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Come si dovrebbe dire

German Chancellor Angela Merkel arrives about a news conference German Government's corona policy in Berlin, Germany, Monday, Nov. 2, 2020. (AP Photo/Markus Schreiber)

Sentite qua.

«Oggi cominciano le restrizioni per novembre e colpiscono ogni cittadino, è un giorno importante. Ci sono dubbi, opposizioni ma dobbiamo sapere che la pandemia è una sfida secolare. I pazienti oggi in terapia intensiva rispecchiano dati di circa due settimane fa ci avviciniamo a saturazione. Non riusciamo a rintracciare origine contagi nel 75% dei casi, dobbiamo tornare a una situazione in cui ciò sia possibile. C’è rapporto stretto tra numero contatti e numero infezioni: possibilmente lavorare a casa, viaggiare solo se indispensabile e abbiamo limitato contatti a due famiglie o nuclei conviventi. Abbiamo riflettuto a lungo su misure meno dure ma non abbiamo visto alternative. Meno contatti vuol dire meno contagi. Un mese di lockdown leggero può essere il frangi flutti, può spezzare la seconda ondata».

E ancora.

«Gli scienziati dicono che dobbiamo ridurre i contatti del 75%. Non speculo su cosa accade dopo 1 dicembre prossima tappa importante è 16 novembre, incontro con i governatori per aggiornarsi. I cittadini sono delusi perché la pandemia dura così a lungo. L’estate è stata relativamente spensierata. L’autunno è arrivato con brutalità. La luce in fondo al tunnel è ancora piuttosto lontana ma siamo in una catastrofe naturale. Credo nella forza della ragione e della responsabilità. I risarcimenti sono molto generosi perché lo sforzo richiesto è molto grande. Siamo in crescita esponenziale dei contagi ma per fortuna siamo ancora in grado di aiutare finanziariamente. La libertà non è qualcosa di illimitato, è libertà di prendersi la responsabilità per il prossimo, lo facciamo anche nella tutela dell’ambiente e in altri ambiti. Quella della libertà individuale, anche per me (che sono cresciuta in un regime) è la più grande sfida del dopoguerra. Chiunque conosca funzione esponenziale sa che rt 1,3 o 1,4 non è accettabile. Siamo il continente dell’illuminismo e la matematica è importante. Abbiamo giurato tutti sulla Costituzione che comincia con “la dignità dell’essere umano è intoccabile”: non si può essere superficiali con questo virus, ci sono 34enni in condizioni gravi in ospedale. Siamo paese libero. Che in Usa ci siano molte opinioni e che il Paese sia tutt’altro che unito lo sappiamo ma anche da noi ci sono scettici, fa parte della democrazia».

È il discorso di ieri della Cancelliera Merkel. Si può essere d’accordo o meno ma è un discorso deciso, illuminato, coerente e coraggioso. Come si dovrebbe dire.

(grazie all’inesauribile lavoro di Tonia Mastrobuoni, questo #buongiorno è tutta farina del suo sacco e del suo preziosissimo lavoro)

Buon martedì.

Andrew Spannaus: Vi dico perché questa volta Trump difficilmente vincerà

President Donald Trump walks to the podium to speak at a campaign rally at Keith House, Washington's Headquarters, Saturday, Oct. 31, 2020, in Newtown, Pa. (AP Photo/Alex Brandon)

Nel 2016 Andrew Spannaus, giornalista e analista politico americano, è stato uno dei pochi che ha previsto la vittoria di Trump in un libro dal titolo eloquente: Perché vince Trump. Ora è in libreria con un nuovo saggio – L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro (edito da Mimesis) – dove fa un bilancio della presidenza Trump ed evidenzia come la pandemia acceleri un processo di ristrutturazione della globalizzazione, già in corso prima dell’avvento del virus. L’abbiamo intervistato sui temi trattati nel suo libro e sulle imminenti elezioni americane.

Come giudica questi 4 anni di amministrazione Trump?
Io preferisco guardare alla presidenza Trump dal punto di vista della sostanza, per vedere cosa è cambiato politicamente. Dal punto di vista sociale è ovvio che si dia un giudizio negativo perché Trump divide e non unisce il Paese. Ma se guardiamo alla presidenza Trump in termini realistici, sono convinto che guarderemo in futuro a questa presidenza come a una che ha impresso cambiamenti significativi, su temi quali il protezionismo economico, gli accordi commerciali e il rapporto con la Cina. Questo ha portato a una nuova politica industriale e a un maggiore ruolo dello Stato nell’economia.

A cosa corrisponde il “cambiamento di fase” a cui rimanda il titolo del suo libro?
Corrisponde a una revisione di alcune politiche legate alla globalizzazione, processo iniziato negli anni 70 e sviluppatosi negli anni 90 con una maggiore finanziarizzazione e con la delocalizzazione della produzione. Questa visione che mette il mercato e i parametri finanziari sopra tutto non può più sopravvivere; questo è ormai evidente per due motivi: uno politico, che fa capo alle rivolte populiste in tutto il mondo occidentale, e uno economico, legato alla mancanza di stabilità e di resilienza del sistema globale, come ora vediamo durante la pandemia.

L’unilateralismo della politica americana non è portatore di tensioni in campo internazionale?
Io sono scettico su una contrapposizione tra unilateralismo e multilateralismo in termini assoluti, dipende dal modello che il multilateralismo promuove. Riguardo alla politica estera, Trump non vuole sicuramente esportare la democrazia come qualcuno pensava di fare con interventi militari. Preferisce usare la sua tattica ruvida per poi trattare con i singoli Stati. Io penso che l’unilateralismo americano sia semplicemente una politica più realistica e che il multilateralismo sia in molti casi una copertura dei veri interessi in gioco. Trump afferma senza mezzi termini che “noi dobbiamo perseguire i nostri interessi”.

