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Salgado e l’umanità della grande foresta. In ricordo di un Maestro

Rendiamo omaggio al grande fotografo Sebastião Salgado, scomparso oggi con queste riflessioni di Antonino Saggio, a margine della sua ultima mostra a Roma e che ci restituiscono l’importanza della sua opera più viva che mai

Nel 1884 Friedrich Engels, coautore con Karl Marx del Manifesto del partito comunista, pubblicò il libro L’origine della famiglia. Una tesi fondamentale del libro illumina la visita alla bellissima mostra di Sebastião Salgado Amazônia al MAXXI di Roma che ho avuto occasione di vedere nel 2021. Non esiste la famiglia, racconta Salgado ma esistono “forme” di aggregazioni familiari. Siamo stati istruiti a pensare alla famiglia biparentale con figli quale struttura immutabile nello spazio e nel tempo, ma vi sono stati i clan, i ceppi, le gens, le famiglie estese. Le fotografie di Salgado cancellano i luoghi comuni. Non ci sono primitivi, selvaggi, indigeni, nativi, ma uomini e donne e molti bambini che vivono in modi diversi dai nostri, in forme di famiglia diverse.

La mostra Amazônia offre molti altri livelli di interesse: innanzitutto un coinvolgente livello immersivo, poi i risultati dell’esplorazione su un territorio di straordinarie diversità, in seguito la bellezza delle stesse fotografie e infine un contributo al pensiero ecologico. Le linee fluide dell’architettura di Zaha Hadid, accompagnano il visitatore in una sorta di ondeggiamento tra una grande foto e l’altra. I pannelli sono appesi nello spazio spesso a formare angoli e nicchie da attraversare e scoprire.

Lo spazio e i corpi si insinuano tra una foto galleggiante e l’altra quasi cullati dalla composizione musicale che accompagna la visita. L’opera, del musicista Jean-Michel Jarre, è magica. A metà ancestrale, a metà contemporanea, evoca rumori di foresta tropicale interrotta da scrosci e cinguettii. L’allestimento prezioso è di Léila Wanick Salgado . Salgado ha compiuto decine e decine di missioni in questo immenso territorio (circa 6,7 milioni di mq, più di 20 volte l’Italia). Da questo sterminato materiale ha selezionato una piccolissima parte e lo presenta in cinque sezioni che ci aiutano a comprenderne l’enorme varietà morfologica. Sono: l’Amazzonia dall’alto, i fiumi volanti, le montagne, la foresta, le isole nella corrente.

Salgado non intende catalogare regione per regione ma attraversarle alla scoperta di forme meravigliose e di eventi unici. E qui si rimane senza fiato. Difficile scegliere la favorita. Le altissime montagne tagliate dal bianco delle cascate e con la testa tra le nuvole? Oppure gli ondeggiamenti lenti dei fiumi, oppure le foreste con le liane che si specchiano sull’acqua ferma in unentusiasmante raddoppiamento dell’immagine. Oppure i fenomeni sorprendenti come le isole nella corrente che come lunghissime penisole si formano e sformano nel tempo. I fiumi volanti sono i miei favoriti. Ci torneremo.

D’altronde Sebastiao Salgado, brasiliano lui stesso, nato nel 1944 e che dopo una professione di economista, ha nel 1973 il coraggio di passare alla fotografia professionale appoggiato, aiutato ispirato dalla moglie Leila è figura nota. Wim Wenders coadiuvato dal figlio di Salgado, Juliano gli ha dedicato “Il Sale della terra” nel 2014, un film capolavoro da cui si capisce anche la grande mole di lavoro di ricerca, di tempo e anche di pericolo che fare foto di questa natura richiede. Un incrocio tra l’esploratore e l’artista, tra l’artigiano e il geologo, lo zoografo e l’antropologo, Salgado è anche ecologista lui stesso. Con la moglie ha intrapreso con successo la riforestazione di una proprietà di famiglia nello stato brasiliano di Minas Gerais. L’editore Taschen ha pubblicato alcuni dei suoi magnifici libri, sempre a cura della Léiia: sul lavoro dell’uomo (Workers), sulle sue esplorazioni in oltre cento paesi (Genesis), sui lavoratori nell’inferno dell’oro (Gold) e altri ancora tra cui questo, Amazônia, completo anche al di là delle foto in mostra.

Con una liberalità rara, tanto Salgado che il MAXXI concedono di riprendere le fotografie ed ognuno può crearsi una collezione delle foto del maestro.Tutto colpisce in questo foto, splendidamente illuminate dall’alto: la profondità, il gioco delle ombre e delle luci radenti dell’alba o del tramonto, la potenza delle mille sfumature del bianco e nero, il senso di attesa che si sente prima del momento dello scatto. Alla mostra il visitatore è accolto da un enorme pannello di tre metri per otto circa. Ha un effetto magnetico e nasconde un segreto. Mentre le altre foto hanno sfumature continue di grigio questa foto è chiaramente pixelata. Si vedono, avvicinandosi, cioè i singoli quadratini che compongono l’immagine. Come La Grand Jatte del pittore divisionista George Seurat, Salgado sembra sapere che “lasciare evidenti” i puntini permette all’osservazione da distante di ricomporre l’immagine nell’occhio guadagnandone in luminosità e definizione.

