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Il rientro in classe è un percorso a ostacoli

Foto GIUSEPPE LAMI/LaPresse/Pool Ansa26-06-2020 Roma, Italia PoliticaConferenza stampa Conte-AzzolinaNella Foto il ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina nella sala dei Galenoni di Palazzo Chigi durante conferenza stampa

Le nuove linee guida, “Piano scuola 2020-21”, che avrebbero dovuto recepire le critiche provenienti da tutti i settori della scuola, sono un bicchiere che appare quasi del tutto vuoto. Chi si aspettava sostanziali novità – anche in ragione delle oltre sessanta piazze convocate da Priorità alla scuola, che chiedevano attenzione, ascolto e rispetto – resta deluso tanto dalla forma quanto dal contenuto, due facce della stessa medaglia. Il linguaggio, in primo luogo: il peggio della gergalità burocratese per mascherare decisioni politiche come soluzioni tecniche, per consentire ai decisori politici di nascondersi dietro il dito degli esperti.

Al tempo stesso, i giochi delle apparenze fra il detto e il non detto, che rendono permanentemente provvisorio ciò che dovrebbe essere definitivo, e che viene continuamente modificato da una conferenza stampa, un cinguettìo, uno status. Ad esempio, la didattica a distanza sembra marginalizzata, se si combinano le due occorrenze a pagina 6 (dov’è definita «integrata» alla didattica in presenza e «complementare») e a pagina 15, dove si parla di ripresa dell’attività a distanza, attraverso la didattica digitale integrata (solo?) in caso di nuovo lockdown. Perché, allora, non esplicitare che è l’extrema ratio? E, quanto alla sospensione delle attività didattiche, quali sono i processi che le determinano, quali gli attori? Quale ruolo hanno gli organi collegiali, in questo delicato passaggio?

Preoccupa che i Tavoli regionali operativi, insediati presso gli Uffici scolastici regionali, siano costituiti dal direttore dell’Usr, dagli assessori regionali all’istruzione, trasporti e salute, dal rappresentante regionale dell’Unione delle Province, dell’Anci, e della Protezione civile: dov’è il mondo della scuola? Nella prima versione si diceva, con maggiore ampiezza di inclusione, che ai Tavoli partecipano «i soggetti e gli operatori coinvolti nell’ambito del sistema di istruzione»: è lecito pensare che le Regioni abbiano alzato la voce (a partire da Veneto ed Emilia-Romagna, forti dell’auto-narrazione della buona gestione della crisi) per avere un primo concreto scampolo di autonomia differenziata. E ancora, restano…

L’autore: Girolamo De Michele è scrittore e insegnante, fa parte del movimento Priorità alla scuola

 

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Se il museo diventa pubblica agorà

Una recentissima indagine svolta dall’International Council of Museums e riferita a circa 1.600 musei di 107 Paesi dei cinque continenti, ha registrato con la forza dei dati il disastroso impatto della pandemia sulle istituzioni museali in tutto il mondo: il 95% delle strutture ha conosciuto lockdown più o meno prolungati (in certi casi tuttora in corso), e oltre il 12% dei musei – in particolare in Africa, Asia e Paesi arabi – teme addirittura di non poter riaprire i battenti. Il crollo delle risorse ha provocato contraccolpi pesanti sull’occupazione per quanto riguarda lavoratori free lance, precari o comunque con contratti a tempo determinato che in oltre il 50% dei casi non sono stati pagati durante le chiusure e che, per quasi il 40%, sarà vittima di riduzioni del personale già preannunciate.

Come noto, del resto, i musei sono stati investiti dal crollo dei flussi turistici destinato a prolungarsi nel tempo: se l’Ocse, per quest’anno, ha previsto una diminuzione fra il 50 e il 70% delle attività turistiche a livello mondiale, il rapporto Nemo (Network of European Museum Organizations) sull’impatto del Covid-19 rileva una perdita di entrate, per i musei delle zone a maggiore attrattività turistica, fra il 75% e l’80%.
Anche in Italia la situazione non è certo più rosea: nel 2020 la spesa per turismo nel nostro Paese sarà ridotta di 66 miliardi di euro rispetto al 2019 con dimezzamenti previsti per le città d’arte, a partire da Venezia e Firenze (dati Enit).

