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Brancaccio: Keynes non basta, ci vorrebbe una rivoluzione

video https://www.youtube.com/watch?v=dlRLQyPoo5s

Ritorno dei contagi, rischi di nuovi lockdown generalizzati e una seconda crisi economica che incombe. Ne discutiamo con l’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio, un innovatore del pensiero economico critico di cui esce il 12 novembre il suo ultimo libro edito da Meltemi: Non sarà un pranzo di gala, un viaggio tra le pieghe del difficile futuro che ci attende e delle idee forti che serviranno per affrontarlo.

Professor Brancaccio, il suo nuovo libro parte da un tributo a Marx: quando ideò la legge di tendenza verso la centralizzazione del capitale aveva visto giusto.

I nuovi metodi di ricerca di cui oggi disponiamo e la potenza dei moderni calcolatori ci consentono di confermare la legge marxiana: il controllo del capitale tende a centralizzarsi in sempre meno mani. Meno del due percento dei proprietari controlla l’ottanta percento del capitale azionario mondiale. E al sopraggiungere di ogni crisi questo piccolo manipolo di grandi capitalisti tende a restringersi ulteriormente.

Secondo un rapporto della banca svizzera Ubs il patrimonio delle persone più ricche al mondo è aumentato di oltre un quarto durante la pandemia. D’altro canto, secondo Branko Milanovic, prima dell’emergenza sanitaria la globalizzazione, pur inasprendo le disparità nei paesi occidentali, le stava riducendo a livello globale. Come leggere i due elementi?

Come la grande recessione internazionale del 2008 ha accentuato i divari tra le classi sociali, allo stesso modo e in misura ancor più accentuata farà pure la crisi del coronavirus. Tra le nazioni una convergenza esiste ed è causata soprattutto dall’enorme progresso della Cina e dei suoi satelliti. Ma in termini aggregati si tratta il più delle volte di una convergenza al ribasso: per esempio, le quote di reddito che vanno ai salari tendono a diventare più simili tra le diverse nazioni, ma il loro avvicinamento avviene intorno a una media più bassa. E così via.

Nel suo libro viene ripresa una tesi dell’ex capo economista del Fondo monetario internazionale Olivier Blanchard, che in alcuni dibattiti con lei ha sostenuto che per evitare una futura “catastrofe” ci vorrebbe una “rivoluzione” della politica economica di stampo keynesiano. Parole forti.

Sì, piuttosto inconsuete per un esponente di vertice delle grandi istituzioni economiche mondiali. Il fatto che siano state pronunciate mi sembra un segno di questo tempo minaccioso. Oltretutto si tratta di tesi avanzate subito prima dell’avvento del virus. Oggi sono ancor più attuali.

Nel suo libro però lei afferma che oggi «Keynes non basta, come non basta invocare un reddito». Di fronte ad crisi così devastante, dice, dovremmo concepire una nuova logica di pianificazione collettiva. A partire proprio dalla lotta al virus. Cosa intende dire?

Ogni azienda – e ogni nazione – sta difendendo gelosamente i diritti di proprietà intellettuale e i brevetti che ruotano intorno al virus. Ma gli scienziati impegnati nella ricerca denunciano da mesi che questa logica di…

L’intervista prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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SOMMARIO

Trump che paga Trump

President Donald Trump speaks during a campaign rally at Phoenix Goodyear Airport, Wednesday, Oct. 28, 2020, in Goodyear, Ariz. (AP Photo/Evan Vucci)

Come si fa a diventare ricchi? Sicuramente funziona sbafare, sbafare a più non posso. Come si fa a diventare potenti? Rivendendosi ricchi ovvero vincenti e poi continuando a ingollarsi.

Il Washington Post ha scovato una notizia mica male che dipinge perfettamente Trump per quello che è: il presidente statunitense Donald Trump ha ottenuto diversi milioni di dollari dal governo e dalla sua campagna elettorale per l’utilizzo di strutture di sua proprietà per alcuni eventi, fra cui anche alcune cene di stato.

Nel corso della sua presidenza il capo di stato Usa ha visitato i suoi club e i suoi hotel circa 280 volte, anche in occasione di visite ufficiali e di appuntamenti in cui svolgeva il proprio ruolo di presidente. Secondo il quotidiano Usa nell’aprile 2018, tanto per fare un esempio lampante, incontrò il primo ministro giapponese Shinzo Abe nel suo esclusivo club privato di Mar-a-Lago si fece pagare dal governo 13.700 dollari per le stanze di albergo per entrambi gli staff, 16.500 dollari per il catering e 6mila dollari per i fiori che decoravano gli ambienti. Un anno prima, sempre lì, col presidente cinese Xi Jinping Trump cacciò il barista per poter parlare in maniera confidenziale e i due si bevvero super alcolici per migliaia di dollari. Pagati da chi? Dal governo Usa, ovviamente.

Qualche mese fa il figlio di Trump, Eric, in un’intervista a Yahoo Finance disse: «Se mio padre alloggia in una delle nostre proprietà, lo fa gratis, eccetto i costi necessari per la pulizia». E invece no, proprio no. Scrive il Washington Post: «Nei casi che abbiamo esaminato in cui le stanze sono state pagate, la Trump Organization sembra aver fatto pagare al governo la cifra massima consentita dalle leggi federali, e in alcuni casi anche di più».

Anche i soldi del suo comitato elettorale sono finiti (per un totale di 800mila dollari) in catering e cene nei propri hotel.

