre a Dublino, tra i ricordi del suo giornale, il The Independent, di colleghi e colleghe, lettori e lettrici.

La ricerca spasmodica e curiosa di Fisk inizia nel 1976, quando si trasferisce a Beirut in una casa che manterrà fino alla morte. La guerra civile libanese era iniziata un anno prima. Da quella città, simbolo della ricchezza etnica e confessionale del Medio Oriente ma anche delle sue più cieche contraddizioni, Fisk muove i passi che lo porteranno a raccontare le tragedie di fine secolo, il massacro di Sabra e Shatila, la guerra tra Iraq e Iran, le due guerre del Golfo, l’operazione militare Usa in Afghanistan, l’ascesa di Al Qaeda e Isis, lo smantellamento di Siria e Iraq. Fu il primo a entrare nei campi profughi palestinesi di Beirut, trasformati in cimitero dai falangisti cristiani sotto gli occhi complici dell’esercito israeliano e a narrare la feroce camminata su cumuli di corpi in un reportage storico («Ce lo dissero le mosche», incipit indimenticabile). Il primo a raccontare il…

L’articolo prosegue su Left del 20-26 novembre 2020

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Franco Arminio: Con le parole creo spazi di utopia

Franco Arminio è un poeta campano di Bisaccia, quella che ha chiamato Irpinia d’Oriente, ma anche un reporter lirico, documentarista, militante della sinistra etica, inventore di uno sguardo nuovo sull’Italia interna e interiore di cui ha molto scritto che ha chiamato “paesologia”, lavoro di letteratura fatti di libri memorabili come Viaggio nel cratere (Sironi), Vento forte tra Lacedonia e Candela (Laterza), Terracarne (Mondadori) che è culminato in un happening en plein air nel paese di Aliano, in Basilicata, luogo di confino dove Carlo Levi scrisse Cristo si è fermato ad Eboli.

Da molti anni unisci la letteratura, la poesia ma anche il reportage, all’agire politico, soprattutto a Sud, dove sei stato anche candidato come sindaco del tuo paese, rinnovando la tradizione dei Dolci, degli Scotellaro, dei Levi, alla quale vuoi ricollegarti. C’è ancora spazio per un rapporto tra la cultura e la politica?
Non so, forse per me questo spazio non c’è, almeno a giudicare dai risultati. In ogni caso è uno spazio da cercare sempre ed è importante anche se è piccolo e sempre minacciato. Io forse sono una creatura impolitica, forse la politica non è un mio interesse profondo. E poi si tratta sempre di capire di cosa parliamo quando parliamo di politica. Se pensiamo a uno come De Luca direi che non c’è spazio per un dialogo con la cultura. Agli occhi di chi fa politica come la fa lui interessano solo i portatori di voti, interessano i medici, i farmacisti. Interessano quelli che hanno modi spicci, quelli che sono bravi a transitare da uno schieramento all’altro senza tanti scrupoli. Per me è un grande dolore che gente come Dolci, come Scotellaro, come Levi alla fine hanno pochissima attenzione. Se penso a un ministro come Speranza vedo subito che non ha nessuna vicinanza con la politica come la penso io. Siamo pieni di persone che sono protese unicamente a calibrare la loro carriera. Con queste persone la cultura gira a vuoto, il dialogo, se pure si accende, si spegne assai presto. E allora bisogna dialogare coi ragazzi, invitarli a tornare nell’Italia interna o a non lasciarla. So che può sembrare un invito velleitario, ma oggi dobbiamo anche dire cose che possono sembrare impraticabili. Forse la mia natura politica più autentica sta in questa carica utopica anche un poco infantile che da sempre mi porto dietro. Forse il mio contributo alla vita politica può essere solo questo di…

L’articolo prosegue su Left del 20-26 novembre 2020

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Non solo violenza di genere, c’è anche un nemico invisibile per le donne curde del Rojava

Nei territori della Federazione Democratica della Siria del Nord e dell’Est (Rojava) le organizzazioni femminili il 10 novembre hanno presentato a Qamislo le attività in programma per celebrare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Il processo rivoluzionario si fonda sulla liberazione delle donne perché soltanto affrontando e abbattendo la prima forma di colonizzazione, di sfruttamento e schiavitù emersa nel corso dell’evoluzione della storia dell’essere umano, può compiersi la trasformazione radicale della società verso quella che Ocalan ha chiamato “Modernità Democratica”. Una democrazia dal basso che viene costruita dalla popolazione quotidianamente, in cui le donne con impegno e consapevolezza si auto-organizzano in associazioni, cooperative, organizzazioni territoriali sui temi della salute, dell’economia, dell’ecologia, dell’autodifesa, tutte riunite in Kongra Star, associazione di associazioni. Kongra Star ha lanciato a livello internazionale la campagna di raccolta firme per rendere più intensa la solidarietà tra le donne contro l’occupazione e il genocidio, campagna che terminerà il 25 novembre (per sostenerla qui). Il genocidio è espressione della mentalità nazionalista che non può accettare, per definizione, la molteplicità delle presenze culturali, linguistiche e religiose della società e il femminicidio è lo strumento che viene utilizzato per sopprimere le diversità e distruggere la società.

Nel corso del mese di novembre le associazioni di donne organizzeranno workshop e incontri di formazione sui temi del matrimonio nell’infanzia, sulla parità di genere, sull’aumento della violenza con la pandemia da Covid-19 e sulla partecipazione alle scelte politiche. Nessuna donna è lasciata indietro perché la società democratica ha bisogno di tutte le sfumature e soltanto se c’è una partecipazione diffusa può realizzarsi l’utopia concreta dell’autogoverno e della vita libera insieme.