La presidenza Trump si è caratterizzata anche per il negazionismo climatico, l’abbandono degli accordi di Parigi e la revisione in peggio di molte normative ambientali approvate da Obama. Con Biden cambierebbe qualcosa sul tema della protezione dell’ambiente?
Sì, penso che sicuramente Biden rientrerebbe negli accordi di Parigi e spingerebbe per iniziative green all’interno degli Stati Uniti, ma ben lontani da quello che chiede l’ala sinistra del partito democratico. Cioè sempre in un’ottica business. Bisognerebbe comunque avere un approccio più razionale e meno ideologico al problema della crisi climatica da ambo le parti, che porta a minimizzare o a esagerare le misure di contrasto all’inquinamento a seconda dello schieramento.

Qual è il fattore che sarà determinante per i risultati delle elezioni americane tra la gestione della pandemia e il rinfocolarsi della questione dell’ingiustizia razziale?
La pandemia, perché sottolinea il modo erratico di governare di Trump. Ha messo il buon andamento dell’economia davanti alla necessità di arrestare la virulenza del virus. Questo metodo in un momento di grave crisi della nazione viene visto come un segno d’inadeguatezza. Penso che ciò peserà soprattutto sugli over 65, preoccupati maggiormente per la propria salute.
Sulla violenza contro gli afroamericani, penso che il concentrarsi di Trump sul motto “legge e ordine” abbia dimostrato una mancanza quasi totale di empatia nei confronti delle vittime degli episodi di razzismo ed è parso come un tentativo di aizzare gli scontri.

C’è un dibattito aperto a sinistra sulle politiche che Biden attuerebbe qualora diventasse presidente, se più o meno socialiste. Lei come la vede?
Sono ottimista con cautela. La grande ironia è che nelle primarie Biden si presentava come moderato, ma adesso a causa della pandemia dice di voler fare politiche fortemente progressiste, presentando un programma con investimenti fino a 3,5/4 mila miliardi di dollari (quasi il 20% circa del Pil) in infrastrutture, energia e sanità. L’ala progressista non avrà gran peso nelle decisioni. Comunque molto dipenderà dalla squadra di governo che Biden sceglierà.

Lavoro nero, la spesa delle mafie al mercato della disperazione

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 27 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, negozi chiusi vie commerciali deserte Nella Foto: via Appia Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 27, 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , shopping streets closed for the lockdown In the pic : Appia street

Nella scia delle decisioni scoppiettanti del presidente della Regione campana, il di lui collega pugliese, ha deciso di non essere da meno, chiudendo – ad esclusione di quelle d’infanzia – tutte le scuole da Foggia a Lecce passando per le altre province. La Sacra Corona Unita ringrazia. Nuove braccia da reclutare da Bari in su e in giù per la lunga, lunghissima Puglia. Un ricordo personale mi porta a una vacanza siciliana di una quarantina di anni fa, in cui un questore mi diceva: «Il mafioso teme più la scuola della polizia». Un problema, quello della scuola chiusa in quelle zone d’Italia già in sofferenza sotto diversi altri aspetti, che si aggiungerà a quelli che già affliggono famiglie che risultano invisibili allo Stato, nel senso che attraversano tutta una vita nella traccia del lavoro illegale: in nero.

Una moltitudine di lavoratori nei più svariati settori, che l’Istat quantifica in quasi quattro milioni. Il valore relativo ai danni nei confronti dell’erario è di quasi 80 miliardi, a fronte dei 192 complessivi dell’economia sommersa. La ricaduta sul prodotto interno lordo è del 4,5%. Va tuttavia precisato che l’Istituto di statistica non censisce i singoli lavoratori irregolari, ma le Ula (Unità di lavoro a tempo pieno), ciascuna delle quali vale ben di più di un lavoratore: se due persone lavorano mezza giornata in nero, valgono per ognuna una sola unità di lavoro a tempo pieno. In realtà sarebbero però due i soggetti da conteggiare come lavoratori in nero. Sempre l’Istat ci informa che nel 2019 l’incidenza del lavoro irregolare ha superato il 15%, con punte che hanno superano il 60% nel caso del lavoro domestico.

A questo esercito di invisibili – stando alle parole della ministra del Lavoro – potrebbe/dovrebbe essere esteso il reddito di emergenza per far fronte al lavoro (in nero) perso a seguito della pandemia. Stiamo parlando di camerieri, parcheggiatori, autisti, trasportatori e quant’altro che si sono trovati in questo a.d. (anno diabolicus, altro che domini) senza nemmeno un euro su cui contare a causa della chiusura di molti esercizi o della falcidiazione del personale di moltissimi altri. In loro aiuto, come prevedibile, sono corse le varie mafie che tentacolano il Sud. Le stesse organizzazioni criminali che hanno fatto incetta di attività al mercato della disperazione. Il lockdown più sciagurato – quello delle scuole – è un ulteriore regalo alle associazioni malavitose che grazie a quei battenti chiusi avranno modo di infoltire le loro schiere oltre a formare nuovi “quadri” delinquenziali. Sarà insomma la famosa e famigerata «scuola della strada» di cui c’è assai poco da vantarsi, a formare un numero non indifferente di italiani che non saranno mai (o quasi mai) cittadini, cioè soggetti di uno Stato moderno e totalmente affrancato dalla piaga delle associazioni a delinquere. Con la prostituzione, la droga e quant’altro da cui malavitosamente le mafie traggono profitto, una delle voci più importanti è proprio quella che fa riferimento al mondo del lavoro. Un mondo di cui fanno scempio, dominandolo direttamente o indirettamente.

