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Non ne indovina una: eterofobia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-06-2020 Roma Politica Presentazione del libro "Stelle cadenti" di Annalisa Chirico Nella foto Matteo Salvini Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-06-2020 Rome (Italy) Presentation of the book "Stelle cadenti", written by Annalisa Chirico In the pic Matteo Salvini

Quel gran geniaccio di Salvini si vergogna di dire che vuole prendersi i voti di quelli che odiano i gay e allora ha studiato un’incredibile invenzione per dichiararsi quel poco che è facendo un giro larghissimo: dice che se si vota una legge contro l’omofobia allora bisogna anche correre subito a scrivere una legge contro l’eterofobia. Ci deve avere messo ore a imparare una parola nuova ma alla fine ci è riuscito, innanzitutto.

Del resto a chi di noi non è mai capitato di essere insultato perché eterosessuale, mano nella mano del marito o della compagna, mentre cammina in una via del centro dove ci sono cartelli con scritto “non si affitta agli eterosessuali” oppure a chi di noi non è mai capitato di avere un amico che è stato disconosciuto dalla famiglia o ghettizzato sul lavoro per avere detto di essere eterosessuale. È una cretinata talmente colossale che fa tremare le vene e i polsi solo a commentarla.

Poi ci sono quelli che la buttano sulla “libertà di pensiero”: sono quelli che vogliono esercitare il diritto di offendere un gay in quanto gay e non sanno che si può liberamente esprimere la propria opinione senza grossi rischi. Per me, ad esempio, quelli che hanno paura di perdere il diritto di urlare in mezzo alla strada “fai schifo, gay!” sono degli emeriti imbecilli e mi prendo anche la briga di difendermi nel caso in cui mi quereli qualcuno. Scambiare la libertà di espressione con la libertà di essere cretini va parecchio di moda, di questi tempi.

Infine c’è la chicca delle chicche: una legge che punisce chi discrimina in base all’orientamento sessuale in realtà difende anche qualcuno che viene pestato in quanto etero. Quindi la legge che vorrebbe scrivere Salvini è proprio quella in discussione, non deve nemmeno fare fatica.

Ben fatto, Matteo!

Buon venerdì.

Il ritardo insostenibile

Lione, Bordeaux, Marsiglia, Strasburgo, Poitiers, Besancon, Tours: le elezioni amministrative francesi hanno premiato i candidati e soprattutto le candidate verdi. Un risultato incredibile, che però non mi stupisce: lo sviluppo sostenibile delle città non è solo la fissa di qualche studioso, di qualche associazione o di qualche politico; non è neanche una moda. È ricchezza. È benessere. È futuro. È pace. È diritti. E questo i cittadini lo hanno capito bene.

L’onda verde cresce e si consolida nelle città europee. Ovunque, ad eccezione dell’Italia. Benché anche da noi si stia lavorando, il problema è che si continua a pensare ai contenitori invece che alle sfide poste dai territori. Anche in Italia abbiamo un’occasione straordinaria, nel 2021, per affrontare le elezioni comunali che verranno con una proposta organica, fatta di politiche urbane nel segno della sostenibilità, politiche sociali che affrontino il nodo delle periferie, politiche climatiche che portino i nostri centri urbani in Europa. Solo così riusciremo ad utilizzare il Recovery fund per cambiare le nostre città e la vita di milioni di cittadine e cittadini in chiave sostenibile. Tenendo insieme ambiente e sociale, valorizzando il ruolo delle donne che vincono in molte città europee amministrando bene e rappresentando un vero cambiamento.

È intollerabile infatti che ancora ci siano italiani costretti a scegliere tra ambiente e salute da una parte, e lavoro dall’altra. Oggi più di ieri questo ricatto è inaccettabile perché abbiamo le tecnologie e le competenze per conciliare ecologia ed economia e perché con la crisi del coronavirus abbiamo visto gli effetti devastanti che può avere uno sviluppo rapace ed estrattivo, che non ha rispetto di habitat ed ecosistemi. Quella della sostenibilità è la via intrapresa dall’Europa, che ha confermato le priorità del Green deal e della neutralità climatica entro il 2050.

Dovremmo decidere anche noi da che parte stare, che tipo di Paese vogliamo essere – ad alta sostenibilità sociale e ambientale oppure in mano alle corporazioni conservatrici? – e scegliere di conseguenza dove investire i soldi che stiamo stanziando e quelli che arriveranno dall’Europa. E poi dovremmo semplificare la vita a imprese e istituzioni che dovranno percorrere la strada tracciata dalla politica.

Non ho dubbi: per ripartire con il piede giusto dobbiamo avere il coraggio di guardare al futuro con politiche e interventi radicali per la conversione ecologica di società ed economia. Oggi possiamo metterli in campo con condizioni di straordinario favore. L’Europa è pronta a sospendere il Patto di stabilità, dimostrare solidarietà e a sostenere la ripresa con strumenti inediti. Si pensi a Recovery fund per investimenti strategici quali la decarbonizzazione delle produzioni, una digitalizzazione che coinvolga tutto il territorio nazionale e recuperi le disparità ad oggi esistenti, una modernizzazione della pubblica amministrazione fatta di nuove competenze e tecnologia, maggiore coordinamento e sburocratizzazone.

In questo quadro con il superbonus previsto dal decreto Rilancio abbiamo finalmente una misura sistemica che punta all’efficientamento energetico, alla riqualificazione, alla sicurezza statica e all’edilizia in chiave sostenibile. Uno strumento importante per un settore trainante, che avrà ricadute positive su occupazione, bollette energetiche dei cittadini e sulle nostre politiche di contrasto all’inquinamento urbano e ai mutamenti climatici. Per coglierne la potenzialità bastano due dati: i bonus casa in vigore sinora, con un credito di imposta e possibilità di cedere il credito più limitati, nel 2019 hanno mosso 28,9 miliardi di investimenti con un impatto per oltre 432 mila occupati secondo le elaborazioni di un recente rapporto di Cresme e Servizio studi della Camera.

