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La rivoluzione di quel 2 giugno del 1946 Dal referendum alla Costituzione

Per la prima volta nella storia italiana il 2 giugno 1946 il paese sceglieva con referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica ed eleggeva l’Assemblea costituente per redigere la Costituzione.

Quel 2 giugno le donne assunsero la dignità politica. Il 10 dicembre 1945 erano state già chiamate al voto per le elezioni amministrative, ma non potevano candidarsi. Finalmente quel 2 giugno potevano essere anche elette.

In ventuno entrarono nell’Assemblea Costituente. Erano le madri costituenti, con un ruolo importantissimo anche in funzione anti patriarcato.

La Repubblica democratica era la grande svolta da concretizzare. E la Costituzione ne doveva essere la stella polare. E a questo e per questo l’assemblea lavorò dal giugno del 1946 alla fine del dicembre 1947.

Ne scaturiva una Costituzione rivoluzionaria nel porre principi e garanzie di democrazia, guardando al futuro della tenuta democratica e alla sua pratica attuativa.

Antagonismi e contrapposizioni non mancavano, ma la Costituente sentiva il peso della grande svolta rifondatrice da compiere e i suoi componenti seppero trasfondere nel dettato costituzionale il miglior progressismo delle loro stesse correnti politiche di appartenenza.

Così, ad esempio,  sono le idee di Gramsci e non quelle della dittatura del proletariato a prevalere.

Al liberalismo cultore dello status quo borghese, subentra il prospettivismo politico della democrazia liberale e della questione morale di Amendola e Gobetti e quello del socialismo liberale di Carlo Rosselli.

Allo stantio cattolicesimo del dogmatismo papista subentra l’istanza sociale predicata da Luigi Sturzo. Tutti personaggi non a caso antifascisti e alcuni  di essi assassinati dai fascisti.

La visione laica della repubblica prendeva forza grazie ad esponenti di forze minoritarie, ma di grande spessore politico-culturale come Calamandrei, Parri, La Malfa. Che dettero filo da torcere opponendosi tenacemente con i socialisti e alcuni liberali alla presenza in Costituzione del Concordato con la Chiesa cattolica (Art.7) fortemente voluta da De Gasperi e passata grazie ai voti dei comunisti, con l’eccezione di Teresa Noce (protagonista di primo piano nella lotta clandestina antifascista) che disse No all’ordine di scuderia dell’ultimo momento del capo partito Togliatti.

Quel Concordato che ancora ci trasciniamo, e su cui si è dovuta pronunciare la Corte Costituzionale con diverse sentenze in nome del «supremo principio della laicità dello Stato», affermando che esso è solo menzionato dalla Costituzione repubblicana e che di essa non è assolutamente parte integrante. E che pertanto anche le norme concordatarie sono subordinate al fatto che lo Stato italiano non è confessionale.

La Corte Costituzionale è un fatto del tutto nuovo: una rivoluzione l’averla prevista.

Essa costituisce infatti il supremo organo giurisdizionale per la tutela e affermazione della “Costituzione materiale” (come si usa dire). E in questa prospettiva, non solo interviene ad annullare leggi o parti di esse che violano il dettato costituzionale, ma ne salvaguarda anche le prospettive di impegno costituzionale.

E non è un caso, che in diverse sentenze questa Corte abbia ribadito che «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali» (come ad esempio si legge nella sentenza 1146/1988).

La Suprema Corte è quindi baluardo di orientamento preventivo della legalità costituzionale anche di là dal caso specifico per cui è stato chiesto il suo intervento.

Una visione prospettica a conferma dell’altezza scrupolosità lungimiranza dei costituenti nel delineare quel che l’Italia sarebbe dovuta essere nella costruzione quotidiana della civile convivenza democratica nelle garanzie di laicità, eguaglianza, solidarietà.

Un’Italia che guardava al futuro. Un’Italia della pratica democratica in cui coinvolgere abbracciare far crescere ognuno. E per questo costruita sulla centralità del cittadino nella sua individualità di essere umano per l’affermazione della sua dignità individuale e sociale.

Questo l’architrave della rivoluzione costituzionale repubblicana su cui si snoda la sua intera sua architettura.

Ecco allora perché la nostra Costituzione pone la dignità senza alcuna distinzione individuale e sociale in corrispondenza dell’uguaglianza. E chiama a rimuovere gli ostacoli che siano ad essa di  impedimento, come recita l’art.3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Un articolo questo, che potremmo definire il motore della pratica costituzionale, nell’individuare le disuguaglianze e nell’impegno a spazzarle via. Non è un compito solo dello Stato ma della repubblica nella sua totalità.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (art.1), è l’incipit della nostra Costituzione e impegna lo Stato a creare le condizioni che lo rendano effettivo in tutela, qualità, retribuzione, elevazione professionale (Art.li 35-38). Quindi fattore di promozione individuale e sociale nell’attenzione alla individuale «possibilità e scelta» (Art.4). Sottolineando così come il lavoro rappresenti un valore innanzitutto umano e sociale.

Così, è nella socialità del lavoro che trova forza propulsiva la stessa appartenenza democratica, dove il lavoro non è un sacrificio, ma il diritto che dà “senso” alla estrinsecazione della propria “azione intelligente” che nell’attività finalizzata del lavoro è “costruzione di significati” socialmente riconosciuti. Per una società aperta di cui ciascuno si senta parte nella garanzia di estrinsecare se stesso secondo i propri bisogni e necessità.

In questo guardare oltre, le madri e i padri costituenti riuscirono a realizzare la formidabile mediazione dialogica per costruire un dettato costituzionale di cittadinanza democratica per liberi ed uguali. Dove gli stessi rapporti tra individui società stato non sono sigilli di appartenenza omologante, ma di promozione di libertà e dignità individuale e sociale: in una società aperta ed emancipante all’insegna della solidarietà sociale (art.2).

I diritti individuali si fanno quindi corpo sociale che la Repubblica promuove, afferma e tutela, per la stessa vita democratica: cultura, istruzione, stampa, associazione, riunione, manifestazione, salute, casa… e tanto altro ancora.

