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Unite, radicali e coraggiose

Badanti immigrate per mesi rimaste senza sussidi. Cassiere dei supermercati al proprio posto anche in pieno lockdown, spesso senza le adeguate protezioni. Impiegate in smart working costrette ad acrobazie impossibili per conciliare lavoro, figli e mansioni domestiche. Sono solo alcuni ritratti delle protagoniste al femminile della resistenza alla pandemia. Per lunghe settimane sono state chiamate “angeli”, “eroine”. Donne “multitasking” pronte al “sacrificio” per la famiglia e il Paese. E poi, ora che il Covid ha allentato la presa, sono state rapidamente dimenticate. Relegate ad un paragrafo del Piano Colao, tutto centrato su come agevolare le carriere delle donne, con riformismi che evitano di smontare e anzi replicano il sistema economico-sociale che genera il patriarcato. Reinserite nel dibattito pubblico nella categoria di oggetti la cui funzione propria è l’essere adocchiate dagli uomini, perché se ciò non accade c’è «da preoccuparsi» – cit. Raffaele Morelli, “psichiatra”, ai microfoni della più popolare radio italiana. Ricondotte in casa con lo strumento del lavoro agile, che sicuramente è agile per gli imprenditori che possono risparmiare sui costi di gestione dei luoghi di lavoro, ma lo è meno per le donne impegnate da casa mentre si prendono cura di una persona anziana o seguono figlie e figli nella didattica a distanza. A denunciare tutto ciò, in questi giorni, sono le donne stesse, che hanno scelto di prendere parola e di incontrarsi per opporsi a questo movimento regressivo.

«Vogliamo affermare la forza delle donne, vogliamo essere massa critica e di pensiero perché siamo più della metà del Paese e non abbiamo più intenzione di attendere elemosine e concessioni»: recita così il documento Dalla stessa parte, firmato da diverse attiviste, un testo-appello che riprende la Lettera aperta di Livia Turco alle donne italiane (v. pag. 24), parte da lì alla ricerca di adesioni e intese, per creare un fronte ampio di lotta. A sottoscrivere l’appello, tra le altre, anche le sardine Jasmine Cristallo e Giulia Trappoloni. «La situazione è drammatica per tutti, ma per le donne lo è ancora di più, poiché da sempre sono le più precarie e le più povere» dice a Left Maura Cossutta, presidente della Casa internazionale delle donne di Roma, dove mercoledì 8 luglio si è tenuto un incontro finalizzato a tessere insieme le varie voci del panorama femminista italiano. «I dati dell’ultimo rapporto annuale Istat sono allarmanti, evidenziano il conto della crisi lo pagano le donne (v. Tulli a pag. 18). Non si tratta più di tornare alla normalità, qui si rischia di andare ancora più indietro». Una preoccupazione fondata. «Le donne – prosegue Maura Cossutta – sono uscite fuori dalle case per trovare piena cittadinanza nella società, e ora vengono ricacciate nell’ambiente domestico con forme di lavoro flessibile che obbligano ad essere connessi h24 mentre spesso ci si deve occupare anche del lavoro di cura.

Mentre la scuola viene sempre più rappresentata come mero strumento di conciliazione per il lavoro femminile, con una visione che nega i diritti dei bambini. Proprio a partire da qui, da scuola, e poi welfare, riproduzione sociale, sanità pubblica, pensioni, possiamo costruire un percorso comune di rivendicazioni. Dobbiamo essere radicali, coraggiose e soprattutto unite». All’invito della Casa internazionale ha risposto anche il movimento femminista Non una di meno (Nudm), che a fine giugno è tornato a farsi sentire nelle strade di oltre venti città italiane, al grido: «Ci tolgono il…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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SOMMARIO

Usciamo dal silenzio

Le donne, insieme ai giovani, sono le più colpite dalla crisi economica seguita alla pandemia da Covid-19. Moltissime hanno perso il lavoro perché impiegate nei servizi, nel turismo, e nei settori economici che più hanno risentito del lockdown. Ma non solo per questo. Chi invece durante la quarantena non ha mai smesso di lavorare, insieme allo smart work ha dovuto pulire casa e aiutare i figli con le lezioni online. In questi lunghi mesi, sui media – specie in tv – è stato tutto uno sperticarsi per lodare la capacità delle donne di essere multitasking, di sapersi occupare di tutto contemporaneamente, come se fosse una innata dote femminile e non un’immane fatica dettata dalla necessità; come se “la cultura della cura” fosse un fatto di natura, biologico, quasi un istinto e dunque destino naturale per le donne. Quasi che sensibilità, affetti, capacità di comprendere le esigenze degli altri, fossero estranee al maschile. Del resto la storia insegna. Per millenni le donne sono state negate e annullate. Con il predominio della razionalità maschile e delle religioni monoteiste sono state considerate solo in quanto mogli e madri. La pandemia non ha fatto che acuire e portare al pettine antichi nodi ancora in parte irrisolti insieme a vecchie disparità. Riportando drammaticamente alla luce anche la questione della violenza di genere fra le mura di casa che ha conosciuto un forte incremento. Rispetto a tutto questo è mancata una risposta politica e culturale. Invece di pensare a come affrontare questa drammatica situazione, invece di pensare a come poter creare lavoro c’è chi, come il leghista Salvini si preoccupa delle culle vuote. Il capitano (armato di rosario che cita la Thatcher) profetizza un Paese senza futuro perché le italiane non fanno più figli mettendo così a rischio la stirpe. Ma se le destre vorrebbero riportare le donne sotto il giogo di “Dio, patria e famiglia” il centrosinistra non brilla nel sostenere le scelte delle donne. I provvedimenti del governo, a questo riguardo, si fermano a una visione cattolica e assistenzialista. Dal Family act al fiume di soldi regalati alle paritarie, purtroppo, siamo ancora lì. Quanti più figli fai, più soldi riceverai dallo Stato, assicura la cattolicissima ministra Elena Bonetti di Italia Viva. Lo avevamo denunciato ai tempi del governo Renzi che varò il “dipartimento mamme”, lo abbiamo gridato ai tempi del governo giallonero e dell’oscurantista Congresso di Verona a cui aderì l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. E pesa ancor più doverlo ripetere ora che abbiamo un governo di centrosinistra, sulla carta, democratico e progressista. Ma a ben vedere la questione va anche molto al di là del governo. Il punto è che, incapace di liberarsi del retaggio cattolico, nemmeno la sinistra ha ancora fatto quel salto culturale necessario per riconoscere pienamente (al di là del riconoscimento formale di diritti civili) l’identità umana della donna. Considerando la donna solo come moglie e madre, finisce per negarne la vitalità, la creatività, le capacità professionali, finisce per non valorizzare quell’intelligenza emotiva, fatta anche di sensibilità, di intuito, che permette di avere una marcia in più. Le donne sono maschi mancati, sono animalini irrazionali, instabili, capaci di ogni tipo di pazzia, secondo i millenari pregiudizi coniati dai più antichi filosofi e resi dogma dalla Chiesa. Stereotipi duri a morire, insieme a quella misoginia che ancora alligna quotidianamente, riverberata dai media, e che purtroppo non può essere cancellata per legge. (Avremo modo di riparlarne quando la norma contro omotransfobia e misoginia andrà alla Camera il 27 luglio).