È Trump che paga Trump. Il politico che paga se stesso sotto altre vesti. Un metodo antico che ormai sembra non destare nemmeno più scalpore. Anzi, per qualcuno è un furbo, addirittura. Ed è così che è iniziata la discesa. Sperando che siano gli sgoccioli di una presidenza che non ci meritiamo, proprio no.

Buon venerdì.

Quell’inaccettabile accanimento contro la cultura e gli artisti

Una pioggia di bonus è stata prevista dal decreto Ristori per aiutare i lavoratori di settori bloccati dal Dpcm che sarà in vigore fino al 24 novembre. Un’indennità da mille euro è prevista per i lavoratori stagionali del turismo, per gli stagionali degli altri settori, i lavoratori dello spettacolo, gli intermittenti, i venditori porta a porta e i prestatori d’opera. Lo ha annunciato martedì scorso il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, mentre andavamo in stampa. Ma bastano questi provvedimenti strutturati per categorie? In molti, in troppi – lavoratori atipici, precari, intermittenti ecc. – rischiano ancora una volta di rimanere esclusi da misure che non hanno un carattere universalistico. La pandemia sociale è scoppiata come purtroppo si prevedeva. E ci troviamo ad affrontare la seconda ondata di Covid-19 impreparati. Nei mesi estivi non è stata fatta prevenzione, non c’è stata programmazione. È mancata una regia complessiva, mentre le destre negazioniste spingevano per riaprire tutto e alcune Regioni si gettavano in fughe in avanti. Non è andato tutto bene, per dirla con Giulio Cavalli. La situazione socio sanitaria è difficilissima. E non basta il coprifuoco dopo le 18. È come svuotare l’oceano con un cucchiaino. E poi perché pesare su categorie già economicamente fragili prima della pandemia e pressoché ridotte sul lastrico dallo scorso lockdown? Se c’è la necessità di evitare assembramenti, perché si è pensato di chiudere cinema e teatri che già adesso ospitano, in sicurezza, rari spettatori?

Il pensiero che qualche esponente politico ha esplicitato è che l’arte sia inessenziale, che sia un lusso, un extra, e non una parte della vita irrinunciabile. Proprio in un momento in cui c’è bisogno di maggiore studio, cultura e ricerca per affrontare questo momento di crisi e per elaborare quel che ci sta accadendo il governo Conte II decide di fermare la cultura. Mentre si tengono aperte le chiese per celebrare messe, si chiudono i circoli culturali che stimolano le persone a pensare e non a credere ciecamente. «Con la cultura non si mangia» diceva un ministro dell’era berlusconiana, per dire che in fondo l’attività culturale è accessoria, superflua. Ci siamo battuti con tutte le nostre forze contro quel riduzionismo economicista che misura tutto in termini di profitto. Ma ora ne sentiamo una eco anche nelle frasi del ministro della Cultura Franceschini che ha definito stucchevoli le polemiche sulla chiusura di cinema e teatri. Il sottinteso, certo, è: “Non vi rendete conto della gravità del momento”. Ma allora, se è così grave, – come pensiamo – perché non chiudere di nuovo tutto? Che senso ha chiudere ipocritamente le attività culturali sul far della sera, facendo finta di non vedere gli assembramenti diurni sui mezzi pubblici, fingendo di non sapere che il contagio dilaga nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, dove non si fanno ispezioni per verificare che siano applicati i protocolli.

In questa storia di copertina il presidente di Medicina democratica (Md) Marco Caldiroli e il magistrato Raffaele Guariniello tracciano un quadro drammatico sullo stato dell’arte da questo punto di vista. I dati Inail segnalano che al 30 settembre i contagi sul lavoro erano 54.128, ovvero 17% del totale dei casi. Da tutto questo deduciamo che l’economia, anche per questo governo, viene prima della salute. E in nome della produzione bisogna evitare il lockdown, come chiede Confindustria. Questo è ciò che appare evidente, quanto difficile da accettare. Mentre è quasi del tutto assente il ruolo dello Stato che proprio in questa fase dovrebbe “farsi imprenditore” e fare massicci investimenti, con una visione lungimirante, di lungo periodo, per far ripartire il Paese. Per questo non bastano i bonus, non bastano i mille euro a testa per i lavoratori dello spettacolo.

La Germania per esempio ha risposto alla crisi determinata dalla pandemia accantonando un miliardo di euro (circa la metà del suo budget annuale per la cultura) in un fondo per il sostegno di teatri, musei e altre organizzazioni. E soprattutto ha fatto una pianificazione che affascia diversi anni a venire. Per poter uscire dall’impasse bisogna aver chiaro che la scuola e la cultura sono settori strategici su cui investire in modo prioritario. Ci vuole un salto di paradigma, bisogna comprendere che l’essere umano non è fatto solo di sacrosanti bisogni primari, ma anche di esigenze di sapere, di conoscere, di esprimersi attraverso l’arte e di viverla come esperienza emotiva. Tanto più in questo momento in cui il distanziamento fisico rischia di diventare anche sociale, in cui dobbiamo affrontare una realtà di emergenza sanitaria e di precarietà, che ci cimenta fortemente anche a livello psichico ed emotivo. L’arte è necessaria come il pane e come lo è la salute psicofisica. L’arte ci contraddistingue come specie. Fin dalla preistoria quando, senza nessuna ragione utilitaristica, le donne e gli uomini dipingevano le pareti delle caverne. Ed è tanto più un’esigenza insopprimibile oggi. Avendo chiaro tutto questo bisognava trovare soluzioni perché cinema, teatri, sale da musica potessero soddisfare questa vitale esigenza in sicurezza. Ora bisogna pensare a come far sì che questa chiusura, ancorché temporanea, non produca povertà culturale e ulteriori disuguaglianze. Bisogna trovare subito alternative perché questi settori possano continuare a vivere e, superata l’emergenza, possano crescere.