Lo Stato non è quindi un mero regolatore, ma parte attiva, stabilendo che «L’iniziativa economica privata è libera». Ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno  alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, all’utilità sociale (art. 41). E tutto questo vale anche per la proprietà privata (art. 42). In questa prospettiva, lo Stato  ha un ruolo attivo nella vita economica nazionale particolarmente nella titolarità o acquisizione di imprese «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale» (art.43). Lo Stato inoltre favorisce la formazione di cooperative di lavoratori e tutela l’artigianato (art.45). Oltre a riconoscere ai lavoratori il diritto di collaborare alla gestione delle aziende (art. 46).

La Carta potremmo definirla un tronco unico da cui si dipartono tutti i rami della società civile e dell’azione politica all’insegna della democrazia reale. E per questo è strutturata e intessuta su una trama di interrelazioni e interconnessioni che impedisce prevaricazioni commistioni, connivenze e abusi degli stessi organi e poteri dello stato.

E nella rigorosa separazione e autonomia dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) si afferma l’indipendenza di ciascuno di essi. E la Costituzione prevede anche tutta una serie di pesi e contrappesi per l’equilibrio democratico e organismi di controllo. Diversamente avremmo un regime monocratico. Il contrario appunto di repubblica.

In tutto questo un ruolo fondamentale lo ha il Presidente della Repubblica in qualità di garante del buon funzionamento della Costituzione.

La  democrazia – come è noto – ha bisogno di cittadini che sanno esercitare la libertà di pensiero, che eleva la ragione a facoltà umana suprema, che rivendica l’indipendenza dal dogmatismo.

Pensiero analitico-critico, che mantenendo il carattere di acquisizione autonoma e consapevole, induce ciascuno a mantenere il prospettivismo dialettico di ricerca inesausta e confronto aperto.

Ecco allora, che la nostra Costituzione individua nella scuola della repubblica – come affermava Piero Calamandrei – il suo «organo costituzionale». Scuola emancipante da dogmi e padroni.

È questa la scuola dell’art.33 della Costituzione che accordava ai privati di istituire proprie scuole (controllandone attendibilità e qualità) ma senza oneri per lo stato. Principio oggi aggirato attraverso forme indirette, tradendo così la Carta. E non è stato l’unico.

In Italia si è assistito e si sta assistendo alla rivincita di quelle forze illiberali e antidemocratiche la cui matrice è nel fascismo, con cui il Paese non ha fatto i conti fino in fondo, anche a causa della mancata epurazione finanche nei posti di comando, dando luogo alle connivenze tra fascisti mafia funzionari dello Stato (il così detto “stato deviato” con annessi e connessi tentavi colpi di stato (Piano Solo 1964 e golpe Borghese 1970) e alle così dette “bombe di stato” da Piazza Fontana (Roma 1969) a Piazza della Loggia (Brescia 1974) alla Stazione di  Bologna (1982), a Via dei Georgofili (Firenze 1993) a  davanti alla Basilica di San Giovanni Laterano a Roma e in via Palestro a Milano e Firenze (1993)… con inframmezzo di altri numerosi attentanti.

Per non parlare dei tentativi di vera e propria manomissione costituzionale intentati nel ventennio berlusconiano, e poi con la “Buona scuola” o il “Jobs Act”. Entrambi falliti. Ma che continuano a profilarsi all’orizzonte col governo in carica presieduto da Meloni.

Tutto questo è potuto accadere in una crisi della sinistra, che di metabolizzazione in metabolizzazione ha contribuito alla strisciante de-costituzionalizzazione curandosi sempre meno di quei beni comuni ben individuati nella Costituzione e che si chiamano diritto allo studio, diritto al lavoro nella tutela e dignità del lavoro, diritto alla casa, diritto alla salute… e tanto altro ancora.

Ecco allora che la Costituzione va rivendicata e rilanciata nella riappropriazione pubblica dello spazio costituzionale contro il ritorno ad una condizione di sudditi. Quella per cui lavorarono i reazionari con le loro reti di corruttela e corruzione nel più bieco familismo amorale.

E che per questo hanno in odio il progetto civile e sociale di libertà e giustizia della Costituzione. Troppo rivoluzionaria per chi magari vorrebbe cambiarne finanche la forma istituzionale o aggirandola.

E ancora una volta c’è da ringraziare l’Assemblea Costituente, che ha messo al riparo la nostra forma repubblicana, nella sua non modificabilità (Art.139). E ha previsto un rigido procedimento di revisione costituzionale (Art.138) con un doppio passaggio parlamentare con votazioni distanziate di almeno tre mesi, vincolando anche alla consultazione popolare mediante referendum, quando nella seconda votazione ciascuna Camera parlamentare non abbia raggiunto la maggioranza qualificante di almeno due terzi dei suoi componenti.

Speriamo che sia davvero un baluardo contro cui si schiantino quanti vanno blaterando che la Costituzione va riscritta. E lo fanno in particolare – non a caso a ridosso del 25 aprile, festa nazionale in Italia a memoria imperitura della Liberazione dal nazifascismo!

Buon compleanno Repubblica!

L’autrice: Maria Mantello è saggista e presidente dell’Associazione nazionale del libero pensiero Giordano Bruno

Foto wiikipedia commons

Il Ministero dell’Interno che spia i partiti e intercetta i giornalisti

In un Paese normale, il fatto che la polizia – cioè il ministero dell’Interno – abbia infiltrato un agente sotto copertura in un partito politico regolarmente partecipante alle elezioni sarebbe uno scandalo istituzionale. In Italia scivola via, sepolto sotto il rumore di fondo delle invidie di redazione. Per dieci mesi un agente di appena 21 anni, in servizio presso la direzione centrale della polizia di prevenzione (l’antiterrorismo, che il ministero stesso definisce «polizia politica»), ha frequentato assemblee, manifestazioni, incontri interni di Potere al Popolo. Sempre presente durante la settimana, sempre assente nei fine settimana, senza alcun mandato dell’autorità giudiziaria.

La versione ufficiale, secondo cui sarebbe stato un giovane entrato per caso nel partito senza ordini superiori, crolla di fronte alle date di trasferimento, alla costanza della presenza, ai documenti ufficiali e ai riscontri fotografici. Il Ministero dell’Interno non ha chiarito chi abbia autorizzato, e con quale legittimità, un’attività sistematica di controllo su una formazione politica regolarmente iscritta alle competizioni elettorali.