Le foto di Salgado però non cercano nella ricerca d’avanguardia la loro ragione prima. La loro bellezza è troppa e travolgente e non ha bisogno di vestiti alla moda.

Vivono della loro forza, della loro intelligenza e dello spaventoso lavoro che rappresentano. Lungo il percorso espositivo si aprono tre emicicli rosso mattone. Sono come capanne che ospitano – come dicevamo in apertura – le indagini sulle famiglie che popolano l’Amazzonia. Salgado presenta ben otto gruppi: Xingu, Awà-Guajá, Zo’é, Suruwahá, Yawanawá, Marubo, Asháninka, Korubo, Yanomani, Macuxi con cui ha vissuto, in alcuni casi tra i primissimi. Il libretto Intelligente che accompagna la mostra permette di conoscere con nome e cognome le persone ritratte e capire cosa stiano facendo. Alcune che facciamo anche noi come truccarci, correre, giocare, fare il bagno, o alcune di cui abbiamo perso memoria, purtroppo, come le grandi feste. Le foto condividono un sentimento di familiarità. Le persone si offrono con rara naturalezza all’obiettivo.

Dagli schermi al centro di ogni emiciclo ad un capo famiglia è attribuito il messaggio politico. La distruzione della foresta, il rinsecchirsi dei fiumi, l’abbandono degli animali, una vita che si fa dura e difficile. Alcuni di questi uomini dicono le cose giuste con tale chiarezza. con tale efficacia che lo spessore della loro esperienza umana emerge altissimo. Infine il valore ecologico di questa esposizione. Ecologia non vuol dire come alcune scuole sostengono, quanta superficie della Amazzonia si debba salvare affinché il suo bioma si preservi. Posizione che equivale a dire deforestiamo pure basti che se ne salvi un pezzetto.

Al contrario vuol dire come questo enorme risorsa planetaria possa essere conservata modificandosi ed anche in parte evolvendosi. Sì, evolvendosi. Proprio gli intervistati hanno fatto capire che le loro famiglie si sono riprese dallo spopolamento, sono a poco a poco passate ad una situazione molto migliore della precedente reintegrando le lingue le musiche le poesie le medicine tradizionali, ma anche usando alcuni ausili tecnologici, come per esempio il wi-fi. La grande lezione di questa esposizione è proprio nel presentarecome inscindibile il nesso ambiente-uomo e come in questo nesso risieda il centro di ogni ragione ecologica. Naturalmente la mostra fa sognare. La sezione più incredibile per chi scrive è quella dei Fiumi volanti 2 . Sono immense formazioni di acqua che si alzano dalla foreste e dai fiumi e formano a volte nuvole, a volti archi, a volti appunto fiumi, ma volanti. Dovremmo averle nelle nostre città inquinate queste nuvole: piene di ossigeno lo rilasciano dove serve per farci respirare meglio. Intanto, senza dubbio, questa mostra di Salgado lo fa. Respiriamo, meglio dopo averla visitata.

In foto Salgado con Lula (wikipedia)

Il volto feroce del nuovo maccartismo americano

Harvard è diventata il bersaglio ideale del trumpismo di ritorno. Con un ordine esecutivo travestito da provvedimento di sicurezza, l’amministrazione Trump ha revocato il programma per studenti stranieri che da decenni porta giovani da oltre 140 Paesi nelle aule dell’università più prestigiosa degli Stati Uniti. L’ordine colpisce anche chi è già iscritto: quasi 7mila studenti – il 27% del corpo studentesco – sono ora obbligati a trovare una “nuova collocazione” o saranno espulsi. Espulsi da un’idea di mondo prima ancora che da un campus.

Kristi Noem, ministra della Sicurezza interna (sì, quella dei selfie coi migranti in gabbia e col fucile puntato al cane di famiglia), ha spiegato che Harvard non è più “un luogo sicuro”. Non per mancanza di vigilanza. Ma perché, testuali parole, “ospita l’antiamericanismo”. Siamo di fronte a un atto di epurazione culturale che ricorda, parola per parola, il linguaggio delle purghe maccartiste. Solo che stavolta a firmarle è il presidente in carica e non un senatore ossessionato dai comunisti.

Harvard ha annunciato una causa contro la Casa Bianca, ma la portata del danno è già enorme. Economico, certo: 60-87mila dollari l’anno per ogni iscritto straniero, finanziamenti pubblici tagliati, riduzione degli scambi accademici. Ma soprattutto simbolico. Sradicare il pluralismo da Harvard significa colpire al cuore l’idea stessa di sapere aperto, libero, globale. È l’anti-illuminismo fatto decreto.

Trump sa benissimo dove colpire. Le università sono le ultime roccaforti dell’America che ancora si illude di potersi opporre. Harvard ha rifiutato di piegarsi dopo Gaza, ha difeso il diritto alla critica e l’autonomia didattica. Ora paga il prezzo della coerenza. Mentre la Columbia ha chinato il capo, Harvard resiste. Ma a quale costo?

