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Contact tracing, tutto quello che c’è da sapere su Immuni

Della app che, secondo il governo, sarebbe fondamentale per affrontare con successo la Fase 2 della pandemia, non si sa ancora molto. Ma quel poco che è trapelato, tra dichiarazioni e indiscrezioni, fa già molto discutere. Immuni – questo il nome del software selezionato dai 74 membri della task force tecnologica della ministra dell’Innovazione Pisano – è considerato un supporto tecnologico all’attività di contact tracing, ossia al tracciamento dei contatti attraverso il quale, quando viene individuata una persona contagiata, si ricostruiscono i suoi precedenti incontri per rintracciare ed informare rapidamente le persone che potrebbe avere infettato.

Già, ma che fine fanno i nostri dati? Dove verranno conservati? Che rischi ci sono per la nostra privacy? Si tratta veramente di un metodo efficace?

Ad inizio aprile la ministra Pisano aveva dichiarato che l’app anti-contagio avrebbe dovuto rispettare alcune condizioni, tra cui la «volontarietà di partecipazione», e poi che i dati sarebbero dovuti essere «resi sufficientemente anonimi da impedire l’identificazione dell’interessato». Troppo poco. Poi c’è stato l’annuncio del 17 aprile del commissario Domenico Arcuri della selezione del software Immuni prodotto da Blending Spoons, infine solo il 21 aprile in una lunga nota del ministero dell’Innovazione sono stati diffusi alcuni elementi in più. L’app sarà gestita da uno o più soggetti pubblici, il suo codice sarà aperto, non accederà alla rubrica né manderà sms, i dati raccolti saranno cancellati «con l’eccezione di dati aggregati e pienamente anonimi a fini di ricerca o statistici» e il sistema dovrà «tenere in considerazione» gli standard internazionali (Pepp-Pt, Dp-3t, Robert) e l’evoluzione del modello annuciato da Apple e Google.

Tutto ciò sulla carta, visto che l’app ancora non c’è. E queste garanzie non sgombrano il campo rispetto a numerose questioni aperte. Tecnologiche, come l’uso reale dei dati raccolti e la loro modalità di stoccaggio, e non: «Il bug dell’app è concettuale» dice a Left il collettivo Ippolita, un gruppo di ricercatori indipendenti che si occupa di tecnologie digitali e che negli anni, con le proprie opere di divulgazione, ha contribuito a svelare i meccanismi distopici che si nascondono dietro ai social network, ai big della profilazione, alla sharing economy. Ci siamo rivolti a loro per valutare con attenzione i rischi di questa operazione. Ma partiamo dall’inizio.

Come dovrebbe funzionare, in poche parole, l’app per il contact tracing selezionata dal ministero per l’Innovazione? Dove saranno conservati i nostri dati?
Per noi questa applicazione è propaganda politica atta a mistificare e togliere l’attenzione dalle gravi mancanze tecniche, organizzative e culturali che hanno caratterizzato la gestione di Covid-19. Infatti per ora non c’è alcuna chiarezza sulle specifiche tecniche del progetto. Compreso il server a cui saranno trasmessi e in cui verranno conservati almeno una parte dei dati. Da quello che abbiamo capito dalle poche informazioni attendibili, ognuno di noi potrà scaricare un’app il cui codice sorgente forse sarà disponibile, ma questo è pressoché irrilevante perché certamente non sarà aperta e analizzabile l’intera infrastruttura. Attraverso il protocollo bluetooth (che non è il massimo della sicurezza) questo software comunicherà con altre app delle stesso tipo nel raggio di circa un metro. A questo punto ogni telefono conserverà una lista degli Id (identificativi univoci) con cui la app è entrata in contatto. Dunque ci pare logico che queste liste dovranno essere trasmesse a un server che le tratterrà ad libitum, e si dice in forma anonima. Quando una di queste persone/app dovesse risultare positiva a Covid è ragionevole ritenere che lo comunicherà al server per mezzo della app stessa, il server trasmetterà un avviso ai soggetti che sono entrati in contatto con l’individuo infetto. A questo punto cosa faranno le persone/app? A parte farsi venire una crisi di panico prontamente registrata dallo smartwatch che indossano, chi li aiuterà? Il frigo collegato alla rete? L’aspirapolvere intelligente? L’efficacia del progetto, in mancanza di un insieme di azioni coordinate volto alla salute dei cittadini, e sempre sostenendo che funzioni, è pari a un pollo di gomma che ci possiamo sbattere in faccia. C’è poi un problema di massa critica, per funzionare la app deve raggiungere una certa soglia di diffusione, vedremo quali strumenti persuasivi saranno messi in gioco, anche qui la questione etica è labile. Per chi non scarica la app scatterà lo stigma sociale? (secondo il mantra “chi non ha nulla da temere non ha nulla da nascondere”). Inoltre, con tutto questo giro di dati, è difficile pensare che chi gestisce il server non possa risalire all’identità dei soggetti tracciati e che non ci siano falle sfruttabili da terzi per fare analisi basate sulla correlazioni tra i dati.

Dal governo viene ribadito che le informazioni dei cittadini saranno anonimizzate e poi cancellate dopo un certo tempo: quali sono i rischi dell’app rispetto alla privacy e alla nostra libertà?
Il bug dell’app è concettuale, non tecnico, tecnicamente potrebbe anche funzionare benissimo e rispettare tutti gli standard che il governo si vuole dare. Il punto è un altro: perché si ritiene che la prevenzione sanitaria possa essere garantita da una applicazione su un telefono cellulare? La app sarà soprattutto l’ennesimo “diario” da riempire di informazioni, in questo caso riguardanti la “percezione” che si ha della propria salute. Siamo ancora nell’illusione che attraverso il racconto di sé, la tecnologia possa prendersi cura di noi, come abbiamo descritto nel volume Anime elettriche. Ma quando stai male hai bisogno che ci siano persone competenti e in forze vicino a te, non l’assistente vocale.

Avete scritto che «non esistono tecnologie di controllo che siano anche “etiche”», ma Oms e comunità scientifica concordano nel dire che per allentare le misure di lockdown sia importante rilevare rapidamente i nuovi focolai, e in questo la tecnologia potrebbe fornire un grande aiuto. Qual è il modo migliore di utilizzare gli strumenti digitali, se si vuole tutelare al contempo la democrazia e la vita delle persone?
Gli strumenti digitali di cui stiamo parlando, che sono quelli oggi più in uso, non sono un modello di riferimento per tutelare la privacy delle persone, questa tecnologia non è interessata al loro benessere psico-emotivo o fisico. Certo, gli strumenti digitali possono aiutare, ma qui si registra soprattutto l’ansia di accumulare dati per analisi predittive a buon mercato. Come se la predizione di per sé costituisse un valore assoluto. Ma il pronostico senza organizzazione territoriale è irrilevante. La prevenzione non si fa con gli algoritmi, ma con la diffusione di pratiche anti-infettive condivise in un network fisico di luoghi e persone. Il modo migliore di usare la tecnologia certe volte è una sua applicazione metodologica, organizzativa. Una rete de-centralizzata infatti è la sola organizzazione in grado di creare unità autonome locali che possano reggere grossi attacchi esterni. E la rete dei servizi socio-sanitari locali ha già in se queste caratteristiche, occorre prendersene cura, potenziarla, innovarla anche attraverso la tecnologia. Ma non pensare che la tecnologia possa sostituirla. La sicurezza la fanno gli umani quando sono messi nella condizione di agire in modo autonomo, rapido e competente, non i droni che fanno i video in piazza Duomo a Milano.

