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E se la smettessimo con i fallocrati?

Della storia probabilmente avete già letto e sentito parlare comunque vale la pena ripeterla per bene: lo psichiatra Raffaele Morelli è uno di quelli che imperversano un po’ dappertutto, sui giornali e per radio e per televisioni, a spiegarci cosa sia l’amore e cosa siamo noi. Niente di male se non fosse che le sue tesi (o addirittura ipotesi) ogni tanto possono non piacere ai suoi ascoltatori.

In particolare Morelli ha spiegato che «se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi», secondo il vecchio schema per cui le donne esistono solo in funzione degli uomini e per cui le donne debbano continuamente cercare nell’approvazione degli uomini la propria realizzazione. Per carità, niente di nuovo sotto al sole e niente di terribilmente più grave del tanto maschilismo e del tanto patriarcato che siamo abituati a vedere.

Il fatto è che le donne, forse Morelli non lo sa, ascoltano e decidono di dire la loro così accade che il celebre psichiatra (celebre per esposizione mediatica) venga incalzato da Michela Murgia, ospite della trasmissione Tg Zero di Radio Capital e dopo averci detto che le bambine devono giocare con le bambole per conservare la loro “radice femminile” (frase che potrebbe dire un maschilista ignorante medio, senza bisogno di nessuna laurea) si è incazzato con Michela Murgia (guarda caso, una donna) con un bel «zitta e ascolta!» prima di interrompere la telefonata!

Uno psichiatra che perde le staffe fa già ridere così, come intristisce un clown che non riesce a fare ridere, ma la riflessione più ampia è che non si capisce come questa gente finisca in televisione, questi che non hanno un pensiero più alto di uno scambio di battute da bar, e continuino a essere intervistati in ogni dove.

Ora, in tutto questo, ciò che esce osservato e raccontato a tutti è ciò a cui Morelli tiene più di tutti: il suo piccolo ego. Chissà che non abbia bisogno di un buon psicologo, un po’ più moderno di lui, per provare a elaborare la sua fallocrazia.

Buon venerdì.

L’impotenza dell’homo oeconomicus

Dematerializzazione della produzione, straordinario sviluppo dell’economia digitale e dell’informazione a scapito di settori tradizionali, a cominciare dalla manifattura, crescente interconnessione delle catene del valore a livello mondiale, in forme sempre più complesse e difficilmente intellegibili, finanziarizzazione dell’economia, digitalizzazione della finanziarizzazione, crisi delle capacità di governo dell’economia da parte degli Stati nazionali e, al tempo stesso, crisi delle aggregazioni sovranazionali degli Stati, enorme concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di un ristretto numero di colossi economici mondiali, inarrestabile crescita della disuguaglianza, formidabile aumento dello sfruttamento a livello mondiale, pauperizzazione di una quota sempre più ampia di lavoratori, sino alla diffusione di nuove forme di schiavismo. Sono alcuni dei tratti dell’inarrestabile sviluppo del capitalismo a livello mondiale degli ultimi due o tre decenni.

Come impatterà in questo scenario la crisi economica indotta dalla pandemia, la seconda grande crisi economica mondiale di questo primo scorcio di secolo? Quando ci volgeremo a guardare, e potremo vedere, con tutta probabilità apparirà come un potente fattore di accelerazione dei processi in corso. Un ulteriore salto in avanti dell’economia immateriale dell’informazione e della comunicazione, un’espansione e radicalizzazione dei processi di precarizzazione del lavoro, una nuova spinta alla concentrazione della ricchezza. Ma anche un gigantesco acutizzarsi degli elementi di crisi di questo tipo di sviluppo. Crisi ambientale, crisi sociale, crisi culturale.

E, nella crisi, e nella multidimensionalità della crisi, emersione e diffusione sul piano planetario di una nuova consapevolezza dell’esigenza di cambiamento. Esigenza di una rivoluzione nel rapporto tra economia e ambiente, tra economia ed esseri umani. Con tutta l’enorme difficoltà della costruzione di un percorso politico che sappia interpretare tale esigenza. Ma anche, da parte nostra, con una duplice certezza: che il percorso politico non potrà che essere “di sinistra”, ma che, per farsene interprete, la sinistra necessita di un profondo processo di rifondazione culturale.

Andrea Ventura ci ha più volte spiegato, su queste colonne, come il neoliberismo non sia una teoria economica, ma un pensiero e una pratica politica. E si è lavorato insieme, e con altri compagni, ad indagare il sostrato di tale pensiero. Ne venne fuori, tra l’altro, quel volume, L’essere umano e l’economia. Ricerche per una nuova antropologia (L’Asino d’oro ed.), sul quale ha splendidamente riflettuto Noemi Ghetti nel numero di Left del primo maggio 2020.

L’essere umano come “uomo economico”, cioè un essere perfettamente razionale, mosso da un interesse esclusivamente acquisitivo, che persegue tale interesse nel miglior modo possibile, e fa, in tal modo, non solo il suo bene, ma anche quello dell’intera società. È una proposizione che dal Settecento giunge sino a noi: non ha la pretesa di spiegare scientificamente alcunché, bensì quella di prescrivere un comportamento, educare a, trasformare in. È ideologia ed ha implicazioni profonde. Può essere scomposta in due principali elementi: razionalità ed auto-interesse.

Primo aspetto, l’essere umano è tale in quanto razionale, è questo che lo distingue dall’animale. Ma la razionalità si acquisisce, ad alcuni anni dalla nascita, con il pensiero verbale. Il bambino, alla nascita, non può essere detto “razionale”. Cos’è allora, un animale?

Secondo, l’essere umano è esclusivamente auto-interessato (self interested), cioè, nella sostanza, egoista e asociale (la socialità è il portato meccanico, inintenzionale, di un’anonima interazione tra individui che perseguono esclusivamente il proprio interesse, la “mano invisibile”). La proposizione ha implicazioni che vanno ben al di là dell’economico. Se ne ha risonanza nelle teorie psicologiche, e in particolare psicanalitiche di origine freudiana, secondo le quali il bambino sin dalla nascita fa rapporto con l’altro essere umano con l’unica motivazione del nutrimento. Se il bambino non avesse fame, non farebbe alcun rapporto con un oggetto esterno reale. Il neonato, per quanto ancora non razionale, sarebbe già “economico”: “animal oeconomicus”, destinato a farsi “homo” con la piena acquisizione della ragione. Dunque, nessuna socialità naturale degli esseri umani, rapporto umano solo come necessità e convenienza. Una proposizione questa che unisce, nella cultura occidentale, economisti, filosofi politici, psicologi (con alcune eccezioni, come quella, illustre e cara, di Marx).