È un segnale inquietante, non solo per gli Stati Uniti. Il messaggio è chiaro: il dissenso non sarà tollerato, l’identità sarà epurata, la conoscenza sarà normalizzata. Come in ogni regime, prima si bruciano le biblioteche, poi le persone.

Buon venerdì

Per approfondire leggi il numero di Left in edicola

foto adobe stock

I veleni eterni, la giustizia troppo tardi

Pasqualino Zenere è morto nel 2014 per un tumore alla pelvi renale dopo anni di lavoro nello stabilimento Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza. Soltanto ora, undici anni dopo, un tribunale riconosce che a ucciderlo sono stati i Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche usate nell’industria e finite nel suo corpo attraverso l’aria, l’acqua, il contatto quotidiano con sostanze tossiche. È la prima volta in Italia che una sentenza stabilisce il nesso tra esposizione a questi composti e cancro.

Nel frattempo, 350.000 persone vivono su un territorio contaminato tra Vicenza, Padova e Verona. Il processo contro i manager della Miteni è ancora in corso, ma il veleno è rimasto anche dopo la chiusura della fabbrica. I Pfas si trovano nell’acqua potabile, nei cibi, nei corpi. Sono stati rilevati nel sangue, nella placenta, nei reni. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha segnalato danni al sistema immunitario, alla fertilità, alla tiroide e ha confermato la cancerogenicità in base a studi epidemiologici e sperimentali.

I Pfas sono presenti ovunque: nelle pentole antiaderenti, nei tessuti tecnici, nei pesticidi, nelle vernici e nei cablaggi. Si accumulano nella catena alimentare e non si degradano. Sono chiamati “inquinanti eterni” perché persistono nel tempo, anche dopo il disastro, anche dopo le morti.

Questa sentenza stabilisce un precedente, ma non chiude nulla. La giustizia è arrivata per un singolo caso. I danni restano collettivi. E silenziosi.

Buon giovedì. 

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Un’Unione sempre più indegna

L’Unione Europea ha deciso che per rimpatriare un migrante non servirà più alcun legame personale con il cosiddetto “Paese terzo sicuro”. Basterà che ci sia passato. Come se il transito fosse una dichiarazione di residenza. Come se l’asilo fosse una concessione da sfoltire, non un diritto da difendere.

La proposta della Commissione, presentata il 20 maggio e ora al vaglio del Parlamento e del Consiglio, smonta uno dei pochi criteri che garantivano un barlume di tutela: finora, per rimandare qualcuno in un Paese terzo, bisognava dimostrare almeno un collegamento individuale. Ora, con il nuovo regolamento, è sufficiente che il migrante abbia attraversato quello Stato, a prescindere da condizioni, durata o relazioni personali. Una pericolosa scappatoia, funzionale solo a scaricare responsabilità.

È l’ennesimo colpo basso al diritto d’asilo, travestito da “efficienza” e “razionalizzazione”. In realtà è solo disumanità legalizzata. Il principio del “Paese terzo sicuro” è già di per sé discutibile, specie considerando che alcuni di questi Paesi sono teatri di guerra, repressione o violenze documentate. Ma con questo cambio di rotta, l’UE rinuncia anche all’ipocrisia di fingere un minimo di tutela.

A Bruxelles si lavora per respingere, non per accogliere. Si legifera per chiudere, non per capire. E il diritto internazionale diventa carta straccia piegata alle convenienze politiche. Altro che “valori europei”: questa è l’Europa della deresponsabilizzazione e dei confini esternalizzati. Un’Europa sempre più piccola. Sempre più indegna.

Buon mercoledì.

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Anna, la cima, l’elica e l’Italia che lavora morendo

Anna Chiti aveva diciassette anni. Era al suo primo giorno di lavoro come hostess-traduttrice su un catamarano a Venezia. Era sola con lo skipper. Senza salvagente. È morta impigliata tra una cima e un’elica, in una manovra che “di solito fa uno con decenni di esperienza”, come ha detto suo padre. Ma per l’Italia del lavoro minorile mascherato e della flessibilità da sconto stagionale, bastava lei.

Chi l’ha assunta? Con quale contratto? Chi doveva sorvegliarla? L’inchiesta della Procura di Venezia dovrà accertarlo, ma intanto è troppo tardi. Troppo tardi per una studentessa brillante dell’Istituto nautico, che parlava russo e ucraino, e sognava di diventare comandante di navi da crociera. Troppo tardi per evitare che una festa privata per turisti diventasse una tragedia italiana.

Il padre l’ha saputo il giorno prima, “da un amico di un cantiere”. Anna voleva mettere da parte qualche soldo per il suo diciottesimo compleanno. Si è trovata a gestire una barca da 10-12 metri in un’operazione pericolosa, come se un’adolescente potesse essere considerata forza lavoro marinaresca a costo zero, perché tanto “parla l’inglese”.