Alcune compagnie di Big tech già avrebbero a disposizione strumenti e informazioni per monitorare il contagio. Penso ad Google ed Apple. Chiedere loro di renderli un bene pubblico, ipotizzando finalmente forme di esproprio e riconquista dei nostri dati – per quanto sarebbe una battaglia ardua – potrebbe essere una proposta giusta da mettere in campo a sinistra?
È una strada per la quale nutriamo da anni un profondo scetticismo. Certo, viviamo pur sempre in un contesto apparentemente democratico in cui i diritti della nostra carta costituzionale incontrano la dimensione sovranazionale dell’Unione Europea, dell’Euro e delle politiche economiche e finanziare connesse. Per cui appare ragionevole compiere uno sforzo da autentici socialdemocratici e tentare di strappare al capitale – con leggi e norme – le risorse che accumulano grazie alle nostre interazioni digitali. Ma per farci cosa? Capitalismo di Stato? È un film già visto, non ci interessa. Le Big tech, Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon et Microsoft, ndr),  hanno costruito gli strumenti che tutti usano affinché potessero estrarre le informazioni più utili a loro stesse. Così come non è etico che queste informazioni siano di loro proprietà, allo stesso modo non esse non dovrebbero essere nelle mani di nessuno. Se ci interessa un approccio etico, quei dati andrebbero immediatamente cancellati. Con una battuta potremmo dire: cancelliamo i dati e teniamoci i server, usiamo quella potenza di calcolo per scopi più utili, fuori dalla logica del capitale. Ma siamo in una dimensione fantascientifica che non si realizzerà mai – e quei server inquinano, solo tenerli accesi è un costo altissimo.C’è chi al primato del platform capitalism oppone il recupero statale della sovranità digitale. Premesso che nella progettazione e nello sviluppo di questa questa app, Immuni, la presenza dello Stato pare assai minoritaria rispetto ai privati, perché questa ipotesi non vi convince?
C’è da ragionare su cosa intendiamo con recupero della sovranità digitale. Qui non stiamo parlando di un bene comune come l’acqua, ma di una serie di servizi offerti da privati che diventano “di Stato” per supposte necessità. Lo vediamo bene con le piattaforme di Google in uso nella scuola pubblica. Il problema principale riguarda lo stoccaggio dei dati e l’uso che ne viene fatto. È vero che il Gdpr (il Regolamento europeo generale sulla protezione dei dati, ndr) impone di esplicitare le finalità per cui vengono assorbiti i dati e fornire all’utente l’opportunità di scegliere, ma non è abbastanza. Vogliamo usare applicazioni private a livello statale? Che non sia permesso loro di immagazzinare alcun dato, al di là delle finalità. E lo stesso vale per un’eventuale infrastruttura digitale statale. Non ci sono differenze se c’è profilazione, che sia di Stato o privata. Detto più chiaramente: la sfida non è produrre più dati, ma non produrne affatto. D’altronde cosa vuol dire sovranità digitale? Qualche anno fa questa formula era usata in alcuni contesti antagonisti con un significato preciso, adesso non siamo più sicuri che voglia dire la stessa cosa. Sarebbe interessante capire, per esempio, se oggi contempli una prospettiva eco-logica. L’enorme clone dei dati di Facebook e Google è utile solo al capitale. Se invece parliamo di creare infrastrutture pubbliche che non conservano dati e che possono essere usate con formule anche anonime la cosa comincia ad essere interessante.

Molte persone a cui sarà proposto di partecipare al contact tracing non avranno ahimé gli strumenti teorici per valutare con consapevolezza il compromesso a cui staranno aderendo. In Italia (e non solo) la cultura scientifica e informatica è patrimonio di pochi. Come fare per rendere queste conoscenze sempre più a disposizione di tutti?
È chiaro che la cultura – anche quella scientifica – non sarà mai democratica se si risolve solamente in un sapere tecnico come strumento di potere. A questo aggiungiamoci l’istruzione – privata o statale che sia – che prima di tutto insegna a diventare competitivi in termini economici, con voti e punteggi, e capiamo perché la conoscenza non è più concepita come un bene comune. Parallelamente le tecnologie commerciali da anni sembrano essere diventate il principale dispositivo di “civilizzazione”, e pare quasi che la società civile si risolva nell’adozione di uno strumento digitale, nell’essere connessi digitalmente. Ma non è così. Il punto è che l’addestramento commerciale tutto fa tranne che chiederci di interrogarci sul funzionamento dei suoi strumenti. Anche qui il contesto non è democratico. La consapevolezza si crea con un approccio curioso, problematizzante e critico, come da anni facciamo attraverso le nostre formazioni, i corsi di studio e i libri, che proponiamo sia come autori che come consulenti editoriali. Per affrontare il dispotismo, circonfuso di luci, della tecnologia del controllo il sapere non può essere solo tecnico, ma deve essere interdisciplinare. Non c’è studio tecnologico destinato ad avere senso se non è associato alla consapevolezza che, accanto al sapere scientifico, esistono verità e razionalità “altre”. Le nuove generazioni sono chiamate a strappare questo mondo all’ecocidio. Per affrontare le sfide del presente occorre avere una casetta degli attrezzi composita e l’attitudine a mettere in discussione ogni certezza ideologica.

Vogliono far ripartire il Nord con i soldi per il Sud. Una storia già vista

È in arrivo la tempesta perfetta nei rapporti fra Nord e Sud in questo inizio di 2020, causa la pandemia in corso che ha colpito principalmente le popolazioni del Nord a cui va garantita giusta solidarietà, ma che a livello europeo non ha ricevuto particolare vicinanza, come si può evincere dal contrasto fra Stati del Nord contro quelli Sud Europa in merito alle modalità di sostegno all’economia per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. Un contrasto ben riprodotto nelle logiche interne al nostro Paese fra Nord e Sud Italia in merito alla stessa emergenza. Un contrasto che in un caso come nell’altro ha radici profonde e che in Italia si è sviluppato negli ultimi quarant’anni come sottrazione progressiva di risorse al Sud a favore del Nord. Fa quasi sorridere vedere partiti, politici e giornalisti che si lamentano della discriminazione operata verso i Sud d’Europa, di cui l’Italia fa parte nella sua interezza, ma che all’interno dei confini nazionali applicano senza vergogna le stesse ricette e pesi, che rigettano in Europa, nei confronti del Sud Italia. Una situazione di discriminazione in termini di risorse da sempre gestita in modo monoculare dai vari governi che si sono succeduti negli anni e che è accelerata nell’ultimo ventennio con la modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001 con l’avvio del processo di Autonomia differenziata in base alla sola spesa storica e in perenne attesa della definizione di Lep e Lea, con conseguente progressivo trasferimento di risorse dal Sud a vantaggio del Nord per ben 840 Miliardi di Euro nel periodo 2000-20017 come ben dimostrato dall’ultimo rapporto Eurispes di fine gennaio scorso.