È tempo che le cose cambino. Le donne di oggi sono diventate consapevoli di se stesse e non sono più disposte a stare un passo indietro. Nell’ultimo secolo c’è stata una rivoluzione silenziosa che le ha portate a studiare, a fare ricerca, ad arrivare ai più alti livelli di competenza e preparazione in ogni campo. Le donne oggi vogliono poter essere libere di vivere, di pensare, di amare, di realizzarsi, non vogliono più dover scegliere se avere figli o lavorare. Sanno di essere una risorsa e vogliono contare, vogliono essere attive sulla scena pubblica, vogliono orientare l’agenda politica, vogliono contribuire a costruire una società diversa, più umana, più rispettosa dell’ambiente, più giusta e inclusiva. Non vogliamo la carità, né l’affermazione, solo in astratto, di pari opportunità come è accaduto con la controriforma delle pensioni che ha portato quella delle donne a quota 67 anni. Non vogliamo essere messe sotto tutela o in ghettizzanti aree protette. Questo è il succo degli appelli e dei documenti che hanno preso a circolare rapidamente in queste settimane, provenienti di aree diverse della sinistra e dai movimenti (Non una di meno, Fridays for future ecc.).Usciamo dal silenzio, confrontiamoci, facciamoci sentire. È una esigenza che, dopo il lockdown, sta diventando sempre più diffusa e trasversale. Non si tratta solo di difendere spazi delle donne, di difendere diritti che le generazioni venute prima di noi hanno conquistato e che oggi sono di nuovo in pericolo, a cominciare dalla legge 194 disapplicata per l’altissimo numero di obiettori (ma pensiamo anche ai paletti posti all’aborto farmacologico durante pandemia come è accaduto in Umbria). L’obiettivo è se possibile ancor più ambizioso e riguarda i diritti di tutti, uomini, donne, bambini, italiani, rifugiati, immigrati. Le donne oggi vogliono contribuire a cambiare l’idea di economia, cambiare il modo di fare società, costruire un futuro diverso. «Non ci piace il Paese azienda. Non ci piace la scuola azienda. Il profitto non può essere l’unico fine», si legge nel documento Dalla stessa parte che su questo numero di Left discutiamo, insieme ad altre proposte. Gli incontri, le tavole rotonde, su piattaforme online e dal vivo, che si sono andate moltiplicando in queste settimane ci sembrano un segnale di fermento importante, da raccontare, da coltivare e da approfondire.

Se le donne si organizzano dal basso e riescono a fare rete qualcosa può davvero cambiare anche in politica. Lo abbiamo visto quando una massiccia e trasversale opposizione delle donne al Ddl Pillon ne ha stroncato l’iter. Non è stato solo per la caduta del governo giallonero, ma perché la lotta delle donne aveva generato una diffusa consapevolezza riguardo alla mostruosità di quel provvedimento che trattava i bambini come pacchi postali, accusando le madri di essere delle manipolatrici. Lo abbiamo visto con la legge 40/2004 che è stata smantellata pezzo dopo pezzo grazie all’impegno trasversale di tante donne riunite in associazioni e di professioniste capaci come l’avvocato Filomena Gallo della associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca. Ora si tratta di allargare ulteriormente l’orizzonte, propongono giovani attiviste, nuovi volti e decane della politica di aree diverse. Ritrovarsi insieme, senza ripetere gli errori storici di un certo femminismo che ha finito per auto ghettizzarsi, questa è la sfida. C’è la possibilità di farlo in modo diverso, forti di un pensiero nuovo sulla realtà umana che ci dice della naturale uguaglianza di tutti gli esseri umani alla nascita e che riconosce l’identità della donna, uguale e diversa. Con la consapevolezza che se la donna non sarà più negata e annullata dagli uomini, anche gli uomini potranno essere più liberi e trovare una sensibilità nuova.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 10 luglio

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SOMMARIO

Le accuse a Mimmo Lucano erano inconsistenti. Ora il governo ne prenda atto

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Roma Politica Conferenza stampa sulla chiusura della campagna di raccolta firme per la candidatura di Mimmo Lucano e del Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019 Nella foto Mimmo Lucano durante la conferenza stampa nella redazione di Left Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-01-2019 Rome (Italy) Closing of the Campaign for the assignment of the Nobel Prize to Riace In the photo Mimmo Lucano

Se ce ne fosse stato ancora bisogno, le recentissime motivazioni con le quali i giudici del Riesame di Reggio Calabria respingono la reiterata richiesta di misure cautelari del Pm di Locri nei confronti di Mimmo Lucano rendono inequivocabile la natura politica del brutale attacco sferrato nel 2018 allo stesso ed al “modello Riace”.

«Quadro giudiziario inconsistente» – si legge nelle motivazioni – fondato su «elementi congetturali e presuntivi». Fondato, cioè, sul nulla e mirato solo a stroncare un modello che falsificava nei fatti la narrazione aberrante dell’immigrazione sulla quale ha fondato le proprie fortune elettorali un personaggio sinistro come l’attuale leader della Lega. E, fatto ancor più “grave”, un modello che offriva un percorso di rivitalizzazione e sviluppo delle aree interne della intera dorsale appenninica e riqualificazione delle aree periferiche e marginali delle aree metropolitane, di cui oggi, dopo lo sconquasso umano, sanitario e politico della pandemia, ci sarebbe un bisogno vitale per l’intero Paese e l’insieme dell’Unione Europea.

La sequenza dei fatti non lascia adito a dubbi. Ripercorriamola insieme.

2 ottobre 2018: il Tribunale di Locri emette un’inaudita ordinanza di arresti domiciliari per Mimmo Lucano.

17 ottobre: il Gip revoca gli arresti domiciliari, demolendo l’impianto accusatorio, e trasformando però, inspiegabilmente, gli arresti domiciliari in divieto di dimora.

3 aprile 2019, circa sei mesi dopo: la sezione penale della Cassazione emette una sentenza che fa ulteriore chiarezza sull’inconsistenza dell’impianto accusatorio contro Mimmo Lucano e chiede al Tribunale di revocare il divieto di dimora.