Un altro fronte strategico su cui intervenire è quello della mobilità, che deve essere sempre più intermodale e sostenibile. Altrimenti…

*-*

L’autrice: Rossella Muroni è un’attivista e deputata Leu, ed è stata presidente nazionale di Legambiente

 

L’editoriale prosegue su Left in edicola dal 3 luglio

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Un orizzonte diverso

Inquinamento, consumo di suolo che minaccia una penisola già fragile dal punto di vista idrogeologico, sfregi al volto del paesaggio. Dopo i mesi di lockdown, dopo aver sgranato gli occhi di fronte alla natura che tornava a respirare e a riprendersi spazi, è già ricominciata la corsa distruttiva perché “si deve far ripartire l’economia”. Perché bisogna tornare a produrre e a crescere. Senza domandarsi quale crescita sarebbe auspicabile.

È la solita prassi cieca di voler trasformare il mondo senza trasformare se stessi. La stessa che vediamo in azione da quando il capitalismo si è imposto come pensiero unico, addirittura come ultimo orizzonte della storia, quasi fosse un dato di natura e non un fatto storico-culturale e, come tale, modificabile. Economisti e politici neoliberisti, dai Chicago boys alla Thatcher e Reagan, fino a Blair e ai suoi epigoni nostrani ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che non c’è alternativa. Nel mondo dei cittadini ridotti a meri consumatori l’unica felicità possibile è quella paradossale, fugace e anestetica del comprare merci, come se non ci fosse un domani, annullando ogni dimensione non cosciente, come se non esistesse la possibilità di potersi realizzare come esseri umani.

C’è qualcosa di profondamente malato nel modello di vita che ci viene proposto e imposto. Un modello di capitalismo predatorio che in Italia si traduce in capitalismo parassitario e familistico come è quello di gruppi industriali che dopo aver goduto di fondi pubblici, aver delocalizzato e spostato la sede in paradisi fiscali, tornano scandalosamente a chiedere ulteriori soldi allo Stato. Come ricordava la settimana scorsa su Left Giulio Cavalli sono numerose le aziende, anche editoriali, che avendo fatto utili in tempo di pandemia ora non si peritano a chiedere aiuti pubblici e cassa integrazione. “La democrazia secondo Confindustria” abbiamo scritto la settimana scorsa in copertina stigmatizzando le richieste corporative di chi ha anteposto le ragioni della produzione e del profitto a quelle della salute e del lavoro in sicurezza. Non stiamo parlando di responsabilità penali, quelle eventualmente le accerterà la magistratura, ma certamente di responsabilità culturali, di indirizzo, nel cercare di imporre un paradigma di pensiero per cui la tua vita vale solo se produci. Responsabilità culturali tanto più gravi perché il paradigma capitalistico che rivendica di essere scientificamente fondato si è dimostrato del tutto incapace di affrontare la pandemia.

L’aziendalizzazione della sanità, la salute trattata come fosse una merce, la massimizzazione del profitto anteposta al benessere delle persone hanno prodotto la tragedia che sappiamo. Il modello lombardo è stato incapace di programmare una efficace risposta alla crisi sanitaria. Altrimenti non ci sarebbero stati così tanti morti e, in modo particolare, fra gli operatori sanitari e gli operai (e loro familiari) costretti ad andare al lavoro e non adeguatamente protetti. Altrimenti non sarebbero stati contagiati così tanti anziani nelle Rsa. I risultati sono stati agghiaccianti: una intera generazione è stata sterminata.

Il cinismo di politiche che distruggono l’ecosistema è stato, come sappiamo, un fattore scatenante del Covid-19 e non ci aiuta a uscire dalla crisi. Per farlo dobbiamo rimettere al centro la salute e la tutela dell’ambiente, l’attenzione al territorio, un sistema di sviluppo più umano e sostenibile. Vanno quindi ripensati criticamente i fondamenti del pensiero economico come suggerivano la settimana scorsa su Left gli economisti Longobardi e Ventura, dobbiamo tornare a investire nella sanità pubblica, in formazione e ricerca, come ha scritto il sindacalista Cgil Andrea Filippi, ma dobbiamo anche avanzare proposte che concretizzino quel Green new deal di cui tanto si parla, attuando finalmente la nostra Costituzione che nella sua sapiente tessitura lega strettamente salute e ambiente. Per questo serve una visione complessiva.

Non bastano, per quanto possano essere un importante inizio, provvedimenti come l’ecobonus, come ci spiegano i brillanti esperti, politici e attivisti che intervengono in questo numero, a cominciare dai giovani dei Fridays for future che stanno facendo crescere anche in Italia una sensibilità nuova e l’attenzione ai temi dell’ambiente e alla ricerca scientifica. Che l’Italia entri in una fase green è il nostro auspicio ed osserviamo con grande attenzione e interesse le iniziative europee e italiane che vanno in questa nuova direzione. La crisi ci obbliga a un radicale cambiamento.

Il governo abbia il coraggio di lanciare un piano straordinario per la messa in sicurezza del territorio, per la bonifica di quelli inquinati, per la riqualificazione dell’edilizia, che significhi risparmio energetico ma anche migliore qualità della vita. Serve coraggio, per fare un salto di paradigma, ma anche rigore. Le scorciatoie possono essere molto pericolose. Come avverte la Corte dei conti che ha fatto pesanti rilievi alla bozza del decreto Semplificazioni perché, «in contrasto con i principi costituzionali», esclude la responsabilità per danno erariale dei pubblici amministratori.