Di fronte a tali previsioni, in questi mesi – di necessità, virtù – si sono succedute, da parte di direttori di siti e musei, reiterate e appassionate dichiarazioni sulla necessità di una palingenesi post-Covid orientata ad un uso del patrimonio diverso, più meditato o, come si dice ora, “slow”. Ma non appena si è avviata la fase 2, ecco tornare le consuete modalità da marketing con i numeri dei visitatori snocciolati come trofei, mentre il ministro Franceschini, in audizione parlamentare, pochi giorni or sono, ha dichiarato testualmente, a mo’ d’auspicio: «Fino a gennaio di quest’anno dibattevamo di come gestire un boom talmente forte che si parlava di overbooking, di città d’arte che non riuscivano più a contenere il numero di turisti, di ticket di ingresso, di conciliabilità tra turismo in crescita e tutela del nostro patrimonio paesaggistico e artistico. Sembra un…» .

Maria Pia Guermandi è archeologa ed è responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna

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La forza della rigenerazione

Parte dei fondi del così detto Recovery fund, poi denominato Repair and prepare for the next generation Eu, costituiranno programmi di investimento europei centrati sul Green deal, un piano per la ripresa economica da attuarsi attraverso uno sviluppo verde e sostenibile.

L’obiettivo dell’Ue è quello di ridurre le emissioni di CO2 e quindi contenere gli effetti delle alterazioni climatiche attraverso il miglioramento dell’efficienza energetica, l’incremento nell’uso delle fonti rinnovabili, la riduzione della richiesta di energia, lo sviluppo dell’economia circolare, la gestione attenta del ciclo dei rifiuti, la riduzione delle vulnerabilità ambientali, in sintesi una nuova sostenibilità ambientale e sociale.

Considerando che il 70% della popolazione europea vive in città, la rigenerazione urbana-ambientale e il corrispondente sviluppo dell’economia locale dovrebbe costituire uno degli ambiti più importanti per la tanto auspicata ripresa e riconversione verso un’economia più sostenibile.

Di questo si parlerà prossimamente alla “III Conferenza nazionale delle Green city”, una web conference in programma il prossimo 9 luglio organizzata dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Da alcuni decenni una risposta convincente alla necessità sempre più urgente di ridurre le emissioni di CO2 viene dall’architettura bioclimatica. Utilizzando attentamente gli elementi naturali quali sole, vento, acqua, terreno, vegetazione e ricorrendo a strategie progettuali “passive” l’architettura bioclimatica realizza edifici termicamente efficienti in grado di realizzare un alto grado di comfort interno, prescindendo dall’uso di impianti di riscaldamento e di raffrescamento.

Come ad esempio nel quartiere BedZed che sorge a Beddington alla periferia di Londra: pur essendo stato realizzato nel 2002 è ancora un esempio significativo di…

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Il voto di settembre e la latitanza dei partiti

Foto LaPresse/ Matteo Corner 21 Maggio 2019, Milano Presidio in solidarietà a Rosa Maria dell Aria davanti alla Prefettura

Il 20 e 21 settembre saranno election days. Il plurale è d’obbligo, perché, per cercare di evitare un’eccessiva concentrazione di elettori, si torna a votare su due giorni. Tutti gli elettori avranno in mano almeno una scheda, quella per votare “Sì” o “No” alla riduzione del numero dei parlamentari. Ne avranno due o tre, quelli che risiedono in Regioni o Comuni che devono rinnovare gli organi.

Si tratterà di scelte fondamentali, relative alla rappresentanza nazionale e al governo di autonomie, che – come abbiamo visto durante la fase dell’emergenza – possono giocare un ruolo di grande rilievo e fare la differenza. Infatti, pur a fronte di un’emergenza nazionale, le Regioni e i Comuni non hanno mancato di assumere iniziative proprie, raramente giustificate dalla specificità territoriale, ma generalmente scampate all’annullamento del governo (applicato – a quanto risulta – solo all’ordinanza del sindaco di Messina) e dei giudici amministrativi (che ha colpito un numero esiguo di ordinanze).

