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Facciamo vivere la cultura, non basta un fondo nazionale

Mentre si dilatano i tempi imposti dalla pandemia che sconvolgerà le nostre modalità di vita associata – e di vita tout court – su un orizzonte temporale che sembra prefigurarsi ormai ben superiore all’anno in corso, già da qualche settimana si rincorrono appelli e proposte per la ripresa che con l’ottimismo della volontà vorremmo prossima. In tutti gli ambiti, compreso, naturalmente, quello dei beni culturali. Inevitabilmente, pesantissime saranno le ricadute sul turismo culturale che costituisce una notevole percentuale, da alcuni anni in continua crescita, dell’indotto turistico nel suo complesso.

Il tracollo cui la pandemia ha ridotto la prima industria a livello mondiale, quella turistica, ha inevitabilmente riflessi su tutta la filiera delle attività culturali che oggi sta vivendo una fase di criticità senza precedenti, con il serio rischio che molte realtà non possano riprendere le proprie attività, anche quando la fase acuta della crisi sanitaria sarà alle spalle. Parliamo di ciò che si muove attorno al mondo di mostre, festival ed eventi culturali di vario genere, così come per l’intero comparto dello spettacolo dal vivo, come pure del cinema e del suo vasto indotto.

Ma parlare di “industria culturale” significa anche – e soprattutto – parlare delle migliaia di lavoratori ad alta, altissima specializzazione che ne sono il motore e l’anima: dalle guide turistiche professioniste ad attori, ballerini, musicisti che animano i mille eventi di città e paesi in programma ormai nell’intero arco dell’anno; dagli archeologi dei cantieri di archeologia preventiva, ancora al lavoro per giorni prima del lockdown in condizioni precarie di sicurezza, senza protezioni, ai bibliotecari delle tantissime cooperative esterne cui i nostri entri pubblici affidano ormai tutti i servizi, dalla catalogazione ai più complessi servizi di informazione e formazione al pubblico, quali il debunking, appaltati attraverso gare al ribasso, sempre più umilianti. Un esercito di lavoratori che dopo decenni di studio affronta altri decenni di precariato quasi sempre sottopagato e spesso in condizioni di vero e proprio sfruttamento professionale, o di contrazione dei diritti e mortificazione professionale, quale è, ad esempio, la mancata possibilità di progressi di carriera minimamente riconoscibili.

Molto, in queste ultime settimane si è parlato di aiuti – pubblici – per il mondo delle imprese private del settore culturale: appelli sono stati lanciati da tutti i principali attori del settore, da Confcultura a Federculture, alle società che organizzano mostre ed eventi, così come da esponenti del settore a diverso livello. Più volte rimbalzata sui media è poi l’idea di un Fondo nazionale per la cultura, devoluto a prescindere, cioè non sulla base di un qualsivoglia progetto complessivo e garantito, attraverso un meccanismo capzioso di azioni, anch’esso dal patrimonio dello Stato.
Se le richieste di sussidi e aiuti di varia natura si aggiungono e si sovrappongono a quelle di altri settori merceologici, altre caratterizzano specificamente questo ambito: a partire da quella relativa ad una defiscalizzazione fino al 90% (sic!) delle erogazioni liberali, che significa stornate di un bel po’ di denari dalla fiscalità generale, quella con la quale si finanziano ospedali e presidi sanitari, per intenderci.