Attenzione: sburocratizzare sì ma non allentare i controlli. Dopo il disastroso Sblocca cantieri del governo Conte I, l’Autorità anticorruzione (Anac) mette in guardia dalla deregulation degli appalti che rischia di favorire la criminalità. In particolare, desta preoccupazione l’affidamento diretto, senza gara né comparazione di imprese e preventivi, di appalti fino a 150mila euro. Non piace nemmeno la deroga a tutte le norme, salvo quelle penali, per alcune grandi opere «di rilevanza nazionale». Il modello Genova» difficilmente potrà essere replicato. E c’è anche chi come Bonelli dei Verdi avverte: «Servono cantieri green non sanatorie». La via per uscire dalla crisi passa attraverso investimenti per la riconversione ecologica e sostenibile e per la creazione di posti di lavoro. Giustizia ambientale e giustizia sociale devono andare di pari passo. Tornare alle vecchie fallimentari ricette neoliberiste, fatte di deregulation e condoni, ora sarebbe una vera pazzia.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 3 luglio

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Bisognerebbe avere avuto fame

Immigrati a Bruxelles, le code per i permessi Belgium, Brussels, Aug 27, 2015 - People awaiting in front of the Immigration Office in Brussels - asylum seeker, immmigration, homeless, foreigner, refugee, migration, legal, illegal, documents, passport, repatriation, human trafficking © Danny Gys / Reporters LaPresse -- Only Italy

È una questione di cui sembra non occuparsi nessuno eppure è uno dei mali endemici di questo tempo: l’incapacità di provare empatia permette il proliferare del razzismo, del bigottismo, del perbenismo, del cattivismo e di molti altri -ismi che continuano a infestare il nostro presente.

Così viene facile portare avanti il modello dell’italiano medio che si infastidisce per il povero o per l’affamato e che crede addirittura di difendere il proprio Paese. Il problema non è solo l’odio per gli stranieri, no, non è solo quello: a molti fa schifo la povertà, l’indigenza, ne hanno un terrore atavico e la allontanano perché sono terrorizzati solo dall’idea di incrociarla per strada. Come i bambini che strizzano gli occhi per scappare da un momento che faticano a sopportare questi non vogliono vedere, non vogliono sapere e così riescono addirittura a trovare maleducato e sconveniente avere fame, essere schiavi e essere poveri.

È tutta mancanza di esperienza e di empatia. È una società che ancora si illude di poter essere nata tra i “non poveri” e di non rischiare mai di finirci. Eppure sarebbe così diversa la politica, il giornalismo, la socialità, lo stare insieme se riuscissimo a immaginare cosa significhi avere avuto fame, non avere i soldi per pensare al giorno successivo, non avere un futuro di sicurezza e di libertà.

Qualcuno potrebbe pensare che dovremmo viverlo per potercene rendere conto eppure augurare una carestia per poter diventare un popolo migliore non sembra una via fattibile e nemmeno troppo responsabile.

E quindi come si empatizza? Studiando, studiando, studiando, leggendo, rimanendo curiosi, vedendo gli altri, ascoltando gli altri, smettendo di vedere il mondo dalla nostra unica personale lente d’osservazione. E sarebbe bello che qualcuno, anche della classe dirigente, avesse il coraggio di dirlo forte e chiaro, piuttosto che cincischiare per continuare a lisciare i perbenisti.

Buon giovedì.

Per garantire il diritto all’abitare i Comuni facciano la propria parte

Foto Marco Alpozzi/LaPresse 11 Maggio 2020 Torino, Italia Cronaca Un centinaio di migranti e senza tetto, sono stati ospitati fino al 3 maggio presso la struttura Emergenza Freddo a Piazza d'Armi. Dal giorno della chiusura, alcuni di loro dormono davanti al comune, accampati sotto i portici in attesa di risposte da parte dell'amministrazione comunale a cui, tramite l'avvocato Gianluca Viltale, hanno chiesto un incontro con la Sindaca, Chiara Appendino e con la vice Sonia Schellino. in Piemonte - Nella foto: Senzatetto con indosso la mascherina sono seduti sul monumento in piazza del comune Photo Marco Alpozzi/LaPresse May 11, 2020 Turin, Italy News A hundred migrants and homeless people were hosted until 3 May at the Emergenza Freddo facility in Piazza d'Armi. Since the day of closure, some of them sleep in front of city hall, camped under the arcades. The lawyer the lawyer Gianluca Viltale of the Legal Team asked for a meeting with the Mayor, Chiara Appendino and with the deputy Sonia Schellino. In the pic: Homeless wearing masks are sitting on the monument in the town square

Quello che può essere definito in termini generali il “diritto all’abitazione” è riconosciuto da una molteplicità di Trattati internazionali oltre che dalla Costituzione italiana. Dalla Dichiarazione universale dei Diritti umani del 1948, al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, agli articoli 47, 32, 29, 14 della nostra Costituzione: seppure sia assente nella nostra Carta una specifica espressione in tal senso, il diritto alla casa risulta essere un fondamentale diritto dell’individuo (Sentenza n. 119/1999 della Corte Costituzionale).

Senza esitazione allora, dovremmo poter dire che “diritto all’abitazione”, come il diritto economico, sociale e culturale ad un adeguato alloggio e riparo, dovrebbe essere rappresentato ancora oggi come un tema cardine di giustizia sociale, quindi come una necessaria rivendicazione politica. L’abitazione costituisce garanzia di inclusione sociale per l’individuo e la famiglia, presupposto necessario per godere di importanti diritti fondamentali, primo fra tutti il rispetto della dignità di una persona.

In Italia, negli ultimi anni e con la crisi dovuta alla diffusione del Covid 19, il tema del disagio abitativo è ritornato drammaticamente attuale, anche modificando i protagonisti e le forme del disagio: ai problemi di povertà e di esclusione delle fasce economicamente più deboli si sono aggiunte le difficoltà di chi, pur disponendo di un reddito, fatica ad accedere al mercato o a sostenere le spese connesse all’abitazione. La stessa disponibilità di un alloggio non è di per sé garanzia di benessere abitativo, come confermato nei mesi scorsi dalla difficoltà di arrivare con la didattica a distanza in alcuni contesti abitativi.

Le dimensioni del disagio possono infatti riguardare diversi punti di vista: dalla mancanza di una casa, alla carenza di dotazioni di base o inadeguatezza strutturale dell’abitazione stessa, da una abitazione troppo piccola rispetto alle esigenze del nucleo familiare ai costi troppo onerosi di accesso e di gestione dell’abitazione rispetto al reddito.