Si affollano …

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I lavoratori pagano, i manager incassano

Arriveranno soldi, molti soldi, su questo non ci sono grandi dubbi: sono almeno 172 miliardi dall’Europa oltre i 36 miliardi del fondo salva Stati Mes che potranno essere usati per la sanità e che il governo italiano, nonostante le enormi fibrillazioni nella maggioranza, sembra intenzionato a richiedere. Ciò che sembra sfuggire a molti commentatori politici è che in Italia si vedranno cifre che sarebbe stato folle anche solo immaginare prima della pandemia e ogni volta che all’orizzonte si intravede il denaro le lobby, dalle più fameliche alle più ostinate, si preparano a aprire le fauci per ingerire la propria fetta.

All’odore dei soldi si è mossa subito la nuova Confindustria di Carlo Bonomi, quello che non ha nemmeno fatto raffreddare il festeggiamento per la sua elezione e si è già lanciato in uno scontro a muso duro con Giuseppe Conte e il suo governo per chiedere che Confindustria possa avere il suo lauto posto riservato per il prossimo banchetto.

Curiosa la storia del capo di Confindustria: colui che dovrebbe rappresentare tutti gli imprenditori d’Italia, e che quindi dovrebbe presumibilmente esserne un fulgido esempio, è a capo di una piccola azienda biomedica che fattura qualcosa come due milioni di euro all’anno, una miseria nel panorama imprenditoriale italiano che già di suo non eccede nelle dimensioni medie. Ma Bonomi è stato scelto per fare la parte del cattivo e lui ha preso molto sul serio il copione eccedendo perfino nella sua libertà lessicale: giusto qualche giorno fa ha dato lezioni di diritto costituzionale lanciando l’idea di una nuova democrazia che ha chiamato «negoziale» auspicando «una grande alleanza pubblico-privato» in cui «il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale» ma dialoga «incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del Terzo settore, della ricerca e della cultura».

Letta di primo acchito potrebbe anche sembrare avere un senso se non fosse che…

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Carola un anno dopo. I porti sono ancora chiusi

Il 29 giugno di un anno fa, ma sembra passata un’era, dopo giorni di attesa al largo, la nave Sea Watch, dell’omonima ong tedesca, forzò il divieto di attracco imposto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e sbarcò a Lampedusa con il suo carico di 42 persone sfuggite alle torture in Libia. Alcuni Paesi Ue avevano già sottoscritto un accordo garantendo una redistribuzione europea dei richiedenti asilo ma al ministro serviva, allora come oggi, un’arma di propaganda e quindi prima impedì l’ingresso in porto successivamente le autorità italiane, obbedendo ai decreti del ministro con eccessivo zelo, arrestarono la capitana della Sea Watch, la cittadina tedesca Carola Rackete. Carola divenne immediatamente un simbolo, da una parte fu ricoperta da ingiurie (il ministro dell’Interno è stato per questo querelato dalla cooperante), di insulti di stampo razzista e sessista dal popolo dei “leoni da tastiera” ma dall’altra è scattato un magnifico processo di identificazione con la giovane “capitana”, per il tono austero delle sue risposte alle provocazioni giunte, per la limpidezza etica e la profonda empatia dimostrata durante la sua permanenza in Italia. Il tribunale di Agrigento prima, la Corte di Cassazione poi, le hanno dato ragione riconoscendo il fatto che aveva agito per un dovere supremo, garantire la sicurezza delle persone a bordo, come fa ogni persona di mare. Dagli arresti domiciliari, per alcuni giorni, è stata poi liberata e alla fine definitivamente scagionata, dimostrando l’autonomia del potere giudiziario dai condizionamenti politici.

La nostra copertina del 5 luglio 2019, disegnata da Paola Formica

Ma in molti, nel bene e nel male non si sono dimenticati di quei giorni. Fra i primi la regista Alice Rotiroti che ha realizzato sulla vicenda un cortometraggio dal titolo Mezzagiornata, in cui l’angolo di visuale della vicenda è quello di un nucleo familiare “normale” (guarda il trailer). Si tratta di un piccolo gioiello tanto semplice nella sceneggiatura quanto capace di colpire le corde giuste, creando interconnessione fra una vicenda pubblica e il vissuto privato, gli stereotipi e la necessità di porsi domande e di sfuggire a questi. La regista considera il suo lavoro come uno strumento per sensibilizzare e far discutere: «Verrà presentato venerdì 26 giugno a Reggio Emilia in una serata organizzata dal Reggio Film Festival che proietterà i corti di edizioni precedenti e Mezzagiornata come unico corto in gara per l’edizione di quest’anno che si terrà a novembre. Poi il 27 sarà a Venezia all’Intercultural festival» E qusto è solo l’inizio. «Solo ora abbiamo cominciato a inviarlo – racconta Alice Rotiroti – e molti festival non hanno ancora chiuso le selezioni quindi ce ne saranno altri. La cosa che pensiamo e che oltre al percorso festivaliero visto il messaggio e la natura del film saremmo disponibili a con cederlo in proiezione in occasioni anche diverse da festival (eventi, presentazioni, dibattiti). Chi fosse interessato può scrivere a [email protected] valuteremo volentieri l’inserimento».