Su quasi 160mila ispezioni effettuate lo scorso anno, è emerso un indice di irregolarità del 68% relativamente alle pratiche di vigilanza sul lavoro, dell’81% della pratiche d’ambito previdenziale, dell’89% di quelle assicurative. Il tutto a fronte di oltre 356mila lavoratori irregolari dei quali quasi 42mila totalmente sconosciuti al fisco, con un incremento di mille unità rispetto all’anno precedente e con un trend che per il 2020 si preannuncia oltremodo superiore proprio a causa della pandemia. Dal fondo del barile del gran calderone dell’evasione italiana, lo scorso anno sono stati recuperati 1,23 miliardi di euro: vox clamantis in deserto, insomma. Nella lotta al caporalato (che coinvolge edilizia, ristorazione, industria manifatturiera oltre alla primatista agricoltura) nel 2019 sono state 570 le persone denunciate, di cui 154 arrestate, con un incremento del 50% rispetto al 2018. Il reddito di cittadinanza non dovuto è stato smascherato in 599 casi, con un coinvolgimento non da poco di aziende che frodavano lo Stato in accordo con il lavoratore, che veniva appunto pagato in nero: 61% i casi individuati dall’Ispettorato a Napoli, 26% a Roma, 7% a Venezia, 6% a Milano.

Un pallottoliere desolante che mette a nudo uno Stato che, imbrigliato in genesi e palingenesi capitalistiche, non riesce (perché strutturalmente impossibilitato, ahimé) a fare del welfare una parola che abbia un senso coerente con la modernità da iPhone, ma che invece “tollera” che riders corrano per decine di km al giorno anche a 50 anni, per portare a casa 30 euro. Numeri che sono “naturale” conseguenza di una fiscalità incapace (per precisa volontà e struttura) di stendere tutta la popolazione su un ideale, giusto, corretto letto di Procuste di stampo fiscale. Mai come in questo momento c’è necessità di mettere mano alla ridistribuzione della ricchezza e alla fiscalità, perché la sofferenza che sta emergendo in un Paese pandemicamente collassato sia sul piano economico che sanitario, non può essere cauterizzata con panacee estemporanee, ma con un piano, un progetto che metta al centro un vero welfare, non una sua parodia. La modernità, la civiltà di un Paese non passa esclusivamente per lo sviluppo (essenzialmente tecnologico), ma necessariamente per il progresso (necessariamente umano) ché sennò la Corea del Nord di Kim il bimbominkia sarebbe automaticamente più civile della Firenze di Lorenzo de Medici (mutatis mutandis, ovviamente).

La stagione dei No

La pandemia, tra i suoi mille malanni, si porta dietro anche la lente di ingrandimento sulla schizofrenia di una classe dirigente che non riesce a confrontarsi elaborando una proposta. Non è una roba da poco perché la schizofrenia dei messaggi è causata sicuramente da un certo lassivo comportamento da certe stanze di palazzo Chigi (quelle che fanno uscire le anticipazioni per vedere l’effetto che fa) ma anche dalla peggiore opposizione possibile, quella che sul no basa la propria retorica.

Basta solo qualche esempio per rendersene conto?

Scuole aperte? Quelli dicono che le scuole sono pericolose e che non manderanno a scuola i propri figli.

Scuole chiuse? Quelli, sempre gli stessi, dicono che chiudere le scuole è una sconfitta.

Ristoranti aperti? Quelli dicono che bisogna evitare i contagi.

Ristoranti chiusi? Quelli, sempre gli stessi, dicono che i ristoratori sono allo stremo.

Teatri aperti? Quelli dicono che la cultura non è indispensabile e si deve fermare.

Teatri chiusi? Quelli, guardate che sono sempre gli stessi, dicono che il mondo della cultura muore.

Decide il governo? Quelli gridano alla dittatura.

Il governo fa decidere alle regioni? Quelli stessi della dittatura dicono che il governo non vuole prendersi le sue responsabilità.

Diminuiscono i contagi? Il virus non esiste più.

Aumentano i contagi? Il virus è stato sottovalutato, dicono quelli per cui non esisteva più.

Il governo non coinvolge le opposizioni? Ecco, non ci chiedono mai, dicono.

Il governo coinvolge le opposizioni? Troppo tardi, dicono.

È lo spessore della politica a cui assistiamo. Ogni giorno, tutti i giorni. Mentre sale la paura e mentre servirebbero decisioni convinte e tempestive. E, sia chiaro, questo senza nulla togliere alle responsabilità del governo. Ma così diventa davvero tutto difficile. Tutto.

Buon lunedì.

Le urne Usa bruciano ancora

FILE - In this Sept. 25, 2020, file photo, Black Lives Matter protesters march in Louisville. Hours of material in the grand jury proceedings for Taylor’s fatal shooting by police have been made public on Friday, Oct. 2. (AP Photo/Darron Cummings, File)

Nel suo saggio America brucia ancora uscito in Italia per Minimum fax, Ben Fountain analizza le elezioni del 2016 identificandole come un momento chiave della storia statunitense. Non si è trattata di una sfida normale, Democratici contro Repubblicani, ma della vittoria della parte più violenta e depressa della società americana sul resto della popolazione. Il 3 novembre gli elettori statunitensi saranno chiamati a scegliere nuovamente il presidente che li guiderà per i prossimi quattro anni, una scelta non meno cruciale della precedente. Ne ha parlato con Left.