Mentre oggi in Italia lo spazio delle politiche abitative si configura sempre di più come una dimensione in cui soggetti pubblici e altri non pubblici si coordinano per ottenere risultati di policy, verso un crescente coinvolgimento di attori privati o semi privati, in tutte le fasi operative, l’intervento pubblico risente di una storica sofferenza, sia nazionale che locale, sia dal punto di vista dell’attenzione politica che, conseguentemente, delle risorse impegnate, oltre che di una scarsa propensione all’innovazione.

Dal punto di vista quantitativo, anche l’Edilizia residenziale pubblica, come principale intervento pubblico di sostegno all’abitare e colonna portante delle politiche abitative in Italia, ha subito negli ultimi decenni un drammatico ridimensionamento: dalle circa 20 mila abitazioni costruite all’anno con finanziamenti pubblici negli anni Ottanta, siamo passati a circa 1.500 nei primi anni del 2000. Tra il 1991 e il 2001 lo stock abitativo pubblico è diminuito del 20% a causa di un massiccio piano di privatizzazioni e l’impegno pubblico si è ridotto sia in termini di intervento diretto sia in termini di finanziamento. Lo stesso ragionamento vale per i fondi messi a disposizione per i contributi affitti o per rispondere in maniera adeguata ai numerosi sfratti per morosità incolpevole.

Oggi, la crisi che stiamo vivendo e chi si annuncia nei prossimi mesi essere ancora più dura e drammatica, richiede per questo uno sforzo coraggioso. Si rafforza la necessità di un processo di innovazione politica che guardi da una parte al reperimento di risorse e dall’altro alla capacità di rinnovarsi attraverso politiche di governance, misurando i governi locali non solo nella propria capacità di mobilitare risorse, ma anche nel coinvolgere molteplici attori e ripensare strategie e politiche nuove.

Anche i Comuni, come luoghi comunitari dove vengono condivisi sogni e prospettive, dove si costruiscono progresso sociale e futuro, possono giocare una partita centrale. Sono moltissimi gli alloggi pubblici e privati sfitti, invenduti e abbandonati. Sarebbe necessario un censimento di tutte le disponibilità così da poter mettere in campo misure dissuasive nei confronti di chi lascia l’immobile inutilizzato e premiare chi sceglie di mettere a disposizione alloggi a canone concordato. Elaborare specifici regolamenti di edilizia sociale al fine di promuovere percorsi di autorecupero e autocostruzione attraverso anche un welfare mix coinvolgendo la società civile, promuovendo l’empowerment e favorendo inclusione sociale con una regia pubblica efficace e attiva.

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale pubblica sarebbe necessario un piano di finanziamento per ripristinare tutti gli alloggi attualmente vuoti anche prevedendo una riorganizzazione degli spazi abitativi, con l’obiettivo di ripensare e rimodulare gli alloggi rispetto non solo ai nuovi bisogni, ma anche alla trasformazione sociale dei beneficiari: nuclei monogenitoriali, famiglie ricostituite, nuove familiarità, persone che decidono di condividere una casa senza essere una coppia o una famiglia.

Infine, attraverso Cassa depositi e prestiti, l’attivazione di mutui a tasso zero per gli investimenti dei Comuni e quindi per l’acquisto di alloggi invenduti da trasformare in edilizia residenziale pubblica. La sfida per ricostruire una sinistra capace di essere strumento di lotta e giustizia sociale passa anche da qua: dalla capacità di fornire risposte concrete, vere, coraggiose. Non c’è più tempo da perdere, il momento è adesso.

Calabria 1980, quando la ‘ndrangheta assassinò i comunisti Valarioti e Losardo

Quell’estate di quarant’anni fa si può ben considerare, come scrive anche l’Espresso in edicola, la più tragica della storia della Repubblica. Il 23 giugno, continua il settimanale, viene ucciso a Roma dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, il 27 viene abbattuto sui cieli di Ustica il DC9 dell’Itavia con 81 persone a bordo, il 2 agosto esplode una bomba alla Stazione di Bologna: 85 i morti.
Ma al settimanale sfugge che quella terribile estate aveva già preso il via, proprio agli inizi di giugno, in Calabria, sull’asse Rosarno (Reggio Calabria)-Cetraro (Cosenza) l’11 e il 21 giugno.

L’11 era stato assassinato a Rosarno dalla ’ndrangheta, Peppe Valarioti, giovane e brillante professore di origine contadina, rigoroso e travolgente segretario della sez. Pci di quella città, a conclusione di una cena di festeggiamento per la vittoria elettorale alle provinciali con la rielezione di Peppino Lavorato, mitico dirigente comunista e alle regionali di Fausto Bubba, anima della coop agrumicola rosarnese Rinascita, dopo una campagna elettorale svoltasi in un clima infuocato di scontro frontale sul tema della lotta alla ’ndrangheta, di cui Valarioti e Lavorato erano stati le punte di diamante.

E a Rosarno la lotta alla ’ndrangheta non era materia di dibattito sociologico o letterario, ma battaglia frontale quotidiana fatta di sguardi, schiena dritta, atti quotidiani concreti, risposte decise a minacce, intimidazioni, aggressioni.
Fu un colpo durissimo al Pci di Berlinguer, la forza politica che con più coerenza e decisione si batteva contro le mafie e si sforzava di tenere insieme etica e politica.
Ma l’attacco della ’ndrangheta in mutazione, all’interno di quella terribile estate degli anni 80, in Calabria non si fermò lì.

Era ancora vivo e bruciante il dolore e l’eco dell’agguato di Rosarno quando il successivo 21 giugno a Cetraro, importante centro del tirreno cosentino, veniva assassinato da un commando in moto Giannino Losardo.
Anch’egli figura emblematica, di significativo rilevo del Partito comunista italiano di quella zona.
Un uomo di grande spessore etico e culturale che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere personalmente, segretario della procura della Repubblica di Paola, assessore ai lavori pubblici prima e all’istruzione poi, al comune di Cetraro. Assassinato a conclusione di un infuocato consiglio comunale, nel corso del quale si dimise da assessore denunciando la penetrazione della criminalità nell’istituzione comunale che determinerà quella sera stessa, avvalendosi di una mini scissione nel gruppo del Psi, la caduta della giunta di Sinistra. Da tempo a Cetraro era in corso l’attacco al territorio portato avanti dal clan di Franco Muto, noto anche come il re del pesce, che Losardo fronteggiava con autorevolezza e vigore.