Sarà necessario. È di questi giorni la notizia che riporta la Sea Watch al centro della cronaca: 28 persone sono state raccolte al largo della Libia su una nave da “quarantena”, la Moby Zaza, sono risultate positive al Covid 19 anche se asintomatiche, un altro è ricoverato invece in ospedale. fanno parte di un gruppo di 211 persone poi trasferite al largo di Porto Empedocle. La vicenda ha già risollevato la prevedibile canea di chi vuole i porti chiusi e che ha già dimenticato che i porti sono di fatto ancora chiusi (le persone delle navi umanitarie che giungono non vengono sbarcate a terra, i richiedenti asilo e gli equipaggi seguono rigide norme sanitarie e sono già in essere accordi per la redistribuzione); la riapertura delle frontiere, dettata dai bisogni dell’economia, è già in essere e, speriamo contenuti, sarà inevitabile avere nuove persone a rischio; soprattutto poi il peggioramento delle condizioni in Libia, con l’impossibilità di seguire le norme di distanziamento e le forme di protezione necessarie ha aumentato anche lì il numero dei contagi. Dobbiamo “lasciarli a casa loro?” Blindarci, dalla Libia come dal resto del mondo? Oppure possiamo agire in nome del bene collettivo, garantendo la salute pubblica di tutte e tutti, come ha fatto Carola Rackete? Un tema del genere non può essere lasciato alla propaganda, interroga sulle ragioni per cui si aspira ad un modello di vita diverso in cui non ci siano persone da sommergere e persone da salvare.

Cara Concita, non è una pillola a lasciar sole le donne che decidono di abortire

In tempi di polemiche feroci e di ritorno in piazza delle donne per difendere diritti faticosamente conquistati e sempre in pericolo, una lettera pubblicata nella rubrica di Concita De Gregorio su Repubblica, apparentemente neutra, entra pesantemente nel dibattito, cominciando dal titolo (“Una pillola che lascia sole”) e dalla foto che completa la lettera, quella di una donna, una mamma, con il suo bambino. Tutto per ribadire e rafforzare un concetto falso ma evidentemente per molti rassicurante, cioè che l’aborto, spontaneo o volontario, è sempre un dolore. Un concetto che tutti si sentono in dovere di dichiarare come premessa necessaria quando parlano di aborto, ma che è lontanissimo dalla realtà, perché se l’aborto per alcune donne è un dolore, per altre non lo è affatto.

Di fronte ai sentimenti e ai vissuti personali, la solidarietà umana ci obbligherebbe a stare in punta di piedi, a rispettare, a non giudicare. E invece , spingendo senza scrupoli il tasto della emotività suscitata da una vicenda personale, si sceglie di entrare a gamba tesa in un dibattito già di per se’ aspro, senza conoscere la realtà. La realtà è che se ci sono tante donne che vivono l’aborto (anche quello spontaneo) con dolore, come la signora della lettera, ce ne sono moltissime per le quali l’aborto è una scelta priva delle tinte fosche della disperazione e della terribilità, donne che hanno deciso responsabilmente che la maternità in quel momento della loro vita non può essere, donne che hanno scelto di non essere madri e che hanno il diritto di non essere trascinate sotto i riflettori violenti dei mezzi di comunicazione di massa.

Le pillole non lasciano sole le donne, anche se evidentemente la signora che scrive a Concita De Gregorio si è sentita terribilmente sola, perché purtroppo, spesso, il ricovero in ospedale impone una solitudine e una distanza inevitabili.

Dal 2013, grazie ad una specifica determina Aifa, per le donne che hanno avuto un aborto spontaneo entro la decima settimana è possibile la somministrazione di quelle pillole a casa, con la vicinanza e l’assistenza delle persone a loro care. Certamente per la signora che scrive a Concita De Gregorio il vissuto doloroso sarebbe stato lo stesso, ma non sarebbe stata sola.

La somministrazione a casa delle prostaglandine non è possibile, invece, per le donne che decidono di interrompere una gravidanza non voluta. Perché, al di là delle inutili dichiarazioni di principio (“io sono a favore della legge 194”), le donne che decidono di abortire devono essere ostacolate, punite, sequestrate per giorni, lasciate sole in un letto di ospedale; perché per loro l’idea che possano stare a casa loro, con le persone a loro care, sembra quasi una bestemmia.

Nel resto del mondo, almeno fino alla settima settimana, l’aborto volontario farmacologico è una procedura ambulatoriale. Contrariamente a quanto paventavano coloro che ritengono le donne povere stupidine bisognose di tutela, non ha minimamente interferito con il contenuto morale della scelta, non la ha banalizzata e non ha portato ad un aumento del ricorso all’aborto volontario. La letteratura scientifica ci dice che la stragrande maggioranza delle donne valuta positivamente la procedura farmacologica e la consiglierebbe a donne che dovessero trovarsi nelle stesse condizioni.

Dare voce ad un’esperienza negativa, certamente non l’unica, senza commentare; mettere in piazza il dolore senza dare spazio ad esperienze, ragionamenti, valutazioni che possano mettere quell’esperienza all’interno della complessità della realtà, non è un agire neutro ed equidistante. Questa lettera, il dolore con cui è stata scritta, ci impone un ragionamento sulle modalità della comunicazione, soprattutto in relazione a temi cosiddetti”sensibili” e in generale sull’etica della professione di giornalista. Da medico, impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, ricevo spessissimo richieste per avere storie – ovviamente in anonimato – di donne che hanno abortito. Ho sempre rifiutato questo ruolo, perché, proprio da medico, sono convinta che il mio dovere sia quello di rispettare il vissuto e le esperienze altrui, stando al fianco delle libere scelte delle persone.

Sono convinta che il mio dovere sia di spiegare quello che so dalla scienza, di parlare di embrioni e feti e non di bambini, per sottrarre quel dolore, qualora ci sia, ai riflettori, mettendolo nella giusta dimensione, per non lasciare nessuna da sola.

*-*

L’autrice: Anna Pompili è medico ginecologo presso i consultori della ASL RM1 e presso il servizio di Interruzioni Volontarie di Gravidanza dell’ospedale San Giovanni di Roma. E’ professoressa a contratto della Scuola di specializzazione in Farmacologia Medica, Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Da sempre impegnata nel campo dei diritti riproduttivi, è cofondatrice di AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto)

Gli stra-ordinari pazienti di Gallera

Giulio Gallera, Welfare Counselor for the Lombardy Region attends a regional council meeting, in Milan, Italy, Tuesday, June 9, 2020. (AP Photo/Luca Bruno)

«Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico. Il nostro compito è mantenere questo equilibrio». Sono le parole dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, uno che ogni volta che parla riesce a mostrarsi perfettamente per quello che è e per quello che pensa. In fondo è una fortuna avere politici così: non c’è nemmeno bisogno di grattare la superficie per trovarci già tutto bell’e pronto.