Un Sud, che ora ha anche la “colpa”, agli occhi di alcuni razzisti e boiardi di Stato, di essere riuscito coi propri scienziati, medici, politici, cittadini, ad organizzarsi e disciplinarsi contenendo l’ondata pandemica, resistendo anche al “rientro caotico dal Nord” dei propri emigrati innescato da colpevoli anticipazioni governative ai media, pur con mezzi ridotto all’osso dai continui tagli. Un Sud che ha rialzato la testa e perciò deve essere punito, per cui alle discriminazioni e furti già subiti nel recente passato ora se ne potrebbero aggiungere altri.

Vediamo quali in cinque fasi:
– Già l’11 marzo l’Europa per bocca della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, nello stallo che dura tutt’oggi dello stanziamento di risorse europee a favore degli Stati membri ha indicato lo spostamento totale dei Fondi di Coesione destinati al Sud verso il Nord a supporto delle Regioni più colpite.
-Inoltre la Commissione europea, nel quadro dell’iniziativa “Coronavirus Response Investment Initiative”, il 13 febbraio scorso ha dato il via libera alla spesa sanitaria e ha in parte sburocratizzato il sistema di aiuti per le imprese e i cittadini. Nel governo si sta facendo strada l’ipotesi di riprogrammare le risorse sanitarie da Sud verso Nord, a valere sul programma 2014-20 specificando che «l’eventuale maggiore contributo di risorse aggiuntive delle Regioni meridionali all’emergenza Coronavirus, (…) dovrebbe essere oggetto di una successiva ‘compensazione intertemporale’, che avverrebbe attraverso un ristoro premile di risorse dal Fondo di Sviluppo e Coesione per le Suddette Regioni nel ciclo di programmazione 2021-27, da prevedersi nel prossimo Documento di Economia e Finanza e da definire nell’ambito della legge di Bilancio 2021». In poche parole l’ennesima sottrazione di risorse ad una spesa sanitaria che già oggi, grazie a commissariamenti e tagli, in investimenti fissi in Sanità dal bilancio della Repubblica italiana vede spesi per un cittadino calabrese un terzo di quanto si spende per un cittadino piemontese, un quinto rispetto da un emiliano romagnolo, un quarto rispetto ad un veneto, mentre campani e pugliesi si devono accontentare della metà esatta di quanto ricevono i lombardi e di un terzo di quello che incassano i veneti, così come certificano i Conti Pubblici Territoriali della Repubblica italiana. Su questi due ultimi aspetti abbiamo inviato nei giorni una lettera aperta come “Laboratorio-Sud”al Ministro Giuseppe Provenzano.

-Anche per i fondi previsti dal “Piano per il Sud”, presentato in pompa magna dal governo prima dell’inizio dell’emergenza, si prevede uno stop, se non un trasferimento dei fondi al Nord. Ecco forse perché, con “rara attenzione”, sul frontespizio dello stesso appare il mare di Trieste.
-Come da relativa comunicazione la Commissione europea pochi giorni fa ha deciso che non sarà più necessario il cofinanziamento del Governo italiano sui fondi europei, il che si tradurrà in una più rapida possibilità di spesa senza impattare sul piano di stabilità, ma anche in un minor apporto di fondi (il 35%) e visto che gran parte del cofinanziamento riguarda regioni del Sud il tutto si tradurrà nei fatti nell’ennesima sottrazione di fondi al Sud.
-Infine giunge notizia che il Governo, come proposto dal Dipe, si appresta a sospende l’applicazione della “clausola 34%” a favore degli investimenti a valere sulle risorse ordinarie del Sud, anche se il ministro Provenzano su Twitter, pur ammettendo l’esistenza della proposta, ha specificato di essere contrario. Nota bene: il 34% si riferisce alla percentuale della popolazione del Sud, il che prevede la distribuzione degli investimenti in conto capitale delle amministrazioni pubbliche in proporzione alla popolazione, cosa che non è mai stata applicata in passato e forse nemmeno ora. Evidentemente i cittadini del Sud sono, da sempre, considerati di serie B, in barba a Costituzione e diritti di cittadinanza.

Appare evidente, anche da recente dichiarazioni dei “governatori secessionisti”, che l’intenzione, passata l’emergenza, è quella di proseguire con il Regionalismo, cioè un progetto classista, liberista, incostituzionale ed eversivo, che mette in pericolo l’unità stessa del Paese, e porta in gran parte la responsabilità dello smantellamento del Ssn e dell’apertura alle privatizzazioni in campo sanitario in nome di una efficienza che pare non trovare riscontro dagli aspetti che stanno lentamente emergendo soprattutto in Lombardia, e che stanno mettendo a nudo criticità che ci auguriamo siano chiarite al più presto da parte della Magistratura. È chiaro che la pervasiva sottrazione di risorse al Mezzogiorno è supportata dal racconto mediatico di un Nord organizzato e virtuoso opposto ad un Sud sregolato e sprecone. Questa affabulazione, che negli ultimi mesi vede schierati a reti unificate quasi tutti i media preoccupati di difendere lo status quo e la narrazione della “parte sana del Paese”, è quotidianamente contraddetta dalla sempre più evidente malagestione di alcune Regioni del Nord a partire dalla Lombardia. L’epidemia di Covid19 sta infatti facendo emergere crepe sempre più grosse nell’impianto narrativo che dall’Unità in poi è stato utile a mantenere il Sud in stato di perenne sudditanza ed inoltre sta mettendo in evidenza come il Regionalismo in campo sanitario, in casi d’emergenza come l’attuale, sia dannoso per un coordinamento nazionale operativo efficace. Lo vediamo in questi giorni con la fase 2, dove le Regioni avanzano in ordine sparso e dove ognuno sembra poter fare come gli pare.

Inoltre, ora che si procede con le riaperture, spesso in deroga, si può notare una frenesia mediatica in favore del finanziamento della “locomotiva del nord”. Ogni risorsa per gran parte del circuito mediatico-politico deve essere messa in campo per la ripresa e riorganizzazione delle fabbriche del Nord, come scritto chiaramente su di un giornale affine alla destra leghista, “al Nord si vuole tornare a lavorare, non a correre in strada a suonare il mandolino, a cui si aggiungono nelle ultime ore, ad opera sempre dello stesso giornalista, affermazioni televisive quali: “i meridionali sono inferiori a noi settentrionali” in un evidente incitamento all’odio razziale, senza che chi dovrebbe vigilare muova un dito. Una posizione, quella delle riaperture in deroga, in linea con le richieste confindustriali tutte volte alla privatizzazione degli utili socializzando il rischio del contagio. Sarebbe invece utile uscire dal lockdown in modo graduale e per Regione, in base a valutazioni squisitamente sanitarie e non alle volontà delle lobby confindustriali, peraltro in un periodo in cui le garanzie costituzionali sono pericolosamente sospese per Dpcm.