Signor Fountain, nel suo libro spiega come Donald Trump sia arrivato alla Casa Bianca unendo una retorica populista a un razzismo spudorato, legittimando così uno dei lati più oscuri del pensiero americano. Questi quattro anni hanno peggiorato ulteriormente le cose?

La presidenza Trump ha incoraggiato i suprematisti bianchi e i nazionalisti razzisti a rendere sempre più palesi i loro programmi, introducendoli nella cultura mainstream, durante questi quattro anni appena trascorsi. Tra le altre cose, questo appoggio è sfociato in un forte aumento dei crimini d’odio nei confronti delle minoranze presenti nel Paese; in altre parole, esseri umani, molti dei quali cittadini americani, sono stati feriti o uccisi come diretto risultato delle simpatie e della retorica razzista di Trump. Ma allo stesso tempo la presidenza Trump ci ha mostrato quanto il razzismo sia radicato e violento nella società americana: la sua presidenza ha “inasprito i contrasti” fino al punto in cui solo uno sciocco negherebbe che il razzismo è uno dei principali, se non il maggiore, problema che sta affrontando l’America. Almeno adesso un gran numero di americani (americani bianchi) sta iniziando ad approcciarsi in modo significativo al tema del razzismo e del retaggio della schiavitù.

Il problema del razzismo sistemico è ritornato alla ribalta dopo l’assassinio di George Floyd e il nuovo vigore acquistato dal movimento Black Lives Matter. Nonostante la nuova consapevolezza che almeno una parte di statunitensi dovrebbe aver acquisito, durante una delle udienze di Amy Coney Barrett per la carica di nuovo giudice della Corte suprema il senatore repubblicano Lindsey Graham si è riferito al segregazionismo come ai «bei vecchi tempi». Cosa ci dice questo dell’America del 2020?

Graham ha affermato che il suo riferimento ai «bei vecchi tempi della segregazione» era sarcastico e credo che delle persone…

 

L’articolo prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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Nelle chat dei QAnon italiani

«Non chiedete risposte, siate LA risposta. Accerchiate il nemico con un esercito di temibili silenzi e colpitelo con una sola parola. Siete in guerra. Una guerra di informazione. Una guerra che non è necessario vincere perché già vinta. Una guerra per la quale avete scelto di nascere. Voi siete il loro incubo. Colpite con precisione un solo colpo e un morto per ogni colpo». Questo capoverso che a prima vista può sembrare l’incipit di un romanzo distopico, è solo un esempio dei tanti post che appaiono all’interno delle numerose chat Telegram, gruppi Facebook e canali Youtube che girano intorno alla galassia italiana di QAnon. Un esercito nascosto fra le pieghe dei nostri social, composto da “soldati digitali” con la missione di smascherare il complotto mondiale, reo di voler sottomettere gli ultimi uomini liberi. Un movimento che molti definiscono setta, nato negli Stati Uniti e velocemente tracimato negli ambienti della destra alternativa di tutto il globo. Una teoria che si “nutre” di post “chiamati drop (gocce)” rilasciati periodicamente da Q, un account anonimo comparso nei forum della sottocultura internet e legati in particolare ad Anonymous, anche se non esiste un vero e proprio collegamento diretto. Q, che asserisce di essere un militare nordamericano di alto rango, avrebbe svelato al mondo l’esistenza di una cabala adoratrice di Satana, che controllerebbe, oltre la politica mondiale, anche i mass media.

Ad ogni adepto di questa teoria è dato l’onere del proprio risveglio, attraverso le centinaia di “fonti di informazioni” rilasciate all’interno della loro bolla mediatica. Non troveremo quasi mai una linea di pensiero comune sull’interpretazione della realtà e questo permette un’incredibile capacità di reclutamento all’interno del movimento digitale. Post su rettiliani, cospirazioni giudaico massoniche, alieni e spiritualismo energetico, convivono quasi pacificamente. La concomitanza fra un drop che recitava “Ottobre Rosso” e la notizia della positività al Covid-19 di Trump ha innescato il proliferare di decine di ipotesi. In un commento a un video Youtube che tratta l’imminente emergenza si può leggere: «Io non ho bisogno di chiedermelo. Semplicemente Trump fingendo di essere malato, si è messo al sicuro nell’ospedale militare. Anche perché hanno provato ad eliminarlo fisicamente viarie volte. Certo il Deep State non si aspettava una mossa del genere. Trump ha usato il loro finto virus a suo vantaggio». Al Deep State (stato profondo), come viene chiamato nel loro gergo, apparterebbero i maggiori esponenti della sinistra americana e mondiale: i coniugi Obama, Hillary Clinton, George Soros, la Merkel, Bill Gates, Macron e il nostro Conte. Oltre che dominare la Terra attraverso The Plan, un grande..

L’inchiesta prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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Il cielo in una stanza, la resistenza di Matisse

Parole e immagini, in una tessitura inedita, che schiude una nuova visione. Un fiorire di emozioni promana dal movimento delle linee, dai colori, dai suoni evocati. Un flusso continuo di energia creativa attraversa la partitura delle otto opere grafiche che Henri Matisse (1869-1954) realizzò in dialogo con i versi di grandi poeti. Stampati in edizione limitata e poco noti al grande pubblico (a parte Jazz a cui la Tate Modern di Londra dedicò la mostra The Cut-outs nel 2014) questi libri d’arte nacquero tra il 1932 e il 1950, in un arco di 18 anni. Ma ben vedere – eccezion fatta per Poésies di Stéphane Mallarmé che gli fu commissionato dall’editore Albert Skira nel 1932 – furono quasi tutti ideati durante gli anni della seconda guerra mondiale. Con queste narrazioni visive, vive e vitali, a suo modo, Matisse lottava contro l’oppressione materiale e mentale imposta dal nazismo, in un momento difficilissimo per lui anche dal punto di vista personale. Durante l’occupazione della Francia, già avanti negli anni e scampato per poco a una grave malattia, venne attaccato dall’establishment accademico e, come altri artisti d’avanguardia, additato dai nazisti come artista degenerato.