Ai presidenti delle Regioni, abituati a sentirsi chiamare governatori, e ai sindaci l’esercizio del potere straordinario di ordinanza generalmente piace. Del resto la forma di governo delle Regioni e dei Comuni li ha abituati alla concentrazione del potere nelle loro mani, anche a fronte di Consigli generalmente appiattiti sulle loro posizioni e incapaci di esercitare quel potere di indirizzo al quale sarebbero chiamati per evitare di lasciare la gestione delle autonomie nelle mani di una sola persona. Nel merito, poi, raramente, l’esercizio di questi poteri ha prodotto qualche risultato utile, mentre nella maggior parte dei casi o si è risolto in vuote “grida” più o meno ripetitive di provvedimenti nazionali, ma utili a conquistare una mezza pagina di giornale, o addirittura ha fatto danni. In ogni caso, tutto questo conferma la grande importanza del voto settembrino, di fronte al quale preoccupa l’assenza di confronto politico nel merito delle questioni su cui saremo chiamati a decidere.
E questo è dovuto soprattutto alla sempre più evidente debolezza e latitanza dei partiti e dei movimenti politici.
L’articolo 49 della Costituzione individua i partiti come le associazioni partecipando alle quali i cittadini possono concorrere alla determinazione della politica nazionale. Il modello di democrazia che la Costituzione disegna, infatti, non è quello di una completa delega di lungo periodo alle istituzioni rappresentative, ma di…

L’autore: Andrea Pertici è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Pisa

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Ecobonus per cambiare davvero. Non solo la caldaia

La filosofia ispiratrice del cosiddetto superbonus è quella che servirebbe più in generale per avere finalmente una politica industriale degna di tal nome e che garantisca un futuro più sostenibile, auspicabile e solido, durable il termine francese rende forse meglio l’idea.

Eccessivo? Non credo. Bisogna intendersi: il Green new deal proposto dall’Europa è allo stesso tempo una necessità ineludibile per affrontare la crisi climatica in atto e dare concretezza ad accordi internazionali come quelli di Parigi 2015 (che altrimenti rischiano di rimanere lettera morta mettendo in pericolo persino la sopravvivenza della nostra specie sul Pianeta), ma anche un’opportunità straordinaria per rilanciare l’economia e consentire all’Europa di tornare ad essere “modello” come lo fu con l’affermazione del welfare. A patto però che questo Green deal non sia inteso come qualcosa che consenta al sistema economico di procedere business as usual, magari con una spruzzatina di rinnovabili in più al posto dei fossili (ma salvaguardando il gas per carità), ma piuttosto come un vero cambiamento di approccio che informi di sé tutte le politiche economiche mettendo al centro l’uso efficiente delle risorse, quella che oggi chiamiamo economia circolare.

Ecco, il superbonus proposto dal governo assomiglia a…

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La posta in gioco: 800mila posti di lavoro green

In this Thursday, Aug. 8, 2019 photo a workers install solar panels onto a roof at the Van Nuys Airport in the Van Nuys section of Los Angeles. (AP Photo/Richard Vogel)

Nelle aspettative di molti addetti ai lavori, il 2020 era atteso come l’anno di svolta delle politiche europee in chiave green, ossia un cambio di passo per mettere a sistema una serie di provvedimenti a sostegno di una crescita sostenibile sotto il profilo climatico e ambientale, che fosse inclusiva dal punto di vista sociale.

L’aspettativa non è stata delusa e alla fine del 2019, la Commissione ha pubblicato il Green deal europeo: una tabella di marcia che si propone di affrontare i problemi legati al clima e all’ambiente, raggiungendo la neutralità carbonica entro la metà del secolo, riducendo la pressione sulle risorse, tutelando e migliorando il capitale naturale. E con l’ulteriore impegno a far sì che la transizione avvenga in modo equo, prevedendo un meccanismo di sostegno a quei settori che saranno maggiormente colpiti, anche attraverso programmi di riqualificazione professionale dei lavoratori per garantirgli le competenze necessarie ad accedere ai nuovi posti di lavoro che saranno generati.