In poche parole come si è visto e a prescindere da cosa accadrà al summit del 23 aprile le ipotesi sul tavolo all’interno dei confini nazionali sono le solite: tagli al Sud e (comunque) soldi a pioggia al Nord. Visto che con le logiche fin qui seguite appare evidente che se l’Italia dovesse ottenere in sede europea quanto auspicabile, cioè nessun indebitamento a fronte di stanziamenti da parte della Bce, come avvenuto in Usa o in Gran Bretagna ad opera delle rispettive Banche centrali, gran parte dei fondi ottenuti andrà come sempre a Nord, insensibili al fatto che il Sud si ritrovi in condizioni infrastrutturali, e non solo, di estrema arretratezza rispetto al Nord, con una percentuale di disoccupati, neet e poveri che non ha eguali in Europa. Molto più semplice spremere come sempre il Sud privandolo di ogni stanziamento nazionale ed europeo invece di percorrere soluzioni diverse però invise a potentati e utili clientele. Ad esempio per finanziare gli interventi pubblici si potrebbe cominciare dal recupero dei 7,5 miliardi di dollari all’anno di tasse sulle imprese con sede nei paradisi fiscali, prevalentemente Ue, invece di dare a queste aziende con sede all’estero anche gli aiuti di Stato, nel cercare di recuperare i miliardi dell’evasione fiscale invece di impegnare uomini e mezzi nella caccia ai runner, di far pagare tasse adeguate alle multinazionali che si arricchiscono sul territorio nazionale invece di favorirle con una tassazione ridicola e casomai di studiare una adeguata tassazione progressiva invece di propugnare tasse piatte.

Questo vecchio approccio del Sud visto come un salvadanaio sempre a disposizione, dopo la presa di coscienza da parte di una moltitudine crescente di cittadini del Mezzogiorno che han preso atto in questa emergenza delle proprie eccellenze, delle discriminazioni da sempre subite a favore di territori la cui “virtuosità ed efficienza”, è stato messo in forte discussione dall’emergenza Coronavirus, potrebbe preludere, visto la contemporanea reiterazione delle richieste di “Secessione dei Ricchi” da parte dei governatori del Nord, le giornaliere e sempre più pesanti provocazioni mediatiche a reti unificate e lo stato di prostrazione economica di sempre più larghe fasce di popolazione del Sud, a quella “tempesta perfetta” prodromica a cambiamenti epocali. Alcuni cambiamenti potrebbero incontrare il favore dell’Europa, a partire da quelle lobby che da tempo “sponsorizzano” la creazione di una Macroregione Alpina che risolverebbe definitivamente le problematiche dell’industria tedesca, a partire da quella automobilistica, che vede proprio nelle tre “Regioni secessioniste” la presenza di filiere produttive senza le quali i colossi tedeschi andrebbero in crisi, come accaduto in questa emergenza, per mancanza di componenti. Prima però “dell’Anschluss” risulta evidentemente utile da parte di una certa classe predatoria del Nord completare del tutto il sacco giugulatorio del Sud affinché nulla di utile sia lasciato alle spalle, in una strategia ben orchestrata ed utile a mettere pezzi d’Italia in piena emergenza Covid19 l’uno contro l’altro.

Per fermare il tracollo nazionale sarebbe invece utile contrapporre alla visione egoistica e razzista del Regionalismo, figlio diretto su scala ridotta del nazionalismo, un progetto unitario di rinascita e coesione nazionale basato su solide tesi gramsciane, il solo che può permettere all’Italia di uscire dalla crisi, dare risposta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini, soprattutto da quei settori che più stanno soffrendo per questa emergenza a Nord come a Sud, e ripartire con eguali diritti e possibilità per ogni cittadino a prescindere dalla latitudine.

Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud-meridionalisti progressisti

The future is progressive, or it’s dead

Hungarian musician and composer Adam Moser plays an accordion on the balcony at his home in Budapest, Hungary, Friday, March 20, 2020. Due to the restrictions imposed to prevent the spread of the coronavirus, the theatrical performances and concerts of the musician were cancelled and he went on a volunteer quarantine with his family. Moser gives a mini-concert on the balcony of his home in Budapest every day at 5 p.m. broadcasted by his wife on the internet. (Zoltan Balogh/MTI via AP)

Thousands are still dying each day because of the coronavirus, but Italy is now leading the downward trend with the rate of spread decreasing. Complacency would be a deadly mistake, but we have reason to believe that the end of the worst phase of the battle is near. However, as Keynes said, after winning the war, there is still a chance to lose the peace. Europe is facing a multiplicity of crises, each potentially deadlier than the corona crisis: a crisis of economic valuation, a health crisis, a democratic crisis and an environmental crisis. As a former progressive MP in Hungary, now an academic living in Italy, I see some frightening similarities between the two countries – but some dim hopes too. There is no question: returning to business as usual will create more suffering than we have seen in the past month.

It is a sign of a profound valuation crisis that the economy allocates resources such that Amazon can hire 100,000 new employees while micro-enterprises that make up 95% of businesses in Italy are struggling to survive. The corona crisis has also thrown in the limelight the absurd gap between the incomes of people whose work secures the foundation of society and the profits of the gamblers of the global financial casino and the barons of big business. As a result of this profound valuation crisis, the coronavirus found Italy as one of the most unequal countries in Europe: the ratio of the income of the top 20% compared to the income of the bottom 20% has risen from 5.4 to 6.5 between 2008 and 2018. The same is true for Hungary. Between 2010 and 2017, the social income support of the top 10% grew by 30.7% and declined by 15.6% for the bottom 10% in real value: a massive redistribution from the bottom to the top. As a consequence, Hungary is now the most unequal country in East-Central Europe. Unequal countries face worse ill health.

In addition to inequality, both Italy and Hungary saw a steep rise in precarious employment and in-work poverty. Hungary experienced massive deindustrialisation during the 1990s while hoping that investments from Europe’s core would offset this trend. It partly did but employment remained strikingly low until 2012. Western assembly plants represent the most competitive sector of Hungary’s economy but domestic companies have been falling behind. Which means that domestic value added is extremely low: the majority of value generated in Hungary flows back to the West. In addition, transnational corporations contribute to rising income inequality.
Italy has been experiencing similar deindustrialisation recently: employment in industry and industrial production declined between 2008 and 2018, as the country is losing out to global – and Eastern European – competition. The number of Italians living at risk of poverty grew from 11.2 million to 12.3 million between 2008 and 2018. The young have been hit particularly hard by labour market turmoil in both countries, leading to extreme levels of youth unemployment (43% in Italy in 2014, 28% in Hungary in 2012). Both countries saw a positive turn with declining unemployment in the past few years, but the price was high: a rise in atypical, precarious employment. Italy saw a profound jump in part-time and fixed-term employment. Labour market protection has been slashed in Hungary as well. Thus, the corona crisis hit not just an unequal but a highly precarious labour force in both countries. Precarious workers face worse ill health.

The crisis of valuation that is generated by markets and intensified by short-sighted governments is also linked to the looming health crisis. Some went as far as to demand human sacrifice on the altar of capitalism, implying that people are for the economy and not the economy for the people. However, several ‘developed’ countries have been facing health problems already before the corona crisis, such as a rise in the so-called diseases of despair, as well an obesity epidemic – one of the most important contributors to the leading causes of premature mortality: cardiovascular disease and cancer. The power of big food companies, the increased anxiety generated by reduced predictability and growing inequalities all contribute to these chronic health problems. Economic crises ‘add the finishing touches’: deindustrialisation, recession and austerity kill tens of thousands of people.