Quei drammatici anni 80 segnano per il nostro Paese, un passaggio di fase di cui le mutazioni riguardanti la natura e le pratiche della criminalità in Calabria, sono parte non secondaria.
Questo dato è colto e ben tratteggiato nel libro di Pino Arlacchi La mafia imprenditrice (Il Mulino, 1983).
Una svolta che appare ancor più marcata a Cosenza per la sua storia e, segnatamente, nel Tirreno cosentino.
Una città ed un’area fino agli inizi anni 70 non segnate da alcuna particolare virulenza della malavita.
Una realtà, il Tirreno cosentino, che viveva tutte le contraddizioni del tempo e registrava, in fatto di organizzazione e struttura della criminalità, lo stesso trend di Cosenza, con una criminalità di natura e dimensioni, per così dire, tradizionali, catapultata in quei turbolenti anni a misurarsi con un doppio passaggio.
Il primo dalla dimensione gangsteristica delle bande criminali a quella “mafiosa”. Il secondo da quest’ultima ad impresa.

Questo cammino, sul versante criminale, in realtà, si era già avviato alla fine degli anni 60.
Vasta è la letteratura in materia che parte, per restare agli studi ed alle e analisi avviate in quel tempo dal dipartimento di Sociologia della giovane Università calabrese, proprio dal lavoro fissato nel citato testo di Pino Arlacchi, “la mafia imprenditrice”.
Un libro, come ben sintetizzato nella sua quarta di copertina, che segna «una rottura negli schemi interpretativi della società mafiosa di Calabria e Sicilia e ne documenta la trasformazione decisiva avvenuta in quel periodo: da mediatore sociale legato a valori arcaici e tradizionali ad aggressivo accumulatore di capitale. Il campo di azione delle forze criminali oggi – anni 80 – si estende dalla droga alle armi, alle risorse energetiche, e comprende i capitali derivati dalla corruzione, dalla grande evasione fiscale e dal saccheggio delle casse statali. Le organizzazioni criminali trovano nel sistema finanziario globale un habitat favorevole, un rifugio inespugnabile, contro il quale l’attività repressiva è costretta a interrompersi. Come in Calabria, in Sicilia, le regioni da cui parte l’allucinante discesa nel ventre dell’economia globalizzata».
Ed appunto è del 26 ottobre 69 il summit ndranghetista di Montalto d’Aspromonte che segna il passaggio della ndrangheta “dell’ominità”  (Ilario Ammendolia, La Ndrangheta come alibi) a quella dei sequestri e della droga, a quella della commistione con settori delle istituzioni e dei servizi, a quella del sostegno ai golpisti della destra nera (il tentativo Borghese, la rivolta di Reggio Calabria), alla sua trasformazione in impresa e alla penetrazione nelle istituzioni attraverso la costruzione e crescita di una vera e propria borghesia mafiosa.
È lo stesso anno in cui nel nostro Paese parte la strategia della tensione.
La strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre, che inaugura, come risposta ai grandi movimenti di lotta del 1968/69, con la bomba alla banca dell’Agricoltura, la strategia della tensione, la stagione degli “anni di piombo” e si protrae fino agli inizi anni 80.

Gli anni a cavallo tra la fine del 1970 e gli inizi del 1980 segnano, a colpi di kalashnikov e mitraglietta, questo passaggio di fase e, in Calabria segnano l’estendersi di questa mutazione della criminalità organizzata in tutte le province della Regione.
Anche in quelle  che, come Cosenza, non ne erano state fino ad allora pervase.
Ed è in questo clima, che matura il  mutamento di percorso e degli assetti di sistema generale e criminale insieme che esplode, nella specificità dei diversi contesti, tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 80 e che in Calabria  culmina negli gli assassini di Peppe Valarioti e , a distanza di 10 giorni, di Giannino Losardo.
In due contesti socio economici diversi, ma tenuti insieme da un medesimo filo.
Losardo, anche dal suo osservatorio di segretario della procura di Paola riusciva a vedere con più chiarezza di altri l’avvio di questo percorso e provò da comunista e da integerrimo rappresentante delle istituzioni, ad arginarlo.

Non avevano, invece, visto e capito o, forse, come pensavano allora in molti, voluto vedere e capire, importanti articolazioni delle istituzioni, gruppi importanti dei partiti, anche di sinistra, il Psi di allora, lo stesso governo e le sue articolazioni, settori chiave della magistratura.
Forse perché consapevoli della china che avevano già preso i grandi mutamenti strutturali dell’economia e della finanza internazionali e convinti che non ci fossero alternative.
Non è un caso che sia a Rosarno che a Cetraro lo scontro politico è con parte dei gruppi dirigenti o con alcune personalità di rilievo del partito socialista di allora.

La forza che tentava con decisione di opporsi a questo processo era allora il Pci di Berlinguer.
E Giannino e Peppe erano, in Calabria, due delle migliori espressioni di quel partito.
Giannino operava in una zona, il Tirreno cosentino,  di grande tradizione politica democristiana che aveva visto dagli inizi anni 70 un grande balzo in avanti del Pci.
A Cetraro e Praia c’erano due significativi insediamenti tessili (Faini e R2, quest’ultima poi Lini e Lane, poi Lanerossi, ed ancora dopo Marlane in crisi sistematica).
Entrambe le esperienze, sia pur nella loro diversità di origine e gestione, classica espressione dell’imprenditoria che incassa i soldi dell’intervento straordinario e abbandona la Calabria lasciandosi alle spalle centinaia di cassaintegrati e il collasso dei settori collegati che già mostravano segni di crisi.
Gli echi delle grandi lotte operaie del Nord e la speranza in un cambiamento che avrebbe potuto produrre la forte avanzata del Pci era tanta.