Nella frase c’è tutto, basta avere voglia di analizzare con calma.

Ci sono i lussuosi ospedali privati. Gente che riesce con soldi pubblici a puntare all’esclusività come caratteristica. Ora alzi la mano chi si sente rassicurato dall’abitare in una regione in cui la sua eventuale malattia ha la possibilità di svolgersi nel lusso, come se gli ospedali siano resort da giudicare per i servizi annessi e connessi in un Paese (e in una regione) in cui ci si mette mesi a accedere a esami specialistiche con lunghissime liste d’attesa. Eccola la sanità lombarda, il modello di cui tutti ci parlano da decenni: ospedali lussuosi pagati con soldi pubblici che tolgono denaro e energie agli ospedali pubblici che annaspano. Glorificare un ospedale perché lussuoso è un po’ come magnificare un salame perché è veloce oppure lodare un architetto perché cucina ottimi tortellini. Una cosa così.

Poi ci sono i pazienti ordinari. E siccome l’italiano non è un’opinione quella frase ci dice che ci sono anche pazienti straordinari, inevitabilmente. Non si sfugge. Che esistano pazienti di serie a e di serie b in una regione che ha trasformato la cura in un business è cosa risaputa. Non si tratta solo di chi può permettersi la sanità (così come la scuola) privata alla faccia di chi deve affidarsi al servizio pubblico che ogni tanto non c’è: si tratta di avere l’accidente giusto, in sostanza avere la fortuna che la propria malattia possa interessare a livello di fatturato e quindi si diventa improvvisamente ottimi clienti. Perché è tutto un enorme supermercato dei malati, pagato con i soldi di tutti, in cui guadagnano in pochi.

Complimenti per la sincerità, Gallera.

Italia fase 3. Cosa ci ha insegnato la pandemia – Premessa al libro

Premessa al libro di Left “ITALIA FASE 3. COSA CI HA INSEGNATO LA PANDEMIA” (Sommario)

Semmelweis

di Matteo Fago, 13 marzo 2020

La storia di Semmelweis è la storia di un eroe. Fu il medico che comprese, senza usare un microscopio, per pura deduzione logica, che la malattia nota allora come febbre puerperale veniva trasmessa alle donne dalle mani dei medici che avevano appena fatto le autopsie. Infatti non era prevista alcun tipo di sterilizzazione per le mani dei medici che passavano tranquillamente dalla sala settoria alla sala parto.

Semmelweis fu un genio quando comprese che era necessario fermare le particelle cadaveriche, quel qualcosa di invisibile che si trasmetteva dal cadavere alla puerpera. Non esisteva il microscopio. Semmelweis non sapeva che quelle che lui chiamava «particelle cadaveriche» erano batteri che infettavano le partorienti portandole alla morte. Lo capì quando vide che un suo collega morì in modo del tutto analogo alle puerpere essendosi qualche giorno prima ferito durante un’autopsia.

Semmelweis salvò le donne quando pensò che per eliminare le particelle cadaveriche era necessario obbligare tutti quelli che entravano nel padiglione delle puerpere a lavarsi le mani. Aveva ragione. Le donne non morivano più. Non c’erano più le sepsi. La bacinella di Semmelweis aveva salvato le donne e tutti noi. Quell’intuizione fu alla base dei lavori di Koch, Pasteur e Fleming. Di fatto ci hanno permesso di non preoccuparci più delle malattie virali o batteriche.

Tutte le malattie terribili che hanno sterminato popolazioni intere e flagellato la storia dell’essere umano sono state comprese e risolte, con gli antibiotici e i vaccini, grazie ai lavori fatti da questi quattro geni dell’umanità. Sono passati quasi cento anni dalla scoperta della penicillina e poco più da quella del vaccino. Ma ormai siamo abituati a pensare che quel problema non esista più. Mai. Le malattie di origine sconosciuta, contro cui l’essere umano non ha armi, sembravano una cosa ristretta a luoghi lontani e isolati nel tempo e nello spazio. I virus invisibili non ci facevano più paura. La società moderna è stata resa libera di pensare di essere immortale.

Da solo tre settimane l’Italia sta affrontando l’epidemia scatenata da un virus nuovo e terribile. Non abbiamo vaccino. Non siamo più invulnerabili. E questo è qualcosa che non riusciamo a pensare. La nostra società non comprende un cambio di paradigma così radicale in così poco tempo. Il virus è invisibile ma i suoi effetti sono ben visibili. E quello che vediamo è che la risposta dei governi, delle aziende, ma anche delle persone tarda ad arrivare.

In molti casi, per non dire sempre e ovunque, anche di fronte all’evidenza, c’è stata una risposta fatua e anaffettiva. Come se il problema di questo virus riguardasse sempre qualcun altro. Come se “tanto a me prende in forma lieve, riguarda solo i vecchi e malati”. Come se i vecchi e i malati fossero meno umani degli altri perché vecchi o malati. Tante persone vivono questi giorni con una paura terribile. E io mi metto tra questi. Ma la paura io credo non sia del virus di per sé. Quello di cui abbiamo terribilmente paura è qualcos’altro che questo virus ha messo a nudo.

Questo virus mette a nudo la violenza della nostra società. Violenza che si esprime con una fatuità di comportamenti che dicono di una totale anaffettività e disinteresse per gli altri e per sé stessi. Di totale mancanza di amore per gli altri. Di persone che pensano a fare la movida degli aperitivi e dei rave party. Di aziende che invitano ad andare in vacanza malgrado l’epidemia. Di trasmissioni che parlano di “cosa dicono le stelle del coronavirus”. Ma è anche realizzare che il mondo in cui viviamo è un mondo ideale che non ha rapporto con la realtà.

Un mondo in cui si privilegia la macchina economica alla salvezza delle persone. In cui si pensa che una malattia pericolosa come questa non giustifichi di fermare le attività economiche perché si perdono soldi. È difficile aprire gli occhi. È difficile comprendere che siamo esseri umani. È difficile pensare che tutte le meravigliose e mirabolanti certezze del mondo occidentale possano essere messe in crisi da un minuscolo virus invisibile. Qualcosa al limite dell’inanimato, dato che il virus non è vivo, e che fluttua nell’aria, che può nascondersi nel sorriso o nel bacio di qualcuno. Qualcosa contro cui non possiamo fare niente se non confidare nelle nostre difese immunitarie e nei medici del sistema sanitario che ci assistono.

