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Delta Blind Billy, un eroe da romanzo

Nell’estate del ’42, quando ritorna nel Sud, “a caccia di canzoni”, come sempre, Alan Lomax vuole ancora fare i conti con le “voci” e sulla sua lista di musicisti scomparsi, o dimenticati, c’è anche il nome di Delta Blind Billy, il fuorilegge. Dopo Memphis, Lomax si sente di nuovo a casa, finalmente. Le prime avvisaglie del Delta lo rallegrano. «Mi sembrava di sentire l’odore del Mississippi, pesce gatto fritto, pannocchie arrostite e imburrate e anguria al fresco della sera, il tutto innaffiato da distillato di Mais e accompagnato dal blues». Ma ha fretta, sta per partire per la guerra, e in ogni caso sui suoi taccuini fitti di appunti ci sono ancora troppi interrogativi, e troppi buchi. Ne La terra del blues – il suo libro più celebre, e più bello – questa urgenza la cogli benissimo quando incontra Son House, vicino a Tunica, perché Son era quello che ne sapeva di più di musicisti, e poi era stato il maestro di Robert Johnson, che continuava a chiamare Little Robert, come una volta (era «vanitoso come un pavone, e oltremodo irritabile», però, tra tutti, era quello «che ha imparato a suonare più in fretta di chiunque altro, da queste parti») e, insomma, Lomax gli vuol far raccontare tutto, sapere tutto e Son House aveva voglia di chiacchierare, quel pomeriggio.

Di quella conversazione, Lomax trascrive (quasi) tutto ne La terra del blues. Son ciancia a ruota libera, inarrestabile, gli parla di Lonnie Johnson, di Charlie Patton, e di Blind Lemon Jefferson, di Muddy Waters. Soltanto quando Lomax lo incalza su Delta Blind Billy si fa reticente. Le poche cose che Alan riesce a cavarne fuori neanche le trascrive sul libro, e qualche indizio lo ritroviamo nei suoi appunti conservati alla Library of Congress Usa. Delta Billy, Son House se lo ricorda e no, o finge qualcosa, e a mezza bocca lascia capire che era un tipo così, poco trattabile, e che c’era stato qualche fatto di sangue, delle rapine. Ovvio – concede – che c’era questo suo pezzo, “Hidden Man”, che alla fine lo cantavano un po’ tutti, trasformato in “Man of Constant Sorrow”, e certo Delta Billy un due o tre pezzi fantastici li aveva pure scritti, non ci piove, però…. Cosa frenasse Son House non è chiaro. L’unica cosa davvero interessante la racconta a Lomax proprio alla fine.

A Clarksdale, doveva essere stato il ’26 o il ’27 in uno di quei Juke Joint che c’erano allora un giorno c’era stato una specie di incontro al vertice di tutti i bluesman ciechi del tempo e Son li aveva sentiti suonare, tutti assieme: c’erano Blind Connie Williams, Leon Jefferson, c’erano anche Joe Reynolds e Blind Willie Mctell. C’era – anche -, ma sempre un po’ per i fatti suoi, Delta Blind Billy. «Poteva essere stato un caso, non lo so, ma sembrava che quei ciechi si fossero messi d’accordo, in qualche modo, una specie di congiura di ciechi, anche bravissimi, e a me i ciechi fanno paura, da morire, ti sembra che ti guardino lo stesso dietro quei maledetti occhi bianchi, oppure bui». Come a tutti gli incroci del destino, i ciechi poi s’erano salutati e ognuno se n’era andato via per la sua strada, e qualcuno di loro sarebbe riapparso dal vivo, nei Sessanta, di altri ci restano almeno i dischi, parecchi takes. Ma nessuno – e Son House, scrolla le spalle, indifferente – nessuno sa dove diamine sia finito Delta Blind Billy.