5 settembre 2019: arriva finalmente la revoca del divieto di dimora, concessa dopo altri cinque mesi ed una serie di vicende politiche. Innanzitutto le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Riace del 27 maggio 2019, tenutesi in una condizione, di fatto, di sospensione della democrazia. Poi la chiusura del progetto di accoglienza Sprar di Riace, notificata già il 9 ottobre 2018. Infine il blocco dei fondi per i servizi già resi per i progetti Cas e Sprar, con circa 80 operatori rimasti senza retribuzione per mesi, e i fornitori che rivendicano giustamente il recupero degli importi per i beni forniti. Oltre a questi fatti politici, ricordiamo in questo periodo le note dolorose vicende personali di Lucano, mentre ancora si trovava in esilio.

21 maggio 2019 e 7 giugno 2020: il Tar della Calabria prima e il Consiglio di Stato poi dichiarano illegittima la chiusura del progetto Sprar di Riace.

7 luglio 2020: con motivazioni nette, i giudici del Riesame di Reggio Calabria rigettano l’appello del Pm di Locri che chiedeva il mantenimento di misure cautelari per Lucano, definendo «inconsistente» il quadro giudiziario che le motiva perché fondato su «elementi congetturali o presuntivi», quadro che «si riverbera negativamente sulla possibilità di configurare il delitto», in quanto «il programma perseguito dagli indagati non si è tradotto in condotte penalmente rilevanti». E molto altro.

Un percorso, quello sopra ricordato, che conferma senza equivoco alcuno che il processo a Lucano è un processo politico in piena regola. Il quadro in cui quel processo è nato e si sta sviluppando, alla luce di quest’ennesimo atto giudiziario, presenta elementi di seria preoccupazione. Non sarebbe il caso che gli organi del ministero di Grazia e giustizia a ciò deputati provassero, con gli strumenti propri dell’ordinamento, a fare chiarezza sull’operato del Tribunale di Locri relativo a questo caso? Il ministro Bonafede non ha niente da dire in proposito?

E non sarebbe anche il caso che la ministra Lamorgese, che sulle questioni dell’immigrazione non riesce a prendere parola, forse anche perché nei punti di comando degli apparati ministeriali cui è deputata la questione restano uomini nominati dall’ex ministro Salvini, come ad esempio l’ex prefetto di Reggio Calabria, elemento di punta dell’attacco a Riace, provasse a riconsiderare attentamente l’intera vicenda del “modello Riace”? A partire, ad esempio, dalla riconsiderazione e dallo sblocco dei fondi dei progetti Cas e Sprar del 2017/2018 dovuti per servizi effettivamente resi e rendicontati alle associazioni che gestivano all’epoca l’accoglienza e da un elementare senso di giustizia verso un uomo onesto, lungimirante e capace, e verso la paradigmatica esperienza della sua Riace?

Lucano è stato sindaco di Riace, per chi lo avesse dimenticato, dal 2004 al maggio 2019, quando la montagna di inconsistenti accuse giudiziarie – dichiarate tali dal Riesame – di conserva con il feroce attacco politico dell’allora ministro dell’interno Salvini, tagliando i fondi, tenendo Lucano in esilio, sospendendo di fatto la democrazia, ha consegnato l’amministrazione ad una giunta paraleghista guidata da un sindaco ineleggibile secondo il ministero, la Prefettura e il Tribunale di Locri, come ha espresso nella sentena di primo grado. Tuttora “sub iudice” per l’ultimo grado di giudizio. E alla guida di una giunta espressione di un Consiglio comunale in cui era stato eletto il segretario locale della Lega, incandidabile e perciò costretto a precipitose dimissioni, in quanto condannato in via definitiva per bancarotta fraudolenta.

Sarebbe ora di fare compiutamente giustizia. In Tribunale, dove non si può consentire di fare strame della dignità di una persona onesta, generosa, un amministratore intelligente e lungimirante, da circa due anni sotto torchio in un processo interminabile costruito sulle «supposizioni e suggestioni» di «un quadro giudiziario inconsistente». Non le sembra ministro Bonafede e ministra Lamorgese?

E nei palazzi della politica, dove pur tenendo in conto gli equilibrismi tra diverse sensibilità e culture di una maggioranza composita in permanente fibrillazione, diventa politicamente imperdonabile e ingiustificabile il modo in cui si continua ad infierire sul modello Riace, quasi a volerne persino cancellare le tracce. Un modello diventato, in Europa ed oltre, paradigma di una seria e saggia politica di accoglienza, inclusione e nuova qualità dei sistemi territoriali delle zone interne e della aree periferiche e marginali dei grandi centri urbani, oggi più necessaria che mai per il nostro Paese e l’intera Unione Europea. O forse è questo l’obiettivo mal celato?

Non le sembra presidente Conte? E non sembra alle forze di governo tutte, a cominciare dal Pd di Zingaretti, che non riescono a muovere paglia in direzione della cancellazione, ma nemmeno della modifica, degli aberranti decreti sicurezza di Salvini pur prevista dagli accordi di governo?

Decidere di non decidere

Foto Fabio Ferrari/LaPresse 28 Aprile 2020 Genova, Italia Cronaca Genova, varo dell'ultimo impalcato che completa la struttura del nuovo Ponte di Genova. Nella foto: Conclusione ultima campata. Photo Fabio Ferrari/LaPresse April 28, 2020 Genoa, Italy News Genoa, the last span that completes the structure of the new Genoa bridge. In the picture: the last span

Blocchiamo subito tutti quelli che ci dicono che con quegli altri (Salvini e compagnia cantante) sarebbe stato molto peggio: lo sappiamo, lo sappiamo benissimo ma non ci basta per stare zitti e non vogliamo stare zitti. Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità e ci incagliamo di nuovo: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare.

Decidere di non decidere è comodissimo, mica solo in politica, proprio nella vita: c’è gente che decide di non decidere, di rompere amicizie che andrebbero rotte e se le trascina per anni e ogni volta che accade qualcosa ritira fuori dal cilindro tutte le colpe degli anni precedenti. Accade anche nei rapporti di coppia. È il metodo perfetto per incancrenire le relazioni e per distruggere chirurgicamente tutto quello che è stato. Non si decide di prendersi le proprie responsabilità ma si rimane comodamente nella posizione di chi può in qualsiasi momento recriminare. Bello comodo, eh?

Sul decidere di non decidere poi, se ci pensate, si gioca anche la vita di molti incompiuti: sono quelli che per non fare accadere le cose, perché non ne hanno il fegato, fanno in modo che le facciano accadere gli altri. In pratica: non faccio succedere qualcosa ma faccio di tutto perché succeda ma non se ne possa dare a me la responsabilità.

Sul ponte di Genova è accaduto lo stesso: mentre quelli costruivano il ponte si diceva che i Benetton erano sporchi e cattivi ma nel frattempo nessuno si dedicava a sistemare le carte e le regole perché le cose cambiassero.

Così ci ritroviamo qui: il ponte di Genova, il nuovo ponte, è finito e i concessionari sono ancora gli stessi ritenuti colpevoli del disastro. Sappiano i nostri politici che possono fare tutto il chiasso che vogliono ma qui da fuori tutto risulta goffo, inutile e piuttosto ridicolo.