È difficile comprendere che ci sia chi pensa che tutto questo non lo riguardi. Mai. L’epidemia di coronavirus si propaga ad una velocità terribile. Se non controllata in qualche modo raddoppia il numero dei contagiati in 2,5 giorni circa. Questo significa che il numero di contagiati in 5 giorni è 4 volte tanto quello iniziale, in 7,5 giorni è 8 volte, in 10 giorni è 16 volte tanto.

Questi numeri così piccoli diventano enormi in un tempo brevissimo. Perché in 20 giorni il numero dei contagi arriva a 256 volte e in 30 giorni a 4.096 volte. Oggi, quando scrivo, siamo a circa 8.514 contagiati. Tra 30 giorni, se non si fa nulla, si arriva a 8.514 x 4.096 che fa 34 milioni di contagiati. È quello che in matematica si chiama una crescita esponenziale. Una crescita che è la più potente che esiste in natura ed è tipica di questi processi infettivi. Questa crescita è ciò che può devastare il nostro sistema sanitario e, questo sì, anche la nostra economia. L’unica cosa che la può fermare è impedire il contagio. Fare in modo che ogni paziente non ne infetti più di uno. Per fare questo è necessario allontanare le persone tra loro.

Da un giorno, quando scrivo, l’Italia è in lockdown. Si è cioè fermata. È necessario rallentare la velocità di propagazione e poi fermarla. Ma per fare questo è necessario impedire alle persone di incontrarsi. È necessario fermare il sistema quasi completamente. È necessario usare il sistema che si sono inventati i veneziani per sconfiggere la peste, la quarantena. Qualcosa di inimmaginabile per il sistema occidentale. Qualcosa di impossibile da pensare. Tanto è vero che il lockdown italiano, così come quello cinese, che si è rivelato perfetto, vengono ancora oggi visti dagli altri Paesi come una assurda soluzione ad un non-problema, pur avendo poche settimane di tempo prima di trovarsi nella stessa nostra situazione di oggi.

I tedeschi, i francesi, gli spagnoli e gli inglesi. Gli americani. Nessuno si preoccupa veramente dell’effetto che può avere questa epidemia sulla popolazione in termini di mortalità complessiva. La ragione che prevale è sempre quella del sistema che non si può fermare. Anche se questo significa centinaia di migliaia se non milioni di morti. Allora viene da pensare che quei ragazzi che fanno l’aperitivo sui navigli incuranti del pericolo a cui espongono i propri parenti e conoscenti, o quelle tante persone che “se ne fregano” perché tanto a loro non viene, siano gli interpreti del pensiero nascosto della società occidentale.

Un sistema che si è “dimenticato” o meglio ha annullato, nel senso di averlo fatto scomparire come se non fosse mai esistito (secondo quanto teorizzato da Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza) ciò che dovrebbe costituire il senso vero e profondo della società stessa: l’essere umano. E viene da pensare anche che quella fatuità sia un attacco a chi, dall’altra parte invece, ci dice chi siamo.

Gli infermieri, i medici, le strutture sanitarie stanno lavorando in un modo che fa venire le lacrime agli occhi solo al pensiero, senza fermarsi mai, come fossero un muro fatto di sacchetti di sabbia che cerca di fermare uno tsunami… e ciononostante continuano e insistono… perché ogni paziente, ogni persona, ogni essere umano è importante. E deve essere salvato. E se non ci si riesce si passa subito al successivo. Perché ogni persona deve essere salvata.

Loro sono quelli che ci ricordano quello che siamo. Sono quelli a cui oggi e nel futuro dovremo essere per sempre riconoscenti. Ci ricordano che la nostra realtà di esseri umani è essere in rapporto con gli altri. Volere il bene dell’altro. Volere che l’altro sia e che sia libero di realizzare sé stesso. Sapere di essere tutti uguali perché nati uguali. Volere istintivamente il bene degli altri, anche di chi non si conosce e non si conoscerà mai. Volere il bene anche di quei ragazzi che vanno a brindare alla loro immortalità.

La bellezza della foto dell’infermiera addormentata, stremata dal troppo lavoro, è più bella di un quadro di Picasso. È l’immagine della realtà umana bella, quella che c’è sempre anche in questa società folle in cui viviamo. È l’immagine del sogno dell’uomo di volere il bene degli altri: “Io voglio che tu sia”. È l’immagine di una vita che si oppone al virus invisibile che vuole accecare, che vuole farci dimenticare chi siamo. La vera realtà umana è nella capacità di amare, nel volere il bene e la realizzazione degli altri. E di rischiare sempre tutta la propria vita per questo.

Grazie.