Ma questo è solo l’ultimo episodio. Prima ancora sono emerse le intercettazioni illegali a giornalisti di Fanpage.it, ai dirigenti delle Ong Mediterranea Saving Humans e Refugees in Libya, e ai loro contatti, spiati attraverso spyware militari come Paragon. Non siamo davanti a una sbavatura. È un salto consapevole in un regime che il dissenso non lo tollera: lo sorveglia, lo controlla, lo neutralizza.

Buon venerdì. 

Foto dalla pagina facebook di Potere al popolo

La cultura del possesso si impara presto. E uccide

Martina Carbonaro non ha trovato una chiesa o una farmacia, come suggerisce il ministro Nordio. Martina Carbonaro non ha nemmeno pensato di passare a casa di Vittorio Feltri, nonostante fosse una bella ragazza. Meglio: poco più che una bambina. Martina Carbonaro aveva 14 anni e non è il soggetto di questa storia.

Chiara Becchimanzi, che di lavoro fa l’attrice comica ma è molto più seria di molti maschi nella classe dirigente, ieri faceva notare come le agenzie di stampa e i media abbiano evidenziato che la frase principale è “l’ho uccisa” e la subordinata causale è “perché lei mi ha lasciato”.

“Il soggetto della causale è lei. Lei che lo ha lasciato. E QUINDI lui l’ha uccisa. Come conseguenza dell’abbandono agito da lei. Ergo, lei è responsabile della sua stessa morte”, spiega Becchimanzi.

Il soggetto principale di questa storia è Alessio Tucci, 19 anni. Tucci è già abbastanza adulto per aver introiettato l’omicida idea di essere il proprietario della sua fidanzata, ancor di più se lei decide di lasciarlo. Alessio Tucci ha 19 anni ma ha già imparato che basta puntare sul sentimento, sulla gelosia e sulla psicomagia del raptus per essere catalogato tra i maschi che, poverini, non hanno retto al dolore.

La scrittrice Carlotta Vagnoli ieri sottolineava come l’età sempre più ridotta delle vittime di femminicidio e di chi lo agisce “sia un chiaro segnale di come la cultura patriarcale del possesso dei corpi femminili si manifesti – anche nei suoi modi più radicali – già fin dalla fine dell’infanzia e in piena adolescenza”. In un Paese in cui l’educazione sentimentale è osteggiata dalla politica.

Buon giovedì.

Italia fiera a braccetto con Orbàn nell’asse del disonore

Ci sono scelte e istanti in cui l’ambiguità si sveste da strategia e diventa complicità. Quando venti Paesi dell’Unione europea decidono di firmare una dichiarazione di condanna contro il divieto costituzionale del Pride imposto dal governo ungherese e l’Italia si chiama fuori, quel momento è arrivato. Giorgia Meloni, assente anche stavolta, ha fatto più rumore con la sua firma mancata che con mille discorsi sulla libertà.

Budapest ha iscritto il bando del Pride nella Costituzione, ha proibito ogni riferimento all’esistenza della comunità LGBTQ+ nelle scuole, e continua a invocare la “protezione dei minori” come scudo per normalizzare la censura. Sono gli stessi argomenti che circolano nei corridoi della destra italiana, dietro proposte di legge ammiccanti e nei discorsi pronunciati con il tono compiaciuto di chi pensa di interpretare il “sentire comune”.

Nel silenzio della Commissione europea, che una volta parlava di valori, oggi si muove almeno Berlino, che minaccia di usare “la linea dura” contro i sabotatori di ogni decisione condivisa. Ma il vero allarme è l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, che ha smesso di essere garante dei diritti per diventare garante delle omertà.

Lo scivolamento è lento ma non sarà indolore. Quando i diritti vengono vietati per legge si è già con un piede nell’abisso. L’Italia puzza sempre di più di decreti e manganelli. È così che si finisce a braccetto con quelli come Orbán: per codardia o per affinità. E le due cose, nel tempo, si confondono.

Buon mercoledì. 

Una foto del Pride a Budapest nel 2017, foto wikipedia commons

Strage di Viareggio, confermata la condanna a Moretti e gli altri imputati

«Hanno ammazzato 32 persone. Mi pare il minimo. Qualsiasi cosa succederà ora, come familiari la affronteremo insieme». Daniela Rombi, presidente del Mondo che Vorrei, associazione dei familiari delle vittime dell’incidente ferroviario di Viareggio, non ci gira tanto intorno concedendosi ai microfoni pochi secondi dopo che il presidente della corte di appello del tribunale di Firenze, Alessandro Nencini, ha letto la sentenza del processo di appello ter.

Un appello nel quale ci poteva essere l’ipotesi di un possibile ricalcolo delle pene e una diminuzione massima entro un terzo del totale – da calcolare considerando che un nono era già stato tolto – ma così non è stato. Pene tutte confermate, compresa quella di 5 anni all’ex amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, presente in aula e che, scuro in volto, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Al contrario della sua avvocata, Ambra Giovane, che ha precisato «Siamo delusi, probabilmente ricorreremo in cassazione. È una sentenza che merita che si faccia ricorso. Potevamo chiuderla qui ma non è dipeso da noi».

Un processo lunghissimo e che sembra non finire mai. E nel quale non sono mancati i colpi di scena e che dopo appena 21 minuti dal suo inizio, quel 13 novembre 2013, partì con una triste sorpresa: lo stato non si costituiva parte civile. “Siamo vicini a raggiungere un accordo con le Ferrovie e la Gatx per ottenere un sostanzioso risarcimento. Per questo abbiamo chiesto di non essere ammessi al processo” spiegò l’avvocato dello stato Gianni Cortigiani. E soprattutto un processo nel quale si è per così dire scoperchiato il vaso di Pandora dei problemi della sicurezza ferroviaria europea.

In principio fu il picchetto

L’incidente ferroviario di Viareggio avvenne il 29 giugno del 2009 dopo ben 4 incidenti a treni merci avvenuti pochi giorni prima, tra il 19 e 22, tra Sesto Calende, Cuneo, Pisa e Vaiano. La sera del 29, a pochi minuti da mezzanotte, un treno merci trasportante Gas di petrolio liquefatto (Gpl) deragliò e, a causa dello squarcio di una delle 14 cisterne che lo componeva e la conseguente fuoriuscita di Gpl che venne innescato da una scintilla, causò la morte di 32 persone di cui 13 la notte stessa.