Ci sono le responsabilità penali che verranno accertate. Ma c’è una responsabilità più grande, collettiva: quella di un Paese che tollera che i ragazzi lavorino senza tutela, senza formazione, senza affiancamento, e spesso senza nemmeno un contratto. È lo stesso Paese dove ogni estate si piangono ragazzi schiacciati dai trattori, folgorati sui tetti o caduti dai ponteggi. E dove si fa fatica persino a chiamare per nome questa strage: lavoro.

Questa volta si chiamava Anna.

Buon martedì. 

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La legge che sconfisse il patriarcato

Il 22 aprile 1975, esattamente cinquant’anni fa, il Parlamento approvò il nuovo diritto di famiglia che diventa legge, la n. 151 del 19 maggio. Per comprendere la portata rivoluzionaria della norma occorre guardare alla situazione precedente. Chi si è sposato prima del 22 aprile 1975 – e io sono fra quelli – doveva sottostare alla legge precedente. All’epoca vigevano le disposizioni del Codice civile approvato con Regio decreto 16 marzo 1942, ancora in epoca fascista, seppure agli sgoccioli. E questo forse spiega, almeno in parte, la posizione del Msi che si astenne sul voto finale. Le disposizioni del codice citato recitavano all’art. 144: “Il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”.

L’impronta fascista era molto netta. La famiglia tradizionale si reggeva sulla figura patriarcale del marito che era l’indiscusso capofamiglia, il dominus di tutto. La moglie era in posizione totalmente sottomessa e subalterna, e così i figli soggiogati dalla figura del pater familias. La figura di capofamiglia, erede della figura plurimillenaria del pater familias presente nel diritto romano, era completamente, o quasi, cancellata dalla legge.

La donna “ne assume il cognome”, annullando il proprio, e soprattutto è obbligata – obbligata!!! – ad “accompagnarlo ovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”. Insomma, un oggetto di proprietà del marito. La famiglia-tipo era questa, delineata da una norma di poche righe che imbrigliava la donna appena diventata sposa. Per questo si diceva: da un carcere ad un altro; da quello del padre a quello del marito.

Come fu possibile, nell’Italia di cinquant’anni fa, scardinare questo tipo di famiglia dominata dal patriarcato più marcato e più retrivo? Siamo a metà degli anni Settanta che nell’immaginario collettivo sono considerati come gli anni di piombo, quelli dei morti ammazzati da terrorismi di diversa matrice e dalle varie mafie, da stragi fasciste e da colpi di Stato non andati a buon fine. Il decennio inizia con il tentato e fallito golpe del principe nero Junio Valerio Borghese, comandante della famigerata X Mas che ha massacrato i partigiani e si è macchiata di crimini di guerra durante il periodo della Repubblica sociale italiana. Poco prima, il 12 dicembre 1969, c’era stata la strage neofascista di piazza Fontana a Milano. Ci fu un altro golpe mancato ad opera di un altro principe, Edgardo Sogno Rata del Vallino di Ponzone. Infine due stragi neofasciste devastanti nel 1974, piazza della Loggia a Brescia e il treno Italicus vicino Bologna con decine e decine di morti e di feriti.

Gli anni Settanta, però, sono stati anche altro, tanto altro ed hanno cambiato in profondità l’Italia trasformandola in una Repubblica democratica al passo con i tempi. In quel periodo furono approvate leggi che hanno resistito al tempo. Al fondo di quel movimento di rinnovamento c’era stato il sommovimento del 1968-1969, il biennio della contestazione studentesca e delle lotte operaie. Una contestazione che si propagò in Europa e negli Stati Uniti che metteva in discussione scuola, famiglia, rapporti sessuali, Chiesa cattolica, gerarchia, autoritarismo, qualità del salario e lavoro in fabbrica. Uno degli slogan più in voga all’epoca era: studenti, operai uniti nella lotta. Un punto fondamentale, sconvolgente per bacchettoni e benpensanti, era la liberazione sessuale. Nelle scuole e nelle fabbriche ci fu una possente spinta al cambiamento e alla rottura dei modelli tradizionali di insegnamento e di lavoro.

È grazie a queste spinte che nel 1970, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, furono approvate prima la legge sullo Statuto dei lavoratori e poi quella sul divorzio che scardinava la famiglia così com’era stata concepita e strutturata da lungo tempo permettendo, a chi ne aveva necessità, di rescindere il contratto matrimoniale. Fu una liberazione per chi poteva spezzare le catene di un matrimonio oramai finito, ma fu anche un dramma per il mondo cattolico dentro cui erano forti le spinte a non toccare l’indissolubilità del matrimonio. Arrivarono altre leggi importanti, quella del 1971 che istituì gli asili nido con il concorso dello Stato, quella del 1972 sull’obiezione di coscienza, quella del 1974 sull’istituzione del Servizio sanitario nazionale e quella, sempre del 1975, del voto ai 18 anni. Nel 1974 si svolse il referendum per abrogare la legge sul divorzio, referendum voluto dai settori retrivi della Chiesa cattolica, dalla Dc guidata da Amintore Fanfani e dal Msi che subirono una clamorosa sconfitta nelle urne.