Nei documenti e appelli che riportano le proposte poco si parla del problema occupazionale: ai lavoratori, al più si riservano provvedimenti tampone, quali l’assegno di 600 euro mensili.
Eppure le imprese che operano nel campo della cultura, così come le Fondazioni, si reggono, per le loro attività, su contratti a progetto, così detti atipici e comunque in larghissima maggioranza a tempo determinato, in sostanza sul lavoro troppo spesso precario di centinaia, migliaia di lavoratori.
Assai indicativo, in uno di questi appelli fotocopia è un passaggio che poco ha a che fare con questioni prettamente economiche, laddove si richiede che lo Stato, fra gli altri favori di cui è richiesto, provveda anche a definire «regole trasparenti e al passo coi tempi in materia di autorizzazioni al prestito delle opere». Che tradotto significa: mani libere su prestiti di opere d’arte di ogni tipo e in ogni condizione. Insomma, parliamo di un settore, quello delle mostre, della decina dei musei e siti blockbusters e dei mille eventi culturali, che si regge su di un oligopolio costituito da pochissime imprese che si spartiscono la grandissima parte della “torta” costruita a partire dal patrimonio culturale pubblico. In quasi un trentennio, tali imprese hanno usato il patrimonio di tutti con zero rischi e forse ancor meno innovazione, in cambio di una produzione – quella delle mostre in particolare – tanto ipertrofica quanto culturalmente debole, ove non dannosa per la salvaguardia dei beni esposti.

Dalle riforme del Mibact, a partire dal 2014, questo meccanismo è stato portato alle estreme conseguenze attraverso la creazione dei musei autonomi, ad oggi quaranta. Come è stato più volte sottolineato il sistema, architettato per attuare le diverse fasi della riforma, risulta costoso e complesso per la creazione di un numero elevato di nuovi Istituti dotati di autonomia speciale, la cui direzione è stata assegnata a direttori, in gran parte esterni all’amministrazione, con una distribuzione del personale assolutamente incoerente rispetto alle esigenze complessive degli uffici periferici e in particolare delle Soprintendenze, e una conseguente moltiplicazione dei servizi relativi al funzionamento, alle attrezzature, agli spazi: parliamo di laboratori, depositi, archivi documentali e fotografici, prima dello smembramento comuni e ora costretti a complessi, costosi e spesso dannosi smembramenti.

La grave crisi economica che ci si prospetta impone, oggi, una revisione anche in questo settore, verso misure indirizzate al risparmio, possibili senza sminuire la visibilità conquistata, se si avrà il coraggio di puntare al patrimonio consolidato, come noto a tutto il mondo, di ineguagliabile valore e ricchezza e su di esso far convergere tutte le risorse, comprese quelle delle società che operano nel settore e di eventuali “mecenati”: un nuovo piano la cui regia non può che essere pubblica. È giunto il momento di orientare l’intero sistema verso un regime economico di sobrietà e di equilibrio finanziario che tenga conto di entrate e costi dei singoli Istituti autonomi e dei luoghi della cultura.
Ciò che non è più possibile mantenere, è, insomma, un sistema “drogato” per ragioni di marketing politico. Per fare un esempio, nella maggior parte dei casi, una vera autonomia, da parte di moltissimi musei e luoghi della cultura, non c’è mai stata: basta pensare al caso di Roma, in cui i fondi per la valorizzazione di tutto il patrimonio (musei, siti, monumenti) derivano sempre ed esclusivamente dagli introiti del Colosseo, concessi agli altri Istituti che, diversamente, non avrebbero strumenti per svolgere tali funzioni. Tutte le risorse, quelle dei bilanci precedenti e quelle che si auspica possano tornare ad esserci, dovranno essere indirizzate alla migliore valorizzazione dei musei, monumenti, siti, in particolare quelli meno frequentati rispetto alle mostre e agli eventi occasionali.

Non si tratta di azzerare tutte le attività, e nello specifico le mostre, ma siamo convinte che l’intero settore – compreso il complesso indotto di trasporti, allestimenti, ecc. – potrebbe reggersi più stabilmente se orientato ad un minor numero di progetti, ma frutto di una reale programmazione culturale, meglio organizzata sul piano territoriale e temporale. Occorre prendere atto che la situazione attuale non è più sostenibile. E non è solo una insostenibilità in termini politici e sociali, ma anche economici e culturali nel senso pieno del termine. Sul piano culturale il progresso reale in termini di fruizione del patrimonio è alquanto irrilevante, soprattutto al confronto con quanto prodotto per il settore educativo e la ricerca scientifica da una sempre più ampia platea di musei internazionali e come dimostrato, ad esempio, da molte delle deboli e spesso raccogliticce produzioni digitali nostrane de la #culturanonsiferma (che spreco rispetto alla ricchezza semantica e iconologica del nostro patrimonio!), nonostante l’impegno di chi vi ha lavorato, pur senza mezzi adeguati dal punto di vista delle tecnologie digitali e cinematografiche.