Despite its obvious adverse consequences, Italy has been trapped in a perpetual austerity regime since the 1990s and saw deep cuts to its health care budget (down from 7.4% of GDP in 2010 to 6.8% in 2018). Even worse, the number of acute care hospital beds was halved during the past 20 years. Maintaining a primary budget surplus since the beginning of the 1990s did not help to bring down debt. Austerity and recurring economic crises have killed Italy’s growth prospects, which actually increased the country’s debt burden. Hungary also experienced dramatic cuts to health care, slashing health expenditure from 5.7% of the GDP in 2006 to 4.7% in 2018. The adverse health consequences of underfunded public services became painfully evident during the corona crisis.
The Italian government at least tries to help employees with a job guarantee and a freeze of layoffs. Hungary’s PM Orbán did precisely the opposite: he suspended the labour code to force workers and employers into ‘flexible’ solutions. Hungary is the last country that has not introduced a job guarantee program. And it has one of the worst unemployment insurance schemes in the world that provides assistance for a bare three months to the unemployed. It seems that Hungary’s government is bent on exploiting the corona crisis to deepen inequality and shovel further resources towards the country’s new corrupt aristocracy.

The global race to the bottom on taxation is a main factor behind the austerity trap. Taxes on capital have declined in both countries between 2008 and 2018, while taxes on consumption – that hurt low-income groups more – have gone up. Quite perversely, both Orbán and Salvini, politicians that like to see themselves as alternatives to the global neoliberal-cosmopolitan elites, wholeheartedly embrace this downward tax race. Both of them are campaigning with flat income tax that costs billions in lost revenue, aggravates inequality, and leads to cuts in public services, without spurting economic growth. Orbán also fights avidly against European efforts to harmonise capital taxation, and transformed Hungary into a veritable tax haven with a flat 9% corporate tax.
The health of people and the health of democracy are intertwined. People left behind in regions with high mortality and prevalence of diseases of despair have a higher proclivity to support anti-establishment parties. Trump’s popularity in West Virginia in the US, the high share of Brexit votes in the most depressed and unhealthy towns in the UK hit by years of austerity, or the rising popularity of Lega Nord among workers in deindustrialised towns throughout Italy are cases in point. Strongman politics is on the rise throughout the world: the quality of democracy is declining globally. People failed by the economy, living in health-deprived areas, experiencing increased precarity, rising inequality and the prospect of downward mobility revolt against the status quo. But political strongmen promising a better life and ‘taking back control’ for these people, only exploit them behind the scenes.

However, political bullies like Orbán or Salvini are symptoms, not the root cause of the crisis of liberal democracy. Political bullies see a structural opportunity in these crises generated by today’s faulty economic structures and exploit it to move towards nationalist authoritarianism. That’s what Orbán did with his most recent power grab on the pretext of fighting the coronavirus. However, Hungary has not been a democracy for quite some time but a hybrid authoritarian regime. These multiple crises, the crisis of democracy, the valuation crisis, the growing obesity epidemic, the rise of deaths of despair, and the climate crisis all have a shared root: the power of big businesses, footloose capital, and the false myth that our societies need more market competition.
Does democratic politics have a chance? Politics missed the opportunity to make fundamental changes after the 2008 financial crisis. The corona crisis offers the same opportunity to learn. States have to be the protagonists in this drama if we want to avoid unnecessary suffering. The most valuable things – public goods such as health, sustainability or inclusive development – cannot be entrusted to the markets. They require a creative entrepreneurial state investing in the future.

However, the nation states cannot do this alone. Today’s crises require international, at least European, solutions. Yet, it is unclear if the EU can live up to the challenge. After staring into the deep national-chauvinist abyss, European elites took essential steps towards the solution at the beginning of April. Still no Eurobonds but the new SURE fund to finance job guarantee schemes is a baby step in the right direction. But it is a step that continues the usual visionless ‘muddling through’ strategy, doing just enough to avert the worst.
Instead of solutions that individualise responsibility at the level of nation states, Europe needs Eurobonds. The EU needs to curtail the power of footloose transnational capital and parasitic national bourgeoisies by closing down European tax havens. Europe’s elites need to curb the downward race to the bottom on taxation by introducing European capital taxes and international financial transaction taxes. Europe needs to secure funding for a brave European Green New Deal to kick off an environmental revolution. And finally, the EU needs to allocate at least as much attention and firepower to safeguarding democratic quality as to enforcing austerity. Otherwise, Europe will continue to tumble from crisis to crisis. There is no solution to the intertwined crises of today without more European solidarity and more progressive politics.
These measures might seem revolutionary for a centrist. However, challenging times require revolutionary solutions. The future is progressive, or it is dead.

Dr Gabor Scheiring is a research fellow at Bocconi University, Milan. He obtained his PhD from the University of Cambridge, where he also worked as a research associate. His research focuses on the human price of global economic change and on how this lived experience of class is related to illiberalism. In the 2000s, he was an active member of green and global justice movements. As a founder of a progressive party, he served as a member of the Hungarian Parliament between 2010 and 2014. Recent publications:  

Recent publications: Scheiring, G., Azarova, A., & Irdam, D. 2020. Analysing the health impact of economic change: Insights from a multi-level retrospective cohort study. SAGE Research Methods Cases. doi:10.4135/9781529711189
Scheiring, G. 2019. “Dependent development and authoritarian state capitalism: Democratic backsliding and the rise of the accumulative state in Hungary“, Geoforum, Published online: 5 September 2019, DOI: 10.1016/j.geoforum.2019.08.011

La versione in italiano è stata pubblicata su Left del 10 aprile 2020 

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Saltimbanchi in Senato in piena pandemia

Volete vedere lo spessore dell’opposizione in Italia nell’anno 2020 mentre una pandemia mondiale sta affossando centinaia di vite ogni giorno? Bene, guardatevi quel minuto e mezzo di fischi, improperi, urla e guaiti che rimbalza su tutti i social, con il presidente del consiglio che viene interrotto durante la sua relazione e con la presidente del Senato Casellati che scampanella cercando di fare tornare un po’ d’ordine.

Se non vi basta potete gustarvi le immagini, sempre dei senatori dell’opposizione, con il telefonino alzato per riprendere Conte e poi sputarlo sui loro social con le solite frasi da propaganda che si trasformano in meme o con qualche video pronto a infiammare gli animi.

Non serve nemmeno parlare di contenuti, non contano nemmeno. L’immagine dei saltimbanchi in Senato di ieri, 21 aprile, rende perfettamente l’idea della classe dirigente contrapposta ai cittadini che con molto senso di responsabilità continuano a rispettare le regole e a preservare se stessi e gli altri in questa situazione di crisi sanitaria. Mettete a confronto la rabbia espressa in Aula dai senatori con la lucida fatica con cui milioni di persone si ritrovano ad affrontare una clausura spesso in condizioni difficili e spesso con molte nubi che si addensano sul futuro.