«Mai l’arte indipendente fu tanto esposta a soprusi più idioti e fu ridicolizzata in termini tanto assurdi», scriveva nel 1951 Alfred H. Barr, nella prima biografia critica del pittore francese. «Matisse nella pattumiera! Picasso in manicomio! Questi erano gli slogan». Solidale con i figli che si erano uniti alla resistenza, ma anche preoccupato per la loro vita, Matisse si sentiva in conflitto per il fatto di esser scappato da Parigi per raggiungere faticosamente il Sud della Francia. (Secondo Barr sarebbe stato proprio Picasso ad avvertirlo del pericolo imminente dell’avanzata nazista). Nella Villa di Nizza circondata da palme, dove si rifugiò con Lydia Delectorskaya, sua assistente, modella e compagna, ancora debole e convalescente il pittore era di fatto isolato non avendo mezzi di comunicazione rapidi né auto. Ma quando il figlio maggiore, Pierre, gallerista a New York, lo pregò di raggiungerlo oltreoceano, Matisse disse no a quella che gli pareva una diserzione. Bloccato in casa, nel suo studio protetto e nel rapporto con Lydia, sviluppò inconsciamente una originalissima resistenza dedicandosi all’arte. Creando opere universali che in un momento così buio osavano parlare dei bellezza, di fantasia, di ricerca sull’immagine femminile, di desiderio. Senza annullare ciò che accadeva fuori, riuscì nonostante tutto a fare una capriola interiore trovando così una nuova modalità espressiva: facendo incontrare parole e immagini, ma anche disegnando con le forbici, in maniera dirompente come raccontano in particolare le colorate e travolgenti sequenze di Jazz (1947).

Louise Rogers Lalaurie ripercorre quella straordinaria avventura umana e artistica in un sontuoso volume, Matisse, i libri, da poco pubblicato in Italia da Einaudi.

Un libro che fin dalla copertina pervinca ricoperta di tela e con caratteri oro incisi vorrebbe trasmettere al lettore la sensazione di avere fra le mani quei libri d’arte che Matisse concepì come opera totale, capace di coinvolgere tutti i sensi, cercando un effetto sinestetico. Uscito in concomitanza con l’apertura della mostra parigina Matisse, comme un roman (ideata per celebrare il centocinquantesimo anniversario della nascita del pittore), questo volume ci consola un po’ del fatto di non poter volare a Parigi per vederla dal vivo, poiché il filo di ricerca che lega il libro e la mostra del Centre Pompidou in fondo è il medesimo: l’importanza del rapporto tra parola poetica e immagine, individuato come filo rosso che carsicamente attraversa tutta l’opera di Matisse. Non è un caso, scrivono i curatori della mostra, che la prima opera veramente nuova di Matisse si intitolasse Luxe, calme et volupte (1904). Ispirandosi ai versi de L’invitation au voyage di Baudelaire, Matisse dipinse un quadro luminoso e visionario che segnava il definitivo passaggio dal neoimpressionismo alle forme piatte e ai colori intensi del periodo Fauve. Intuendone fra i primi la portata, Paul Signac disse che era «una poesia» visiva che rendeva del tutto superata la pittura come mimesis e calco della realtà. Ma quel rapporto fra parola, suono, e immagine sarebbe diventato ancor più essenziale per lui durante la guerra, come accennavamo. Fu con quegli otto libri raccontati approfonditamente da Louise Rogers Lalaurie che, dopo aver attraversato straordinarie stagioni creative Matisse «riuscì a venir fuori dall’impasse e dalla fragilità», raccontando di sé. «Tutto si svolgeva come se, sul tardi della sua vita Henri Matisse in occasione di certi libri, raccontasse la sua vita», notava Luis Aragon nel 1948 (il suo libro Henri Matisse, roman è la matrice del titolo della mostra al Beaubourg). Ed è vero che in quei volumi Matisse toccava tutti grandi temi della vita, la ricerca della verità più profonda e della bellezza, la dimensione della vecchiaia de della perdita di persone amate… Ma «quegli anni dedicati ai libri illustrati non rappresentano in alcun modo il capitolo finale della sua vita di artista», nota Rogers Lalaurie. Anzi. «Quel confronto con le più grandi voci poetiche di Francia e la scoperta della propria vena autoriale (i testi di Jazz sono di Matisse, ndr) fecero da cornice a una profonda riflessione sulla sua stessa pratica artistica» e da catalizzatore per passare dalla pittura a grandi opere monumentali, che con linee e colori ridefinivano completamente gli spazi architettonici. Ma c’era anche dell’altro e di inaspettato. «C’era in quei libri una vena riconoscibilmente politica – scrive Rogers Lalaurie – che in qualche misura va controcorrente rispetto ai più immediati motivi di fascino di libri illustrati». Perfino in quello dedicato agli Amours di Pierre de Ronsard (1524-85) (realizzato con incisioni in bianco e nero che ricordano la pittura vascolare greca ) il cui fascino risiedeva nella loro carica erotica, romantica, nostalgica. Perché politicamente dirompente, in quel deserto di macerie, era parlare di ritorno alla vita e al rapporto con l’altra. E poi il fatto stesso che Aragon, figura di spicco della Resistenza, avesse scritto al prefazione al volume di Matisse Dessins, thèmes et variables (1941-1943) dava un significato ulteriore a quelle immagini femminili in un interno, fra piante, vasi di frutta e teiere, tessuti d’arredo. «Nel più buio della notte, diranno, ha disegnato questi disegni, pieni di luce», annotò Aragon. Ritirarsi ma resistere è il tema di tutti i libri di Matisse in tempo di guerra. È questa la tesi che Louse Rogers Lalaurie argomenta in modo affascinante per centinaia di pagine tessendo lettura critica, immagini e descrizione dei dettagli di produzione di ogni libro, incluso il tipo di macchina con cui furono stampati, il tipo di carta, il nome del maestro stampatore ecc. Dare rappresentazione a poeti come Ronsard – «quella dolce fontana dei sensi» – era un deliberato atto di resistenza, «compiuto però sotto i riflettori dell’ufficialità – sottolinea la studiosa – nel cuore della zona di Vichy, ostentato sulle pareti del suo studio molto fotografato, dalla cui finestra la veduta abbracciava quella che Aragon chiama la Nizza dominata». Anche la scelta dei testi per i libri illustrati rafforza questa dimostrazione di resistenza creativa. «Il livre d’artiste con la possibilità di trasmettere significati subliminali nell’interazione fra testo e immagine era la forma d’arte perfetta per il tempo di guerra. Quale migliore dichiarazione di opposizione alle tendenze arianizzanti del governo di Vichy dei versi de Les Fleurs du mal di Baudelaire con quell’orchestrazione di confronti fra le bellezze bianche e quelle esotiche?» Insomma quell’apparente ritiro di Matisse, «tanto scrupolosamente documentati in fotografie, racconti e nelle opere d’arte erano in realtà anche un atto di indipendenza creativa e di autenticità e , perfino – se pensiamo alla moltitudine di uccelli nelle voliere che ogni giorno venivano liberati in modo che potessero svolazzare per le stanze – una performance di libertà nella cattività».