Chi ebbe decisamente più fortuna di Lomax fu, una decina d’anni dopo, John Wesley Irving, un poco noto folclorista dell’Università dell’Indiana. Roso – si dice – da un’inguaribile invidia per La terra del blues, Irving, coi fondi messigli a disposizione da un comitato per la True American Culture (un ente finanziato da gente vicina al senatore McCharty e più che altro sponsorizzato dalla National Rifle Association) si mise in macchina sulle tracce di Lomax nella primavera del ’52 pur odiando in cuor suo i neri, il blues, le atmosfere del Delta e anche i pesci gatto. Ma com’è, come non è, pur essendo una brutta persona, ebbe fortuna (a meno, ovvio, che non abbia inventato tutto di sana pianta). Il suo libro – Blues coming down like hail, Vertigo Press, 1953 – non riscosse alcun favore e l’insuccesso fu solo uno dei vari elementi che porterà Irving a ritirarsi. Sia come sia, su Delta Billy almeno, pare abbia fatto centro (o almeno così si vanta).

In generale, nei primi anni Cinquanta, se ne sapeva pochissimo come ai tempi di Lomax. La voce che Delta avesse inciso un “race record” nel ’29 restava da provare e in buona sostanza tutto quel che restava di lui eran questi tre pezzi (gli stessi, peraltro, che si possono trovare ancora oggi vagando sul web): “Hidden Man!, “First Take Blues”, “Waiting Round for You Woman”. In Blues coming down, Irving non rivela le sue fonti, resta elusivo. «Lomax – scrive – avrebbe potuto arrivarci benissimo: la verità era…»…

Il cantautore Valerio Billeri con il suo gruppo le Ombrelettriche e lo scrittore e disegnatore Vittorio Giacopini sono gli autori di “La trasfigurazione di Delta Blind Billy”. Undici brani originali, un racconto (e qualche disegno) sull’inafferrabile chitarrista. Il cd-racconto viene presentato il 15 luglio a Roma presso lo spazio Sinestetica, viale Tirreno 70 a/b.

L’articolo di Vittorio Giacopini prosegue su Left del 3 luglio 2020

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Khaled Khalifa, scrivere contro l’oblìo

Khaled Khalifa, uno degli scrittori arabi più interessanti e noti all’estero, costituisce un’anomalia nel panorama letterario siriano per il coraggio con cui ha sempre affrontato tematiche scottanti. Raramente, prima di lui, la produzione letteraria siriana aveva trasgredito certi tabù politici e religiosi; in generale, gli scrittori avevano continuato, per eludere l’asfissiante censura, a non violare i divieti imposti da un regime animato da un unico obiettivo: salvaguardare ad ogni costo la propria sicurezza e il proprio potere. Per decenni gli autori erano ricorsi a sotterfugi e stratagemmi, primo tra tutti quello di denunciare gli attacchi alle libertà dei siriani sempre in maniera velata, inserendo cioè la trama in un’altra epoca o in un altro luogo. Khalifa nei suoi romanzi (molti dei quali tradotti anche in italiano) ha spesso fatto rivivere senza filtri la memoria dei tragici eventi che hanno insanguinato il Paese, dopo l’assunzione del potere nel 1970 da parte di Hafez al-Asad (Assad per le fonti occidentali) al quale è poi succeduto, nel 2000, il figlio Bashar. La sua è una letteratura contro l’oblio, in cui non ha mai smesso di esplorare le ferite inferte da un sistema totalitario all’anima oltre che al corpo dei siriani.

Il romanzo Morire è un mestiere difficile (Bompiani, 2019), pubblicato nel 2016 a Beirut, lontano dal ferreo controllo della censura di regime siriana, si apre con il personaggio di Abd al-Latìf, il quale, poco prima di esalare l’ultimo respiro, su un letto di ospedale di Damasco, strappa al figlio Nabil che lo assiste, la promessa che lo avrebbe seppellito nel suo villaggio natale di Annabiya, a nord di Aleppo, vicino al confine turco, a un centinaio di chilometri di distanza. Un desiderio facile da esaudire in tempo di pace, ma che nelle condizioni in cui si trova la Siria si preannuncia come un’impresa titanica. Nonostante tutto, Nabil, detto Bulbul, non se la sente di deludere il padre moribondo e acconsente, coinvolgendo subito dopo nell’impresa rischiosa anche suo fratello e sua sorella, assieme ai quali attraverserà la Siria da sud a nord, vivendo un profondo conflitto interiore, dibattuto tra il desiderio di realizzare la volontà paterna e la paura dell’ignoto…