Quelle risorse destinate al Sud, la mia risposta all’ex ministro Giulio Tremonti

Cara Direttrice,
ho appreso con piacere dell’interesse che la mia intervista pubblicata sul Suo giornale ha suscitato nell’ex Ministro Giulio Tremonti (v. testo in calce, ndr).
Ritengo infatti molto utile il suo contributo al dibattito in questo cruciale passaggio storico, non solo per il ruolo di responsabilità che ha rivestito per diversi anni nel nostro Paese, ma anche per le posizioni originali che è andato via via maturando sui temi europei e internazionali, non di rado discostandosi dalle scelte compiute, partecipando all’indirizzo politico complessivo dei Governi di cui è stato autorevolissimo membro.
Non credo, dunque, per quest’onestà intellettuale, che Tremonti voglia e possa negare la “colossale” distrazione di risorse in conto capitale già destinate al Sud per coprire spese nazionali, anche di parte corrente. Noto una certa confusione intorno al concetto di fondi della coesione, che discendono da due origini: i cosiddetti “fondi strutturali” del Bilancio Ue e i fondi nazionali, previsti ai sensi del quinto comma dell’art. 119 della Costituzione, del Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS), così denominato ai tempi in cui era ministro Tremonti e ora Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC).
Tra le ipotesi che Tremonti avanza nella sua ricostruzione di quella vicenda omette stranamente proprio quella corretta. Che ricorderà e che comunque qui ricordo: il “dirottamento” non certo dei fondi strutturali europei, ma delle risorse del FAS, la gamba nazionale delle politiche di coesione, risorse aggiuntive che, destinate in quegli anni per l’85% al Mezzogiorno, avrebbero dovuto sommarsi a quelle ordinarie in conto capitale e a quelle della coesione europea.
Basandosi sulle analisi della Svimez e del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica, Francesco Prota e Gianfranco Viesti stimano che per effetto delle disposizioni di legge e delle delibere CIPE intervenute negli anni in cui Tremonti è stato Ministro, gli stanziamenti del FAS allocati al Mezzogiorno dal Quadro Strategico Nazionale 2007-13 e dalla delibera CIPE 166/2007 si sono ridotti da 36,9 a 11 miliardi (Senza Cassa. Le politiche di sviluppo del Mezzogiorno dopo l’Intervento Straordinario, Il Mulino, 2012).
Non attribuisco queste decisioni all’iniziativa personale dell’ex Ministro, come non ritengo che il disimpegno della gamba nazionale della politica di coesione durante quella crisi sia stata una prerogativa esclusiva di quel Governo. Non di rado sono state le stesse Regioni meridionali a chiedere di utilizzare quelle risorse per altre finalità. Il risultato di tutto questo è riassumibile in pochi dati. Complessivamente, il Servizio studi della Camera dei Deputati ha evidenziato che le riduzioni del Fondo intervenute negli anni dal 2008 al 2012, sulle risorse stanziate per gli esercizi finanziari 2008-2013, ammontano a 31,8 miliardi, a fronte di un modesto rifinanziamento per 2,8 miliardi disposto per l’annualità 2015 dalla Legge di Stabilità 2012.
La mia è una profonda inversione di rotta rispetto a una politica nazionale miope che ha fatto pagare al Sud, e perciò al Paese, la gestione di quella crisi. Anche a causa di quella “distrazione” di risorse il Mezzogiorno ancora non ha sanato le ferite della crisi precedente e oggi si mostra più fragile di fronte a questa. È un errore che non dobbiamo replicare.
Per un ventennio la politica nazionale ha disinvestito progressivamente dal Sud basandosi sull’assunto sbagliato che la crescita del Paese nel suo complesso e il riequilibrio territoriale fossero due obiettivi distinti, se non addirittura contrapposti. Non intendo unirmi al coro dello “scippo al Sud”, urlato dai professionisti citati dall’On. Tremonti. Come non ho difficoltà a riconoscere all’On. Tremonti il merito di aver anticipato certe scelte. Penso alla Banca del Mezzogiorno, comunque assai lontana, per mandato e organizzazione, dalla Cassa per il Mezzogiorno (al riconoscimento dei cui meriti storici, tra molte contraddizioni, credo di aver contribuito con qualche analisi, anche quando non andava così di moda).
Sono consapevole che il tema principale, oggi, non è la difesa o la richiesta di nuove risorse, tema anch’esso rilevante alla luce delle nuove possibilità che si aprono in Europa, ma la capacità di spendere quelle già stanziate. La via è una semplificazione procedurale ma anche un profondo processo di rigenerazione amministrativa, reclutando le nuove competenze che servono a governare lo sviluppo e realizzare gli investimenti, a livello centrale e a livello locale.
Ma si pone anche un tema di architettura istituzionale nella governance delle politiche. Non mi sfugge la differenza suggerita da Tremonti tra “destinazione” regionale e “gestione” regionale dei fondi della coesione, anzi la ritengo cruciale. Sui fondi strutturali europei è la Commissione che prevede la coincidenza dei concetti. Il Piano Sud 2030, invece, prevede di assumere innovazioni strategiche, organizzative e procedurali finalizzate a riattivare la leva nazionale delle politiche di coesione con un rafforzamento del presidio centrale.
Su questo aspetto e su altri temi di comune interesse resto aperto al dialogo e auspico il contributo di chiunque, finalmente, soprattutto dopo la pandemia, si mostri pronto a identificare nel Sud, pur con tutti i problemi da affrontare, non la “zavorra” ma un’opportunità per il Paese e per l’Europa.

Giuseppe Provenzano

* – *

Giulio Tremonti

La lettera inviata a Left dall’ex ministro Giulio Tremonti

Signor Direttore:
ho letto l’intervista al ministro Giuseppe Provenzano pubblicata ieri sul Suo giornale sotto il titolo: “Non un soldo verrà tolto al Sud”.
Nell’intervista è scritto tra l’altro quanto segue: “… Ricordo che tra il 2009 e il 2011, con l’allora ministro Tremonti, circa 26 miliardi di spesa in conto capitale vennero dirottati dal Sud per coprire spese nazionali…”.
Al proposito mi permetto di notare quanto segue:
a) il ministro fa riferimento ad un “dirottamento” che avrebbe avuto una dimensione colossale (26 miliardi di euro), ma che sarebbe avvenuto in un solo triennio (2009-2011) e tra l’altro non per effetto di voti del Parlamento (trattandosi di voci del pubblico bilancio), ma per mia singolare iniziativa;
b) mi pare di notare una qualche confusione tra “spesa in conto capitale” e “coprire spese nazionali”. Sarebbe davvero interessante avere un’idea dei concetti che sono alla base di questa profonda riflessione;
c) se l’accusa per “dirottamento” da Sud a Nord è fatta dal ministro con riferimento ai fondi “europei” (fondi di coesione, etc.) va notato che un “dirottamento” di questo tipo sarebbe stato allora e sarebbe ancora tecnicamente assolutamente impossibile ed in effetti non se ne ha riscontro tanto nella contabilità europea quanto nella contabilità italiana;
d) una ipotesi residuale (magari da verificare con il ministro) potrebbe essere che questi abbia fatto riferimento al meccanismo “europeo” basato sulla “regola del 33%”. Un meccanismo per cui si segnalavano ed ancora si segnalano a Bruxelles volumi di spesa superiori a quelli effettivamente realizzabili nel Sud. In termini concettuali e morali questa ipotesi è tra quelle fatte sopra la peggiore considerando che da sempre, da quando è stata attivata quella regola, sempre si è manifestata una differenza che nessuno ha mai onestamente pensato di poter qualificare come un “dirottamento”. In ogni caso, a voler insistere sulla falsa ipotesi del “dirottamento”, il ministro avrebbe dovuto cominciare accusando onestamente il Presidente Ciampi!
e) tutto ciò premesso noto che il Trattato europeo prevede che i fondi “europei” (in realtà nazionali) debbano avere “destinazione” regionale (nel caso dell’Italia destinazione verso il nostro meridione), ma non “gestione” regionale. Questo è il punto che credo essenziale. Per quanto mi riguarda, quando ero al Governo, ho sempre cercato di introdurre questo criterio ad esempio ipotizzando il ritorno alla Cassa del Mezzogiorno o l’applicazione di strumenti equivalenti. Per contro il nostro meridione non merita quanto è stato ed è: non solo gli effetti devastanti delle clientele, non solo l’incapacità delle classi cosiddette “dirigenti”, neppure il “pensiero” parassitario degli “intellettuali” che da decenni del meridione si occupano professionalmente derivando dalle altrui disgrazie la loro fortuna.
Con preghiera di pubblicazione,