Già, perché seppure andranno perduti molti posti di lavoro, soprattutto nei settori brown dell’economia, ad esempio quelli legati ai combustibili fossili o alle attività estrattive, a fronte di un piano di investimenti miliardario in diversi ambiti – dalle rinnovabili, all’economia circolare, alla riqualificazione energetica dei processi industriali e delle abitazioni, alla mobilità, all’agricoltura, il saldo occupazionale atteso dalle politiche del Green deal europeo è…

L’autore: Massimiliano Bienati si occupa di studi e ricerche presso la Fondazione per lo sviluppo sostenibile di cui è direttore Raimondo Orsini

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Quanta energia da condividere

Worker installing alternative energy photovoltaic solar panels on roof

È il momento di accelerare con una seconda “rivoluzione” della generazione da fonti rinnovabili, aprendo finalmente alle comunità energetiche. La prima fase dello sviluppo delle rinnovabili che abbiamo visto all’inizio del XXI secolo ha consentito di cambiare il modello energetico, rendendolo sempre più distribuito e rinnovabile. Sono infatti oggi oltre un milione gli impianti tra elettrici e termici in Italia che troviamo in tutti e 7.911 Comuni, mentre dieci anni fa erano solo 356. Questi impianti hanno permesso di portare il contributo delle fonti pulite rispetto ai consumi elettrici dal 15 al 36%, consentendo di chiudere centrali a carbone e olio combustibile per 13 Gigawatt.

Ma ora deve partire una seconda fase di sviluppo delle fonti rinnovabili e di integrazione nel territorio, una sfida differente e per molti versi più importante. Perché nell’accelerazione degli investimenti indispensabile per arrivare a un sistema al 100% incentrato sulle rinnovabili, possiamo mettere ancora di più al centro il territorio, con le sue risorse rinnovabili e la risposta da trovare alle diverse domande di energia elettrica e termica. Legambiente lo ha raccontato in questi anni attraverso le storie di tanti Comuni rinnovabili delle Alpi che, sfruttando una normativa speciale di un secolo fa per le cooperative, già potevano scambiare energia e hanno realizzato in questi anni progetti innovativi per beneficiare dei vantaggi ambientali ed economici. Ma ora dobbiamo e possiamo fare un passo in più consentendo in tutta Italia la condivisione e autoproduzione di energia, anche perché intorno a questi obiettivi possiamo costruire progetti di innovazione sociale e riduzione delle disuguaglianze.

Questo nuovo scenario è raccontato nel Rapporto Comunità rinnovabili di Legambiente nel quale si raccontano 32 progetti in ogni regione italiana che puntano su questo modello di condivisione e autoproduzione di energia da tecnologie sempre più economiche ed efficienti. Sono cooperative energetiche “storiche” delle Alpi che puntano a diventare a emissioni zero o nuove che nasceranno a Roseto Val Fortore, in Puglia, sfruttando l’energia eolica. Troviamo…

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Cari politici, i Fridays for future hanno un piano

The Fridays For Future return to demonstrate after months of online protest due to lockdown to control the spread of Covid 19 (SARS-cov-2 coronavirus) pandemic. Empty shoes are displayed by protesters during Friday for Future global climate strike to symbolize people who were unable to attend due to the limitations for COVID 19. (Photo by Mauro Ujetto/NurPhoto via Getty Images)

«Fight every crisis». A Fase 2 appena iniziata, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, le ragazze e i ragazzi dei Fridays for future (Fff) di Torino si sono presentati davanti al palazzo comunale con questo striscione. I numeri della mobilitazione ecologista in Italia, per questo appuntamento, sono stati più bassi rispetto al passato. Qualcuno – dopo che una pandemia epocale ha seminato lutti e distrutto certezze e nell’arco di pochi mesi – ha opinato che in questa fase i Fridays faticherebbero a catalizzare consensi perché troppo radicali. Troppo estremisti nel difendere l’ambiente e troppo poco nel tutelare le persone, che il coronavirus ha messo nel mirino. Altri, invece, hanno criticato il movimento precisamente per il motivo opposto. Secondo quest’altra tesi, i Fridays sarebbero meno radicali di quanto necessario, incapaci di proporre una nuova visione globale che sappia cucire assieme le lotte che infiammano il mondo, da quella climatica a quella antirazzista, da quella per il diritto alla salute a quella per la parità di genere.