La legge contenente le norme del nuovo diritto di famiglia aveva alle spalle il possente movimento d’idee e di mobilitazioni che aveva spinto ad infrangere un muro che sembrava invalicabile. La norma è figlia di un percorso politico durato molti anni. Non c’è dubbio che l’introduzione del divorzio, che fu confermato in modo plebiscitario dal referendum del 1974, costituì una spinta potente. Fu anche molto importante, anzi determinante, la convergenza che si realizzò tra donne provenienti da diverse estrazioni politico-culturale – le cattoliche da una parte, le socialiste, laiche e comuniste dall’altra – le quali, seppero superare le divisioni provocate dal referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio e votare insieme la legge con la sola eccezione del Msi.

Le protagoniste principali di questo processo pluriennale furono sicuramente le donne che avevano un’estrazione sociale diversa, e, soprattutto, donne organizzate in circoli, associazioni e movimenti. Senza il loro protagonismo, la loro determinazione, la loro fierezza, la loro determinazione, la loro partecipazione corale e gioiosa, quelle battaglie non sarebbero state vinte. Si può dire con assoluta certezza che la promulgazione della legge 151/75 fu una vittoria soprattutto delle donne organizzate ma anche di quelle che non appartenevano a nessuna associazione o partito, che finalmente vedevano realizzata e riconosciuta la loro dignità sociale e la parità di diritti con gli uomini all’interno del matrimonio. Molte di quelle donne che resero possibile la vittoria al referendum e l’approvazione della nuova legge erano cattoliche che si erano ribellate alle indicazioni retrive della Chiesa e della Dc. Per questo motivo furono autentiche conquiste di civiltà.

Prima il padre controllava la vita della moglie che gli era, per legge, e per cultura molto antica, assoggettata, e nella funzione di padre esercitava in via esclusiva la potestà sui figli. La riforma capovolse l’impostazione precedente e introdusse la parità tra marito e moglie sia nei rapporti personali che nelle relazioni con i figli. La concezione della famiglia subì un mutamento radicale trasformandosi da una istituzione gerarchicamente organizzata in una società tra uguali basandosi sui principi di uguaglianza tra uomo e donna. Un mutamento dirompente travolse l’antica contrapposizione tra filiazione legittima, cioè i figli nati in costanza di matrimonio e filiazione illegittima, figli nati da genitori che non erano uniti dal vincolo del matrimonio. In conseguenza di ciò fu tolto dal codice ogni riferimento al “figlio illegittimo”. Prima della nuova norma un genitore sposato non poteva riconoscere i figli nati da un rapporto adulterino; con la nuova legge il riconoscimento era possibile. Non solo, ma prima dell’introduzione della riforma, i nati fuori del matrimonio che non potevano essere riconosciuti non avevano neanche il diritto di sapere di chi fossero figli. La riforma inoltre cancellava molte delle discriminazioni, quanto a diritti successori, dei figli naturali, pur senza equipararli completamente ai figli legittimi. Avevano così termine le odiose e crudeli discriminazioni tra bambini che tanta infelicità avevano creato. Si pensi soltanto a come venivano definiti in modo spregiativo: bastardi, figli di NN (padre non noto); e alle conseguenti discriminazioni subite.

Chi era il titolare a guidare l’orientamento e le scelte della famiglia? Mentre prima toccava al marito definire orientamento e scelte, adesso è compito di entrambi i coniugi che sono investiti dagli stessi diritti e dagli stessi doveri; e ciò vale anche per i figli. La patria potestà un tempo prerogativa del padre adesso è condivisa ed esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. La moglie manteneva il cognome e poteva aggiungerlo a quello del marito.

Fino ad allora era stata in vigore la separazione dei beni tra marito e moglie, mentre la nuova legge introduceva la comunione dei beni, e aboliva la dote che, seppure oramai retaggio del passato, per secoli aveva condizionato la vita delle ragazze, discriminandole, e delle loro famiglie.

Insomma, la legge rispondeva ai reali mutamenti intervenuti nella società che era cambiata e dentro la quale era cresciuto il senso di parità tra uomo e donna e della pari dignità e responsabilità nei confronti della famiglia e dei figli. Non era una legge perfetta, e infatti in seguito furono fatti degli aggiustamenti, ma fu una legge sicuramente innovativa che schiudeva il futuro.

L’autore: Enzo Ciconte è saggista e docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre. è stato consulente per la Commissione parlamentare antimafia, e , da deputato del Pci ha fatto parte della Commissione Giustizia.

Il Giardino di Delizie, l’Ensemble femminile che fa rivivere la musica antica

Il Giardino di Delizie è un dinamico e creativo ensemble femminile di musica antica, fondato dalla violinista e direttrice artistica Ewa Anna Augustynowicz.  Composto principalmente da musiciste sia di origine italiana che di nazionalità̀ polacca, l’ensemble ha incentrato fin dal suo esordio la propria ricerca musicale sulla produzione seicentesca proveniente da questi due grandi paesi.  Fin dal principio, le componenti del gruppo hanno voluto portare all’interno della formazione le proprie specifiche radici culturali e i peculiari linguaggi musicali ereditati dai paesi di origine, facendo di questo scambio e di questa dialettica il proprio punto di forza Il recente tour europeo ha toccato Spagna, Olanda, Polonia, Finlandia, Germania e Portogallo, il gruppo  sarà di nuovo in Italia il 24 e 25 maggio prossimi, abbiamo quindi colto  l’occasione per incontrare la direttrice artistica  Ewa Anna Augustynowicz.