Buon giovedì.

Srebrenica esige verità

A woman lights a candle over numbered place cards on the eve of the 20th anniversary of the Srebrenica massacre in Belgrade on July 10, 2015. Human right activists and citizens gathered to commemorate the victims of Srebrenica massacre by laying numbered place cards representing the 8000 killed in 1995. Police units protected the gathering as some ultra nationalist groups tried to disrupt the event. Nearly 8,000 men and boys from the enclave were killed by in the days following the fall of Srebrenica on July 11, 1995. AFP PHOTO/ANDREJ ISAKOVIC (Photo by ANDREJ ISAKOVIC / AFP) (Photo by ANDREJ ISAKOVIC/AFP via Getty Images)

Sono venticinque anni esatti da “Srebrenica”. Una di quelle parole che, da sola, dice tutto. Dice della guerra, dice della morte, della sofferenza inenarrabile che uomini possono impartire ad altri uomini; dice della crudeltà e dell’odio cieco e insensato che annebbia le menti. Dice, soprattutto, di pulizia etnica, di genocidio anzi, perché di questo si tratta: Srebrenica fu un genocidio. Era dall’epoca nazista che questa parola non riecheggiava in Europa e negli anni del secondo dopoguerra solo quanto successe in Cambogia e Ruanda è stato equiparato a ciò che avvenne in quell’angolo di Bosnia Erzegovina. È una sentenza della Corte internazionale di giustizia del 2007 a dirlo, a sancire anche formalmente ciò che era fin troppo evidente. L’azione portata avanti dalle truppe paramilitari serbo-bosniache non fu un’azione militare come le altre. Le distruzioni, le stragi, gli stupri sistematici cominciati già dalla primavera del 1992 lungo tutta la valle della Drina, nell’est del Paese al confine con la Serbia, e protrattisi fino a luglio del 1995 con la presa di Srebrenica (11 luglio), non fu solo un’operazione di guerra. Fu un genocidio, ovvero il tentativo ideato, pianificato e pervicacemente eseguito di annientare un’intera etnia, quella dei bosgnacchi, i bosniaci musulmani.

Un “genocidio al rallentatore” come fu definito da un rapporto stilato da una commissione inviata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 1993 per verificare il rispetto della risoluzione con cui l’Onu stessa aveva dichiarato Srebrenica “safe area”: questo fu, infatti, uno stillicidio durato quattro anni. A Srebrenica, una cittadina di poco più di trentamila abitanti, confluirono tra il 1992 e i primi mesi del 1993 i profughi provenienti da tutta la valle della Drina. Sono centinaia i piccoli borghi a maggioranza musulmana distrutti e “ripuliti”. In pochi mesi questo piccolo centro raddoppia la sua popolazione e viene circondato dalle truppe di Mladic che per l’occasione si avvale anche delle milizie paramilitari di Arkan, le famigerate tigri, e di quelle non meno spietate di Seselj, le aquile bianche. Srebrenica si trova, d’improvviso, completamente isolata, in una condizione che ricorda tragicamente quella di Sarajevo con l’aggravante che, qui, non ci sono telecamere e il mondo ignora, o finge d’ignorare quanto vi accade: le notizie arrivano col contagocce rimbalzate dai pochi radioamatori locali che, a fatica, riescono a comunicare con l’esterno e a raccontare il dramma che si vive in città.

Srebrenica diventa uno zoo a cielo aperto, un girone di dannati, con migliaia di abitanti in gabbia costretti a resistere in condizioni indegne. Per anni si vive una sorta di sospensione temporale, tra tentativi velleitari e l’ignavia o, peggio ancora, la malafede della comunità internazionale: la Srebrenica sacrificata sull’altare della realpolitik è più che un sospetto. Il resto è storia nota: i caschi blu olandesi dell’ineffabile colonello Karremans che sorseggia rakja con Mladic prima di abbandonare la popolazione al proprio destino, le femmine separate dai maschi, le prime spesso violentate, i secondi ammazzati sommariamente a migliaia, adolescenti e anziani inclusi. Secondo le stime più attendibili in quei giorni di luglio furono uccise quasi 8.500 persone: 6.600 di queste hanno già trovato riposo nel cimitero – memoriale di Srebrenica – Potocari, ma la conta si aggiorna di anno in anno con il ritrovamento di nuove fosse comuni e con il riconoscimento, grazie all’uso del Dna, di nuove vittime. Quello della sepoltura solenne delle nuove persone identificate è il cuore vero delle commemorazioni annuali e non potrebbe essere altrimenti: un rito che si ripete sempre uguale a sé stesso, come si conviene ai riti che meritano d’essere officiati.

Quest’anno, tuttavia, le restrizioni imposte dalla crisi pandemica hanno costretto gli organizzatori a adattare il programma alle raccomandazioni di tutela sanitaria. Non ci sarà la tumulazione dei corpi, dunque, ma ci sarà la dzenaza, la preghiera funebre islamica, così come la marcia della pace e il raduno dei veterani della ventottesima divisione dell’Esercito di Bosnia, quella che liberò Srebrenica nella seconda metà del 1995. Ci sarà, novità questa, una conferenza dal titolo “Negazione e trionfalismo: origine, impatto e prevenzione”. Il tema della negazione sarà la vera sfida degli anni prossimi, infatti. La contro-narrazione, la falsificazione della storia e la distorsione dei fatti sarà il nemico da battere domani. Lo è già oggi, a dir la verità. A nulla sono servite, infatti, le condanne a vita del responsabile politico di quella carneficina, Radovan Karadzic, né di quella del suo braccio armato, l’uomo che sul campo la perpetrerò con inenarrabile crudeltà, Ratko Mladic. La sentenza di secondo grado – e quindi definitiva – a Karadzic è arrivata lo scorso anno tra gli abbracci e le lacrime delle donne di Srebrenica, una specie di catarsi, una liberazione e la sensazione che finalmente fosse stata fatta giustizia: ergastolo. Quella definitiva a Mladic è prevista per la fine di quest’anno, invece: sulla sua testa la conferma del pronunciamento di primo grado, ergastolo, e le parole come pietre del giudice Alphons Orie che la accompagnarono: «i crimini commessi da Mladic si collocano tra i più atroci conosciuti dall’umanità».