I mesi successivi al disastro videro una aspra battaglia per decidere il colpevole dello squarcio oltre all’assile che si era rotto per usura: da una parte tecnici che dicevano che il vagone aveva impattato nel picchetto segnaletico, dall’altra che aveva impattato nella cosiddetta zampa di lepre, una parte dello scambio. Nella seconda ipotesi, essendo lo scambio parte integrante della linea ferroviaria, le possibili responsabilità del gruppo Ferrovie dello Stato – che avrebbe dovuto assicurarsi che i vagoni e il treno fossero in possesso di tutti i requisiti per poter circolare sulla propria rete ferroviaria – sarebbero state minori. Ma i rilievi indicarono come colpevole il picchetto e questo mise sul banco degli imputati gli amministratori della compagnia.

Sicurezza sotto accusa

L’incidente mise a nudo i problemi della sicurezza ferroviaria in tutta Europa. Il disastro del 29 giugno infatti si potrebbe definire europeo: il locomotore era di proprietà dell’italiana Trenitalia, il primo carro era immatricolato dalla polacca Pkp e sottoposto all’ultima revisione da Cima Riparazioni mentre gli altri 13 erano immatricolati in Germania dalla Deutsche Bahn. Sui carri erano montate altrettante cisterne della multinazionale statunitense Gatx, che tramite la controllata austriaca Kvg le aveva date in locazione alla italiana Fs Logistica. L’assile che rompendosi ha causato il deragliamento era stato controllato dall’officina tedesca Jungenthal.

Durante le indagini, emersero notevoli problematiche sui controlli visto che l’assile stesso che poi si ruppe per usura, aveva sopra più mani di vernice – 4 per l’esattezza – che ponevano seri dubbi sulla fattura della revisione e delle revisioni in generale.

Una cosa riportata anche dal rapporto svizzero sulla sicurezza dei trasporti del 2020 dove si spiegava che le misure di sicurezza per il trasporto di sostanze pericolose in Svizzera prese nel 2016 – con l’introduzione, oltre al limite di 40 chilometri orari per i treni che portano cloro, dei carri speciali pensati per resistere a urti gravi e deragliamenti, unica nazione europea che li ha adottati e che tra l’altro non fa parte dell’Ue – erano state prese a seguito delle “analisi dell’incidente di Viareggio che aveva evidenziato la possibilità che i problemi di manutenzione degli assi dei carri merci alla base dell’incidente insorgano anche in altri paesi, consentendo di intervenire ed eliminare le lacune” come specificato da Rudolf Sperlich, vicedirettore dell’ufficio federale dei trasporti svizzeri (Uft).

In sostanza, c’erano problemi sulla tracciabilità del materiale rotabile europeo, non c’erano regole precise per svolgere i controlli e i detentori dei carri potevano “definire autonomamente le regole di manutenzione” come sottolineò Angelo Laurino, ispettore Polfer che ha partecipato all’inchiesta.

A questo fece seguito nel giugno 2019 nell’Ue l’applicazione di una procedura uniforme per omologare il materiale rotabile e il rilascio di certificati di sicurezza unici. Dati alla mano, gli incidenti dal 2009 sembrano essere diminuiti: nel rapporto dell’Era del 2010 si parlava di 2230 incidenti gravi, tra passeggeri e merci, causa di 1245 morti e 1226 feriti, mentre in quello del 2022, 1331 incidenti, causa di 687 morti e 469 feriti. Anche se va detto che in quest’ultimo si legge la premessa “La sotto segnalazione non è infrequente nel caso di incidenti”.

“Un disastro non imprevedibile”

Una volta iniziato il processo, le udienze andarono avanti al ritmo di almeno un paio a settimana. Con   “il disastro non fu un fatto imprevedibile” nelle motivazioni del tribunale di Lucca, nel 2017 arrivarono le prime forti condanne nella sentenza di primo grado, in linea di massima confermate poi nel 2019 anche dalla Corte di Appello di Firenze. Un fatto storico: per la prima volta in Italia venivano condannati tutti i vertici delle aziende coinvolte tra cui Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs che fino ad allora era stato prosciolto da una cinquantina di processi in cui era stato chiamato in causa. Nel 2021, la prima sentenza in Cassazione vide cadere le accuse di omicidio colposo per tutti gli imputati condannati. Un fatto che ribaltò la sentenza della Corte di Appello eliminando inoltre l’aggravante del mancato rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro e rinviando tutto a un nuovo processo di appello, chiamato per l’appunto bis.

«La motivazione – chiarisce Gabriele Dalle Luche, avvocato dell’associazione Il Mondo che Vorrei composta dai familiari delle vittime – spiega che l’incidente sul lavoro, il rischio lavorativo, ci sarebbe soltanto in presenza di una norma specifica antinfortunistica che dovrebbe essere violata. Quindi, per fare un esempio, se sto lavorando a un macchinario questo parte e uccide un passante, la sua morte non è più considerabile un incidente sul lavoro: devi essere nella posizione analoga a quella del lavoratore e deve essere violata una norma antinfortunistica specifica. Può farne un processo che fa scuola».

Se la prescrizione aveva di fatto cancellato nel frattempo anche i reati di incendio e lesioni colpose, durante il processo di appello-bis di Firenze invece fu detto che se il treno merci trasportante gpl deragliato a Viareggio fosse andato a una velocità di 60 all’ora, «non sarebbe successo nulla». Oggi, a parte nel tratto dov’è avvenuto l’incidente a Viareggio nel quale rallentano, in tutta Italia la velocità dei merci che portano sostanze pericolose non è ridotta quando passano nei centri abitati. Già nel processo precedente invece si era parlato dei cosiddetti carri scudo, opzione che probabilmente avrebbe potuto evitare il peggio.

«Nel ’90 – sottolinea Maria Nanni, ex capotreno – data la pericolosità dei treni trasportanti gpl fu stabilito che ci fossero i carri scudo: il primo vagone dopo il locomotore e l’ultimo vuoti o con materiale inerte. Poi la normativa in Italia venne abrogata e non è mai venuto fuori né da chi né quando. Quando siamo andati al parlamento europeo  a Bruxelles ci hanno fatto capire che sarebbe stato un enorme svantaggio economico mettere i carri scudo su tutti i merci europei trasportanti sostanze pericolose».