Maria  Avino ha tradotto il romanzo di Khaled Khalifa Morire è un mestiere difficile (Bompiani 2019). Per la sua traduzione è tra le cinque finaliste del premio Mario Lattes per  la traduzione 2020.  Il premio verrà assegnato il 18 luglio (ore 18) al Castello di Perno nelle Langhe, (Cuneo).

 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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Il teatro ha un Futuro Fantastico

Spazzare via la distanza, nonostante la distanza. La cultura riesce sempre in quest’impresa e ce lo dimostra anche in un momento in cui il “distanziamento” è la regola: ecco allora che apre nuovi dialoghi e discussioni, senza perdere il contatto con la ricerca del e per l’umano.
Inventando e reinventandosi cambia traiettorie, ma non si ferma davanti a niente. Come l’acqua.
«Potremo non avere forma, ma potremo anche avere la stessa forma. Saremo diversi, ma saremo anche uguali. Saremo separati, ma saremo uniti … . L’acqua può fluire, ma può anche spaccare. Siate acqua amici». (Dal progetto di Mara Oscar Cassiani Be water, my friends, ispirato al monologo di Bruce Lee).
In questo stesso senso Santarcangelo Festival diventa un intenso e necessario viaggio di scoperta lungo un anno, sotto la direzione di Motus, Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande. Ecco la loro idea di Futuro Fantastico, l’edizione 2020, che «prova a guerreggiare contro la distanza. Non quella sociale o di sicurezza, ma quella che affonda nella solitudine affettiva che la bidimensionalità social ci ha instillato in questi mesi e ancora continua, goccia a goccia…».

Poteva non esserci, date le circostanze. Ma l’edizione numero 50 di Santarcangelo Festival non solo ci sarà, ma coprirà l’arco di un intero anno. Come avete fatto a reagire così?
Non è stato facile. In un primo momento, come tutte le realtà internazionali con cui siamo in contatto, ci siamo trovati in uno smarrimento totale in cui era difficile capire l’evolversi della situazione. Era importante, per noi, non arrenderci e lasciare un segno fin da subito, consapevoli delle limitazioni: “quello che si potrà fare, faremo”. Abbiamo avuto un’ottima risposta da parte di istituzioni e artisti. Non erano possibili progetti internazionali, per cui l’idea di avere un festival lungo un anno, con una prima tappa estiva “di emergenza” (che è diventata particolarmente densa), per poi dare spazio a fine anno al secondo capitolo Winter is coming dove saranno coinvolte le giovani compagnie impossibilitate per il momento a presentare i loro lavori. L’ultimo passaggio sarà nel luglio 2021 con un ritorno, se possibile, alla dimensione internazionale della rassegna…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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Hong Kong all’ultimo respiro

TOPSHOT - Riot police detain a man as they clear protesters taking part in a rally against a new national security law in Hong Kong on July 1, 2020, on the 23rd anniversary of the city's handover from Britain to China. - Hong Kong police made the first arrests under Beijing's new national security law on July 1 as the city greeted the anniversary of its handover to China with protesters fleeing water cannon. (Photo by DALE DE LA REY / AFP) (Photo by DALE DE LA REY/AFP via Getty Images)

Migliaia di cittadini ad Hong Kong stanno scendendo in strada a protestare. Non ci interessa quanto la nuova legge sulla sicurezza nazionale stia reprimendo la nostra libertà. Gli hongkongers continueranno a protestare per preservare i loro diritti e il loro sistema democratico». Isaac Cheng – l’ex vicepresidente di Demosistō, il partito pro-democrazia di Hong Kong da poco scioltosi – non ha dubbi sul futuro delle proteste nel “Porto profumato” dopo la promulgazione della nuova legge sulla sicurezza nazionale pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 30 giugno. Le sirene gli fanno da eco.