Un rapporto del maggio di questo anno curato da Monica Green per conto dello Srebrenica Memorial Center evidenzia quanto il processo di contro-narrazione si esplichi, oggi più che mai, con mille modalità, parallele tra loro, ma infine convergenti verso il comune obiettivo: la negazione. È in questo alveo che si inseriscono, ad esempio, le dichiarazioni di Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia, per il quale Srebrenica «è la più grande impostura del XX secolo». Si deve allo stesso Dodik, d’altronde, l’annullamento del Rapporto su Srebrenica del 2004, documento che rappresentava un primo riconoscimento ufficiale delle responsabilità serbo-bosniache del massacro, così come la nomina a capo di una nuova commissione di inchiesta su Srebrenica di uno storico israeliano, Gideon Greif, già noto per aver pubblicamente espresso dubbi sulla natura genocidiaria di quei fatti. C’è, poi, la minimizzazione degli accadimenti, il tentativo di screditare le ricostruzioni numeriche, il riconteggio dei morti al ribasso, sganciato dalla realtà: ed è amaramente significativo che sia proprio il sindaco di Srebrenica, il serbo-bosniaco Mladen Grujicic, a definire “false” molte delle tombe del memoriale.

Ma il processo revisionista si alimenta, anche, sostenendo la teoria della supposta cospirazione internazionale secondo la quale la Serbia, per qualche ragione, avrebbe contro il mondo intero. Ma non è tutto: c’è la glorificazione dei criminali di guerra che prevede, nella sua logica perversa, persino l’inversione dei ruoli tra vittima e carnefice e lo sdoganamento dei simboli nazionalisti serbi più impresentabili. Si dedicano piazze, vie, monumenti al personaggio di turno, esaltandone il carisma e la statura, negandone le responsabilità: sono diverse quelle che omaggiano Mladic e Karadzic, ma non solo. In questo filone si deve anche includere la discussa assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura 2019 a Peter Handke, apologista dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, e autore di scritti in cui attribuisce alla mano degli stessi bosniaci musulmani un altro degli episodi simbolo della guerra in Bosnia: la strage del mercato di Markale.

È un dato di fatto, ormai, che la contro-narrazione di Srebrenica abbia fatto breccia non solo in ampi settori della società civile serba e serbo-bosniaca ma persino nell’ambito di diversi circoli accademici e intellettuali delle destre occidentali, al punto che la negazione del genocidio non è mai stata così diffusa e socialmente accettata. Ed è per questo che le commemorazioni di Srebrenica sono, ieri come oggi, un atto quanto mai necessario. Non è solo una questione di giustizia sociale e di doverosa aderenza alla realtà storica: certo la negazione appare, innanzi tutto, come un intollerabile supplemento di sofferenza somministrato ai sopravvissuti. Ma c’è qualcosa di più e di diverso: negare significa creare il substrato ideale per la recrudescenza dell’odio, per l’innesco di nuove future violenze e, non sia mai, di una nuova “Srebrenica”. Ovunque sia.

L’articolo di Pietro Aleotti è stato pubblicato su Left del 3 luglio 2020

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SOMMARIO

Cosa (non) fa Bruxelles contro il consumo di suolo

BRUSSELS, BELGIUM - MARCH 03: Greenpeace activists project images of planet earth on fire on the Berlaymont, the European Commission headquarters on March 3, 2020, in Brussels, Belgium. (Photo by Thierry Monasse/Getty Images)

Doveva essere il completamento delle grandi direttive europee sui quattro elementi cosmogonici, fuoco, acqua, aria e terra. Per energia, acqua, aria, direttive quadro ci sono. Per il suolo invece tutto si è impantanato e nonostante l’approvazione di un testo avvenuta all’Europarlamento nel 2008 il Consiglio Europeo ha fatto marcia indietro nel 2014, a fronte del «no» di molti Stati. Tra le motivazioni addotte all’epoca, si contano anche quelle di matrice sovranista, per cui il suolo sarebbe la terra che si calpesta, quindi la Patria. E quindi se ne devono occupare le Nazioni.

Più prosaicamente i motivi dell’opposizione stavano e stanno negli enormi interessi che gravitano sui suoli europei. A partire da quelli immobiliari e industriali. Solo dal punto di vista immobiliare l’Eurostat mostra come il valore degli immobili in Europa sia cresciuto negli anni tra il 2000 e il 2008 quasi ovunque ben sopra l’inflazione, con la Francia a quota +7,5% l’anno, la Spagna +8,1, la Gran Bretagna +7,5, l’Italia +3,6%, alcuni Stati dell’Est superano il 10%. La crisi finanziaria ha poi colpito dal 2008 ma già nel 2016 è cominciata la risalita.

E l’opposizione sta anche sugli enormi problemi di degrado di cui soffrono i suoli. Il testo proposto ed approvato dal Parlamento europeo aveva per di più le caratteristiche di una normativa realmente ecologista che trattava il suolo come elemento vivo, connesso alla fertilità, all’equilibrio climatico, ai cicli vitali.

Un suolo dunque che va bonificato e tutelato. Addirittura con regole che prevedevano per la commercializzazione certificati di avvenuta bonifica. Si pensi che la quantità dei suoli non utilizzabili a fini alimentari perché contaminati nel mondo è stimata intorno al 15% e che in Europa si stimano circa tre milioni di siti potenzialmente contaminati dei quali solo 115 mila sottoposti a risanamento (dati European soil data center). E che il Join research center della Commissione europea di Ispra (Varese) in un rapporto del 2016 parla di percentuali del 6,24% di campioni di terreno – che corrisponderebbero a 173 mila km quadrati di suolo agricolo – con contaminazioni di metalli pesanti sopra al valore di riferimento fissato per i terreni agricoli stessi e del 2,56% che chiederebbe bonifica.

Si pensi che il processo di cementificazione e consumo di suolo procede in Europa a ritmi di circa 250 ettari al giorno al punto che la percentuale di quello coperto in Europa è del 4,3% (dati Eurostat), ma in Italia del 7,64%, cioè quasi doppia, in Lombardia del 17,3% (dati Ispra), avendo proceduto l’Italia tra il 2009 e il 2012 ad un aumento doppio rispetto alla Spagna, di 5 volte a fronte della Germania e di 10 la Francia.

La battaglia per avere una direttiva sui suoli non si è mai fermata. L’Ue l’ha sostituita con una “Strategia per i suoli”, in cui cerca di impegnare gli Stati membri. Ma questo non è assolutamente sufficiente. E infatti ci sono campagne che rimarcano il Soil for life, il suolo per la vita, e che richiedono che si torni alla direttiva quadro. Essa per altro è fondamentale e indispensabile per i numerosi elementi trasversali che legano i suoli a più politiche, dall’agricoltura, all’urbanistica, alla lotta al cambiamento climatico, alla desertificazione ed agli inquinamenti, agli assetti idrogeologici.

Ora, si può pensare che a questa battaglia per ottenere una direttiva si possa legare una politica attiva e diretta dell’Ue che affronti di petto una delle questioni centrali e cioè le bonifiche e i risanamenti? E in che modo si potrebbe realizzare? Ad esempio dotandosi di un braccio operativo europeo, preferibilmente pubblico, che opera le bonifiche. Finanziato da “eco tasse” europee destinate a chi ha inquinato e inquina i territori ma anche alle grandi rendite fondiarie. Una agenzia europea per le bonifiche che impieghi competenze, tecnologie e lavoro. Cioè che sia un “campione” di economia ambientale. Che faccia vivere il suolo europeo come comune proprio andando a conoscerlo, risanarlo e riconsegnarlo ai cittadini.