Un’altra lacuna emersa nei dibattimenti era la mancanza del sistema antideragliamento, obbligatorio in Svizzera da fine 2018 sui treni che portano sostanze pericolose ma non in Europa. In pratica un congegno, dal costo inferiore ai mille euro, che permette a ogni singolo vagone di bloccarsi in caso di movimenti anomali e che probabilmente avrebbe potuto evitare o almeno mitigare l’incidente di Viareggio. «Abbiamo ufficialmente proposto all’Agenzia Ferroviaria Europea (Era) di renderlo obbligatorio sui merci che transitano in Europa – spiegano dall’associazione dei familiari – ma ad oggi non abbiamo ancora ricevuto risposta».

Cosa può accadere ora e a quanto ammontano le pene

Oltre praticamente alla prima condanna di tutti i vertici delle aziende coinvolte, il processo per l’incidente ferroviario di Viareggio ha lasciato una grossa impronta nel futuro della giustizia italiana.«Dal punto di vista tecnico – spiega Tiziano Nicoletti, avvocato dei familiari – il processo per la strage di Viareggio, è di altissima importanza sia per le materie giuridiche, sono stati affrontati temi difficilissimi come la causalità della colpa e la responsabilità degli amministratori della holding rispetto a fatti commessi dalle società controllate, sia per l’ingegneria forense. Emblematica la ricostruzione della dinamica dell’evento in 3D, prodotto dai consulenti delle parti civili, con il riscontro delle evidenze rilevate dalla polizia scientifica. Ha dimostrato l’importanza della Legge Viareggio che ha fatto sì che i familiari potessero sostenere questo processo e fatto risaltare che per mitigare gli effetti della prescrizione, quindi il trascorrere del tempo, ci vorrebbe l’istituzione di una procura specializzata in disastri sia industriali che ambientali».

Il tribunale ha confermato quindi la condanna a 5 anni a Mauro Moretti, quattro anni, 2 mesi e 20 giorni per Michele Mario Elia, ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana, 4 anni per Mario Castaldo, ex direttore divisione di Cargo Chemical, 2 anni 10 mesi e 20 giorni per Mario Paolo Pizzadini, manager di Cima Riparazioni e 2 anni, 10 mesi e 20 giorni per Daniele Gobbi Frattini, responsabile tecnico Cima riparazioni.

I condannati austriaci e tedeschi, con quest’ultimi per i quali le differenze di ordinamento giuridico danno problematiche nell’applicazione delle condanne, sono: Johannes Mansbart, manager Gatx Rail Austria (5 anni e 4 mesi). Roman Meyer, responsabile flotta carri di Gatx Austria (5 anni, 6 mesi e 20 giorni), Rainer Kogelheide, ad di Gatx Rail Austria, (6 anni), Uwe Kriebel, operaio dell’officina di Junghental addetto ai controlli (4 anni, 5 mesi e 10 giorni), Helmut Broedel, funzionario dirigente dell’officina Junghental di Hannover (4 anni, 5 mesi e 10 giorni), Andreas Schroeter, tecnico di Junghental (4 anni e 8 mesi) e Peter Linowski, ad di Gatx Rail Germania (6 anni).

La domanda che resta è una: cosa può accadere ora? «Al massimo possono far ricorso per cercare nuovamente di diminuire la pena – precisa Nicoletti – ma dal punto di vista delle condanne, le responsabilità sono confermate e sappiamo chi ha ammazzato 32 persone».

 

Qui l’intervista audio all’avvocato Tiziano Nicoletti, legale dei familiari

l’autore: Francesco Bertolucci è giornalista

In foto (di Francesco Bertolucci) familiari delle vittime davanti al Tribunale di Firenze

Nordio, Alberto Stasi e il gossip giudiziario come anestetico per le riforme

Il delitto di Garlasco è diventato il pretesto perfetto per Carlo Nordio. Un ministro della Giustizia che, pur avendo giurato fedeltà alla Costituzione, piccona ogni volta che può la giustizia italiana con la grazia di chi non cerca soluzioni, ma vendette ideologiche. Stavolta, nel salotto televisivo buono, ha definito “irragionevole” la condanna di Alberto Stasi. Non per discutere una sentenza — che non compete a un ministro — ma per colpire l’intero impianto giuridico del Paese. Il messaggio è chiaro: se anche un solo giudice ha assolto, allora nessuno dovrebbe mai più poter condannare. Così si costruisce l’impunità sistematica.

Nel frattempo, Forza Italia sfila accanto con la solita ossessione per i trojan, accusando i magistrati di violare la privacy, mentre lavora a silenziare anche gli strumenti d’indagine. Un’agenda coerente: meno poteri a chi indaga, più alibi per chi può permettersi difese costose e l’intercessione politica.

Ma a scandalizzare è anche l’inerzia complice di certi giornali, inchiodati alla cronaca giudiziaria come fosse gossip d’appendice. La giustizia trasformata in feuilleton, i processi ridotti a fiction, le sentenze giudicate in base all’audience.

In questa deriva, il caso Garlasco non è un mistero da risolvere. È diventato l’alibi perfetto per una giustizia in cui si processano i processi. Se nessuno è sicuramente colpevole allora la credibilità stessa della giustizia è in discussione. E se nessuno si indigna, è perché l’informazione preferisce l’intrigo al principio.

Buon martedì 

India vs Pakistan: guerra e nazionalismo si fondono alla ricerca del consenso

La recente guerra tra India e Pakistan, sebbene scaturita da tensioni militari nella regione contesa del Kashmir, trova terreno fertile nelle ideologie politiche dominanti dei due governi. Dal lato indiano, il Bharatiya Janata Party (BJP) del Primo Ministro indiano Narendra Modi ha rafforzato negli ultimi anni una linea nazionalista indù, accompagnata da una politica interna sempre più autoritaria e ostile verso le minoranze musulmane. Tra l’altro il partito nazionalista e ultrareligioso ha trovato un alleato importante nel governo di estrema destra italiano che, va rammentato, ha siglato con il governo di Narendra Modi una serie di accordi nel campo della difesa e del commercio di armi, naturalmente, ma anche in altri settori. Ad esempio È stato firmato un Memorandum of Understanding per rafforzare la cooperazione in materia di difesa. L’accordo prevede: scambio di informazioni tra le forze armate, organizzazione di esercitazioni militari congiunte e formazione reciproca a vari livelli.