Giulio Tremonti

Bel colpo, Djokovic

«Sono contrario alla vaccinazione contro il coronavirus e non vorrei essere costretto a vaccinarmi per poter viaggiare: se dovesse diventare obbligatorio, dovrei prendere una decisione».

E poi.

«Se hai pensieri ed emozioni specifiche, nel caso siano pensieri felici, buoni pensieri, questi creano una struttura molecolare che ha un geoprisma basato sulla geometria sacra, il che significa che c’è equilibrio. Al contrario, quando si dà all’acqua dolore, paura, frustrazione o rabbia, quell’acqua si rompe».

Parole, opere e omissione del numero 1 al mondo, il tennista Novak Djokovic che dei No vax è diventato l’idolo perché evidentemente da quelle parti sapere giocare a tennis dà la patente per essere ottimi virologi.

Peccato che Djokovic abbia poi deciso di organizzare perfino un torneo di tennis, l’Adria Tour, fottendosene altamente di tutte le precauzioni che tutto il mondo sta mettendo in atto per il Covid. Che c’è di meglio che esibire il proprio coraggio contro il virus con un bel torneo tra amici. In tutto questo il tennista è anche stato pescato mentre festeggiava con altri tennisti in una discoteca serba. Nel filmato si vedono lo stesso Djokovic, assieme a Dominic Thiem, Alexander Zverev e Grigor Dimitrov al Lafayette cuisine cabaret club di Belgrado.

Perfetto: Novak Djokovic ha il coronavirus. Anche la moglie Jelena è risultata positiva al tampone. Tra domenica e lunedì anche i tennisti Grigor Dimitrov, Viktor Troicki e Borna Coric sono risultati positivi al Covid. Contagiati anche Kristijan Groh, allenatore che fa parte del team di Dimitrov, Marco Panichi, preparatore atletico italiano di Djokovic, e la moglie di Troicki, incinta.

La conclusione migliore è del presidente dell’Atp Andrea Gaudenzi al New York Times: «Questa situazione è come quando dici ai tuoi figli che per imparare ad andare in bicicletta devono indossare un casco. Ti dicono di no. Poi vanno in bicicletta, cadono e da lì iniziano a indossare il casco».

Bel colpo, Novak.

Buon mercoledì.

Zaia, Meloni e la bagnarola di Salvini

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse Roma 28-02-2015 Politica Piazza del Popolo. Manifestazione della Lega "Renzi a Casa" Nella foto Matteo Salvini, Luca Zaia, Giorgia Meloni Photo Fabio Cimaglia / LaPresse Rome 28-02-2015 Politic demonstration by Lega Nord "Renzi go home" In the photo Matteo Salvini, Luca Zaia, Giorgia Meloni

La Lega cala, Fratelli d’Italia sale. La destra, insomma, compensa: laddove scende uno, sale l’altro, e viceversa, non come la sinistra, che coglie sempre al volo l’opportunità di declinare contro sé stessa l’antica locuzione latina del divide et impera. Per le prossime regionali in Puglia, ad esempio, Renzi ha pensato bene di infilare un dito in un occhio a Emiliano, schierando – nientepopodimeno – che Scalfarotto. Insomma, se – storicamente – la sinistra perde anche perché si divide, la destra trova sempre modo di non disperdere il suo elettorato.

Il triunvirato Salvini-Meloni (vabbè, c’è pure il Caimano) non solo non si divide, ma intercetta addirittura i voti di tutti i neofascisti d’Italia, da CasaPound a Forza Nuova, passando per Militia e tutte quelle formazioni e formazioncine maleodoranti che impunemente (Quousque tandem abutere… patientia nostra?) concimano l’estrema destra dalle Alpi alla Trinacria. A sinistra, invece, se la compagine pentastellata garantisce costanti mala tempora, quella renziana proietta peiora parantur. Per fortuna c’è il capitan findus della politica italiana, in arte: Matteo Salvini. Sì, perché il vento del Nord soffia ormai forte contro quel «Cafone politico ragliante e tre volte somaro» per dirla col governatore De Luca.

Alla base dello scollamento con l’elettorato padano, l’inaccettabile tradimento dell’azzeramento delle ragioni delle regioni del Nord. Una azione, la sua – quella del «ragliante» – che viene da lontano. No, non dallo scorso agosto, cioè da quelle spiagge papetiane che – in una giornata particolarmente assolata – lo indussero a invocare mussolinani «pieni poteri» fra un mojito e un topless. Da prima. Esattamente dal dicembre 2017. Fu in quella infausta (per i padani) giornata che il futuro capitano evirò la Lega Nord, tagliandole il Nord. Quel pendaglio di cui andavano così fieri i leghisti, che non perdevano mai occasione per ricordare come loro ce l’avessero sempre duro, quel nord. Già alle politiche del 2018, il partito che fu dei Bossi, gli Speroni, i Maroni e i di loro cerchi magici, si presentò senza sole delle Alpi e con il nuovo casato dei salvinidi presenti con tanto di scritta nel logo: Lega Salvini premier. Resiste solo Alberto da Giussano, probabilmente perché non esiste. E con lui resistono pure tutti quei leghisti che si sono ritrovati d’improvviso senza casa: senza quel Nord che aveva dato i natali al loro partito dopo i diversi accoppiamenti con la Lega Lombarda e la Liga Veneta. Che sia in effetti la veneta Liga la vera mamma della Lega sono ormai in molti a sostenerlo. E non solo nei bar e nelle cucine, ma pure nelle sedi in cui un tempo, unito e squillante, si alzavano quei bei cori contro i meridionali cui partecipava pure “il traditore”, tipo «Senti che puzza, arrivano i napoletani». (Non più tardi dello scorso gennaio, Salvini è stato condannato per quei cori).