Perché e come mai un ensemble tutto al femminile?

Sin dall’inizio noi proponiamo dei concerti di alta qualità musicale che fanno seguito ad una attenta ricerca filologica. Inizialmente mi sono trovata davanti a molte difficoltà, specialmente per il fatto, in primis  di essere straniera e in seconda battuta  di proporre un Ensemble tutto al femminile. Questo evidentemente scatenava e ancora scatena una sorta di muro di gomma nei nostri confronti. Ultimamente per fortuna ho cominciato ad avere il sostegno dell’istituto di cultura polacco, che colgo l’occasione per ringraziare, e di alcuni istituti di cultura italiani all’estero e questo ci ha portato ai risultati di cui parlavi. Purtroppo, è cosa nota che in generale le istituzioni politiche non sono molto interessate a promuovere l’arte e la musica, specialmente la musica antica che, almeno qui in Italia, generalmente non attira grandi masse di pubblico ovvero di elettori. All’estero invece i concerti di musica antica vedono quasi sempre il tutto esaurito.

Come ti spieghi questa situazione?

In molti paesi come la Polonia e la Germania, per esempio, l’insegnamento della musica comincia sin dalle scuole elementari: quando io ero piccola, in Polonia, la scuola non solo prevedeva lezioni di musica, ma ci forniva anche gli strumenti musicali per esercitarci e poi esibirci. Questo evidentemente crea un’attenzione diffusa verso la musica: i bambini poi, crescendo, continueranno a cercarla.

Ma da dove nasce la tua “passione” per un gruppo tutto al femminile? E, come direttrice artistica, da dove prendi l’energia per affrontare le mille difficoltà, i rapporti interpersonali, il rapporto col pubblico?

La mia “passione” come l’hai chiamata, forse nasce dal fatto che sono cresciuta con tre fratelli maschi e un padre tutti con dei forti caratteri e quindi, forse, ho sempre sentito il bisogno di trovare delle “sorelle” … Forza e calma probabilmente da mia madre che pur nei tanti momenti di difficoltà si è sempre rimboccata le maniche arrivando a fare fino a tre lavori contemporaneamente per permettere a tutti noi di finire l’università, laurearci e cercare la nostra strada nella vita. Poi, affinando i miei studi presso vari conservatori e le mie ricerche sui compositori meno conosciuti, mi è sempre più interessato provare a proporre una visione ed una interpretazione musicale al femminile, in quanto ritengo che questa sia diversa, nota bene non necessariamente migliore ma certamente diversa da quella maschile. Quando ho cominciato a suonare quasi tutti i gruppi o erano composti principalmente da uomini o quantomeno erano diretti da uomini. Io ho voluto provare a creare qualcosa di diverso.

I vostri concerti propongono un cast fino a tredici donne fra musiciste e cantanti, ci sono italiane, polacche ma anche giapponesi?

Eh sì, ultimamente formiamo un bel gruppo eterogeneo in cui però siamo tutte accomunate dalla passione per la musica antica. Devo dire che c’è una bella atmosfera tra di noi: spesso dopo i concerti andiamo tutte insieme: serissime sul lavoro ma allegre e leggere per tutto il resto. Questa forse è un’altra caratteristica che ci distingue dai gruppi maschili: per noi i rapporti umani, i rapporti tra di noi contano tantissimo, anche per poter raggiungere quella intesa assolutamente indispensabile per poter suonare bene insieme.

 Inizialmente hai avuto delle difficoltà a farti accettare nel ruolo di direttrice artistica?

In una prima fase avevo cercato di mettere su un team in cui, o almeno così speravo, ognuna di noi a parte suonare desse una mano per la ricerca di sponsor, per l’organizzazione delle tournée ecc e invece questo non succedeva. Alla fine mi sono rassegnata a dover fare tutto io, ma a quel punto mi sono anche data il titolo di direttrice artistica: apriti cielo! Tante colleghe, con cui poi ho dovuto rompere i rapporti, mi si sono girate contro! Io dovevo fare tutto,  ma poi dovevamo apparire come un team senza un leader particolare! Per carità, non è che ci tenessi ad un titolo così per vanagloria, ma visto che facevo tutto io, dall’ideazione dei progetti, al reperimento degli spartiti, dall’organizzazione delle prove fino a tutta la gestione dei trasporti ecc. volevo almeno che questo fosse riconosciuto. Ultimamente devo dire che non solo ho trovato il valido appoggio della mia collega Anna Skorupska che si occupa egregiamente delle nostre relazioni pubbliche, nonché dell’organizzazione e ideazione di nuovi progetti come, per esempio, “Maria & Maddalena”, ma anche che il mio ruolo è stato finalmente accettato!