U.

«C’era in quei libri una vena riconoscibilmente politica – scrive Rogers Lalaurie – che in qualche misura va controcorrente rispetto ai più immediati motivi di fascino di libri illustrati». Perfino in quello dedicato agli Amours di Pierre de Ronsard (1524-85) (realizzato con incisioni in bianco e nero che ricordano la pittura vascolare greca ) il cui fascino risiedeva nella loro carica erotica, romantica, nostalgica. Perché politicamente dirompente, in quel deserto di macerie, era parlare di ritorno alla vita e al rapporto con l’altra. E poi il fatto stesso che Aragon, figura di spicco della Resistenza, avesse scritto al prefazione al volume di Matisse Dessins, thèmes et variables (1941-1943) dava un significato ulteriore a quelle immagini femminili in un interno, fra piante, vasi di frutta e teiere, tessuti d’arredo. «Nel più buio della notte, diranno, ha disegnato questi disegni, pieni di luce», annotò Aragon.

Ritirarsi ma resistere è il tema di tutti i libri di Matisse in tempo di guerra.

È questa la tesi che Louse Rogers Lalaurie argomenta in modo affascinante per centinaia di pagine tessendo lettura critica, immagini e descrizione dei dettagli di produzione di ogni libro, incluso il tipo di macchina con cui furono stampati, il tipo di carta, il nome del maestro stampatore ecc. Dare rappresentazione a poeti come Ronsard – «quella dolce fontana dei sensi» – era un deliberato atto di resistenza, «compiuto però sotto i riflettori dell’ufficialità – sottolinea la studiosa – nel cuore della zona di Vichy, ostentato sulle pareti del suo studio molto fotografato, dalla cui finestra la veduta abbracciava quella che Aragon chiama la Nizza dominata».

Anche la scelta dei testi per i libri illustrati rafforza questa dimostrazione di resistenza creativa.

«Il livre d’artiste con la possibilità di trasmettere significati subliminali nell’interazione fra testo e immagine era la forma d’arte perfetta per il tempo di guerra. Quale migliore dichiarazione di opposizione alle tendenze arianizzanti del governo di Vichy dei versi de Les Fleurs du mal di Baudelaire con quell’orchestrazione di confronti fra le bellezze bianche e quelle esotiche?» Insomma quell’apparente ritiro di Matisse, «tanto scrupolosamente documentati in fotografie, racconti e nelle opere d’arte erano in realtà anche un atto di indipendenza creativa e di autenticità e , perfino – se pensiamo alla moltitudine di uccelli nelle voliere che ogni giorno venivano liberati in modo che potessero svolazzare per le stanze – una performance di libertà nella cattività».

L’articolo prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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SOMMARIO

Il biotecnologo Valerio Azzimato: Il vaccino è essenziale ma nei primi mesi non sarà la panacea

In this Sept. 24, 2020, file photo, syringes of SARS CoV-2 Vaccine for COVID-19 produced by Sinovac are displayed during a media tour of its factory in Beijing. China is rapidly increasing the number of people receiving its experimental coronavirus vaccines, with a city offering one to the general public and a biotech company providing another free to students going abroad. (AP Photo/Ng Han Guan, File)

«Stiamo tutti vivendo un momento storico, anche la scienza e noi ricercatori. Tra un secolo si parlerà di questa pandemia e del Covid-19 come oggi si parla ancora della Spagnola e del vaiolo. Ed entro poche settimane è molto probabile che la lotta della medicina contro questo virus, sconosciuto fino a poco meno di un anno fa, entri in una nuova fase. Costringendolo a rallentare». Siamo con Valerio Azzimato, biotecnologo e ricercatore al Karolinska Institutet di Stoccolma. Da marzo scorso collabora con gruppi di ricerca sul Covid che si sono formati nella prestigiosa università svedese al cui interno è insediato il comitato che ogni anno assegna il Nobel per la medicina. In pratica si tratta di uno degli hub nevralgici attraverso cui passano le informazioni che sin dai primi mesi di quest’anno la comunità scientifica internazionale si sta scambiando sul coronavirus.