Evirato come Urano il senatur celodurista, e insignificante la di lui progenie trigliata, l’aspirante Zeus dell’Olimpo della neolega, ha tuonato l’orribile saetta: «Prima gli italiani». Quelle belle e antiche e storiche grida, tipo «prima i lombardi», «prima i veneti», e via di dettaglio: «prima i milanesi», «prima i bresciani», «prima i veronesi», «prima i padovani», e poi giù, giù “democraticamente” per ogni città e cittadina, che una felpa non la si sarebbe negata manco a San Felice del Benaco (ridente paesello della costa bresciana del Lago di Garda) che a suo tempo aveva dato vita a Prima Linea, non echeggiavano ormai più nei raduni pontidiani, sostituiti com’erano stati perfino da blasfemie quali «prima i napoletani» e giù, giù di terronia, che proprio non si potevano sentire senza vomitare la polenta con le aole appena ingurgitate alla festa padronale fra una bestemmia e una «Roma ladrona» che ci sta sempre bene. Della Lega di Bossi&Maroni, quella che prendeva le distanze dagli italiani, non c’è ormai più traccia. Quella Lega che (parrebbe ora una bestemmia) sosteneva pure una sorta di antifascismo militante. «Andremo a prendere i fascisti uno per uno» tuonava il Bossi nei comizi in cui schifava gli italiani. «C’è forse qualche italiano qui in mezzo?» urlò rauco in un comizio a Maderno, sul Garda. Trovandomi lì per dovere di cronaca, stavo per alzare incautamente la mano quando mia moglie mi salvò dall’insano gesto.

Nell’ultima edizione del festival di Pontida, i leghisti della prima ora hanno dovuto ingoiare insomma nuove – irritanti – parole d’ordine: quelle poi risuonate nel recente congresso. All’ombra dell’inesistente Alberto da Giussano, sono cadute lacrime padane e con esse è precipitato il commovente sogno romantico di separare il Nord dal Sud «con un bel muro all’altezza di Bologna»: cioè altezza di quel confine che separava la civiltà d’origine celtica da quella d’origine greca (notoriamente fatta di fannulloni, vedi che fine che ha fatto…), come spiegavano i più colti eruditisi sulle tesi del fu Gianfranco Miglio, ora tornato quel Carneade che era prima che Bossi lo fulminasse con un’ampolla all’ombra del Monviso. «Sono andato a Pontida anche quest’anno – dice un leghista della prima ora incontrato in Valsabbia, terra da numeri bulgari per la Lega di Bossi – ma non mi è piaciuto quello che ho sentito». Diciamola tutta: Salvini è un traditore che manco Iago. «Prima gli italiani? E tutti questi anni abbiamo scherzato, allora?». Poi c’è l’antifascismo, nel senso che non ce n’è più traccia, anzi… «Non è un mio problema. Non mi interessa niente di fascisti o comunisti – spiega l’ex dreamer della “padania libera” -. A me interessa che i miei soldi restino qui». L’orfano padano si sente insomma tradito da chi ha ucciso l’antico sogno di separare i destini della padania dal resto di un paese – tuttora – percepito come «terrone» da Bologna in giù.

Il glorioso «non si affitta ai meridionali» degli anni 60 riapparso recentemente in più città del Nord lascia tuttavia qualche speranza a chi si sente di dover praticare una sorta di resistenza attiva sul fronte della Lega «per la liberazione della padania». Cartelli che certificano una resistenza. La persistenza della filosofia leghista della prima ora. Quella filosofia ora incarnata da Luca Zaia, quel governatore del Veneto che può contare sullo zoccolo duro dei serenissimi, gli irriducibili pasdaran della Repubblica di Venezia. Ve li ricordate? Ma sì, quelli che avevano dato l’assalto al campanile di Venezia su mezzi corazzati (si fa sempre per dire) con le spiegazioni in rigoroso veneziano, tipo «struca el buton» a significare di schiacciare il bottone per aprire questo o quello nel suddetto mezzo blindato (…per dire). È insomma Zaia il salvatore della patria del Nord, quel governatore così padano, così veneto, così – autenticamente – leghista che non solo non rinnega le nobili origini separatiste, ma capace di travasare nelle orecchie padane parole melodiose, magari in trevigiano, ormai disperse ai piedi del Vesuvio, tipo: «Staremmo manco qui a fa’ i discorsi sull’euro, ciò, se non avessimo messa Italia che la gà i libri da porta’ in tribunale, ciò, che l’è fatta de zialtroni, de fannulloni, de zente che la magnia tutto chel che ‘l Nord ‘l produse, ciò». Quella mezza Italia (e passa, in realtà geografica) che aveva spinto gli Zaia di tutto il Nord a unirsi sotto la stessa bandiera di Alberto da Giussano, e chi se ne frega se non è mai esistito.

Da tutto questo marasma che si sta muovendo attorno al capitano citofonante, è proprio il findus (ex) leghista a trarne le conseguenze peggiori. Per una Meloni che al centro sud può intercettare meglio e più di lui quei voti autenticamente fascisti e finora rifugiati nella variegata destra italiana, al Nord, Zaia può ridare casa a chi è stato scippato anche del linguaggio. «Semo tutti italiani, un bel casso!» potrà finalmente tornare a gridare a Pontida il discendete di Alberto da Giussano (e «frega ‘n casso se l’è mia esistìt’»). Il risultato sarà – da qui alle prossime elezioni politiche – che il findus della politica italiana si ritroverà a governare non più un veliero da oltre il 35% ma una bagnarola che sta in piedi coi quattro venti: come quelle su cui s’avventurano disperati che lui chiama sobriamente terroristi.