E’ noto che ti preoccupi sempre di ottenere un giusto compenso per tutte le componenti del gruppo a rischio di dover rinunciare al tuo appannaggio; in un mondo in cui sembrano contare solo il denaro e l’apparire suona un po’ “anticonformista”?

Credo ci sia una sola risposta: la passione! La stessa che mi spingeva da ragazza a frequentare contemporaneamente due licei, quello istituzionale e in più quello musicale. Quella che mi porta ad anteporre la possibilità di ottenere dei bei risultati per tutte, anche dovendo far quadrare i conti rinunciando, quando il budget a disposizione è particolarmente basso, al mio cachet. Certo, se un giorno le istituzioni politiche cambiassero atteggiamento non nego che mi piacerebbe ottenere anche qualche soddisfazione economica, ma per il momento così è la vita.

Il doppio appuntamento live: Il 24 maggio a Roma Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, ore 17,00. Il 25 maggio a Montefiascone (Vt), Rocca dei Papi, ore 18

 

L’autore: Roberto Biasco è critico musicale e collaboratore di Left

Il Green Deal evapora. Prima l’acqua, poi la verità

A Bruxelles il Partito popolare europeo, lo stesso di Ursula von der Leyen, ha preteso che ogni riferimento al Green Deal fosse rimosso dal rapporto parlamentare sulla resilienza idrica. Una richiesta esplicita, condizione per concedere il proprio sostegno.

La cancellazione è un segnale politico. Il Green Deal è stato espunto perché considerato tossico. Perché evocarlo significa riconoscere che l’acqua in Europa scarseggia, che l’agricoltura intensiva la prosciuga, che l’industria continua a inquinarla. Meglio riscrivere tutto: il testo originale chiedeva di attuare pienamente il Green Deal per affrontare la crisi climatica, fermare la perdita di biodiversità e contenere il consumo di risorse. La versione finale si limita a vaghe rassicurazioni su competitività agricola e sovranità alimentare.

Michal Wiezik e Christina Guarda, presenti ai negoziati, hanno raccontato che l’operazione è stata sostenuta anche dai gruppi di estrema destra. L’Epp, partito di maggioranza relativa, ha così sposato la linea del negazionismo pragmatista: se una parola disturba, si elimina.

Nel 2019 von der Leyen aveva lanciato il Green Deal come il cuore della sua legislatura. Oggi il suo stesso partito lo rimuove con cura dai documenti ufficiali. L’agenda ambientale viene sacrificata sull’altare della convenienza elettorale, nell’illusione che le priorità del presente siano un ostacolo rimandabile.

Nel frattempo, i rapporti scientifici segnalano che le riserve idriche europee sono sotto pressione crescente. L’evaporazione delle parole precede l’evaporazione dell’acqua.

Buon lunedì. 

Foto AS

Hasta siempre, carissimo Pepe

Abbiamo dato il nostro “HASTA SIEMPRE” a José “Pepe” Mujica, ex presidente dell’Uruguay, conosciuto per la sua idea di sobrietà nella politica.
Abbiamo ascoltato in questi anni molti discorsi di quest’uomo, che, senza cercarlo e anche senza volerlo, è passato dall’anonimato al diventare una delle persone più ricercate dai giornalisti per interviste, dal cinema per documentari e film che raccontassero la sua storia.
Oggi, noi, il popolo uruguaiano, abbiamo salutato uno dei nostri personaggi politici più influenti della nostra storia.
Come da tradizione in Uruguay, il funerale di personalità molto influenti nella nostra cultura, come Eduardo Galeano, si è tenuto presso il Palacio Legislativo, ovvero il Parlamento, nel “Salón de los Pasos Perdidos”, un luogo di una bellezza profonda e imponente.

Ho partecipato non come giornalista, ma come parte della grande famiglia di amici che Pepe aveva, e proprio per questo solo oggi riesco a scrivere queste righe. Solo oggi mi sono sbloccata, dal dolore, da quel sentimento che ci causa la consapevolezza del fatto che non ci sarà più, che certi rituali non li potremo più condividere.

Sapevamo tutti da alcuni mesi che questo momento sarebbe arrivato presto, da quando a Pepe fu diagnosticata una metastasi e lui decise e annunciò di non sottoporsi più a cure. Ma anche se eravamo tutti preparati in qualche modo, alcuni anche con incarichi precisi da svolgere in questo giorno, la verità è che, quando un amico o parente a cui vogliamo bene viene a mancare, non si è mai davvero preparati.