Dal lato di Islamabad, capitale del Pakistan, il governo, guidato da forze conservatrici, legate all’establishment militare e a istanze islamiste, ha mantenuto una retorica anti-indiana, funzionale alla legittimazione del proprio potere interno.

Queste convergenze ideologiche, seppur opposte nei contenuti, condividono una medesima logica: il rafforzamento dell’identità nazionale attraverso la contrapposizione all’altro. Il Kashmir, simbolo e nodo irrisolto di settant’anni di ostilità, ovvero dall’indipendenza dei due paesi dall’Impero britannico, diventa così il catalizzatore perfetto per trasformare tensioni interne in consenso patriottico.

Non è un caso che l’ultima escalation sia giunta in un momento di difficoltà economiche e tensioni sociali in entrambi i paesi. Il ricorso alla retorica bellica e alle rivendicazioni territoriali permette a leadership conservatrici di distogliere l’attenzione pubblica da crisi interne e rafforzare il proprio controllo politico. Inoltre, nel caso dell’India, Modi. Dopo lo scarso risultato delle elezioni del 2024, necessita di un rafforzamento della propria immagine.

In definitiva, la recente guerra non nasce solo da motivazioni strategiche o militari, ma affonda le sue radici nella polarizzazione ideologica dei due governi. Quando il conservatorismo si fonde con il nazionalismo, la guerra diventa non solo possibile, ma in certi casi politicamente utile, specialmente in politica interna, ma non solo. D’altronde già nel 1999, con la guerra del Kargil, si era proposto uno scenario molto simile. In quel caso il Pakistan era guidato da un governo del medesimo partito che lo guida attualmente e dal fratello dell’attuale Primo ministro, così come Nuova Delhi era guidata da un governo del BJP.

Sarebbe estremamente semplificativo legare a doppio filo i governi conservatori dei due paesi alla guerra, tuttavia il conflitto appena terminato, scatenato da un attacco terroristico che per l’India è stato fiancheggiato dai servizi segreti pakistani, ha di certo rinforzato le compagini conservatrici alla guida dei due paesi. Oltre a ciò il conflitto ha dato lustro, in Pakistan, al potere militare che, dopo vari periodi di dittatura, negli ultimi anni è rimasto sul retro della facciata politica ufficiale pur mantenendo un ruolo da “pretoriano” e facendo sentire a fasi alterne il proprio peso sulle scelte dei governi civili.

 

L’autore: Francesco Valacchi è cultore della materia, dottore di ricerca in scienze politiche all’Università di Pisa. Si occupa di geopolitica, con particolare riguardo all’area asiatica. Il suo ultimo libro è A nord dell’India, storia e attualità politica del Pakistan (Aracne)

Non è un Paese, è una fabbrica di poveri

C’è un Paese dove lavori e resti povero. Dove sei utile finché produci, ma invisibile quando chiedi diritti. È l’Italia del 2025, dove oltre sei milioni di persone, pur lavorando, non arrivano a mille euro al mese. Dove quasi undici milioni di lavoratori guadagnano meno di 25 mila euro lordi l’anno. È un’Italia che ha smesso di garantire, che ha reso il lavoro una scommessa quotidiana. E la perdita è sempre dello stesso giocatore.

L’83,5% dei rapporti di lavoro cessati nel 2023 è durato meno di un anno. Uno su due meno di novanta giorni. La precarietà non è una deriva: è la regola. È costruita con metodo, alimentata da contratti a termine, part-time obbligati, qualifiche basse e ricatti salariali. È un’architettura sociale in cui il lavoro non libera, ma incatena.

Questo modello è stato venduto come modernità. È solo un capitalismo che si nutre di disuguaglianza, che scarica i rischi su chi lavora e protegge solo chi incassa. E quando l’inflazione morde, quando il carrello della spesa pesa come un affitto, ci si sente dire che serve “flessibilità”. Flessibilità, cioè disponibilità a rinunciare a tutto: tempo, stabilità, diritti, salute.

I referendum dell’8 e 9 giugno sono un’occasione storica. Non per correggere qualche stortura, ma per mettere in discussione l’impostazione stessa del lavoro in Italia. Sì per chi non ha voce nei talk show. Per chi si alza all’alba e torna quando i figli dormono. Per chi ha visto il futuro ridotto a un contratto di tre mesi. Un sì collettivo, necessario, radicale. Un no secco a chi ha trasformato il lavoro in povertà a norma di legge.

Buon lunedì.

Cnr verso il commissariamento: siamo al controllo politico sulla ricerca?

Cosa sta succedendo al Consiglio nazionale delle ricerche? Per quale ragione non si è avviata la procedura per il rinnovo degli Organi ordinari (presidente e consiglio di amministrazione) nei tempi dovuti e si sta procedendo al commissariamento dell’ente? Imponendo così un regime monocratico e di controllo politico del tutto estraneo alle esigenze della ricerca e contrario a ciò che la nostra Costituzione prescrive.

Riassumiamo la situazione.
La prossima settimana il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) verrà commissariato. Questo atto ormai ineludibile, deriva dal mancato avvio da parte del ministero competente (il Mur) della procedura concorsuale per il nuovo presidente del Cnr in concomitanza con la scadenza di quello attuale.

Come è noto il Cnr è il più importante e grande ente di ricerca pubblico del Paese e gode, per ragioni strettamente collegate al funzionamento basilare della scienza, di un’autonomia che gli viene riconosciuta, come per tutte le organizzazioni pubbliche produttrici di nuova conoscenza, dalla nostra Costituzione (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento (…)”).

L’autonomia di cui parliamo è al cuore del funzionamento ordinato e costruttivo del Cnr e si articola su più livelli: scientifica, organizzativa, gestionale-finanziaria.
E’ grazie a questa caratterizzazione che viene garantita quella “libertà della Scienza” a cui fa riferimento il dettato costituzionale.