Foto dalla pagina FB “Jinwar – Free Women’s Village Rojava”

Free life together
Jinwar è l’eco-villaggio delle donne, auto-costruito con mattoni di terra cruda riappropriandosi del sapere ancestrale delle donne a cui la Dea Cosmica trasmise l’arte della modellazione della creta. A Jinwar le donne imparano a liberarsi dai legami di subalternità fisica, psicologica ed emotiva dei maschi con un processo di conoscenza, consapevolezza e pratica di vita insieme seguendo Jineolojî. La Jineolojî, definita come scienza dalla prospettiva delle donne, nasce da più di 40 anni di lotta del movimento delle donne curde. È considerata la scienza della società democratica perché Jineolojî coniuga teoria e prassi affinché si realizzi una società ecologica in cui comunitariamente sono gestiti i beni comuni, l’economia, la salute, la formazione, l’autodifesa.
Jinwar è stato inaugurato il 25 novembre 2018 ed è aperto a tutte le donne, senza distinzione di religione, lingua, cultura, che abbiano bisogno di essere accolte. Nel villaggio vivono donne arabe, curde, yezide, alcune sono vedove di martiri per la liberazione, altre si sono allontanate dal marito o dalla famiglia a causa delle continue violenze subite, altre ancora perché desiderano formarsi, imparare, acquisire un approccio olistico ai problemi e partecipare ad una esperienza collettiva da portare successivamente nella società. La comunità vive collettivamente fuori dalla logica del mercato, in connessione con i ritmi naturali, recuperano i saperi dell’agricoltura tradizionale e si rendono autosufficienti. Le donne a Jinwar cercano nel passato remoto le radici di una relazione ecologica con il mondo naturale, consapevoli di custodire alcune reminiscenze della civiltà neolitica della Mesopotamia nelle usanze popolari trasmesse di madre in figlia e non ancora completamente sradicate dalla modernità capitalista.

Gli edifici si articolano intorno a forme geometriche elementari che simbolicamente richiamano la Dea Cosmica come il triangolo e il cerchio. La spiritualità per millenni è stata interna alla natura, un lunghissimo periodo in cui le comunità umane svilupparono società ecologiche con al centro la cura per il gruppo, il benessere della collettività e il sostegno reciproco. A Jinwar le donne rendono attuale questa visione olistica del mondo e delle relazioni umane senza escludere la tecnologia che viene valutata rispetto all’ecosistema complessivo. Per esempio il progetto di autosufficienza energetica è in parte realizzato con l’allestimento di una serie di pannelli fotovoltaici sul tetto dell’Accademia delle donne.

Foto dalla pagina FB “Jinwar – Free Women’s Village Rojava”

Sifa Jin
La cura del corpo come riappropriazione del primo territorio da difendere è un principio di Jinwar che trova espressione nel centro di Medicina naturale Sifa Jin, che è stato inaugurato nella settimana dell’8 marzo di quest’anno. Il centro è aperto anche alle donne e famiglie dei villaggi vicini (gli uomini adulti sono visitati soltanto se anziani o se gravemente malati e impossibilitati a raggiungere il più vicino ospedale). Le donne con Sifa Jin hanno l’obiettivo di riappropriarsi della conoscenza olistica del corpo avvicinandosi ad una epistemologia ancestrale, condivisa con i pueblos originarios, che si prenda cura dei corpi e del territorio. In cerchio condividono i saperi del passato riconciliandosi con la natura, entrano in contatto con i suoi cicli per produrre olii essenziali, unguenti e tisane. La formazione avviene in modo formale e informale, per esempio i dialoghi durante la raccolta delle erbe sono scambi di saperi e approfondimento.

Dalla sua apertura circa mille donne si sono recate a Sifa Jin ed è molto positivo che questo presidio sia stato aperto poco prima della diffusione anche in Rojava del virus Covid-19 perché anche le famiglie che vivono vicino sono state informate e hanno avuto una formazione sulla regole da seguire per il contenimento, oltre a ricevere le necessarie cure. Per potenziare la presenza sul territorio del presidio sanitario il collettivo di Jinwar ha attivato un progetto per l’acquisto di un’ambulanza. In Italia Cisda (coordinamento donne afgane) e Rete Jin hanno organizzato una campagna di raccolta fondi.

La diffusione di Covid-19 sta avanzando anche in Rojava, l’ultimo bollettino relativo a ottobre evidenzia il raddoppio dei casi in un solo mese, i posti letto attrezzati sono meno di 60 per una popolazione di circa un milione di persone. La situazione già critica potrebbe peggiorare notevolmente con l’arrivo dell’inverno. La Mezzaluna Rossa segnala la mancanza di ventilatori, kit per fare i test e i dispositivi di protezione personali. L’embargo continua a gravare sulla popolazione nonostante la pandemia. Per arginare la rapida diffusione dell’epidemia la regione dell’Eufrate, compresa la città di Kobanê, è sotto coprifuoco dal 15 novembre per due settimane. La Turchia continua ad attaccare e costruisce nuove postazioni nei pressi di Dirbêsiyê.
Ma la rivoluzione delle donne non si ferma e ora più che mai ha bisogno della solidarietà attiva della società civile internazionale.

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L’autrice: Fabiana Cioni è dottoranda IUAV Università di Venezia