In realtà i Fridays, il legame tra queste battaglie ce l’hanno ben chiaro in testa. Così come i rischi di una narrazione che evochi un cambiamento soltanto parziale. «Gli ambientalisti tendono ad essere persone ben intenzionate e progressiste, che credono nella salvaguardia del pianeta per le generazioni future. Comprano volentieri bicchieri riutilizzabili, indossano indumenti etici e difendono le specie a rischio; tuttavia, molti esitano a fare lo stesso per salvaguardare la vita dei neri e potrebbero non aver ben chiaro perché invece dovrebbero», ha dichiarato Leah Thomas, giovane ambientalista e comunicatrice californiana. In realtà, come ha aggiunto in un intervento rilanciato da Fff Italia, «il sistema di oppressione che ha causato la morte di così tante persone nere è lo stesso sistema che ha perpetuato l’ingiustizia ambientale». La stessa Greta Thunberg si è più volte espressa sul caso George Floyd, ribadendo che black lives matter.

Il medesimo discorso vale per il sistema patriarcale che ostacola la realizzazione delle donne: altra forma di ingiustizia non slegata a quelle ambientali. Proprio al tema dell’ecofemminismo, i Fridays hanno dedicato uno dei webinar prodotti durante il lockdown e disponibili nel loro canale Youtube.

Forti della consapevolezza di questo intreccio tra oppressioni da rimuovere e lotte da far convergere, gli attivisti green si sono presentati agli Stati generali convocati dal premier Conte con le loro proposte per la ripartenza del Paese. La delegazione, che ha varcato le soglie di Villa Pamphilj al pari dei leader politici, sindacali e delle rappresentanze di categoria italiani, era guidata da Lavinia: sorriso educato, tono deciso e solo…

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Quando gli antifascisti salvarono la nostra democrazia

Gli avvenimenti del luglio 1960 segnarono, sessant’anni fa, un indubbio momento di svolta per l’Italia. Presero avvio a seguito della costituzione del governo di Fernando Tambroni con l’appoggio determinate del Movimento sociale italiano, il partito neofascista. Un monocolore democristiano che ottenne il 9 aprile di quell’anno 300 voti favorevoli alla Camera a fronte di 293 contrari. L’Msi poteva allora contare su 24 seggi, e risultò decisivo. L’iter parlamentare si concluse al Senato il 29 aprile con 128 voti favorevoli e 110 contrari. Solo pochi giorni prima, il 25 aprile, nell’anniversario della Liberazione, gli stessi senatori del Msi si erano rifiutati di partecipare alla commemorazione ufficiale.

Non era la prima volta che i missini facevano confluire i propri voti a sostegno di monocolori democristiani o ne avevano favorito l’insediamento. Era già accaduto con Giuseppe Pella nel 1953, quando si astennero al Senato, e con Adone Zoli nel 1957 quando lo sostennero esplicitamente. Per la cronaca, nell’agosto del 1957 Adone Zoli contraccambiò l’appoggio ricevuto consentendo il trasferimento dei resti di Benito Mussolini a Predappio, suo luogo di nascita. Ma nel 1960 fu la prima volta che un governo arrivava a reggersi solo grazie ai voti del partito neofascista.

Il passato di Fernando Tambroni
Fernando Tambroni, iscrittosi nel 1926 al Partito nazionale fascista, nonché camicia nera nella Milizia volontaria con il grado di centurione, era stato ministro dell’Interno dal 1955 al 1959. Non sono molte le fonti per una sua biografia, ma sappiamo, quasi un presagio, che già nell’aprile 1955 era stato proprio lui a trattare col Msi i voti per fare eleggere Giovanni Gronchi Presidente della Repubblica e che Gronchi gliene ne fu sempre riconoscente intervenendo personalmente affinché diventasse ministro. Tambroni in un suo libro, pubblicato proprio nel 1960, e dedicato in gran parte al «problema del comunismo», manifestò concezioni da “Stato forte” asserendo la necessità dell’intransigenza «verso chiunque volesse violare le leggi», prendendosela in particolare con «gli strati più umili» colpevoli di aver poco «senso dello Stato». Diversi furono su questa linea anche i suoi discorsi in Parlamento, dove, tra l’altro, intervenne compiaciuto nel 1958 per commentare l’arresto di Carla Capponi (medaglia d’oro della Resistenza), fermata a Roma per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata.