Attraverso l’autonomia scientifica il Cnr può individuare i programmi di ricerca, i settori e le tematiche su cui investire. Definire, su base scientifica, il giusto equilibrio tra ricerche fondamentali e applicate. Determinare le proprie compatibilità con le linee di indirizzo, definite dal Programma nazionale della ricerca (Pnrr), a cui pure deve adeguarsi e corrispondere.

Attraverso l’autonomia organizzativa -approvando il proprio Statuto e i regolamenti interni che determinano strutture come istituti di ricerca, dipartimenti di coordinamento e il loro conseguente funzionamento- il Cnr caratterizza la propria organizzazione in modo da soddisfare al meglio gli indirizzi scientifici autonomamente individuati.

Grazie all’autonomia gestionale-finanziaria, il Cnr è in grado di gestire in modo autonomo il proprio bilancio, le risorse assegnate dallo Stato e quelle derivanti da finanziamenti privati o europei. Assumere personale, stabilire regole di contabilità e gestione (ovviamente nel rispetto delle leggi dello Stato).

Questa autonomia, ossigeno essenziale per l’evolversi delle ricerche che si svolgono nel maggiore ente di ricerca del Paese, resta comunque “vigilata” da altri, superiori per rango, Organi dello Stato. Nel caso specifico, dal Ministero dell’Università e della Ricerca (Mur). E questa vigilanza si esercita tanto sugli “indirizzi” (approvazione di atti fondamentali come lo Statuto, il bilancio preventivo e consuntivo, il piano di fabbisogno del personale), quanto sul “controllo di legittimità” (nel caso di abusi e atti contrari alla Legge).

Il fatto che si stia procedendo alla nomina di un commissario ministeriale, misura assolutamente straordinaria, dovrebbe derivare da un caso di grave irregolarità: amministrativa-gestionale; violazione di legge o dello statuto dell’ente; incapacità di funzionamento del Cnr, motivi di ordine pubblico, interesse nazionale, o tutela dell’interesse pubblico (scandali che coinvolgano la governance o minacce alla regolarità dell’attività scientifica nazionale).

Ma nulla di tutto questo sembra poter essere attribuito al Cnr in questa fase. Il resoconto che la presidente uscente Maria Chiara Carrozza, ha riassunto al personale nel saluto di chiusura di mandato, indica chiaramente un Ente sano ed in espansione. Con un bilancio solido come attestato dall’approvazione con parere positivo da parte dei revisori dei conti del rendiconto del 2024 (che non ha potuto vedere il via libera del cda del Cnr solo in quanto lo stesso cda si trova con tre dei cinque membri scaduti e non rinnovati dal Mur). Un bilancio solido con addirittura un avanzo di gestione da investire sulla missione dell’Ente. Infine anche la valenza scientifica del Cnr non può essere messa in discussione in quanto il Piano di Rilancio (un insieme di azioni realizzate nel mandato presidenziale e volte al rinnovamento del Cnr) è stato valutato positivamente dal Supervisory Board (la Commissione internazionale nominata dal Governo a questo scopo).

Perché allora si è evitato finora da parte del Mur di avviare la procedura per la nomina del nuovo presidente e si sta di fatto convergendo verso il commissariamento?
Non siamo di fronte alla incredibile aggressione alla libertà di ricerca e di insegnamento che il presidente Trump sta esercitando contro le università americane, ma è chiaramente in atto un tentativo di prevaricazione del legittimo funzionamento autonomo del Cnr.

Quali che siano le ragioni, una cosa è certa. La scienza e la ricerca del Cnr, quindi i benefici che da queste traggono gli sviluppi socio-economici-tecnologici e scientifici del Paese ne subiranno un danno. Così come un grave rischio potranno subire alcuni processi di assimilazione del personale ricercatore in fase di consolidamento. Sarebbe un danno pesante tanto per i progetti avviati quanto per il personale con le competenze maturate in queste attività.

Il commissariamento del Cnr viola senza ragioni apparentemente legittime una norma costituzionale e, simbolicamente, adotta un metodo di subordinazione della Scienza pericoloso non solo per la comunità scientifica del Cnr ma per i principi di tutela dei saperi e della conoscenza fondamentali per l’intero Paese.

L’autore: Rino Falcone (già Direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR)

 

Salgado e l’umanità della grande foresta. In ricordo di un Maestro

Rendiamo omaggio al grande fotografo Sebastião Salgado, scomparso oggi con queste riflessioni di Antonino Saggio, a margine della sua ultima mostra a Roma e che ci restituiscono l’importanza della sua opera più viva che mai

Nel 1884 Friedrich Engels, coautore con Karl Marx del Manifesto del partito comunista, pubblicò il libro L’origine della famiglia. Una tesi fondamentale del libro illumina la visita alla bellissima mostra di Sebastião Salgado Amazônia al MAXXI di Roma che ho avuto occasione di vedere nel 2021. Non esiste la famiglia, racconta Salgado ma esistono “forme” di aggregazioni familiari. Siamo stati istruiti a pensare alla famiglia biparentale con figli quale struttura immutabile nello spazio e nel tempo, ma vi sono stati i clan, i ceppi, le gens, le famiglie estese. Le fotografie di Salgado cancellano i luoghi comuni. Non ci sono primitivi, selvaggi, indigeni, nativi, ma uomini e donne e molti bambini che vivono in modi diversi dai nostri, in forme di famiglia diverse.

La mostra Amazônia offre molti altri livelli di interesse: innanzitutto un coinvolgente livello immersivo, poi i risultati dell’esplorazione su un territorio di straordinarie diversità, in seguito la bellezza delle stesse fotografie e infine un contributo al pensiero ecologico. Le linee fluide dell’architettura di Zaha Hadid, accompagnano il visitatore in una sorta di ondeggiamento tra una grande foto e l’altra. I pannelli sono appesi nello spazio spesso a formare angoli e nicchie da attraversare e scoprire.