Conoscere ciò che è avvenuto nei suoli significa ricostruire anche la storia degli insediamenti industriali europei, della sua merceologia – cosa che tanto appassionava Giorgio Nebbia, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano -. Condividerla oltre i segreti industriali. Costruendo una valida sponda a quei pochi esempi di integrazione attiva fatti in questi anni in Europa. Penso al Reach, il regolamento per le autorizzazioni alle sostanze chimiche, approvato nel 2008 dopo 20 anni di lavoro e che ha alla base il concetto di una autorizzazione unica europea, con obblighi sanitari e ambientali stringenti, la dimostrazione di non nocività, l’immediata sostituzione in caso di avanzamenti scientifici e quindi con autorizzazioni sempre a tempo.

Il contrario delle differenziazioni autorizzative, normative e fiscali che molti cercano di fare per sé in Europa. Nascondendosi dietro parole come semplificazione e sburocratizzazione. Ciò che dà efficacia alle cose, al contrario, è pensarle perché creino un vantaggio il più possibile condiviso. Condividere il suolo europeo, le sue norme e la sua bonifica è un ottimo esempio. Esempio che si potrebbe estendere alle riconversioni ambientali di siti industriali. Cioè di una politica di riconversione ecologica. Taranto sarebbe un ottimo inizio.

L’articolo di Roberto Musacchio è stato pubblicato su Left del 3 luglio 2020

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SOMMARIO

Gli eroi sono stanchi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 11 aprile 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19 , il reparto di terapia intensiva del Covid 3 di Casal Palocco . L’istituto clinico Casalpalocco nasce come centro specializzato in malattie cardiologiche trasformato durante i giorni di maggior criticità del contagio in struttura per l’emergenza Nella Foto : il lavoro del personale medico Photo Cecilia Fabiano/LaPresse April 11 , 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , the intensive care unit in the Covid 3 Hospital in Casal Palocco. The Casalpalocco clinical institute was born as a center specializing in cardiological diseases transformed during the most critical days of the epidemic into an emergency structure In the pic : the work of the medical staff

Ricevo e pubblico la lettera di un’infermiera. C’è dentro tutto: questo tempo, quello passato e un suggerimento per il futuro.

Oggi vorrei parlarvi di quegli eroi di cui molte persone si sono riempite la bocca qualche mese fa: gli infermieri ai tempi del Covid-19.

Ho odiato il termine eroi dal primo momento in cui è stato utilizzato, perché non abbiamo fatto niente di straordinario, è il nostro lavoro. Eroico è più che altro il modo in cui l’abbiamo fatto, cioè sbattuti dai piani alti in prima linea (altro termine molto usato, ma che non amo) senza formazione e – soprattutto – senza risorse sufficienti, sia in termini di materiale che di personale. Abbiamo dovuto far fronte ad una situazione in continua evoluzione e senza l’appoggio dei superiori, avendo un coordinatore che si è eclissato misteriosamente il giorno in cui il reparto è stato adibito ai pazienti Covid.

Ma questo è il passato e speriamo che rimanga tale. Non voglio ripetere le condizioni in cui abbiamo lavorato perché ne hanno già parlato tanti altri prima di me.

Ma come stanno gli eroi oggi? Perché nessuno ne parla più, come volevasi dimostrare.

Qualcuno penserà che abbiamo tirato un sospiro di sollievo, che abbiamo ricominciato a respirare. Nì. Sicuramente siamo felici di non vedere più gente morire ogni giorno e sentirci totalmente impotenti davanti a tanto dolore e solitudine.

Ma nessuno, dall’alto, ha pensato minimamente che abbiamo bisogno di rallentare. Veniamo da un periodo di alto stress e in tutta risposta ci sono stati intensificati i turni, arrivando a 7 giorni consecutivi di lavoro, più notti consecutive, poco riposo. Ci siamo visti totalmente modificati i turni il 29 del mese per il 1° del mese dopo.

Perché per loro (quelli che io chiamo piani alti, i potenti, quelli che non hanno un contatto col paziente) non siamo persone, siamo solo numeri di matricola usati per coprire i buchi sul foglio dei turni. Non abbiamo famiglie, impegni, passioni al di fuori del lavoro. Dobbiamo essere pronti in ogni momento a rispondere alla chiamata dell’azienda. Cene con gli amici, week end al mare, visite mediche dei figli. Non esiste niente di certo per noi.

In più, nel mio reparto il lavoro si sta facendo sempre più difficile e intenso, perché il nostro coordinatore, che ha da poco ripreso a venire in reparto, è presente solo 15 ore a settimana, quindi per le restanti 153 ore passiamo buona parte del turno a dover risolvere problemi burocratici che non ci competono, sottraendo tempo necessario all’assistenza dei pazienti.

Se un collega si ammala, il responsabile che deve occuparsi di sostituirlo fa metodicamente spallucce, quindi dobbiamo telefonare a una marea di reparti facendoci dare i numeri di colleghi che sono a casa di riposo e pregarli di venire a darci il cambio. Altrimenti, si fa doppio turno. 12 ore e passa la paura.

Personalmente, dopo un mese d’inferno in reparto Covid e un mese di quarantena con polmonite da Covid (causata dalla mancanza di dpi), mi trovo a piangere lacrime di rabbia. Non abbiamo sofferto abbastanza? Ho la gastrite da stress, alti livelli di glicemia, ormoni ballerini, non dormo bene e ci sono giorni in cui la stanchezza mi fa a malapena reggere in piedi. Sono esausta, incazzata, delusa.

Ho sempre amato il mio lavoro, ora vado in reparto con la nausea. Vorrei abbandonare tutto e fare altro, ma al momento non me lo posso permettere. Mi hanno fatto odiare un lavoro che ho sempre fatto con passione, responsabilità e competenza.

E tutto ciò, dalla disorganizzazione del reparto, l’aumentato carico di lavoro, fino all’esaurimento psicofisico del personale (pardon, dei numeri di matricola) va a discapito del paziente. E ciò mi fa davvero male. Perché vorrei fare sempre del mio meglio, ma in certi momenti è dura avere un sorriso per gli altri quando non ne hai più nemmeno per te. È difficile fare bene le cose quando nello stesso tempo di sempre devi farne il doppio. Sacrifici, solo sacrifici.

E questa è solo la situazione nel mio piccolo reparto. L’argomento potrebbe andare avanti parlando di contratto nazionale, di ferie non godute, stipendi bassi, mobilità bloccate, competenze non riconosciute, eccetera.