L’editoriale è tratto da Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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Primum vivere

People wear face masks in Bellinzona, Switzerland, Tuesday, Oct. 27, 2020. Ticino government decrees that masks must be worn outdoors from Tuesday onwards, if the minimum distance of 1.5 meters to other people cannot be maintained. (Alessandro Crinari/Keystone via AP)

Convivenza sotto il medesimo tetto, attività di gruppo, ambienti affollati, ma pure asintomatici non individuati, “superdiffusori” e contesti che amplificano il contagio. Sono i componenti del motore che muove la pandemia di Covid-19 elencati da alcuni ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora in un contributo pubblicato sulla rivista Science. La maggior parte dei contagi, indicano gli scienziati, avviene tra le mura di casa. Stando ai primi studi sul contact tracing, e ad una grande ricerca su 59mila contatti di casi positivi in Corea del Sud, i contatti domestici di un infetto sono esposti ad un rischio di essere contagiati oltre sei volte più grande rispetto a quello che corrono gli al2tri contatti stretti. Ma il pericolo è elevato anche nelle carceri, nei dormitori, negli ospedali e nelle case di cura, dove i rapporti ravvicinati sono frequenti, e generalmente tra persone di età più avanzata. In casa e in questi altri luoghi, però, il virus irrompe dall’esterno. A livello di comunità, dicono ancora i ricercatori, la trasmissione dell’infezione è fortemente influenzata dal ruolo degli asintomatici, che sono portatori di una carica virale simile a quella dei sintomatici, ma in genere continuano a circolare. Proprio loro sono i candidati perfetti per essere “superdiffusori”, ossia autori del contagio contemporaneo di più persone. Eventi di superdiffusione sono stati documentati in cori, centri commerciali, eventi religiosi. Esistono inoltre contesti dove il contagio può venire amplificato se più infezioni si ripetono in rapida successione, come si è registrato in mattatoi, chiese, scuole. L’azione dei superdiffusori, sommata a questo meccanismo di amplificazione, potrebbe spiegare perché il 10% dei positivi al Covid-19 è responsabile dell’80% dei contagi. Si tratta del fenomeno noto come “sovradispersione”, già osservato in altre patologie come influenza e morbillo, per cui la maggior parte degli infetti non trasmette il virus in maniera significativa, e dunque occorre arrivare a un buon numero di casi perché l’epidemia possa esplodere in maniera evidente.

Queste scoperte degli esperti di Baltimora possono essere lette in parallelo col report sul Covid-19 dell’Istituto superiore di sanità (Iss) relativo al periodo tra il 12 e il 18 ottobre, che parla di 7.625 focolai attivi, la maggior parte dei quali «continua a verificarsi in ambito domiciliare (81,7%)». Il perimetro domestico, però, «rappresenta un contesto di amplificazione della circolazione virale e non il reale motore dell’epidemia» dice l’Istituto. Mentre «sono in aumento i focolai in cui la trasmissione potrebbe essere avvenuta in ambito scolastico», anche se «la trasmissione intra-scolastica appare ancora limitata (3,5% di tutti i nuovi i focolai in cui è stato segnalato il contesto di trasmissione)». Certo, l’Iss ammette anche i limiti di queste cifre. Segnala infatti un «forte aumento di casi per cui i servizi territoriali non hanno potuto individuare un link epidemiologico», pari al «43,5%» di quelli censiti. Leggi: i dati sui luoghi di contagio sono parziali, perché sono stati tracciati meno del 60% dei casi. Un enorme fallimento. Ad ogni modo, tra le varie contromisure suggerite nel report, ci sono «restrizioni nelle attività non essenziali e della mobilità». Trasporti e attività produttive.

Ebbene, ultimo dato: proprio sui posti di lavoro da gennaio al 30 settembre in Italia si sarebbero verificati 54.128 contagi, il 17% del totale dei casi registrati dall’Iss. Lo si desume dalle denunce di infortunio «a seguito di Covid» riportate in un recente rapporto Inail (e dunque la percentuale potrebbe essere più alta, se si considera che non sempre gli incidenti di questo tipo vengono denunciati e che può essere complesso talvolta individuare il luogo di contagio). Insomma, premesso che la scienza deve ovviamente dare ancora molte risposte rispetto alle modalità di contagio, che le autorità sanitarie italiane non mettono a disposizione in modo esteso i dati disaggregati relativi ai luoghi di contagio (a differenza dell’Istituto Koch in Germania, per fare un esempio) e che la macchina del tracciamento in Italia è al collasso, possiamo comunque trarre alcune conclusioni, almeno a livello nazionale. Il fenomeno della sovradispersione illustrato dai ricercatori di Baltimora, i contagi domestici che amplificano ma non generano l’epidemia e la scuola che resta relativamente “sicura” come indica l’Iss e infine i dati Inail ci fanno porre l’attenzione sulle attività produttive. Sulla necessità di monitorarle più da vicino e frenare il più possibile quelle non essenziali. «Nella prima fase della pandemia, con le aziende aperte…

L’inchiesta prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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Salvini, vergognatevi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 28 Ottobre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Manifestazione del mondo della ristorazione in piazza del Pantheon Nella Foto : Matteo Salvini in piazza Photo Cecilia Fabiano/LaPresse October 28 , 2020 Roma (Italy) News : Workers of the catering sector protest against the new Covid-19 restrictions In The Pic :Matteo Salvini at the demonstration in front of the Pantheon

Che gran giornata quella di ieri per il senatore Matteo Salvini, leader leghista che si ciba lautamente del clima di terrore e di disperazione che attraversa il Paese e che continua insolente a richiamare il governo mentre lui è stato l’esempio plastico di tutto quello che “non c’era da fare” in questi mesi tra la prima e la seconda ondata del virus.