A Paola, dove abitavo all’epoca e ricoprivo il ruolo di consigliere comunale (1973/74) e responsabile di zona del Pci, fino alla grande avanzata del 1976 di quel partito, avevamo aggregato una grande forza giovanile composita, proveniente da diversi strati sociali, nella quale si ritrovava buona parte di quei giovani che a Reggio erano scesi sulle barricate con i “boia chi molla” e ragazzi che venendo alcuni da famiglie della delinquenza tradizionale, o ad essa vicine, vedevano in quell’impegno un percorso di riscatto. Per alcuni divenuto concreto. Uno in particolare, Salvatore Serpa, merita di essere ricordato. Di provenienza da una famiglia dell’omonimo clan paolano, da giovanissimo mostrava interesse per la politica e la volontà di staccarsi dalle tradizioni del clan di appartenenza.
Ed infatti Salvatore (Tuturu) dopo una esperienza nella nascente “Servire il Popolo”, scelse di aderire al Pci e poi alla fine degli anni 70, anche per staccarsi più decisamente dal contesto di origine e dalla guerra tra clan scoppiata a Paola e sul Tirreno in quell’epoca, decise di andare a continuare la sua esperienza politica nella Fillea Cgil di Cosenza. Ma non fu sufficiente. Il 12 agosto del 1981, nel corso di quella terribile guerra tra bande, fu assassinato a casa sua, a Spezzano Sila dove si era trasferito. Vittima di un omicidio trasversale della guerra in corso tra il clan paolano della sua famiglia di origine ed altri clan in lotta per il predominio in quel quadro di cambiamento di sistema sopra richiamato. Un episodio trascurato e derubricato ad “omicidio trasversale” nelle logiche delle guerre tra bande e stralciato, a torto, dallo scenario generale , anche politico.

Paola in quella fase era un centro vivacissimo, con una forte sezione del Pci, con il suo nucleo storico di ferrovieri e una massiccia presenza di giovani ed intellettuali, che contrastava con successo da un lato l’egemonia democristiana, da un altro quella di un Psi ben strutturato e radicato, rappresentato da forti personalità e da un altro ancora una vivace presenza di “Servire il Popolo”, formazione extraparlamentare cresciuta intorno alla carismatica figura di Enzo Lo Giudice, brillante avvocato di successo, uno dei tre fondatori della stessa con Meldolesi e Brandirali.
L’ entusiasmo era grande e grande fu il balzo in avanti del Pci.
Ma altrettanto grande fu la delusione per il mancato arrivo dei risultati sperati in termini lavoro e mobilità  sociale. E molti di quei ragazzi ritornarono sulle vecchie vie.

La temperie di quegli  anni, fine anni 60 inizi anni 80, definiti ” anni di piombo” , fin troppo nota per doverci ritornare in questa sede, è anche  il contesto in cui mutano le strategie, le alleanze, le modalità operative della criminalità locale ed il contesto nel quale nel Tirreno cosentino i fenomeni criminali vanno sempre più orientandosi verso i consolidati modelli della ndrangheta reggina e della camorra napoletana.
Sono gli anni dell’intreccio ndrangheta massoneria (lo spiega bene oltre il pregevole lavoro di Pino Arlacchi, la successiva inchiesta della commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione) dell’assalto alle coste, dei traffici illeciti, delle logge massoniche deviate, della concentrazione degli apparati di sicurezza dello Stato e della magistratura prevalentemente sul terrorismo, mentre  si trascurava analizzare e perseguire adeguatamente la crescita e la mutazione delle mafie e, sul fronte politico, di leggere a fondo le mutazioni della stessa natura del poter economico e del capitalismo .

In questo contesto e clima, il Tirreno cosentino e la stessa Cosenza  diventano, a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80, una sorta di Far West.
Un interessante convegno promosso a Cosenza nel 1982, da Cgil Cisl Uil, Università della Calabria, Magistratura democratica e Sindacato unitario di Polizia, vede la partecipazione di associazioni varie,  avvocati, imprenditori e di politici  del calibro di Francesco Martorelli, Pierino Rende, Giacomo Mancini e Stefano Rodotà, mette in evidenza, con una puntuale relazione di Pino Arlacchi, questo percorso di cambiamento della criminalità cosentina, all’epoca, non ancora mafia ma gangsterismo e le differenti letture che se ne danno (Gangster a Cosenza. 10 Gennaio 1982 effesette CS)
Lo stesso processo di mutazione era in corso sul Tirreno cosentino e l’omicidio Losardo fu il messaggio che venne mandato a chi aveva scelto di contrastarlo. Il Pci dell’epoca.

Ripercorrendo quelle vicende, a quarant’anni di distanza, appare chiaro che nello scenario terribile di quegli anni si avviava il cambiamento stesso della natura del capitalismo e la costruzione di un sistema di potere che non si basa più «su classi produttive, ma su attività predatorie che agiscono anche grazie alla complicità fornite loro da parte dei “ceti medi”…… Nasce cioè la forma moderna del capitalismo della globalizzazione che non è quella della competizione benigna sperata dai liberali (di destra e di sinistra) né quella della lotta di classe della lotta delle moltitudini contro l’Impero del Capitale, o dell’utopia dell’inclusione delle classi medie… ma un sistema nel quale i ricchi hanno preso il controllo di un sistema costruito per le classi medie attraverso una doppia metamorfosi in cui «lo Stato industriale viene sostituito dallo Stato predatorio, ed una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di – interesse pubblico -si assume lo scopo di controllare la struttura dello stato per dare potere ad un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina». (L.Randall Wray, 2008 in Bruno Amoroso, “I frutti amari della Globalizzazione” 21-26 agosto 2008). I frutti amari di quella trasformazione sono oggi tutti e ben visibili sotto i nostri occhi.