Valerio Azzimato

Azzimato sa perché lo abbiamo cercato. Vogliamo sapere se le voci di una imminente approvazione del primo vaccino contro il Covid-19 siano fondate. E su questo ci risponde subito: «C’è sicuramente una buona possibilità che entro l’inverno negli Stati Uniti si comincino a distribuire le prime dosi». Cercheremo quindi di capire in che termini questa è una buona notizia. Noi che come lui abbiamo mantenuto un forte scetticismo di fronte agli annunci che nelle ultime settimane abbiamo sentito fare a diversi presidenti e capi di governo. Uno scetticismo che per uno scienziato è la bussola, ci tiene a precisare, e che per chi fa informazione è dettato dal fatto che di norma per un vaccino dall’avvio della sperimentazione all’approvazione al commercio passano almeno 4-5 anni. Nel caso del Covid-19, stando a quel che hanno detto Trump, Putin, Conte e altri non saranno passati nemmeno 12 mesi. Davvero le loro non sono affermazioni avventate da bollare come propaganda politica? «In questo periodo storico – spiega Azzimato – tutta la ricerca mondiale è concentrata sulla scoperta del vaccino. È la priorità di tutte le grandi case farmaceutiche, dei laboratori di ricerca virologica, di quelli di chimica combinatoriale etc. Una ricerca collettiva e di massa senza precedenti accompagnata da una mole imponente di scambio di informazioni che anche solo per una questione di logica fanno capire perché è possibile che si sia riusciti a trovare un vaccino in tempi molto più brevi rispetto al solito».

L’esigenza di conoscere che fa da motore alle scoperte è rappresentata anche dal modo in cui si sono formati i gruppi Covid al Karolinska. Azzimato – che ha ricevuto una proposta dall’università svedese quasi 6 anni fa dopo essersi formato a Milano, presso il Centro cardiologico Monzino e precedentemente all’Ifo Regina Elena di Roma – come tanti altri giovani ricercatori suoi colleghi ha dato subito la sua disponibilità nella formazione di questi team. «La mia “vita scientifica è in un ambito diverso, mi occupo infatti di malattie metaboliche del fegato (a fine febbraio ha pubblicato uno studio su Science Translational Medicine che potrebbe aprire nuove strade al trattamento contro il fegato grasso, ndr) ma insieme a tanti altri mi sono subito messo a disposizione della ricerca per la conoscenza del nuovo coronavirus Sars-cov-2. Qui ci sono medici, immunologi, virologi, centinaia di persone che lavorano h24 per aiutare a comprendere la pandemia e questo virus sconosciuto e per certi versi inaspettato. Nel senso che nessuno l’aveva previsto in questa forma. La scienza – chiosa il ricercatore – per arrivare ad una cura deve prima conoscere».

E non è un caso se uno dei gruppi Covid del Karolinska è tra i titolari della scoperta del ruolo delle cellule T nella risposta immunitaria al coronavirus. E qui torniamo al vaccino. Come vi abbiamo raccontato la scorsa settimana, il 20 ottobre la casa farmaceutica Pfizer ha inviato anche in Europa dosi del vaccino da testare su volontari ricoverati con sintomi. Il vaccino Pfizer è in via di…

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Guariniello: Covid-19 e sicurezza sul lavoro, le leggi ci sono e vanno applicate

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 19-07-2017 Roma Politica Camera dei Deputati. Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti dell'utilizzo dell'uranio impoverito Nella foto Raffaele Guariniello Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 19-07-2017 Rome (Italy) Politic Chamber of Deputies. Report by the Parliamentary Commission on the effects of the use of depleted uranium In the pic Raffaele Guariniello

Raffaele Guariniello ha scritto un ebook a marzo (poi aggiornato) dal titolo esplicito: La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus. Il magistrato, noto per l’inchiesta Eternit e quella sul rogo ThyssenKrupp, ha vagliato i provvedimenti emergenziali del Covid-19 mettendoli a confronto con le leggi (e sentenze) in materia di tutela della salute dei lavoratori, a cominciare dal decreto legislativo 81 del 2008, il Testo unico per la sicurezza sul lavoro.

Dottor Guariniello le sembra che le imprese si stiano comportando in maniera corretta a proposito di prevenzione del coronavirus alla luce della relazione Inail che parla di 54mila contagi nei luoghi di lavoro?

È una domanda chiave. Le dovrei rispondere dicendo che questi casi devono essere segnalati dal medico all’Inail ma anche all’autorità giudiziaria perché potrebbero essere casi di omicidio colposo o di lesione personale colposa, quindi più che mai sono casi da prendere in considerazione. Ma per altro verso non sono casi che possano dimostrare l’insicurezza che regna nelle imprese pubbliche e private perché dobbiamo verificare se questi casi di infezione da Covid-19 siano stati effettivamente causati da una condotta colposa del datore di lavoro o di chi per lui o con lui. Quindi si tratta di verificare nei luoghi di lavoro se tutte le misure di sicurezza sono state adottate. E qui cominciano altri dolori. Chi è che sta facendo questi controlli? Vengono fatti in modo sistematico oppure no? Su questo ho ulteriori, grandi perplessità.