Prima la sua pessima figura in piazza a Roma dove i ristoratori protestavano l’ultimo Dpcm del Governo e ovviamente il leghista, pronto subito a fiutare l’eventuale malcontento, si è tuffato a pesce. Peccato che proprio i ristoratori (che sono gente ben più seria per preoccuparsi delle piazzate di chi da anni vorrebbe essere considerato “salvatore” di qualsiasi problema si presenti) l’abbiano cacciato via a male parole: «vai via, buffone» è stata la frase più buona.

Ma la scena madre del suo pessimo mercoledì è la lunga tirata con cui Salvini ha accusato il governo di non avere fatto nulla durante questi mesi. Sia chiaro, le responsabilità ci sono e sono molte (del governo ma anche e soprattutto delle Regioni) ma sentire la paternale di chi ieri diceva  “non ci sarà una seconda ondata, inutile terrorizzare le persone” e “se uno mi allunga la mano, mi autodenuncio, gli do la mano. Tanto un processo più, un processo meno” e “i bollettini di contagio sono terrorismo mediatico” e oggi urla “in questi mesi l’Italia ha perso tempo” non si può davvero sentire.

E ieri al Senato ha pensato bene di polemizzare togliendosi la mascherina in Aula (ennesimo gesto irresponsabile che serve solo a solleticare la pancia dei suoi amici minimizzatori e negazionisti) ed è stato richiamato all’ordine da Calderoli. Avete capito bene: Calderoli. Farsi richiamare al rispetto delle regole da uno come Calderoli è come passare nella cruna di un ago.

E allora si vergogni Salvini che per mesi ha minimizzato e oggi vorrebbe fare la figura del responsabile ma si vergognino tutti i salvini che in questi mesi (e alcuni ancora adesso) giocano a mischiare le carte per appoggiare gli irresponsabili. Vergognatevi, voi che avete incitato alla dimenticanza e ora puntate il dito. Vergognatevi e almeno abbiate un po’ di decenza. Un po’ di decenza.

Buon giovedì

Occhio al moralismo contro i poveri

Foto Fabio Sasso - LaPresse 26 - 10-2020 Napoli cronaca Napoli torna in piazza contro Governo e Regione in Piazza Plebiscito Nella Foto un momento della manifestazione Photo Fabio Sasso - LaPresse October, 26 2020 Naples news Virus Outbreak, thousands of people in Plebiscito square In the pic a moment of event

Attenti perché il trucco è sempre in agguato: usare i cretini violenti per fingere che tutto va bene e che il disagio non esista. Attenti perché, al di là dei soliti rimestatori del malcontento che aspettano una manifestazione per infilarcisi dentro e per raggranellare un po’ di adepti in Italia, ci sono quasi 1,7 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta per un totale di quasi 4,6 milioni di individui. Sono persone, mica numeri.

Attenti perché la curva dei posti occupati nelle terapie intensive e quella dei ricoveri ci dicono che molto probabilmente queste misure che limitano la circolazione delle persone non bastano, che forse non basteranno, che bisognerà prendere decisioni ancora più dure e difficili e non se ne esce solo con il moralismo e il paternalismo.

In Italia c’è un disagio evidente: un disagio sanitario, lavorativo, di reddito, di speranze, di futuro, di solitudine e di prospettive. Che il virus abbia aumentato le disuguaglianze non lo dicono gli editorialisti ma lo scrivono nero su bianco i numeri: ci sono ricchi che con la pandemia si sono arricchiti ancora di più e ancora più velocemente.

Attenti che non è un discorso che vale solo per ristoratori e lavoratori dello spettacolo, no. C’è una marea sommersa che non si è mai fermata, quella “produttiva” che sta nelle fabbriche – che chissà perché non vengono mai raccontate nelle statistiche del contagio – che non si è mai fermata né con la prima né con la seconda ondata e che sembra non avere voce in capitolo nel dibattito pubblico. Sono quelli che non vengono mai messi in discussione nemmeno quando si profilano le chiusure più terribili. E quelli hanno paura e scontano la sensazione di non esistere.

Attenti a non cadere nell’errore di bollare come “pericoli della comunione sociale” quelli che rivendicano diritti. Qui si tratta di pretendere di avere molto più dei soldi per mangiare, ora si chiede di avere fiducia in un sistema che la fiducia se l’è mangiata (soprattutto per responsabilità delle Regioni) nei mesi in cui si doveva fare meglio, si sta chiedendo di nuovo agli “eroi” di fare gli “eroi”. Dai problemi si esce “tutti insieme” come comunità se tutti hanno la sensazione di essere presi in considerazione in tutte le proprie difficoltà.