La legge stabilisce che a Hong Kong nasca un’agenzia nazionale cinese di controllo che dovrà agire contro qualunque forma di «secessione, sovversione e collusione con forze straniere». Si prevedono, dunque, sanzioni per quattro diversi reati, tra i quali anche la sedizione e l’attività terroristica. Le pene vanno dai tre anni all’ergastolo. La norma non è retroattiva, a meno che «le persone che hanno messo in pericolo la sicurezza nazionale negli ultimi due anni siano ancora sospettate del crimine dopo la promulgazione della legge». Le autorità locali saranno completamente sottoposte al controllo di Pechino anche per quanto riguarda le questioni giudiziarie. Ma soprattutto andranno perse la libertà di opinione, critica e manifestazione contro il potere che hanno da sempre contraddistinto Hong Kong.

«Questa legge è stata approvata con lo scopo di assicurare la piena implementazione della dottrina “Un Paese, due sistemi”, sotto cui gli abitanti di Hong Kong amministrano l’isola con un ampio grado di autonomia». Recita così il primo punto del provvedimento approvato dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese, votato all’unanimità. Il testo è composto da sei capitoli e 66 articoli, ma i dettagli risultano ambigui, e vanno nella direzione opposta rispetto a quanto affermato nelle prime righe della norma. Come spesso accade, la Cina tenta di nascondere i propri affari interni, in modo che dall’estero nessuno possa giudicare o, peggio, intervenire. Perché Hong Kong, per il governo di Pechino, è sempre stato un “affare interno”. Un territorio che fino ad ora aveva sì goduto di autonomia, ma che da tempo è nel mirino del governo centrale della mainland, soprattutto da quando alla presidenza della Repubblica Popolare c’è Xi Jinping…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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Da detenuti a ostaggi

«Aiuto, mio padre è stato massacrato di botte», denuncia una ragazza con lacrime di rabbia per il papà detenuto a Santa Maria Capua Vetere. «Mio marito è stato picchiato, messo dentro un blindos in mutande, senza vestiti e senza niente», le fa eco una donna il cui compagno è nel carcere di Pavia. «Sono entrati gli antisommossa a massacrare di botte tutti i detenuti. Molte persone sono state accompagnate in cella perché non riuscivano a camminare», racconta la sorella di un altro ragazzo recluso a Opera, il carcere di Milano. Sono solo una parte, queste, delle testimonianze a seguito dei giorni caldi dell’emergenza coronavirus: i detenuti temevano che il contagio da Covid-19 potesse arrivare anche nei penitenziari e se questo fosse accaduto, sarebbe stata un’ecatombe. Da qui la richiesta di maggiori garanzie, spesso sfociate in rappresaglie che, tuttavia, sono state spesso sedate con pestaggi e violenze. «Quanto accaduto a marzo – spiega non a caso Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone – costituisce un unicum tragico della storia repubblicana, con le proteste, i morti, le rappresaglie. C’è stata una sottovalutazione dell’ansia e della disperazione che covava nelle carceri».