 

Hanno paura perfino della solidarietà

Gay Pride rainbow coloured flags hang on a street in Madrid before the official opening of the MADO 2019 Gay Pride. The MADO festival celebrate, discuss and show diversity of the LGBTIQ people to mark the 50th Anniversary of the Stonewall Uprising and a half-century of LGBTQIA+ liberation. (Photo by John Milner / SOPA Images/Sipa USA)

A Pescara un venticinquenne molisano la notte tra il 25 e il 26 giugno stava camminando sul lungomare insieme al suo fidanzato, un ventiduenne del posto. Ha incrociato un gruppo di ragazzi (tra cui una ragazza) che hanno cominciato a insultarlo (con insulti ovviamente omofobi) e poi hanno finito per pestarlo. In sette contro uno perché non tutti gli stronzi sono omofobi ma tutti gli omofobi sono stronzi. Il ragazzo è finito in ospedale con la mascella fratturata e ovviamente la notizia ha scosso la città. La colpa dei due ragazzi era quella di tenersi per mano.

La notizia di per sé potrebbe sembrare solo l’ennesima notizia di aggressione omofobi ma c’è un altro particolare che conviene raccontare: nel consiglio comunale di Pescara le opposizioni presentano una mozione per dimostrare solidarietà al ragazzo e per chiedere che il Comune si presenti come parte civile nel processo. Dovrebbe essere normale che una città ci tenga a non essere identificata in un gruppetto di vigliacchi che hanno svergognato un’intera comunità.

E invece niente. Indovinate chi ha votato contro?

Antonelli Marcello – Lega
Carota Maria Rita – Lega
Croce Claudio – Forza Italia
D’Incecco Vincenzo – Lega
Di Pasquale Alessio – Forza Italia
Foschi Armando – Lega
Montopolino Maria Luigia – Lega
Orta Cristian – Lega
Rapposelli Fabrizio – Fratelli d’Italia
Renzetti Roberto – Forza Italia
Salvati Andrea – Lega

La mozione ovviamente è stata bocciata. Loro sono così: hanno una paura fottuta della solidarietà perché li mette con le spalle al muro sulle proprie posizioni. Con il giochetto del dire che bisogna esprimere solidarietà a tutti riescono a non esprimere solidarietà a nessuno. Del resto dalle parti del centrodestra non hanno ancora capito che i diritti sono spesso quelli degli altri. Finché un giorno non capiterà che gli altri saranno qualcuno di loro, di quelli privilegiati e comodi e allora vedrete che gran gazzarra.

Buon mercoledì.

La lezione di Antonella

Uno dei più famosi genetisti del mondo, Pier Paolo Pandolfi, è stato cacciato da Harvard («sono io che me ne sono andato», dice lui) perché accusato di molestie da una giovane ricercatrice. Badate bene: Pandolfi non ha negato le attenzioni ma ha parlato di «uno scambio romantico che si è protratto per due, tre mesi». Che sia stato romantico ovviamente l’ha deciso, unilateralmente, lui. Chiaro.

Il Vimm di Padova (l’istituto veneto di medicina molecolare) decide di assumere Pandolfi ma il comitato scientifico dell’istituto decide di dimettersi in massa. Nessun riferimento alle molestie, ma chiedono di annullare la nomina per “evitare un grande scandalo” che potrebbe causare “un grave danno alla reputazione del Vimm ma anche dell’Università di Padova”.

Intanto Pandolfi parla di “sbandata romantica”, dice di essersi sbagliato e si scusa. L’immunologa Antonella Viola decide di prendere carta e penna e di scrivere al Corriere della Sera una lettera di grande coraggio perché c’è dentro un pezzo di vita, forte come sono forti tutte le esperienze autentiche. Scrive Antonella Viola:

«In una società civile un datore di lavoro non può concedersi una ‘sbandata’ per una dipendente e tempestarla di messaggi, seppur di natura romantica. Sembra incredibile doverlo spiegare, ma a quanto pare c’è chi è interessato a derubricare le molestie sessuali in sogno romantico non corrisposto. Proviamo quindi a immaginare come si possa sentire una giovane donna, fresca di studi, piena di entusiasmo per la ricerca, disposta a lasciare il suo Paese e i suoi affetti per inseguire il sogno della scienza in uno dei migliori laboratori al mondo, che comincia a ricevere le sgradite attenzioni sessuali da parte del suo capo. Non riuscite a immedesimarvi? Ve lo racconto io.
Prima di tutto parte un profondo senso di umiliazione per essere ridotta a uno stereotipo sessuale dalla persona a cui avevi affidato la tua crescita professionale. Il tuo mentore è colui al quale ti affidi completamente e il suo giudizio è la cosa più importante al mondo: lui ti sta dicendo che ti vede come una preda, non vede altro. Immediatamente dopo scatta la paura: tranne pochi casi di uomini davvero fisicamente molesti o pericolosi, la paura che ti assale non riguarda il tuo corpo ma il tuo futuro. Il pensiero ovvio in questi casi è: cosa sarà di me se dico di no? Sono libera di rifiutare le sue attenzioni? Come cambieranno da questo momento i nostri rapporti? Mi manderà via dal laboratorio? Mi affiderà un progetto scadente? Finisce qui la mia carriera? E sì, molte carriere finiscono proprio lì…
A volte perché il molestatore inizia a ricattare la vittima, altre perché davvero da quel momento la estromette dall’attività del laboratorio, o a volte perché il trauma subito è troppo forte per riprendersi e ritrovare l’entusiasmo necessario per fare il nostro lavoro. È un altro dei grandi problemi che noi donne affrontiamo e che minano regolarmente la nostra produttività e carriera.
Chi non l’ha vissuto non può immaginare il dolore, la vergogna, la paura, le notti insonni e le lacrime versate mentre ci si sente paralizzate e incapaci di trovare una via d’uscita. Non lo auguro a nessuno e, nel ruolo che adesso ho nella ricerca italiana, farò sempre di tutto per evitare che altre donne possano vivere una situazione così dolorosa. Non so come la ricercatrice in questione ne verrà fuori. Io ne sono uscita andando via, lasciando il laboratorio per ricominciare altrove, aggrappandomi a quella che per me non è mai stata una sbandata ma un vero amore: la scienza fatta di passione, integrità e rispetto delle regole».