In un momento così grave serve cautela e responsabilità della misura: ci sono molte cose che non vanno, molti aspetti da correggere cammin facendo e farli notare e rivendicarli è un orgoglioso contributo alla lotta alla pandemia. Se le rivendicazioni della propria dignità vengono confuse con le violenze dei violenti non se ne uscirà bene. No. Prendere atto della realtà non significa avere il dovere di essere ottimisti. Ci sarebbe anche una parolina magica che fa saltare i nervi a molti: in tempi di crisi si ridistribuisce, si ridistribuisce. Vedreste che così sarebbe più facile.

Buon mercoledì.

Conte, non ci siamo. Per niente

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 27 Ottobre 2020 Roma (Italia) Cronaca Seconda Emergenza Covid 19, gli ospedali fanno fronte ad un grande afflusso di pazienti Nella foto: arrivo delle ambulanze all’ospedale San Filippo Neri dove sono allestite due entrate differenti per i pazienti in biocontenimento e per il pronto soccorso Photo Cecilia Fabiano/LaPresse October 27, 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Second wave: hospitals are facing a large number of patients In the pic: arrival of the ambulances at the San Filippo Neri hospital where two different entrances are set up , one or patients in biocontainment and one for first aid

Il valore consolatorio della metafisica era stato stanato da Nietzsche come panacea del bisogno trascendentale della solitudine dell’uomo di fronte all’incommensurabile e imperscrutabile moltitudine dell’universo, oltre un secolo e mezzo fa nella sua netta separazione fra il dionisiaco e l’apollineo. Unica soluzione, la loro coniugazione, per aspirare alla condizione di un uomo «oltre» quello presente (non super, nessun superman per Nietzsche). Eppure, il «bisogno» di trascendente – soprattutto come «rimedio» in relazione alla paura di quel che non si conosce, continua a condizionare la vita degli uomini. Anche attraverso i dpcm di contrasto al Covid. Una iperbole? No. L’ultimo decreto del presidente ha stabilito che potessero restare aperti i luoghi della metafisica (le chiese: suvvia, anche per non dispiacere una precisa zona che si trova all’interno della città di Roma…) a dispetto di quelli dove si pratica la vita. Laddove per vita s’intende quella declinata con le molteplici forme della ristorazione: dal tubo digerente al cervelletto. Bar, ristoranti chiusi dopo le 18 (che presa in giro!), chiusi del tutto, teatri, cinema, sale concerto, palestre, luoghi di convegno e quant’altro. Eppure, la pericolosissima distanza fisica (e basta con quell’improprio “sociale”! ché posso essere animale sociale anche con una telefonata!) è quella non monitorabile (né monitorata) nelle chiese per la celebrazione del suddetto «bisogno» metafisico. In buona sostanza, non si capisce il senso dell’ultimo Dpcm, se non che le «ristorazioni» non metafisiche sono percepite come «non indispensabili». Ovvio che il Masaniello pret-a-porter della Lega abbia buon gioco in una protesta che monta da Sud a Nord. Da quell’animale politico qual è s’infila nelle pieghe di un provvedimento che tale non è, perché quel dpcm nulla, di fatto, produce, se non rabbia e sconcerto: pane quotidiano del “nostro”.

Vengono in mente titoli di film quali Quasi incinta. Cosa significa infatti una chiusura alle 18 per i ristoranti? C’è qualcuno sano di mente di quella categoria che terrà aperto giusto per pagare senza incassare? E i lavoratori che da quelle categorie traggono il sostentamento, dove mai andranno a recuperarlo, visto che saranno lasciati a casa in larga, larghissima misura? Un provvedimento estremo quale una chiusura totale e temporanea sarebbe stata più comprensibile perché non kafkiana quale questa: più onesta. Invece il governo è caduto nella trappola del piacione: quello che vuole piacere a tutti, scontentando tutti. Ostaggio anche di Bonomi e dei di lui affiliati, il governo ha pensato – come un qualsiasi governo di destra – alla ripresa del Pil (…) non al benessere. Pure la vendita delle sigarette, dei superalcolici, dei gratta e vinci, fanno Pil ma non benessere. L’auto afflizione economica nei confronti di un debito pubblico debordante quale quello italiano ha giustificato la resa incondizionata di Conte nei confronti dei 5 Stelle in relazione al Mes.

Demonizzando il mostro esterno (Salvini), il governo ha finito col cedere a quello interno. Ora è giunto il momento che da sinistra si presenti il conto a un governo la cui cifra ormai pendola fra masaniellisti e bonomisti. Per tornare al vulnus del rapporto fra benessere e Pil (ché è qui che sta la sostanza), esso, oltre a non determinare nessun automatismo, è anzi criminale panacea dei mali delle diseguaglianze (vogliamo parlare del rapporto fra ricchezze e povertà nel nostro paese?). È invece, questa nuova peste, l’occasione (non possibile, ma a questo punto, doverosa) per ripensare completamente il benessere in rapporto alle dinamiche della produzione e della distribuzione della ricchezza. Il momento di immaginare una proiezione dal profilo coerente con un tempo in cui il pianeta per primo soffre per lo sciagurato impianto capitalistico continuamente rinverditosi e ripresentatosi con nuove forme ma identiche sostanze fin dalla prima rivoluzione industriale.