Non è questione di destra o di sinistra: si tratta di interpretare il proprio ruolo nel Paese. La vera classe dirigente, evidentemente, è quella che viene dipinta come sempre intenta a scappare da droni e polizia mentre i comodi senatori non hanno rispetto né per i morti (ma questa è una costante, purtroppo) ma tantomeno dei vivi che li osservano basiti. Probabilmente dimenticano che saranno poi i vivi a doverli votare.

Fate una cosa: i droni, i posti di blocco e gli elicotteri la prossima volta mandateli contro gli esagitati giusti, quelli in Senato.

Buon mercoledì.

There is no alternative agli Eurobond

German Chancellor Angela Merkel, right, sits next to German Finance Minister and Vice Chancellor Olaf Scholz as she attends the weekly cabinet meeting at the chancellery in Berlin, Germany, Wednesday, Feb. 12, 2020. (AP Photo/Markus Schreiber)

Fino a poco tempo fa non esisteva una risposta europea alla crisi causata dal coronavirus e ogni Paese andava da solo. L’Unione europea non era capace di coordinare le politiche. Adesso la situazione è un po’ cambiata. Dopo lunghe trattative finalmente l’Eurogruppo ha trovato un accordo nella notte del 9 aprile. Si è approvato un pacchetto di aiuti di 540 miliardi di euro che poggia su tre pilastri. Il primo: i Paesi più colpiti dal virus possono ricevere dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità) 240 miliardi di euro per combattere le conseguenze della pandemia. Il secondo pilastro è un fondo di garanzia della Banca europea degli investimenti (Bei) con 25 miliardi di euro per permettere alle imprese investimenti fino a 200 miliardi e infine il terzo è costituito dal programma Sure (Support to mitigate unemployment risks in an emergency), 100 miliardi per proteggere i lavoratori – una sorta di cassa integrazione europea. In più – questo si potrebbe chiamare il quarto pilastro – l’Eurogruppo ha preso l’impegno a lavorare per il Fondo per la ripresa economica nei prossimi anni.

Quello che non è stato concordato sono gli eurobond, oggi chiamati anche coronabond. Gli appelli internazionali da parte di economisti, politici, intellettuali ed anche del mondo della cultura, con personaggi di grande rilievo come per esempio Jürgen Habermas o Margarethe von Trotta, non sono stati ascoltati. Questo accordo è fallito per l’opposizione in particolare dei governi dei Paesi Bassi e della Germania. Il governo tedesco – che era già stato responsabile del rifiuto di tali bond e quindi di un aiuto comune alla Grecia con conseguenze catastrofiche a livello umano per il popolo greco – oggi vuole che…

 

* Heinz Bierbaum, docente di Economia all’Università di scienze applicate del Saarland, è presidente del partito della Sinistra europea

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 aprile 

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La libertà a punti

01 April 2020, Berlin: A woman looks at her smartphone at Alexanderplatz. The German government has high hopes for an app for tracking corona infection chains, which is currently being tested in Berlin. In order to slow down the spread of the corona virus, the federal government has further considerably restricted public life. Photo by: Kay Nietfeld/picture-alliance/dpa/AP Images

Ecco che si apre la caciara sull’app di tracciamento. L’argomento del giorno ovviamente si spacca sui tifi opposti, la solita estremizzazione del dibattito e, di conseguenza, la solita banalizzazione. Funziona così, nemmeno la quarantena riesce a insegnare un po’ di educazione alla complessità.

Ritrovano fiato i complottisti (che poi sono gli stessi che regalano dati ai social e ai giochi sul proprio telefono senza nemmeno accorgersene) e dall’altra parte ci sono quelli che in nome della salute sono disposti a tutto, terrorizzati dalla loro stessa paura.

Però ieri è uscito un articolo piuttosto delirante su un noto quotidiano che ci dice che l’installazione dell’app è facoltativa ma comporterà restrizioni per chi non la userà. In sostanza circola la pericolosa idea di una libertà a punti che determinerebbe, come dice giustamente il deputato Filippo Sensi, «decisioni che mettano capo a cittadini di serie A e di serie B sono contro la Costituzione. Il sistema a punti lasciamolo ai paesi autoritari. Sicurezza è libertà».

Al di là delle questioni tecniche dell’app, di cui si sa ancora molto poco e che non promette nulla di buono in termini di trasparenza e di rispetto delle direttive europee, continua a sventolare questa idea che gli italiani siano un popolo di incoscienti scavezzacollo che vadano trattati come dei ragazzini discoli. Mentre la discussione sulla Fase 2 si continua a tenere nelle decine di stanze delle decine di task force qui fuori arrivano solo i bisbiglii di droni, di multe, di controlli e di imposizioni.

Forse qualcuno dalle parti del governo dovrebbe capire il prima possibile che la fiducia nelle istituzioni è l’ingrediente principale per prendere severe decisioni collettive e che la trasparenza non è un esercizio di stile da recitare in qualche conferenza stampa a reti unificate ma è un esercizio quotidiano che ha i suoi luoghi istituzionali, come il Parlamento, ad esempio.

Perché questo giochetto di contrapporre libertà e salute comincia a diventare fastidioso e la fiducia non si declama, si costruisce.

Buon martedì.

In difesa della giustizia sociale, per un contributo straordinario di solidarietà

In questi giorni imperversa il dibattito intorno alle virtù o ai vizi del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Di che cosa stiamo parlando esattamente? Di un possibile prestito vincolato, nella destinazione, del valore del 2% del Pil italiano (circa 36 miliardi) da rimborsare entro dieci anni. Gli alfieri e i detrattori si sono concentrati su argomentazioni di convenienza economica (perché rinunciare ad un prestito concesso a tassi agevolati in un momento di bisogno?) o di rischi per la sovranità nazionale (non dobbiamo legarci mani e piedi ad un meccanismo che ci imporrà decisioni dall’alto). Non è questo però il modo migliore di affrontare la questione perché preliminarmente si pone un’altra domanda: vista la necessità di risorse per contrastare gli effetti negativi del Covid-19, quali sono le altre opzioni disponibili?

Il 10 aprile è stato proposto un contributo straordinario dai deputati Delrio e Melilli, ma dopo l’affossamento di Prodi (14 aprile) pare che l’iniziativa sia caduta nel dimenticatoio. Anche se venisse ripresa sotto forma di emendamento al decreto legge ‘Cura Italia’, non pare comunque essere sufficiente a coprire il mancato gettito del Mes: secondo gli stesi proponenti, il gettito atteso ammonta a 1,3 miliardi annui (Il Sole 24 Ore, 11 aprile). Inoltre, il limite strutturale della proposta Delrio-Melilli risiede nel fatto che il ‘contributo straordinario di solidarietà’ ricadrebbe solo sui contribuenti Irpef con un reddito superiore a 80.000 euro annui. Perché considerare solo i redditi in un paese in cui l’evasione e l’elusione fiscale sono particolarmente elevati? Data l’emergenza, per evitare di contrarre ulteriore debito pubblico (o aprire una linea di credito nell’ambito del Mes) la strada da percorrere è un’altra: un contributo di solidarietà che gravi in modo progressivo sul patrimonio di tutta la collettività. Un provvedimento che consentirebbe a tutti di ‘fare la propria parte’ a partire da principi di solidarietà e giustizia sociale.