Gabriela Pereyra mostra a Mujica la copertina di Left con la sua intervista

Ho assistito a molti funerali di ex presidenti e di personaggi della cultura amati dal popolo uruguaiano, ma ciò che è accaduto con Pepe non l’avevo mai visto. Per due giorni consecutivi chilometri di coda per entrare e passare davanti al suo feretro, portargli un fiore da lasciare ai piedi del feretro. Persone da luoghi lontanissimi, come il sud del Cile, o persino dalla Spagna e dall’Italia, sono venute per un silenzioso saluto.
Pepe non c’è più. Questa è la prima realtà con cui dobbiamo fare i conti. Ci sarà, politicamente, un prima e un dopo, e non solo in Uruguay, ma in tutta la regione, perché Pepe era un punto di riferimento imprescindibile.
Ho assistito al saluto di Lula, presidente del Brasile, e prima ancora di Boric, presidente del Cile. Ma mi ha molto commosso Lula. Si sa che erano legati da una forte amicizia, ma l’atteggiamento di Lula e di sua moglie con Lucía Topolansky, moglie di Pepe, e il dolore che Lula non poteva e forse non voleva nascondere sul suo volto, mi hanno profondamente toccata.
Da quando ho appreso la notizia del decesso di Pepe mi è passata davanti una vita, come in un film. Le nostre chiacchierate, le interviste che non erano mai interviste come di solito si fanno, ma ore di conversazione. E ho pensato che, grazie alle registrazioni fatte per possibili articoli, avrò per sempre questo ricordo. Il ricordo delle nostre voci, delle nostre risate, del rumore che arrivava dalla cucina mentre Lucía cucinava, il tango che ascoltava come sottofondo delle nostre conversazioni.
Quando ero in Italia e lo incontravo durante i suoi viaggi, o quando venivo al “paisito” a trovare la famiglia, Pepe mi chiedeva sempre: “Cosa aspetti a tornare in Uruguay?”. Alla fine, sono tornata nella mia terra e ho potuto godere della sua compagnia. Ci siamo arrabbiati tante volte, io con lui e lui con me, ma facevamo sempre pace subito.
E oggi ho visto un popolo che lo piangeva, non solo i suoi compagni politici, ma anche persone che pur non condividendo il suo modo di fare politica, sono stati toccati da quest’uomo che ha vissuto tutta la sua vita per il bene di chi ha meno.
Pepe Mujica è stato un uomo unico. Ha commesso errori come politico, ma il bilancio della sua storia politica è positivo, come dimostrano i volti bagnati di lacrime delle persone che hanno atteso per salutarlo.

L’Uruguay ha perso colui che ci ha fatto conoscere nel mondo per tante qualità oltre ai bravi calciatori. Nemmeno dopo aver interrotto le cure è stato mai fermo. Ha partecipato della campagna politica per le elezioni presidenziali e grazie anche a lui la sinistra è tornata a guidare l’Uruguay, ha incontrato amici, ha partecipato a riunioni e incontri e soprattutto se ne andava le mattine in giro col trattore a seminare sogni per chi rimane e a coltivare i propri seminati negli anni.

Ho letto stamattina un titolo che diceva che Mujica ha cambiato gli algoritmi, ed è proprio così. Non ha mai cercato i “mi piace” sui social, ma sono stati i social a cercare lui.

Ho avuto il privilegio di conoscere Pepe Mujica, e non potrò mai ringraziare abbastanza. Ne sono orgogliosa, perché, con i suoi pregi e i suoi difetti, è stato un uomo molto coerente. Un uomo giusto.
Le prossime generazioni impareranno che è esistito un politico che ha sempre pensato alla gente, al popolo, e che ha dato la sua vita per questo, pagando con oltre 13 anni di carcere in condizioni disumane.

Io ho perso un riferimento di vita, quasi un nonno, e il dolore è profondo, il vuoto sarà grande e nulla potrà riempirlo.
Mancherai, caro Vecchio, ma sei nei nostri cuori e sarai sempre tra noi.

Salù, carissimo Pepe!

 

L’autrice: Gabriela Pereyra è avvocata, attivista per i diritti umani e collaboratrice di Left

Femminicidi: il governo scarica le donne su chiese e farmacie

Stamattina si legge su quasi tutti i giornali che il ministro della Giustizia – l’ex magistrato Carlo Nordio – consiglia alle donne vittime di violenza di affidarsi al farmacista e al prete per salvarsi dal loro aguzzino. Secondo Nordio, «il funzionamento del braccialetto elettronico è molto spesso incompatibile con i mezzi di trasporto delle persone: nel momento dell’allarme nei confronti di una persona, molto spesso la vittima si trova a una distanza non compatibile con l’intervento delle forze dell’ordine. Dobbiamo coniugare questi due elementi dando un’allerta alla vittima, affinché sia in grado – nel momento in cui coglie questo momento di pericolo – di trovare delle forme di autodifesa, magari rifugiandosi in una chiesa o in una farmacia, in un luogo più o meno protetto».

Come ha scritto ieri Carlotta Vagnoli – che ha il maledetto vizio di pretendere la difesa di tutte, oltre all’autodifesa – in soldoni il ministro Nordio ricorda alle donne che, se provano ad ammazzarle, devono avere il buon gusto di non farsi ammazzare. Altrimenti salgono i numeri dei femminicidi – ieri l’ennesimo – e i maschioni di governo hanno il disturbo di dover rispondere ai question time in Senato.

La raccomandazione di Nordio è comunque la sindone del pensiero politico del governo: in questo mondo di dominanti e dominati ognuno è la propria patria. Agli oppressi conviene avere qualche buon amico per uscire dai guai, diffidando delle leggi. In questo caso non serve nemmeno un ministro. Bastano un prete e un farmacista.

Buon venerdì.