Gli eroi sono stanchi. Gli eroi non erano quelli del Covid, siamo sempre stati eroi, se lo volete sapere. Solo che ve ne siete resi conto solo poco tempo fa (e forse ve ne siete anche già dimenticati).

Siamo stanchi.

L’amore fino alla fine

Italian composer Ennio Morricone conducts his orchestra in a "60 Years Of Music Tour" concert in Piazza Grande in Locarno, Switzerland, Wednesday June 20, 2018. (Gabriele Putzu/Keystone via AP)

Non interessa qui raccontarti della grandezza artistica di Ennio Morricone di cui sono giustamente zeppi i giornali di tutto il mondo, il suo avere composto la colonna sonora del ‘900 è scritto nel registro sentimentale di questo secolo.

C’è un altro punto però che vale la pena osservare: Ennio Morricone ha scritto il proprio necrologio, come se non avesse voluto regalare a nessuno il proprio pentagramma nemmeno nella sua ultima battuta, con un perfezionismo che raccontano quelli che gli stavano vicino che avesse anche nel suo mestiere.

E il suo necrologio inizia con una frase gigantesca: «Io Ennio Morricone sono morto». Si è preso tutta fino all’ultima nota annunciando la sua partenza già da dipartito. Ditemi se non ci vuole una mente ampia a scrivere un inizio così.

«Io Ennio Morricone sono morto. Lo annuncio così a tutti gli amici che mi sono stati sempre vicino ed anche a quelli un po’ lontani che saluto con grande affetto. Impossibile nominarli tutti. Ma un ricordo particolare è per Peppuccio e Roberta, amici fraterni molto presenti in questi ultimi anni della nostra vita. C’è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare. Saluto con tanto affetto Ines, Laura, Sara, Enzo e Norbert per aver condiviso con me e la mia famiglia gran parte della mia vita. Voglio ricordare con amore le mie sorelle Adriana, Maria e Franca e i loro cari e far sapere loro quanto gli ho voluto bene. Un saluto pieno intenso e profondo ai miei figli, Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni, mia nuora Monica, e ai miei nipoti Francesca, Valentina, Francesco e Luca. Spero che comprendano quanto li ho amati. Per ultima Maria (ma non ultima). A Lei rinnovo l’amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio».

Per un uomo per cui sono così importante gli spazi e l’ordine delle cose l’ultima frase dell’ultimo respiro è per sua moglie Maria Travia: i due si conobbero nel 1950 e si sposarono 6 anni dopo.

«È stata bravissima lei a sopportare me. È vero, qualche volta sono stato io a sopportarla. Ma vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno», disse in un’intervista al Corriere della Sera.

Un amore fino alla fine. Letteralmente. Letterariamente.

Buon martedì.

Piccolo manuale di discontinuità

In this Sept. 19, 2019 photo, migrants on an overcrowded wooden boat wait to be rescued by the Ocean Viking humanitarian ship in the Mediterranean Sea. The misery of migrants in Libya has spawned a thriving and highly lucrative business, in part funded by the EU and enabled by the United Nations, an Associated Press investigation has found. (AP Photo/Renata Brito)

Per essere discontinui non basta dirlo, non basta ripeterlo, non basta annunciarlo. Quello vi rende annunciatori e, alla lunga, ipocriti. Per essere discontinui bisogna agire in modo differente (se non addirittura opposto) rispetto al governo precedente. Il resto sono moine da narrazione tossica.

Essere discontinui rientra nel campo del fare e non in quello del dire: se volete tenere un atteggiamento diverso rispetto ai diritti dei disperati che stanno in mezzo al Mediterraneo e che vengono torturati in Libia non basta (vi do questa terribile notizia) trattenersi dal dire che devono essere affondati, no. Bisogna tenere un atteggiamento diverso rispetto ai diritti dei disperati che stanno in mezzo al Mediterraneo e che vengono torturati in Libia. Sembra facile ma evidentemente vi sfugge.

Per essere discontinui non si può attaccare il proprio avversario politico perché ha lasciato una barca in mezzo al mare e poi lasciare una barca in mezzo al mare. Lo capirebbe perfino un fesso. E infatti lo sta capendo benissimo anche quello che prima contestavate a gran voce, e lo sta dicendo in giro.

Per essere discontinui non bisogna andare a teatro e al cinema per mostrare la differenza rispetto a quelli che vedono come massima espressione culturale la sagra della salsiccia. Per essere discontinui bisogna aiutare il teatro e il cinema e tutte le persone che ci lavorano. Tra l’altro, a bene vedere, è un mondo che non ha proprio bisogno di testimonial, di quelli ne ha in abbondanza.

Per essere discontinui non basta dire “adesso che ci siamo noi con l’Egitto cambia tutto” ma bisogna fare in modo che cambi qualcosa, se non tutto, con l’Egitto. Anche questa sembra banale ma pare sfuggire ai piani alti del governo.

Per essere discontinui non basta dire che fanno schifo i caporali sporchi e cattivi che schiavizzano le persone nei campi ma bisogna sostenere gli schiavi che lavorano nei campi.

Per essere discontinui bisogna avere il coraggio di essere diversi, ma diversi davvero, e per essere diversi bisogna avere il coraggio di parlare a quelli che non si sono sentiti rappresentati nel governo precedente. Badate bene: fare più o meno quello che facevano gli altri ma con buone maniere vi rende al massimo educati, mica discontinui

Buon lunedì.