Per quale motivo ha dei dubbi sui controlli?

Perché i nostri organi di vigilanza, dalle Asl all’Ispettorato nazionale del lavoro versano in grave crisi sia di organico sia di professionalità. Aggiungo poi un altro dato allarmante.

Quale?

C’è stata una tendenza favorita purtroppo da una nota dell’Ispettorato del lavoro di marzo, di fronte a questa alluvione di norme emergenziali: la tendenza a trascurare la legge più importante, il Testo unico della sicurezza del lavoro. Infatti in questa trascuratezza è finito l’obbligo più importante di tutti: il documento di valutazione dei rischi, il Dvr, in cui le imprese devono valutare i rischi e indicare le misure di prevenzione. Si è detto: questo obbligo non vale per il Covid-19. Questa è una grave lacuna interpretativa in cui è incorso l’Ispettorato nazionale del Lavoro. Devo dire che mi sono molto battuto contro questa interpretazione e oggi possiamo dire che a sostenere questa tesi l’Ispettorato nazionale del lavoro è rimasto solo, perché tutte le istituzioni, dal ministero della Salute a quelli degli Interni e della Giustizia fino all’Unione europea con la direttiva uscita a giugno, hanno sostenuto che il Covid-19 è uno degli agenti biologici di cui dobbiamo tener conto in sede di prevenzione. Dobbiamo dare atto poi che nel decreto legge del 7 ottobre all’articolo 4 questa direttiva europea viene recepita.

Secondo quanto lei dice sull’Ispettorato nazionale del lavoro a proposito del Dvr significa che possono esserci state conseguenze negative sui controlli nelle imprese?

Ora non c’è più nessuno a sostenere questa tesi. Anche il ministero del Lavoro nella sua circolare del 13 settembre congiunta con il ministero della Salute dice che bisogna rispettare il decreto 81 e quindi in qualche modo sconfessa il suo Ispettorato nazionale del lavoro. Il dato dei 54mila contagi denota un fatto: conta non solo l’organo di vigilanza ma anche l’autorità giudiziaria. E anche qui noto una crisi dell’intervento giudiziario. Ci sono zone nel nostro Paese in cui i processi non vengono proprio fatti. Oppure si

L’intervista prosegue su Left del 30 ottobre – 5 novembre 2020

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Resistere per riesistere

Il vorticoso numero di contagi legati all’epidemia del Covid 19 ci apre un panorama piuttosto sconfortante. Anche se le cure mediche sono più efficaci, sembra di tornare a otto mesi fa, quando siamo stati travolti da una pandemia che ha portato con sé molteplici tragedie. Pur colpiti profondamente nelle nostre abitudini di vita, abbiamo trovato la capacità di resistere a questa prima ondata. Salivamo sulle terrazze per incontrare il vicino di casa fino a quel momento ignorato, ad ogni tramonto ci salutavamo da lontano, si brindava simbolicamente cantando “Bella Ciao”. A giugno ci illudevamo di essere più forti del virus, avevamo la certezza di un’identità nuova fatta di coraggio e resistenza. Poi ci siamo lasciati andare al sole caldo dell’estate, volendo dimenticare quell’esperienza unica, strana, dura che era stata il lockdown. Oggi è arrivata un’altra ondata, forse un’onda anomala piena di nuovi interrogativi. Però, prima di porci alcune domande sul presente, è necessario fare un passo indietro per chiederci quanto gli effetti protratti della pandemia abbiano inciso sulla salute mentale. Ancora non ci sono studi attendibili, ma sappiamo da ricerche statistiche sulle precedenti emergenze, come un lungo periodo di isolamento, la lontananza dalle persone care, l’aggravamento delle condizioni economiche abbiano una forte ricaduta sulla realtà psichica. Gli studi svolti dopo le passate pandemie segnalano un significativo aumento dei casi di depressione e di disturbi post-traumatici da stress. L’emergere della patologia depressiva nel periodo pandemico viene confermata da una ricerca svolta all’ospedale San Raffaele di Milano, su persone affette dal Covid-19.

Lo studio, pubblicato nell’agosto 2020 sulla rivista scientifica Brain, Behavior and Immunity e coordinato dallo psichiatra Francesco Benedetti ha descritto le ricadute di questa malattia a livello psichiatrico. La ricerca è stata condotta su 402 pazienti, utilizzando interviste cliniche e questionari di auto-valutazione. Lo scopo era di esaminare i sintomi psichiatrici dei pazienti un mese dopo il trattamento ospedaliero. Di questi, circa 300 erano stati ricoverati presso l’ospedale e 100 erano stati seguiti presso il proprio domicilio. Dai risultati è emerso che nel 31% degli intervistati si erano manifestati sintomi depressivi, legati però non alla patologia organica ma ai suoi effetti psicologici. Per quanto riguarda invece i dati complessivi sull’aumento della patologia depressiva dal mese di marzo fino ad oggi, è ancora troppo presto per avere dei risultati attendibili. Pur nella impossibilità di quantificare ad oggi il fenomeno…

*-*

L’autrice: Maria Sneider è psichiatra e psicoterapeuta. Ha lavorato per diversi anni nelle cliniche psichiatriche e presso i Centri di igiene mentale di Roma. Attualmente svolge la sua attività professionale di psicoterapeuta individuale e di gruppo

 

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