Lo spazio e i corpi si insinuano tra una foto galleggiante e l’altra quasi cullati dalla composizione musicale che accompagna la visita. L’opera, del musicista Jean-Michel Jarre, è magica. A metà ancestrale, a metà contemporanea, evoca rumori di foresta tropicale interrotta da scrosci e cinguettii. L’allestimento prezioso è di Léila Wanick Salgado . Salgado ha compiuto decine e decine di missioni in questo immenso territorio (circa 6,7 milioni di mq, più di 20 volte l’Italia). Da questo sterminato materiale ha selezionato una piccolissima parte e lo presenta in cinque sezioni che ci aiutano a comprenderne l’enorme varietà morfologica. Sono: l’Amazzonia dall’alto, i fiumi volanti, le montagne, la foresta, le isole nella corrente.

Salgado non intende catalogare regione per regione ma attraversarle alla scoperta di forme meravigliose e di eventi unici. E qui si rimane senza fiato. Difficile scegliere la favorita. Le altissime montagne tagliate dal bianco delle cascate e con la testa tra le nuvole? Oppure gli ondeggiamenti lenti dei fiumi, oppure le foreste con le liane che si specchiano sull’acqua ferma in unentusiasmante raddoppiamento dell’immagine. Oppure i fenomeni sorprendenti come le isole nella corrente che come lunghissime penisole si formano e sformano nel tempo. I fiumi volanti sono i miei favoriti. Ci torneremo.

D’altronde Sebastiao Salgado, brasiliano lui stesso, nato nel 1944 e che dopo una professione di economista, ha nel 1973 il coraggio di passare alla fotografia professionale appoggiato, aiutato ispirato dalla moglie Leila è figura nota. Wim Wenders coadiuvato dal figlio di Salgado, Juliano gli ha dedicato “Il Sale della terra” nel 2014, un film capolavoro da cui si capisce anche la grande mole di lavoro di ricerca, di tempo e anche di pericolo che fare foto di questa natura richiede. Un incrocio tra l’esploratore e l’artista, tra l’artigiano e il geologo, lo zoografo e l’antropologo, Salgado è anche ecologista lui stesso. Con la moglie ha intrapreso con successo la riforestazione di una proprietà di famiglia nello stato brasiliano di Minas Gerais. L’editore Taschen ha pubblicato alcuni dei suoi magnifici libri, sempre a cura della Léiia: sul lavoro dell’uomo (Workers), sulle sue esplorazioni in oltre cento paesi (Genesis), sui lavoratori nell’inferno dell’oro (Gold) e altri ancora tra cui questo, Amazônia, completo anche al di là delle foto in mostra.

Con una liberalità rara, tanto Salgado che il MAXXI concedono di riprendere le fotografie ed ognuno può crearsi una collezione delle foto del maestro.Tutto colpisce in questo foto, splendidamente illuminate dall’alto: la profondità, il gioco delle ombre e delle luci radenti dell’alba o del tramonto, la potenza delle mille sfumature del bianco e nero, il senso di attesa che si sente prima del momento dello scatto. Alla mostra il visitatore è accolto da un enorme pannello di tre metri per otto circa. Ha un effetto magnetico e nasconde un segreto. Mentre le altre foto hanno sfumature continue di grigio questa foto è chiaramente pixelata. Si vedono, avvicinandosi, cioè i singoli quadratini che compongono l’immagine. Come La Grand Jatte del pittore divisionista George Seurat, Salgado sembra sapere che “lasciare evidenti” i puntini permette all’osservazione da distante di ricomporre l’immagine nell’occhio guadagnandone in luminosità e definizione.

Le foto di Salgado però non cercano nella ricerca d’avanguardia la loro ragione prima. La loro bellezza è troppa e travolgente e non ha bisogno di vestiti alla moda.

Vivono della loro forza, della loro intelligenza e dello spaventoso lavoro che rappresentano. Lungo il percorso espositivo si aprono tre emicicli rosso mattone. Sono come capanne che ospitano – come dicevamo in apertura – le indagini sulle famiglie che popolano l’Amazzonia. Salgado presenta ben otto gruppi: Xingu, Awà-Guajá, Zo’é, Suruwahá, Yawanawá, Marubo, Asháninka, Korubo, Yanomani, Macuxi con cui ha vissuto, in alcuni casi tra i primissimi. Il libretto Intelligente che accompagna la mostra permette di conoscere con nome e cognome le persone ritratte e capire cosa stiano facendo. Alcune che facciamo anche noi come truccarci, correre, giocare, fare il bagno, o alcune di cui abbiamo perso memoria, purtroppo, come le grandi feste. Le foto condividono un sentimento di familiarità. Le persone si offrono con rara naturalezza all’obiettivo.

Dagli schermi al centro di ogni emiciclo ad un capo famiglia è attribuito il messaggio politico. La distruzione della foresta, il rinsecchirsi dei fiumi, l’abbandono degli animali, una vita che si fa dura e difficile. Alcuni di questi uomini dicono le cose giuste con tale chiarezza. con tale efficacia che lo spessore della loro esperienza umana emerge altissimo. Infine il valore ecologico di questa esposizione. Ecologia non vuol dire come alcune scuole sostengono, quanta superficie della Amazzonia si debba salvare affinché il suo bioma si preservi. Posizione che equivale a dire deforestiamo pure basti che se ne salvi un pezzetto.

Al contrario vuol dire come questo enorme risorsa planetaria possa essere conservata modificandosi ed anche in parte evolvendosi. Sì, evolvendosi. Proprio gli intervistati hanno fatto capire che le loro famiglie si sono riprese dallo spopolamento, sono a poco a poco passate ad una situazione molto migliore della precedente reintegrando le lingue le musiche le poesie le medicine tradizionali, ma anche usando alcuni ausili tecnologici, come per esempio il wi-fi. La grande lezione di questa esposizione è proprio nel presentarecome inscindibile il nesso ambiente-uomo e come in questo nesso risieda il centro di ogni ragione ecologica. Naturalmente la mostra fa sognare. La sezione più incredibile per chi scrive è quella dei Fiumi volanti 2 . Sono immense formazioni di acqua che si alzano dalla foreste e dai fiumi e formano a volte nuvole, a volti archi, a volti appunto fiumi, ma volanti. Dovremmo averle nelle nostre città inquinate queste nuvole: piene di ossigeno lo rilasciano dove serve per farci respirare meglio. Intanto, senza dubbio, questa mostra di Salgado lo fa. Respiriamo, meglio dopo averla visitata.

In foto Salgado con Lula (wikipedia)