La stucchevole cultura

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 26-10-2020 Roma , Italia Cronaca Coronavirus, emergenza sanitaria - lock down teatri cinema palestre Nella foto: serrande abbassate allo storico Teatro Vittoria a Testaccio Photo Mauro Scrobogna /LaPresse October 26, 2020  Rome, Italy News Coronavirus, health emergency - lock down theaters cinemas gyms In the photo: shutters lowered at the historic Vittoria Theater in Testaccio

Come sappiamo bene il nuovo Dpcm prevede la chiusura di cinema e teatri. Ne è nato un dibattito acceso come è inevitabile per un settore che risente moltissimo della pandemia e che non ha mai navigato nell’oro. Il direttore d’orchestra Riccardo Muti ha spiegato in una lettera indirizzata a Giuseppe Conte che fotografa perfettamente il momento, vale la pena leggerla:

«Egregio presidente Conte, pur comprendendo la sua difficile responsabilità in questo lungo e tragico periodo per il nostro Paese, con la necessità improrogabile di salvaguardare la salute, bene supremo, dei nostri concittadini, sento il bisogno di rivolgerLe un appello accorato. Chiudere le sale da concerto e i teatri è decisione grave. L’impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso e nuoce anche alla salute del corpo. Definire, come ho ascoltato da alcuni rappresentanti del governo, come «superflua» l’attività teatrale e musicale è espressione di ignoranza, incultura e mancanza di sensibilità. Tale decisione non tiene in considerazione i sacrifici, le sofferenze e le responsabilità di fronte alla società civile di migliaia di Artisti e Lavoratori di tutti i vari settori dello spettacolo, che certamente oggi si sentono offesi nella loro dignità professionale e pieni di apprensione per il futuro della loro vita. Le chiedo, sicuro di interpretare il pensiero non solo degli Artisti ma anche di gran parte del pubblico, di ridare vita alle attività teatrali e musicali per quel bisogno di cibo spirituale senza il quale la società si abbrutisce. I teatri sono governati da persone consapevoli delle norme anti Covid e le misure di sicurezza indicate e raccomandate sono state sempre rispettate».

Ieri il ministro Franceschini ha risposto e la sua risposta, vale la pena sottolineare, non è stata una gran risposta. Ha definito “stucchevole” il dibattito (proprio così). Ha parlato di valore “simbolico” negando l’utilità pratica di cinema e teatri. Ci ha riproposto la sua idea di “Netflix della cultura” di cui non sanno che farsene quelli che lavorano nello spettacolo dal vivo. Roba così.

Ci ha detto anche (e questo lo vediamo tutti) che la situazione è evidentemente grave. E su questo siamo tutti d’accordo. Parlandone con Tomaso Montanari proprio ieri non posso che essere d’accordo con lui quando mi dice che «è un provvedimento incomprensibile perché non abbatterà di un millimetro la curva dei contagi perché non è a teatro e al cinema che si prende il Covid e tra l’altro è contraddittorio poiché rimangono aperti i musei dove file e assembramenti sono molto più probabili di luoghi in cui si sta seduti e distanziati».

Se il problema è ridurre la gente che va a teatro e al cinema (che sono ben poche) allora risulta strano che rimangano aperti i centri commerciali, no? Oppure si dica che la situazione è grave e che questo è solo l’antipasto, il brodino leggero per quello che verrà.

Ah, intanto le messe vanno in scena, tranquillamente.

Buon martedì.

È che noi non siamo più gli stessi

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 25-10-2020 Roma Politica Palazzo Chigi - Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte illustra il nuovo Dpcm con le misure contro l'emergenza Covid-19 Nella foto Giuseppe Conte Photo Roberto Monaldo / LaPresse 25-10-2020 Rome (Italy) Chigi palace - Press conference of the Prime Minister Giuseppe Conte on the new Prime Minister's Decree In the pic Giuseppe Conte

Arriva il nuovo Dpcm. E arriva la nuova conferenza stampa del presidente Conte. E arrivano le nuove misure. Torna tutto, come uno schiaffo. E, sia chiaro, è uno schiaffo evidentemente necessario perché i numeri ci dicono che la crescita è ormai fuori controllo, perché le testimonianze dei medici e degli infermieri raccontano di ospedali che stanno tornando a straripare e perché no, non funziona che negare un problema lo elimini dal tavolo. Non funziona.

Però c’è un dato su tutto, che è un dato politico ma anche affettivo, economico, professionale e inevitabilmente politico che va registrato: noi non siamo più gli stessi di inizio pandemia. E di questo si deve tenere conto se si vuole provare a analizzare le difficoltà del momento e le inevitabili difficoltà di questa nuova decisione.

Non siamo più gli stessi perché nel Paese c’è gente, tantissima gente, che ha seguito le regole e che si è comportata responsabilmente in tutti questi mesi. C’è gente che, anche tra i professionisti e i piccoli imprenditori, che hanno adattato la propria quotidianità ai nuovi protocolli e sono stati molto attenti a tutti i gesti e a tutti i loro clienti. Il governo ha dato delle disposizioni, le regioni hanno dato le loro disposizioni e quelle regole sono state applicate per filo e per segno. E se all’inizio della pandemia tutti erano più disposti a sacrificare e a sacrificarsi ora i cittadini sono inevitabilmente intrisi di un risentimento contro chi le regole le ha evase o le ha scritte male: i trasporti pubblici ogni mattina sono un esempio paradigmatico di come sia difficile accettare il lockdown del proprio tempo libero mentre si registra una mostruosa pericolosità negli spostamenti lavorativi.