Secondo un recente rapporto curato da Aipb (Associazione Italiana Private Banking) e dal Censis, contando il totale di Biglietti, monete e depositi, titoli obbligazionari, quote di fondi comuni e riserve assicurative e garanzie standard, nel 2018 il totale delle attività finanziarie detenuto dalla famiglie italiane era pari a 4.217 miliardi di euro: 2,5 volte circa il Pil italiano. Si tratta, evidentemente, di una quantità ingente di risorse, frutto di anni di risparmi, e che rappresenta il risultato di uno sforzo personale e familiare meritevole di rispetto e di salvaguardia.
Tuttavia, nel momento di assoluta emergenza che stiamo vivendo, un contributo straordinario – che pesi su tutta la comunità politica italiana in modo proporzionale alle proprie disponibilità finanziarie – costituirebbe una risposta collettiva che tradurrebbe lo slogan ‘andrà tutto bene’ in un impegno unitario volto al superamento dell’emergenza. Un impegno che cementerebbe – tra le altre cose – il senso di appartenenza allo stato-nazionale e, perché no, l’orgoglio nazionale.

Una volta accettato il principio di solidarietà sottostante la proposta, tre sono i possibili scenari, che muovono da diverse aliquote di tassazione: 1%, 3%, 5%. Con un’imposta straordinaria dell’1% si riuscirebbe – in tempi molto rapidi – a recuperare approssimativamente una cifra di 40 miliardi: più di quanto si otterrebbe col Mes. Tale contributo consentirebbe al debito italiano – che comunque crescerà a causa del rallentamento dell’economia – di incrementare il meno possibile. Un’imposta straordinaria del 3% (che determinerebbe un gettito di circa 120 miliardi) consentirebbe di tamponare l’emergenza, e avviare in modo spedito la ripresa economica nel corso del secondo semestre 2020. Un’imposta straordinaria del 5% (gettito previsto di 200 miliardi circa) potrebbe dare molto più slancio alla ripresa, tanto da rendere possibile anche una riduzione del debito pubblico – che verrebbe senz’altro molto apprezzata dai mercati. Tale contributo resterebbe straordinario ma consentirebbe anche di avviare un rilancio dell’economia italiana a partire da interventi in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e oltre.

Tre scenari di solidarietà condivisa che richiederebbero, evidentemente, una discussione molto più approfondita sotto il profilo tecnico rispetto a quanto non si possa fare in questa sede, ma che potrebbero costituire una risposta originale in termini di sforzo collettivo – proprio ciò che, in altri modi, ci viene richiesto dall’emergenza sanitaria in corso. Anche nel caso dello scenario minimo si dimostrerebbe che l’Italia può (cominciare a) farcela da sola. Comprensibilmente, proprio come è successo alla proposta Delrio-Melilli, la lotta politica farebbe della proposta un campo di battaglia, e quindi essa non sarebbe accettata da tutti i partiti. Tuttavia, potrebbe rappresentare un gioco a somma positiva, mobilitando fattivamente la comunità politica italiana per il raggiungimento di un grande risultato collettivo: contenere, con le proprie forze, l’impatto socio-economico della crisi. Se il Pd prendesse coraggio, potrebbe costruire una alleanza trasversale a sostegno della proposta e far emergere tutte le contraddizioni del Movimento 5 Stelle che – ben sfidato – difficilmente riuscirebbe a tirarsi indietro. Altri partiti (forse anche dell’opposizione) potrebbero essere coinvolti, in modo da superare i dubbi – molto difficilmente trasformabili in un sostegno – da parte di Italia Viva.

Le obiezioni alla proposta possono essere numerose, ma soffermiamoci su quella potenzialmente meglio fondata: le deboli capacità amministrative delle istituzioni pubbliche italiane. E’ noto che, in termini comparativi, l’amministrazione pubblica italiana a volte ha sofferto in termini di efficienza ed efficacia. Per contenere il rischio, nel caso del contributo straordinario, si potrebbe ipotizzare – in linea con ciò che il governo ha già deciso di fare attraverso l’istituzione di un Comitato di esperti presieduto da Vittorio Colao – un comitato tecnico di sorveglianza formato da tecnici (non retribuiti) che possa vigilare sull’utilizzo delle risorse raccolto attraverso il contributo di solidarietà e, soprattutto, coordinare l’interazione tra i vari livelli di governo coinvolti nell’attuazione della politica. Inoltre, il disegno del provvedimento potrebbe essere tale da favorire le interazioni istituzionali multilivello, rafforzando principi cardine delle riforme amministrative degli ultimi decenni: la responsabilizzazione, la gestione per obiettivi e la valutazione dei risultati. Un banco di prova che potrebbe far esaltare tutto ciò di buono che la pubblica amministrazione – in stretto collegamento con un comitato tecnico di sorveglianza – ha da offrire.
La proposta qui abbozzata non deve essere rubricate rozzamente come ‘patrimoniale’, ma con il suo vero nome: giustizia sociale. E di giustizia sociale – oltre che di solidarietà – oggi abbiamo un gran bisogno.

*

Paolo Graziano e Marco Almagisti sono docenti di Scienza politica all’Università di Padova

Cesare Damiano: «Lo Stato e Bruxelles facciano la loro parte»

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2019 Roma Politica Partito Democratico. Riunione della Direzione Nella foto Cesare Damiano Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 18-06-2019 Roma (Italy) Politic Democratic party. Leadership meeting In the pic Cesare Damiano

«Forse adesso inizia ad essere chiaro che può definirsi morto il liberismo». Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro a cui si deve nel 2008 il Testo unico 81 sulla salute e sicurezza sul lavoro, da poco nominato nel Cda di Inail, ne è convinto: la pandemia da Covid-19 imporrà un nuovo modello sociale ed economico. «Non dico che si debba tornare ad una economia centralizzata, non fraintendiamo, ma lo Stato deve tornare ad avere un ruolo sia nell’economia, sia nella gestione della Sanità che non può essere demandata alle Regioni, come ha dimostrato questo tsunami che ci ha travolto». E, alla luce delle tensioni Stato-Regioni nei giorni dell’emergenza pandemica fa autocritica: «La modifica del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra fu un errore al quale oggi va posto rimedio». In questa intervista a Left Damiano affronta alcune tra le questioni più urgenti che ora più che mai devono trovare risposte concrete ed immediate: sostegno a lavoratori, famiglie e imprese in tempi brevi, sburocratizzazione, emersione del lavoro nero e un’Europa profondamente diversa da come l’abbiamo conosciuta.

Damiano, una lunghissima quarantena destinata a non finire da un momento all’altro. Lei come la sta affrontando?
Come tutti: a casa, osservando le raccomandazioni che il Comitato tecnico scientifico ha dato ai cittadini per arginare il contagio ed evitare che partano nuovi focolai. Sto studiando molto e lavorando per la mia associazione Lavoro&Welfare sui dati socio-economici e sugli effetti che la pandemia avrà. Saranno drammatici qui e nel mondo. E l’uscita da questa emergenza non avverrà nell’ora x: sarà, appunto, lunga e graduale.