La convocazione del congresso missino a Genova
Con l’intento di incassare i frutti politici dell’appoggio dato al monocolore democristiano, l’Msi decise il 14 maggio di tenere dal 2 al 4 luglio il suo sesto congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Circolò anche la notizia, apparsa sul «Secolo d’Italia» (il quotidiano missino), che il congresso sarebbe stato presieduto dall’ex prefetto repubblichino Carlo Emanuele Basile, collaboratore dei nazisti proprio a Genova nella feroce repressione del 1943-1945, con la fucilazione di numerosi partigiani e la deportazione di quasi 1.500 operai in Germania. Trapelò anche la voce che sarebbe stato presente Junio Valerio Borghese, il famoso comandante della X Mas. Oltretutto la sala prescelta per il congresso, il Teatro Margherita, si trovava a meno di 50 metri dal sacrario dei caduti partigiani. Fu l’inizio della rivolta.

Sale la tensione
Vi erano già state alcune avvisaglie, fuori Genova, del crescere della tensione. A Livorno, dal 18 al 21 aprile, si ebbero pesanti e ripetuti scontri, solo in apparenza originati da futili motivi, tra giovani e folti gruppi di paracadutisti della locale caserma; a Bologna, il 21 maggio, un comizio di Giancarlo Pajetta, uno dei massimi dirigenti del Pci, venne interrotto da violente cariche della polizia, mentre a Milano, il 7 giugno, la sede del Partito radicale venne devastata da una squadraccia fascista capitanata da un noto esponente missino.

La rivolta popolare e il debutto delle “magliette a striscie”
Ma saranno le date del 25, del 28 e del 30 giugno a incanalare la protesta, quando la Camera del lavoro di Genova proclamò lo sciopero dei portuali il 25, e poi, il 30, di tutte le categorie. Tra le due date venne organizzato un comizio di Sandro Pertini, all’epoca dirigente socialista. Il corteo del 25, che sfilerà fino al sacrario dei partigiani, venne caricato in fase di scioglimento originando scontri che dureranno fino a sera. Comparvero qui per la prima volta le cosiddette “magliette a strisce”, usate dai lavoratori dei porti in molti Paesi che divennero un simbolo di lotta della gioventù antifascista. Il comizio di Sandro Pertini, il 28, con non meno di trentamila partecipanti nella grande piazza della Vittoria, passerà alla storia come “u brighettu”, il fiammifero, a significare che accese la fiamma della rivolta popolare. Sosterrà la legittimità del popolo genovese a negare al Msi il diritto di svolgere il suo congresso, un movimento che «è una chiara esaltazione del fascismo», sottolineando l’errore di non aver applicato la Costituzione permettendone l’attività, concludendo con un appello, «costi quel che costi», a impedire che si recasse oltraggio alla Resistenza. Il 30 giugno, al termine del comizio sindacale, la polizia caricò gruppi di manifestanti trasformando il centro della città in un’area di scontri. I celerini furono però costretti alla fuga dalla reazione popolare, alcune jeep vennero incendiate e un capitano della celere venne addirittura gettato nella fontana di piazza De Ferrari. Centonove agenti dovettero ricorrere a cure ospedaliere. Nella notte tra il 1° e il 2 luglio, a poche ore da un secondo sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro, l’Msi, in un comunicato, annunciò la decisione di rinunciare al congresso. Una vittoria dell’antifascismo.

A Reggio Emilia e in Sicilia la polizia spara. E uccide
La protesta comunque non si esaurì e si estese in tutta Italia. Il 5 luglio, a Licata, in Sicilia, la polizia sparò contro una folla di manifestanti uccidendo un giovane. Il giorno successivo a Roma un corteo con migliaia di persone, con in testa decine di parlamentari della sinistra e comandanti della Resistenza, venne caricato dalla polizia e da uno squadrone a cavallo di carabinieri, travolgendo deputati, senatori, anziani, donne, giovani. Trecento i fermati, 19 gli arresti. Il 7 luglio a Reggio Emilia, dove era stato proclamato lo sciopero generale, la polizia sparò a raffica contro i manifestanti con mitra, moschetti e pistole. Centinaia di pallottole che uccisero cinque operai e ne ferirono altri sedici. Mai in Italia le forze di polizia avevano tirato tanti colpi ad altezza d’uomo. Ma non finì qui. L’8 luglio a Palermo si sparò ancora. Furono uccisi due dimostranti e con una pistolettata una donna affacciata alla finestra. Nell’occasione ben 350 persone furono fermate. A Catania, lo stesso giorno, ci fu un altro morto abbattuto da una raffica di mitra.