Non siamo più gli stessi perché abbiamo registrato, e qui su Left ne abbiamo scritto più volte, tutte le irresponsabili voci di chi quest’estate in nome dello spirito ludico ci ha voluto ripetere di non preoccuparci, di stare tranquilli, che era tutto finito, che era tutto passato e che non sarebbe tornato.

Non siamo più gli stessi perché abbiamo visto con i nostri occhi cosa significhi un sistema sanitario senza controllo, quello che lascia morire la gente in casa e che ti lascia per giorni in attesa perfino di una diagnosi, figurarsi una cura. E se prima c’era la giustificazione della pandemia improvvisa ora ci viene naturale chiederci perché farsi trovare impreparati a qualcosa di prevedibile e previsto.

Non siamo più gli stessi perché abbiamo provato sulla nostra pelle le cicatrici di un’amputazione sociale e affettiva, sappiamo cosa significhi avere paura del futuro, sappiamo che il welfare è quella cosa che deve permetterci di rimanere in piedi, anche ciondolando, garantendo la sopravvivenza economica oltre che sanitaria.

No, non siamo più gli stessi perché probabilmente ci siamo anche incattiviti e non siamo più disposti a sopportare errori ripetuti come se non ci fosse già stata un’esplosione epidemica. Non siamo disposti a non sentirci protetti.

I sacrifici ora devono essere accompagnati dai fatti. Conte l’ha capito benissimo e infatti ieri ha parlato dei sussidi economici come punto centrale del proprio discorso. La retorica non funziona più e nemmeno il paternalismo: se salvarsi “costa” sacrifici ora serve un Governo (e le politiche regionali) che sia disposto a pagarli.

Ma c’è un punto sostanziale: noi non siamo più gli stessi e qualcuno sotto traccia, in modo subdolo, cercherà di usare questa stanchezza per trasformarla in rabbia. Ci sarà qualcuno che proverà a usare diritti che sono messi sotto stress per usarli come innesco di odio e di violenza. È sempre lo stesso copione, funziona sempre così. È un momento delicato e importante, al di là del virus: bisogna pretendere il rispetto delle difficoltà di tutti senza cadere nel ventre molle di chi usa la disperazione come arma. Non è un momento facile. Non sarà facile.

Buon lunedì.

Riscoprire l’umanità, la coraggiosa ricerca di Franz Boas

«Questo libro tratta delle donne e degli uomini che si sono trovati in prima linea nella più grande battaglia morale dei nostri tempi: la lotta per dimostrare che, nonostante le differenze del colore della pelle, di genere, di abilità e di tradizioni, l’umanità è una sola» scrive Charles King nel nuovo libro La riscoperta dell’umanità da poco pubblicato in Italia da Einaudi (tradotto da D. Ferrari e S. Malfatti).

L’ultimo lavoro dello scrittore e docente statunitense (che mutua il titolo da uno scritto di Zora Neale Hurston, protagonista di ricerche etnografiche nei Caraibi) rende omaggio all’uomo e allo studioso Franz Boas (1858-1942), pioniere della moderna antropologia. E studioso di grande statura civile.

Prima di avere un posto stabile alla Columbia University fu curatore scientifico del Museo americano di Storia naturale, che in quanto museo era una istituzione dell’establishment e ospitava conferenze sull’eugenetica e mostre sugli «effetti negativi dell’incrocio razziale». Fu in quel frangente che Boas ne comprese tutta la pericolosità. Negli anni Trenta pubblicamente prese coraggiosamente posizione contro ciò che stava accadendo in Germania dalla quale era partito giovanissimo per studiare e tentare la strada della ricerca trasferendosi in America. Quando denunciò le tesi naziste aveva già 70 anni e, dopo tanti anni di insegnamento, stava per andare in pensione. Ma non si mise le pantofole. Quel pronunciamento che lo esponeva anche a rischi personali era coerente con tutto ciò che aveva sempre trasmesso ai suoi studenti, stimolandoli a pensare con la propria testa e a smascherare la pseudo scienza che era alla base delle leggi restrittive sull’immigrazione negli Stati Uniti.

Nato in una famiglia borghese di origini ebraiche, Boas era inorridito nel vedere che i nazisti si erano ispirati proprio al lavoro pionieristico degli americani nell’eugenetica e più in generale al bigottismo statunitense. Lui che da sempre usava la parola “razza” tra virgolette, utilizzate come guanti chirurgici, vedeva in questa categoria una «finzione pericolosa». 

Da La riscoperta dell’umanità di King emerge uno sfaccettato e appassionato ritratto di Boas, fin dai suoi primi viaggi per conoscere la comunità Inuit. Da ricercatore sul campo decise di fare rotta verso l’Artico proprio perché, diversamente dall’Africa (meta soprattutto di soldati e mercanti), era un luogo di esplorazione nel suo significato più nobile. Ma questo libro non è la biografia di un geniale e solitario antesignano. Piuttosto è una biografia collettiva che abbraccia un intero gruppo di antropologi allievi di Boas, che seguirono e svilupparono il suo impegno. Avremo modo di riparlarne più avanti. Intanto riannodiamo i primi fili della storia: nelle prime pagine del libro di Charles King incontriamo Boas giovanissimo, disposto a fare lavoretti qualunque pur di poter fare ricerca sul campo. Poco dopo diventa redattore di Science, quando era una rivista che ancora faticava ad affermarsi, scrivendo articoli intraprendenti che sfidavano gli assunti accademici. Lo seguiamo nell’avventurosa impresa che lo portò sull’isola di Baffin ma anche fra gli indiani Bella Coola nella provincia canadese della Columbia britannica dove rimase affascinato dalla loro lingua e dalle danze che mettevano in scena con raffinate maschere di legno intagliate.