Secondo quanto risulta a Left, inchieste sono in corso in tutt’Italia, dopo i tanti esposti presentati ora dai familiari delle vittime ora da Antigone. Proprio dopo una dettagliata denuncia dell’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, a Santa Maria Capua Vetere sono finiti nel registro degli indagati 44 agenti penitenziari. È il 5 aprile quando si diffonde tra i detenuti la voce secondo cui lo spesino di reparto (l’addetto alla spesa) avrebbe contratto il Covid-19 (saranno alla fine accertati tre casi in carcere). Inevitabilmente scoppia la protesta: il sovraffollamento, d’altronde, non garantisce la benché minima sicurezza. Non a caso nel primo pomeriggio del 6 aprile il magistrato di sorveglianza va in carcere per capire le ragioni di quella protesta. E qui succede qualcosa di incredibile: secondo quanto emerge dagli esposti in mano alla Procura, appena il giudice va via, tra le 15 e le 16, circa 400 agenti fanno ingresso nelle sezioni del reparto “Nilo” (dove il giorno prima era scoppiata la rivolta), suddivisi in gruppi di sette agenti, in tenuta antisommossa e con il volto coperto da caschi. Alcuni poliziotti sarebbero entrati nelle celle e…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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Parità di genere, la rapina del secolo

GIRONA, SPAIN - SEPTEMBER 24: People walk along the street on September 24, 2015 in Girona, Spain. Over 5 million Catalans will be voting in Parliamentary elections on September 27, with opinion polls predicting that the majority of seats will be won by pro-independence parties, which could lead to a push for independence in Catalonia. (Photo by Alex Caparros/Getty Images)

Per Emma Bonino era una sentenza storica che riconosceva la parità delle donne. Fu però il governo Berlusconi, che era in carica, a recepirla. Di cosa parliamo? Della sentenza del 13 novembre 2008 con cui la Corte di giustizia europea considerava discriminatoria ai sensi dell’articolo 141 del Trattato della Ue la diversa condizione pensionistica delle donne iscritte al regime Inpdap e cioè del pubblico impiego.

Questa diversa condizione era la differente soglia per il pensionamento di vecchiaia (cioè per età) che era fissato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. I titoli dei giornali erano prevalentemente pro sentenza (il governo che si era opposto in dibattimento fu “sconfitto”). Ma la realtà era proprio così “femminista”, nello spostare di colpo cinque anni avanti la soglia di pensionabilità del lavoro pubblico femminile?

Le cose erano in verità più complesse e anche assai diverse. Anche tecnicamente. L’art.141 del Trattato riguarda infatti le disparità nel trattamento retributivo e non nella condizione pensionistica.
Infatti la sentenza riguardò solo l’Inpdap, e non l’Inps, in quanto la Corte considerò che, essendo lo Stato datore di lavoro e poi erogatore pensionistico, in questo caso si poteva equiparare la pensione alla retribuzione. In realtà nel testo della sentenza il dispositivo concerne proprio l’equivalenza e la non discriminazione tra uomini e donne dal punto di vista retributivo.

Ora l’assetto difensivo dell’Italia fondato sul riconoscimento della “specificità” femminile non reggeva l’argomentazione accusatoria della lesione appunto della parità di trattamento retributivo.
Le cose sarebbero potute andate diversamente se si fosse riusciti a garantire che l’effettiva parità ci sarebbe stata. Come? Innanzitutto mantenendo il sistema pensionistico retributivo che era stato invece manomesso dalla riforma Dini del 1996, col passaggio al contributivo. Il sistema retributivo infatti garantiva la continuità di trattamento con gli ultimi periodi lavorativi e non con il calcolo dei contributi versati. Peraltro in sintonia coi principi su cui si basava la sentenza, che partiva proprio dall’articolo del Trattato dedicato all’uguaglianza retributiva e, come detto, per questo interveniva solo sull’Inpdap…

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Effetti collaterali di una pandemia

L’emergenza coronavirus ha influito sulla condizione delle donne in Italia sotto vari aspetti, innanzitutto sul piano lavorativo. Il carico di lavoro domestico e di cura è divenuto ancora più gravoso, la precarietà dei contratti lavorativi, che riguarda le donne in maggior parte, ha rivelato in modo definitivo quanto sia una trappola e non uno strumento di flessibilità che aiuta la conciliazione.
Non dimentichiamo, infatti, che proprio le donne sono la maggioranza tra gli impiegati nella grande distribuzione, che non si è fermata, pur non assicurando alle lavoratrici adeguate tutele; oppure nei lavori domestici e di cura, pur rimanendo invisibili perché spesso prive di contratto regolare; tra il personale sanitario, sia medico sia infermieristico, operatrici socio sanitarie e personale addetto alle pulizie, che infatti sta protestando e chiedendo la necessaria stabilizzazione e un trattamento economico dignitoso. Il lockdown, poi, ha costretto le donne in casa, luogo non per tutte sicuro.