L’Europa si sta dimostrando inadeguata rispetto a questa emergenza sanitaria che riguarda tutti gli Stati. Come commenta il primo accordo raggiunto il 9 aprile, niente eurobond e Mes senza condizioni nella Sanità?
Prima di arrivare a questo compromesso la strada è stata tortuosa, l’ostilità dimostrata dalla Germania e dall’Olanda per quanto riguarda gli eurobond non ha fatto bene all’idea di un’Europa come sarebbe necessario. L’accordo all’Eurogruppo non vede né vincitori né vinti, sicuramente non tutte le nostre attese sono andate a buon fine. In ogni caso si tratterà di vedere come si conclude la riunione del Consiglio europeo che si terrà il 23 aprile. Mi sento di fare una osservazione: non mi pare né positivo né lungimirante che…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 aprile 

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E la conservazione degli affetti?

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 29 marzo 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, i ragazzi chiusi in casa passano molto tempo tra compiti ed attività a scarsa mobilità Nella Foto: un tredicenne che vive a Roma Photo Cecilia Fabiano/LaPresse March 29, 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , kids locked down spending a lot of time working on homework and making activities with limited mobility In the pic: thirteen year old boy living in Rome

Che brutta la discussione sulla Fase 2 (scritta in maiuscolo come se fosse il titolo di una nuova serie, una nuova stagione di un reality) che inonda le pagine dei giornali. Tutto un bisbiglio di ministri e sottosegretari e esperti rinchiusi in qualche gruppo di esperti e consulenti che consultano con qualche branchia del governo, i giornali che ospitano opinioni e un presidente del Consiglio che ripete di non ascoltare le opinioni e intanto di aspettare, aspettare. E un Paese ad aspettare, un Paese con l’orecchio appoggiato sul binario in attesa che arrivi un treno che chissà se è mai partito, quel treno lì.

È un dibattito tutto sulla produttività, sul profitto, sulla burocrazia, sull’opportunismo. Circola un’urgenza che immagina un mondo fatto solo di posti di lavoro, di fatturato, di spostamenti da casa alla fabbrica o all’ufficio, di comparti produttivi, di Pil da recuperare. Sia chiaro, lo scrivo forte: il tema del lavoro è fondamentale per la sopravvivenza del Paese e dei suoi cittadini, per chi un lavoro ce l’ha e per chi ha un lavoro che mantenga il livello minimo della dignità.

Ma il resto? I bambini, ad esempio: Fase 2, tutti a lavorare, scuole chiuse, nonni inavvicinabili per questioni di salute e i bambini dove finiscono? Che fanno? Dove stanno? Chi li cura? E poi davvero crediamo ancora, nel 2020, che la scuola per i ragazzi sia solo un percorso di apprendimento e non sia un percorso di crescita personale fatto di esperienze e relazioni? Che fine fanno quelle relazioni? Che strumenti si mettono in campo per alleggerire una sospensione che ha ricadute emotive? Gli si bonifica un’emotività di cittadinanza?

Gli anziani, anche: non essendo produttivi non rientrano in nessuna delle categorie che serve fare ripartire. Quasi tutti sono d’accordo (e lo sono anche gli anziani, eh) che dovranno restare in casa ancora parecchie settimane per preservarsi. Ma c’è un piano per manutenere l’emotività di persone isolate che non hanno possibilità di conservare le proprie abitudini affettive (nel ruolo di nonni o di genitori) per lungo tempo? Che gli si dice, “tenete duro” e a posto così?

E le coppie lontane?

Il prodotto interno lordo degli affetti è davvero così poco importante? Lo lasciamo scivolare? È solo una ricaduta di tutto il resto?

Buon lunedì.

Il coronavirus se ne infischia del muro di Israele

Il mese di marzo, senza incontri, senza abbracci, senza riunioni, è stato pieno di tante e contraddittorie emozioni. Sorpresa di restare a casa in una città deserta e preoccupazione per le persone lontane; affetto per chi si prende senza sosta cura dei malati, e per chi lavora per tutti noi; angoscia per il moltiplicarsi del contagio e delle morti e per le immagini dei camion militari che trasportano le bare di Bergamo. E ancora, commozione per le espressioni di solidarietà da altri Paesi: la Palestina che ci ha inondati di auguri e canti di bella ciao, la Cina, il Venezuela, Cuba, la Russia, l’Albania, che hanno voluto dare anche un aiuto materiale; l’impressione suscitata da un grande ospedale da campo nel Central Park di New York! Grande rabbia e indignazione per l’arroganza delle aziende che vogliono le fabbriche aperte, incuranti della vita delle persone. Continua la produzione di armi, mentre si muore per mancanza di ossigeno: la Confindustria, primo attore della “società incivile”.
Per giorni mi sono mancate le parole, cercavo solo di sapere e capire, leggendo, ascoltando gli scienziati, ma anche le voci di chi soffre e di chi si ribella alle ingiustizie, che il virus non porta via, anzi; i pensieri di chi prospetta un mondo nuovo e di chi pensa che dopo sarà peggio. Ho detestato la retorica commerciale nella pubblicità, la retorica politica sul “grande Paese” che è l’Italia e quella bellica del “siamo in guerra”; sono stata assalita da una triste sfiducia nella “stessa barca” della Unione Europea, dove chi sta al timone non ferma chi cerca di affogare i più deboli…

Un viaggio virtuale
Il 3 aprile sarei dovuta partire per la Palestina. Biglietto comprato, alberghi prenotati. Volevamo assistere al meraviglioso festival musicale di Al kamandjati che si svolge ogni anno, volevamo incontrare amiche e amici palestinesi e israeliani, conoscere le loro opinioni sul deal di Trump, sull’ipotesi molto concreta della annessione, sulle elezioni israeliane… Ai primi di marzo i voli sono stati cancellati, il festival rinviato, il viaggio annullato, le prenotazioni disdette: il virus era all’opera. Non restava che fare un viaggio virtuale attraverso la Palestina ai tempi del coronavirus.
Ho letto e tradotto con Claudia e Gabriella molti articoli. Eleonora, che vive a Betlemme e lavora in Palestina, a casa, nella città isolata, ha scritto contro la falsa retorica mediatica dell’uguaglianza. Grazie anche a molte voci palestinesi e qualcuna israeliana, questo viaggio ha permesso di ricostruire un quadro della Palestina sotto occupazione e sotto coronavirus.

In Cisgiordania
«Il 6 marzo, mentre Betlemme veniva sigillata ancor più di prima, i checkpoints riservati ai coloni illegali che vivono a Gilo, Efrat, Har Homa, ecc. rimanevano aperti al traffico da e verso Gerusalemme. Mentre il tam tam del lavarsi le mani faceva il giro del mondo, a Betlemme gli israeliani continuavano come di norma a negare l’acqua proveniente dai bacini acquiferi che hanno rubato, cosicché le taniche di riserva sui tetti delle case erano quasi vuote», afferma Eleonora.
Il governo israeliano, col suo razzismo, è apparso in controtendenza rispetto al virus che non conosce barriere. «Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale» osserva il direttore di B’Tselem, Hagai Al Ad, che aggiunge: «Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con …

I testi integrali degli articoli citati si possono leggere su palestinaculturaliberta.org/blog

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