All’epoca, in quello scorcio di Ottocento, la parola antropologia – che esisteva fin dai tempi di Aristotele – cominciava ad assumere un senso pieno, come studio dell’essere umano, cercando di far luce su come si era sviluppato Homo sapiens. «Il trasferimento di Boas negli Stati Uniti coincise con l’epoca in cui si affermò la figura dell’antropologo, un termine che si cominciava ad utilizzare sempre più spesso per indicare chi viaggiava, raccoglieva artefatti, studiava lingue straniere e andava in cerca di ossa», scrive King. Proprio come Boas aveva fatto sull’isola di Baffin e sulla costa sud occidentale degli Usa. «Dandosi quel nome di antropologo si aveva la sensazione di fare un lavoro pionieristico. L’antropologo trovava di fronte a sé regni inesplorati, poteva attraversare a ritroso il tempo e osservare le origini dell’umanità». 

E Boas lo faceva con una mente laica e scevra da pregiudizi. Con un metodo che fece scuola e, soprattutto, lo portò a scrivere che l’edificio della gerarchia razziale era una fandonia. Le differenze tra diversi tipi sono, nel complesso, piccole rispetto all’arco di variazione all’interno di ciascun tipo, annotava Franz Boas. Non solo non c’era alcuna linea netta fra gruppi apparentemente diversi, «ma – scrive King – quando si provava a definire la razza, e ancor più a quantificarla con pinze e metri a nastro, in mano non restava altro che una manciata di polvere». 

Con il suo libro L’uomo primitivo (1911) Boas si dedicò a smantellare l’idea di una gerarchia fra razze e, in ultima istanza, della razza in sé. Ma a ben vedere c’era anche altro: già allora con quel testo si proponeva di parlare della mente delle popolazioni primitive (non a caso il titolo inglese del libro era: The mind of primitive man). Una nascita umana uguale per tutti? Ci sarebbe voluto un sessantennio per arrivare a questo con la moderna psichiatria. Ma resta straordinario il suo lavoro e il modo con cui ha cercato, personalmente e nel suo gruppo di antropologi ribelli, di sradicare le nozioni contrapposte di “noi” e “loro” e la paura dell’incontro con l’altro, lo sconosciuto. Resta il fatto che con coraggio, passione umana e civile, in un momento così buio della storia come quello segnato dal nazifascismo, insieme ad altri, si sia dedicato totalmente ad argomentare scientificamente che, nonostante il colore della pelle o la provenienza culturale di ciascuno, l’umanità è una sola. Boas e i suoi osarono affermare questo pensiero in un contesto, come quello americano, dove i bianchi al potere teorizzavano la superiorità intrinseca della civiltà occidentale. (Ancora oggi Trump e i suprematisti bianchi vorrebbero riportarci a quell’idea nazista). Boas sosteneva invece il pluralismo, il valore dell’empatia e della ricchezza culturale che nasce dall’incontro con l’altro. Invitando i suoi studenti a analizzare le proprie reazioni di “disgusto”, di “choc” per prendere consapevolezza dei propri pregiudizi più profondi. Fra i suoi allievi c’erano Ruth Benedict ed Ella Cara Deloria, ma c’era anche Margaret Mead poi compagna di Gregory Bateson. A lei Charles King dedica ampio spazio nel volume raccontandone la vicenda intellettuale fin da quando, a soli 23 anni, viaggiava da sola, avendo da poco terminato la tesi di dottorato con Papà Franz (così gli studenti chiamavano Franz Boas) che l’aveva incoraggiata a recarsi in luoghi dove poter fare un lavoro originale e lasciare il segno come antropologa. «Con una buona organizzazione e un po’ di fortuna – le scriveva – la tua ricerca potrebbe diventare il primo tentativo serio di addentrarsi nella mentalità dei nostri antenati». «Se ci riuscirai sarà l’inizio di una nuova metodologia di ricerca sulle tribù indigene», aggiungeva. Così Margaret Mead andò alle Samoa per cercare di capire perché l’adolescenza, secondo un pregiudizio consolidato, era considerata un problema presso quelle popolazioni. Per scoprire poi – dopo aver scalato montagne e aver vissuto nei villaggi trascrivendo storie di bambini e adolescenti – che invece in quella comunità le norme erano fluide, la verginità era un valore celebrato a parole ma tenuto in scarsa considerazione in pratica. Insomma i costumi samoa, secondo quanto documentato da Margaret Maed non erano affatto “primitivi”o retrogradi. E risuonavano profondamente con i valori rivendicati dalla generazione di Maed, quella più giovane e colta degli anni Venti. Alle spalle del suo lavoro, grazie a Boas, c’era una lettura dell’antropologia non solo come una scienza ma anche come vissuto e come esperienza non da idealizzare o museificare ma da cui trarre insegnamenti in una prospettiva di liberazione. Per questo le idee di Boas, indirettamente, aiutarono la lotta delle donne contro l’ordine patriarcale. Molti studiosi prima di lui avevamo lanciato teorie pretestuose su ciò che ai loro occhi era naturale. Boas suggerì che quelle cose potevano non essere così naturali, dopo tutto.

L’articolo prosegue su Left del 23-29 ottobre 2020

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