Le istituzioni europee, tra cui segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejinović Buri, hanno tutte espresso preoccupazione per l’aumento dei casi di violenza domestica durante il lockdown e per l’impossibilità per le donne di uscire, chiedere aiuto, denunciare. In Italia in particolare, come confermato dai dati elaborati dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio (box a pag. 15, ndr), durante il lockdown si è registrato un generale calo degli omicidi volontari, a cui però non è corrisposta una proporzionale diminuzione delle vittime di sesso femminile. Inoltre, sono diminuite notevolmente le denunce per i reati di maltrattamenti all’interno delle mura domestiche che vedono vittime donne e bambini/bambine minorenni. Le donne esposte a maltrattamenti sono state costrette in casa insieme all’uomo violento, e quindi impossibilitate a denunciare, perché esposte al controllo costante del partner violento.

Come associazione Differenza Donna abbiamo denunciato questo grande problema alle istituzioni. Inoltre, abbiamo attivato delle modalità alternative e più semplificate che consentissero alle donne di contattare i centri antiviolenza anche tramite sms o via Whatsapp. Abbiamo anche fornito, su tutte le piattaforme online maggiormente fruibili, informazioni sui diritti delle donne all’accesso alla giustizia. Abbiamo fortemente incentivato l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine dello strumento dell’allontanamento urgente dalla casa familiare (di cui all’art. 384 bis c.p.p.) e …

*-*

L’autrice: L’avvocato Teresa Manente è responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna

 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 luglio

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Una carta dei diritti per il Mezzogiorno

Che l’emergenza Covid sia stata e sia una delle principali questioni a cui chi governa deve dedicarsi è fuori di dubbio e nessuno lo contesta, anzi.
L’azione di governo, l’azione dei governi europei, l’informazione paiono concentrarsi da mesi solo ed esclusivamente attorno a quello che sembra essere l’unico problema o l’unica questione sul tavolo.
La vicenda di Mondragone, con le palazzine isolate dall’esercito perché ad alta concentrazione contagio, il fatto che le persone lì residenti siano “bulgare”, come se fosse una colpa, pare essere l’unico problema nazionale.
Proviamo a fare mente locale, andiamo proprio in quella zona a nord della Campania in cui si colloca, secondo i più, la Terra dei fuochi. In quel territorio si muore, oltre che di Covid, anche in giovanissima età, per i veleni sversati per decenni da multinazionali e criminalità organizzata con la connivenza delle molte amministrazioni che nei decenni si sono susseguite. In quella zona è ancora presente (si dice bonificata) la centrale nucleare posta sul fiume Garigliano. Secondo alcune testimonianze degli abitanti della zona le morti per tumore anche lì superano le concentrazioni normali presenti sul resto del territorio nazionale.

Nel tempo questa questione è stata affrontata in tre modi: il problema non esiste; è tutta colpa dei rifiuti sversati dagli abitanti nelle campagne; si muore non per inquinamento, ma per una errata alimentazione. Questa storia dell’errata alimentazione negli ultimi anni è diventata una specie di mantra con qualche piccola variante: ad esempio a Taranto gli abitanti del rione Tamburi non muoiono per le polveri sottili prodotte dall’impianto siderurgico, ma per “un loro cattivo stile di vita”. Cattivo stile di vita che ritroviamo anche in Basilicata dove non è l’inquinamento da idrocarburi a creare problemi alla popolazione, ma anche qui pessime abitudini alimentari.
Da anni cittadini, comitati, poche amministrazioni illuminate chiedono ai governi regionali e nazionali di intervenire su queste emergenze, di bonificare le aree, di non concedere più ad aziende senza scrupoli di ferire a morte i territori. È da anni che questi stessi soggetti chiedono che vengano stanziati fondi per queste aree del Sud Italia, ma cosa accade: si concedono altre autorizzazioni a società petrolifere in mare e sulla terra in particolare tra Basilicata e Taranto, si decide di creare un deposito unico nazionale di scorie nucleari in Basilicata.