Un pericolo per la democrazia
Tambroni consegnò al Capo dello Stato un dossier in cui si denunciava un piano insurrezionale comunista i cui fili portavano a Mosca, un’ossessione già più volte manifestata. Ma alla fine, il 19 luglio, fu costretto a dimettersi, isolato nel Paese e nel suo stesso partito. Si è molto discusso sul pericolo corso in quei mesi dalla nostra democrazia. La dura repressione poliziesca per sconfiggere nelle piazze le sinistre per poi puntare alla costituzione di uno “Stato forte” di tipo gollista è stata più che un’ipotesi plausibile. Tambroni costituì una specie di polizia privata (addirittura se ne vantò) con compiti di sorveglianza sui comportamenti privati di avversari politici e avviò schedature di massa di possibili nemici e anche di molti amici, incutendo timori negli stessi vertici democristiani che paventarono sue prove di forza. L’uso privatistico dell’Ufficio Affari Riservati (il servizio segreto civile), ma anche gli stretti rapporti con le associazioni d’Arma delle forze armate, che si misero pubblicamente a sua disposizione, suscitarono paura e allarme. Lo stesso Gronchi anni dopo confidò di aver avuto il dubbio di qualche mira golpista da parte di Tambroni. Aldo Moro, a sua volta, nel memoriale scritto durante la prigionia cui fu costretto dalle Brigate rosse parlò di fibrillazioni che riassunse come «il fatto più grave e più minaccioso per le istituzioni intervenuto in quel l’epoca» che lo costrinsero a «esigere le dimissioni di Tambroni». L’antifascismo vecchio e nuovo, i partigiani e i giovani con le “magliette a strisce”, lo fermarono. Una pagina fondamentale a difesa della democrazia.

Cronache da Pechino, come si resiste alla seconda ondata di Covid-19

A man wearing groves adjusts his protective face mask as he walks by posters showing a proper way to wear a face mask to help curb the spread of the coronavirus in Beijing, Sunday, June 28, 2020. China has extended COVID-19 tests to newly reopened salons amid a drop in cases while South Korea continues to face new infections as it eases social distancing rules. (AP Photo/Andy Wong)

Qui a Pechino stiamo assistendo ad una seconda ondata di coronavirus, che ha allarmato fin da subito il governo della Repubblica popolare cinese e la popolazione, la quale poteva finalmente godere delle ritrovate libertà concesse dall’allentamento delle misure restrittive di sicurezza, grazie all’entrata ufficiale nella fase 3, a partire dal 6 giugno. Dopo appena una settimana di libertà, è stato scoperto il nuovo focolaio nel mercato alimentare di Xinfadi, punto di riferimento per l’approvvigionamento di molti ristoranti della città. Il governo si è mobilitato tempestivamente per individuare i nuovi positivi al virus, ed aggiorna costantemente le liste dei casi confermati e degli asintomatici.

Le applicazioni in Cina vengono usate tantissimo, infatti è indispensabile avere l’app Wechat, il Whatsapp cinese, perché ha molte più funzioni del corrispettivo occidentale, utili alla vita di tutti i giorni. Quest’anno, a causa della situazione di emergenza sanitaria sono stati sviluppati “mini-programmi” di Wechat che permettono di monitorare in tempo reale l’insorgere di nuove aree a rischio; in questo modo sin dall’inizio della pandemia in Cina, è stato possibile controllare il numero di casi confermati in ogni quartiere delle città colpite dal virus. Oggi stiamo tornando ad affidarci nuovamente alla tecnologia per monitorare i quartieri sicuri di Pechino, e quelli in cui è meglio non andare per evitare il rischio di contagio.

È di nuovo aumentato il livello di sicurezza della città, da cui sta diventando progressivamente sempre più difficile uscire, a causa dei metodi di sicurezza e controllo implementati proprio in questi giorni dal governo cinese, per contenere il virus all’interno della capitale e contrastarne la diffusione nelle altre località del Paese. Pechino è infatti il nuovo centro dell’epidemia del coronavirus e si vuole a tutti i costi scongiurare una seconda Wuhan.