Ed è una lezione limpida, cristallina di cui essere grati.

Buon martedì.

Uomini incompiuti (solo dopo, separati)

Un esempio fulgido l’abbiamo avuto con il titolo de Il Mattino. I fatti, intanto: Mario Bressi decide di punire la moglie che ha deciso di lasciarlo uccidendo i loro due figli e togliendosi la vita. Un infanticidio che in fondo è un femminicidio ancora più vigliacco: uccidere i figli per condannare una moglie è un gesto che nasconde tutta la ferocia possibile. Bressi prima di compiere il suo gesto, nella perfetta premeditazione di chi vuole provocare l’inferno, ha anche scritto alla ex moglie.

Torniamo al titolo de Il Mattino: «Il dramma dei papà separati», titolano piuttosto stupidamente. Ovviamente la narrazione è sempre la stessa, quella patriarcale dell’uomo ferito che viene giudicato per il suo dolore come se potesse essere una giustificazione. I figli ammazzati alla fine sono colpa della donna, ovviamente.

Si alza lo sdegno e Il Mattino ci riprova, corregge e scrive «Devastato dalla separazione» dimostrando che la stupidità è banale ma è anche soprattutto ripetitiva. Vengono sommersi ancora una volta dagli insulti, ci riprovano: «Papà separato, ha ucciso i figli nel sonno» dimostrando di non capirci proprio niente.

C’è solo il dramma dell’uomo, del forte, del padrone che ha deciso di togliere i figli per rivendicarne il possesso dopo avere perso il possesso della moglie. Non esistono i drammi dei bambini uccisi nel sonno, non uccide la distruzione di una madre punita in un modo così orribile. Niente. Tutti gli altri dolori che non siano quelli del maschio sono effetti collaterali tristi, certo, ma solo consequenziali.

E in fondo si tratta sempre degli stessi stoltissimi maschi, quelli costruiti in serie secondo le logiche peggiori della fallocrazia, quelli che vengono lasciati e non si chiedono mai cosa hanno sbagliato ma che trovano comodo, vigliacchi come sono, dire che lei “ha rovinato la famiglia”, che lei “si è venduta per un pompino”, che lei la rovineranno, gliela faranno pagare e sono felici solo la vedono sola, povera e pazza.

Sono uomini che non hanno fatto i conti con se stessi, incapaci di vedersi completi al di là della punta del proprio organo riproduttivo (su cui sono solitamente fissati) e che non transigono sul fatto di potere avere di fianco persone che si autodeterminano con le proprie scelte. Uomini che di facciata sembrano puliti e che spesso hanno mostri pelosi (che le loro ex mogli hanno provato a curare).

Non parliamo del dramma di padri separati (e ce ne sono tanti anche di padri separati che vivono drammi veri, senza bisogno di arrivare all’omicidio) quando ci sono di mezzo assassini. Il dramma vero è quello di certo giornalismo che si appiattisce sulla banalità del male. E come sono ripetitivi e banali tutti questi fallocrati che cercano la giustificazione per giustificare l’ingiustificabile. Mentre il bene, al contrario, si rinnova ogni giorno, si sceglie tutti i giorni e si reinventa se serve per non soffocare.

Buon lunedì.

Siamo la voce viva dei monumenti

«Buongiorno signore. Good bye. Guida di Roma. Autorized guide. Vuol essere guidato? Come vedono lor signori questo è il Foro Romano … Qui abbiamo tutte le tombe e le tombette … Arco di Tito, Settimio Severo, arco di Poppea, tomba di Giulio Cesare, tomba di Cristoforo Colombo…. Come vedono qui è tutto sinistrato … Terremoto di Avezzano. E qui abbiamo tutti ruderi … macerie di pietra vecchia ….». Guardie e ladri, il film del 1951 diretto da Steno e Monicelli, si apre nel Foro Romano. Totò, alias Ferdinando Esposito, un ladruncolo che vive di espedienti, si finge una guida turistica. Che con la complicità di Aldo Giuffrè, alias Amilcare, intenta una truffa a dei turisti americani.

Nella realtà le guide sono dei professionisti. Regolarmente abilitate. Finora su base regionale, in attesa dell’auspicata legge quadro, che permetta di superare le criticità della legge 97/2013. Ma con la particolarità di poter esercitare sull’intero territorio nazionale. Donne e uomini di ogni età. Liberi professionisti a partita Iva o ritenuta d’acconto. Insomma precari della cultura. Rappresentati da almeno sei associazioni di categoria. Snocciolare “i numeri” delle guide non è particolarmente agevole. Sommando gli elenchi regionali, con una necessaria approssimazione si arriva all’incirca a 25mila unità, delle quali almeno 4.500 nel Lazio e 3mila a Roma. Numeri indicativi, ma incompleti. Già, perché vanno aggiunti almeno gli operatori didattici sprovvisti del patentino.

«Siamo la voce dei monumenti. Il monumento, lo puoi guardare in foto, oppure su internet, ma diventa vivo quando raccontiamo la sua storia. E così per le opere d’arte, in generale», ha detto uno dei partecipanti alla manifestazione organizzata dall’Associazione guide turistiche abilitate che si è tenuta il 9 giugno in piazza del Pantheon a Roma.
Rispettando le distanze prestabilite, tutti vestiti di nero, con in una mano le foto dei luoghi della cultura che “prima” raccontavano e nell’altra un ombrello bianco fatto roteare sulla melodia di Singing in the Rain. A Roma, ma anche a Venezia, davanti alla Basilica della Salute e a Napoli, in piazza del Gesù. La pandemia, che a lungo ha stravolto le consuetudini delle persone, sta lentamente allentando la presa. Restituendo libertà dimenticate. Ma non alle guide, che ipotizzano il ritorno alla normalità non prima…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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