In Umbria (e non solo) vedono ancora le streghe

La Giunta regionale umbra ha stabilito che le donne che scelgono di interrompere la gravidanza con il metodo farmacologico debbano essere ricoverate in ospedale per almeno tre giorni. La decisione si lega a un parere del Consiglio superiore di sanità, che data ormai da 10 anni e che in tutte le Regioni compresa l’Umbria è stato disatteso sulla base dell’esperienza ormai consolidata in Italia e nel mondo. Questa esperienza e la storia del farmaco fanno sembrare grottesche le ragioni addotte dalla delibera umbra. Essa dovrebbe proteggere le donne da pericoli per la loro salute ipotetici mai riportati dalle relazioni ministeriali sullo stato di applicazione della legge 194, le quali al contrario sottolineano costantemente la sicurezza e l’efficacia della procedura in day hospital. La delibera del Consiglio regionale dell’Umbria sarebbe infatti dettata dalla necessità di «salvaguardare la salute e di non lasciare sole le donne» alle quali, ovviamente, nessuno ha chiesto un parere. Si tratta piuttosto dell’ennesimo attacco alla legge 194, portato dalla frangia più retriva della politica e della Chiesa; un attacco ideologico al buon senso ed alla buona pratica medica, in spregio alle evidenze degli ultimi 30 anni.
In uno studio del 2014 l’Organizzazione mondiale della sanità riferisce che ogni anno si possano approssimativamente contare nel mondo 213 milioni di gravidanze; di queste, 56 milioni finiscono in aborti, la quasi metà dei quali è eseguita in condizioni igienico sanitarie non sicure. Nei Paesi più poveri, nei quali lo standard sanitario è insufficiente o l’aborto non è legale, ciò fa salire la mortalità materna a 25 donne per 100mila gravidanze (a fronte dello 0.7 ogni 100mila dei Paesi più sviluppati). Secondo l’Oms, l’introduzione del metodo farmacologico ha significativamente diminuito l’incidenza di morbidità e mortalità materna. Per questo motivo, l’Oms indica la combinazione Ru486/misoprostolo come una delle procedure raccomandate per effettuare una Ivg nelle prime 9 settimane di gravidanza, e già nel 2005 ha incluso i farmaci per l’aborto medico Ru486 (mifepristone) e misoprostolo nell’elenco dei farmaci essenziali.
La Ru486 è utilizzata da circa 30 anni in quasi tutti i Paesi europei ed è il metodo prescelto in oltre il 50% delle interruzioni di gravidanza del primo trimestre. Qualche anno fa furono fatte indagini sull’accettabilità e sulla sicurezza del metodo, dalle quali risultò che la stragrande maggioranza delle donne lo avrebbe consigliato; si constatò inoltre che l’introduzione della metodica farmacologica non aveva comportato un aumento del ricorso all’aborto, come paventato da più parti. Emerse inoltre che, permettendo un intervento precoce, il metodo farmacologico riduceva i rischi di complicazioni. In Italia il metodo farmacologico fu introdotto dapprima in Piemonte con un protocollo sperimentale, e contemporaneamente in Toscana ed Emilia Romagna che, avvalendosi di una legge del 1997 che permetteva l’importazione di farmaci già approvati dall’Agenzia europea del farmaco, preferirono l’importazione dalla Francia. Poi, quando nel 2009 l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) autorizzò la commercializzazione nel nostro Paese un numero sempre maggiore di strutture ha adottato la procedura.
Ma, come si poteva intuire, iniziò subito una feroce battaglia nei confronti del metodo, accusato di favorire il ricorso all’aborto e di mettere in pericolo la vita delle donne. Forzando l’interpretazione della legge, il Consiglio superiore di sanità espresse un parere, sulla base del quale vennero stilate le linee di indirizzo ministeriali del 2010. Queste ancora oggi ci ricordano che «l’atto farmacologico si articola in un percorso temporale piuttosto lungo, quasi mai inferiore ai tre giorni e vi sono implicazioni estremamente importanti dal punto di vista psicologico sulla donna che ha deciso di seguire questo difficile e doloroso percorso».
Stabiliscono pertanto che la donna debba eseguire tutta la procedura in regime di ricovero ordinario, «fino alla verifica della completa espulsione del prodotto del concepimento». Nel parere del Css, che allora definimmo, da amanti della lirica «falsettone», si prescinde dai dati di evidenza scientifica e si lascia spazio a dichiarazioni di principio ideologiche, che trasudano paternalismo nei confronti delle donne, delle quali si interpretano i sentimenti, considerandole incapaci di decidere autonomamente della propria vita.
Nulla a che vedere con la pratica medica reale e con la nostra esperienza, che era sostanzialmente in linea con quella degli altri centri in Italia e in Europa. In Regione Emilia Romagna decidemmo quindi, sostenuti dalla Regione, di procedere con il day hospital, come avveniva nel resto del mondo. Fummo minacciati, con una lettera del ministro Sacconi, di deferimento alla Corte europea, minaccia che ovviamente non vide mai la luce.
Nel 2010 scrivemmo un piccolo libro, edito dall’Asino d’Oro: Ru486 non tutte le streghe sono state bruciate, che univa alla storia clinico-scientifica della procedura una polemica con l’onorevole Roccella e la professoressa Assuntina Morresi, due accanite avversarie del metodo, che a loro volta avevano scritto un libro dal titolo No all’aborto facile. Poi, indispettite dalla nostra ironia ne scrissero un altro, sempre molto aspro e altrettanto ideologico (direi ideologicamente falso, ma forse è troppo forte). Nel frattempo però la metodica era stata adottata da tutte le regioni, fino ad arrivare nel 2018 ad essere il 20,8% di tutti gli aborti in Italia, pur con nette differenziazioni tra le regioni e tra le varie strutture: ad esempio nella Ausl di Bologna il metodo farmacologico ha coperto nel 2019 più del 60% degli aborti; sempre in Emilia Romagna, i dati ufficiali del 2018 danno il farmacologico al 34% di tutti gli interventi per l’interruzione della gravidanza.
I detrattori del metodo continuano ad agitare lo spauracchio delle morti connesse all’utilizzo della procedura farmacologica, dovute a sepsi da Clostridium Sordellii. È probabile che se si fosse indagato con la stessa meticolosità sul metodo chirurgico si sarebbe arrivati agli stessi risultati.
Ad ogni modo la causa delle morti fu individuata nella somministrazione per via vaginale della prostaglandina: la sostituzione con la via orale (sublinguale o buccale) azzerò il problema delle sepsi. L’unica morte verificatasi in Italia, è stata attribuita invece a complicazioni cardiovascolari legate all’utilizzo di altri farmaci, e non a quelli utilizzati per la Ivg. I dati ufficiali sulle complicanze riportano nel 2018 il dato complessivo di 5,6/1000, per tutti i tipi di aborto. In Emilia Romagna quelle dell’aborto medico hanno inciso per il 2,2% nel 2018 (importante tener presente che il metodo prevede un controllo dopo 14-21 giorni, per cui il dato delle complicanze è più attendibile).
Nell’Ausl di Bologna nel 2019, con il 62% di interventi farmacologici, le complicanze sono state l’1,6%. In conclusione, si può dire che dai dati raccolti in questi anni, relativi ad alcune decine di migliaia di casi, confermano la sicurezza e l’efficacia della combinazione mifepristone (Ru486)-prostaglandine per l’interruzione volontaria di gravidanza. Pensiamo che sulla base della letteratura e dei dati raccolti in Italia l’Aifa e il ministero della Salute, superando le limitazioni imposte dal parere del Consiglio superiore di sanità del 2010, potrebbero rivedere le loro raccomandazioni autorizzando anche in Italia la somministrazione fino a 63 giorni. Riteniamo inoltre che sia tempo di abolire l’obbligo di ricovero durante tutta la procedura, ammettendo i soli regimi di day hospital e ambulatoriale, come avviene nel resto del mondo.
Sarebbe interessante confrontarsi adesso con le nostre accanite interlocutrici di allora, perché riconoscano che i fatti hanno dimostrato che il metodo farmacologico è efficace e sicuro, non è né migliore né peggiore, ma una possibilità di scelta; che l’aborto continua ad essere un problema sociale ed individuale a cui la legge 194 dà una risposta civile.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 26 giugno 2020

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