I locali di tendenza, che erano stati riaperti con il progressivo miglioramento della situazione nei mesi scorsi, sono stati chiusi a seguito dell’allerta virus. La ripresa delle attività commerciali ha subito uno stop improvviso. Le scuole che, rispetto al resto del paese, avevano riaperto per ultime proprio a Pechino, sono state prontamente richiuse e la riapertura è rimandata al prossimo semestre. Stesso discorso vale per le Università, che non hanno fatto nemmeno in tempo a riaprire e fino all’inizio di luglio stanno celebrando le cerimonie di laurea in modalità online e mista. Il caso degli studenti universitari, sia cinesi che stranieri, è un caso particolare, perché le misure di sicurezza per chi è rimasto all’interno dei campus e dei dormitori dei numerosi atenei di Pechino, sono state sempre più rigide rispetto a quelle imposte al resto della popolazione. I campus sono soggetti ad un vero e proprio lockdown iniziato a febbraio e che perdura tutt’oggi. Lockdown che per il resto dei cittadini, data l’insorgenza del virus molto controllata nella capitale, era durato, in modo così restrittivo, soltanto per il primo mese. Per gli studenti universitari è possibile uscire dai dormitori solo tramite l’ottenimento di pass giornalieri da parte dei dipartimenti di riferimento all’interno della struttura universitaria, che vengono rilasciati in maniera estremamente controllata previo richiesta scritta, in cui devono essere evidenziate le motivazioni dell’uscita e l’orario di rientro nel campus.

In seguito allo scoppio del nuovo focolaio è stata immediata la corsa ai ripari, al via il test di acido-nucleico per mezzo di tamponi orali a tappeto in tutta la città per identificare nuovi possibili positivi. Da sabato scorso il personale medico si è mobilitato in maniera massiccia e sta coprendo tutte le zone di Pechino, ed abbiamo assistito a queste giornate sensazionali caratterizzate da file lunghissime per poter accedere in maniera gratuita al test del coronavirus, obbligatorio per tutti i residenti. Chi ha preferito evitare gli affollamenti, ha potuto effettuare il test nelle cliniche private dietro pagamento.

L’organizzazione cinese lascia sempre sbalorditi, per l’efficienza ed il numero di persone che si trova a dover gestire, ed è osservabile come il nuovo focolaio venga affrontato oggi in modo più consapevole rispetto al passato; secondo il quotidiano di Pechino stanno effettuando più di 300.000 test al giorno e al momento 311 sono le persone affette da coronavirus dall’inizio della nuova ondata, come riportato dall’Agenzia Nuova Cina. Il morale della popolazione resta alto, c’è molta preoccupazione, ma questa volta il virus non coglie impreparati. I cittadini cinesi rispondono con calma e coraggio alla nuova ondata epidemica e all’uso sempre più intrusivo dei metodi di sicurezza del governo, che tramite i social network, in primis Wechat, tracciano gli spostamenti e controllano lo stato di salute dei cittadini. E persino per visualizzare il risultato del test per il coronavirus si usa il cellulare.

La seconda ondata, mette la capitale cinese in una posizione scomoda, poiché è diventata a tutti gli effetti l’attuale fulcro dell’epidemia di coronavirus in Cina, dopo che sembrava che il Paese ce l’avesse fatta a lasciarsi alle spalle la lotta al virus, ed il soft power cinese era entrato già da tempo in azione con l’invio delle mascherine e del materiale sanitario all’estero. La Cina dovrà forse fare un passo indietro nel considerare gli occidentali la minaccia corrente per l’importazione del virus, visto il vero e proprio blocco degli ingressi dall’estero in territorio cinese entrato in vigore il 26 marzo scorso, e aiuterebbe a risollevare la sua reputazione di potenza responsabile a livello mondiale se si dimostrasse pronta ad assumersi le proprie responsabilità senza puntare il dito al di fuori dei propri confini nazionali. D’altra parte la situazione cinese insegna all’Occidente ed al resto del mondo a non abbassare troppo velocemente la guardia perché la lotta al virus va combattuta con costanza e molta pazienza.