Si dirà: “notizie vecchie”. Certo, “notizie vecchie”, ma emergenze mai risolte, tanto si sa, in Italia un’emergenza lava l’altra e al Sud in particolare le lava tutte ed ogni volta che pare esserci una destinazione di fondi che va verso Sud, ecco che puntuale arriva una qualche emergenza utile a dirottare fondi altrove.
Nelle scorse settimane, in piena emergenza Covid, per affrontare la programmazione e il coordinamento della politica economica è stata proposta la sospensione della regola di destinazione del 34% degli investimenti a valere sulle risorse ordinarie al Sud, nonché una diversa distribuzione dei fondi europei di sviluppo e coesione.
Teniamo conto che la legge sul 34% di investimenti da destinarsi al Sud ha vita breve, tanto breve che certamente non ha ancora avuto modo di incidere realmente sulle politiche di uno Stato da sempre strabico e da sempre ipnotizzato da una visione che vede una parte del Paese “locomotiva” e un’altra parte “vagone”, anche un po’ malandato.

Al Mezzogiorno, come sempre, non rimane che l’elemosina, in perfetta coerenza con la complessiva linea politica dei governi Conte e precedenti. Se il Conte 1 si è caratterizzato per il sostegno all’autonomia differenziata, il Conte bis, pur annoverando al suo interno numerosi ministri, oltre allo stesso presidente del Consiglio, provenienti proprio dalle regioni meridionali, si è caratterizzato e si caratterizzerà per la sottrazione al Mezzogiorno di quei finanziamenti che sarebbero stati necessari a rallentare e a restringere il divario di sviluppo tra Nord e Sud del Paese sempre e comunque in aumento.

Scelte che restano incomprensibili e irresponsabili perché, se una crisi è anche un’opportunità, da una crisi non si può che uscire insieme, tutelando tutti i cittadini, senza esclusioni né contrapposizioni territoriali.
Senza il Mezzogiorno non c’è ripresa che tenga e il Sud va concepito come una effettiva risorsa del Paese e non un luogo marginalizzato o solo come un mercato di sfruttamento e consumo.
L’unico modo per uscire dalle emergenze e diseguaglianze, da tutte, è la rimozione degli squilibri economici e infrastrutturali tra le regioni. È necessario mettere in sicurezza il carattere unitario e indivisibile della nostra Repubblica, già messo in crisi da modifiche costituzionali quali quella del Titolo V.
Tali modifiche hanno costituito terreno fertile per la richiesta di autonomia differenziata, altra sciagura nazionale.

In questa drammatica emergenza Covid, il transito alla Fase 2 ci consegna un’immagine distopica del futuro segnata anche da elementi di odio razziale, di matrice antropologica e biologica. Ecco perché è interessante articolare, a proposito di Sud e di aree marginalizzate del Paese, una proposta per “una nuova questione meridionale”.
Nel conflitto sempre esistente e mai estinto tra capitale e vita umana, i temi come: salvaguardia del territorio, inquinamento industriale, riconversione ecologica, valorizzazione delle risorse agricole pongono in modo nuovo il tema della salute, della difesa dell’ambiente, del lavoro/non lavoro, delle migrazioni, del reddito quale risposta al bisogno individuale della persona.

Oggi chi non vuole soccombere e far soccombere il Sud sotto il macigno di un potere costituito deve riprendere le fila di una discussione di cambiamento e di riscatto. Questo Sud così difficile e lacerato può rappresentare un terreno di sperimentazione politica e di politiche straordinario con la messa in discussione delle caratteristiche di fondo del capitalismo contemporaneo rivolto più alla conservazione e all’arricchimento dei capitali esistenti che non alla creazione di un benessere diffuso. Per superare la politica delle emergenze che ne cancellano altre non puntando mai alla risoluzione delle questioni, il Mezzogiorno d’Italia necessita di un progetto globale di sviluppo che parta da una vera e propria “Carta dei diritti del Sud” che incarni la vocazione di un’intera area vasta, che veda nella riconversione e nell’innovazione ambientale, nell’agricoltura e nel turismo settori di crescita ed occupazione. Per gli uomini e le donne che abitano il Sud è necessario costruire insieme il proprio futuro. Il luogo certamente può essere l’assise meridionale che si terrà l’11 luglio a Roma. Il titolo: Il meridionalismo che cambia.
Perché le emergenze non diventino questioni, e perché le questioni non vengano oscurate da altre emergenze.

Michele Dell’Edera e Loredana Marino fanno parte del Lab-Sud la riscossa del Sud che promuove per l’11 luglio a Roma (via Flaminia 53, ore 10.30) l’incontro Il meridionalismo che cambia. Diretta streaming sulle pagine Facebook di Transform! Italia e di Left.

L’articolo di Michele Dell’Edera e Loredana Marino è uscito su Left
del 3 luglio 2020

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Amate smisuratamente

Cosa ci colpisce e ci affonda dei bambini quando si buttano in tutto quello che fanno, quando stritolano per il volere bene il collo di qualcuno, quando si incaponiscono su inezie che non si riescono a pesare, quando gioiscono come se soffiassero da tutti i pori, quando si lamentano con lamenti lamentosi che sembrano la fine del mondo? È il loro senso della dismisura, quel vivere ogni sensazione senza paracadute, senza nient’altro tutto intorno.

Ogni tanto mi viene da pensare che poi, con gli anni, tutti noi a quell’essere a dismisura ci aggiungiamo il controllo e la patina della paura di tutte le botte che abbiamo preso, delle ferite che ci sono rimaste addosso, dell’incriocchiarsi dei sentimenti come se dovessero essere tenuti a bada e della buona educazione che ci viene imposta come limitazione di ciò che sentiamo e di ciò che siamo in nome di una rotondità sentimentale sociale che è quasi un annilichimento.

Pensate agli adulti con la dismisura dei bambini che difendono i diritti, che lottano per ciò che è giusto, che non lesinano energie per ciò in cui credono e che non accettano la realtà smussata di chi ci racconta che le cose vadano così perché devono andare così perché non c’è alternativa di come potrebbero andare. Pensate all’amare a dismisura le ingiustizie, quelle piccole e quelle grandi, e battersi smisuratamente per curarle e smisurata,ente prendersi cura di quelli che abbiamo vicino e che abbiamo lontano.

Perché poi in fondo tutti gli eroi sono smisurati: è smisurato il modo in cui ci hanno creduto, è smisurato il modo in cui hanno tenacemente tenuto la posizione quando non conveniva e è smisurato il modo in cui poi vengono seguiti dopo essere stati derisi.

Ecco, se ci fosse un augurio da farci per questa estate che percorriamo sulle macerie e sui muri sfranti che ci ritroveremo a percorrere, l’augurio che ci farei è quello di amare smisuratamente, di scrollarci dalle spalle questa misura che è un fardello e cominciare a pensare che ci siano motivi validi per essere smisurati. E fa niente quello che ci dicono intorno.

Amate smisuratamente, vi darà nuove misure.

Buon venerdì.

Una sentenza da incorniciare

«Incostituzionale per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo». Così la Corte costituzionale ha definito la norma del “decreto sicurezza, cavallo di battaglia di Salvini quando era ministro dell’Interno, che preclude l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo.
 
«La Corte – si legge in una nota del 9 luglio – ne ha dichiarato l’incostituzionalità poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti.

Leggi il Comunicato della corte costituzionale 

CC_CS_20200709165957