Sul piano economico, infine, ciò che si è prodotto in questi anni si regge sull’assioma così caro al capitalismo italico di “privatizzare i benefici nei tempi di vacche grasse e socializzare le perdite in tempi difficili”. Come sono gli attuali. I centri storici pressoché desertificati di Venezia, Firenze, Roma e di tutte le nostre città, testimoniano, in modo quasi struggente, il fallimento di un’economia votata alla monocoltura turistica che ha trasformato il cuore delle nostre città in parchi a tema, da cui sono stati espulsi cittadini, a partire da quelli più fragili, e che sono ora diventati scenari spettrali dall’incerto futuro. Ben prima dell’attuale collasso pandemico, insomma, il settore dell’imprenditoria culturale italiana necessitava di una revisione radicale, in grado di rimettere al centro il patrimonio come strumento di progresso civile e sociale e non di solo sfruttamento turistico e come fonte di lavoro equamente riconosciuto sul piano economico e delle tutele professionali.

È tempo di ridiscutere rendite di posizione pluridecennali e già da troppi anni al limite della legittimità e ridistribuire spazi d’azione e risorse alle associazioni di giovani e (ormai) non più giovani professionisti del settore, consentendo lo sviluppo di una imprenditoria finalmente capace di riallineare le pratiche di accesso al patrimonio alle più aggiornate sperimentazioni: è ciò che si merita il nostro patrimonio e chi ci lavora da decenni, quotidianamente, troppo spesso con strumenti spuntati.

*

Le autrici Maria Pia Guermandi è un’archeologa, responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna. L’archeologa Rita Paris, già direttrice del Parco dell’Appia Antica, è presidente dell’associazione Bianchi Bandinelli

L’articolo è stato pubblicato su Left  del 17 aprile 2020 

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Anatomia del caso Lombardia, cosa può imparare la Grecia

La Lega Nord con le sue forze alleate di estrema destra e di centrodestra è responsabile del governo della Regione Lombardia da febbraio 2013. Nel 2018 ha vinto la maggioranza del governo locale con il 49,75% (Lega Nord e alleati) con il Partito Democratico che raggiunge il 19,28% e il Movimento a cinque stelle al 17,8%.

Secondo la Costituzione italiana, i governi locali delle regioni hanno la responsabilità della governance generale della regione, e quindi del settore della sanità pubblica.

La Lombardia ha una popolazione delle dimensioni della Grecia: al 31/12/2018, 10.060.574 persone vivono in una delle regioni più ricche d’Europa. Pertanto, i dati epidemiologici e i dati sul funzionamento del sistema sanitario pubblico possono essere confrontati, a determinate condizioni, con quelli applicabili nel nostro Paese (la Grecia, ndr). Schematicamente, faremo riferimento agli aspetti della gestione della crisi di Covid-19 nella regione più colpita d’Europa.

1. Il costo della pandemia in modo sproporzionato ha gravato sugli anziani. In particolare, il 22% della popolazione di età superiore ai 65 anni appartiene al 56% del numero totale di casi, mentre tra i morti l’87% ha più di 70 anni e solo il 2% ha meno di 65 anni. Molte di queste persone anziane non sono solo vulnerabili perché hanno avuto malattie croniche, ma anche perché vivono sole in condizioni socialmente inaccettabili, senza aiuto domestico e cure primarie o nelle case di cura. Di fronte alle esigenze di questa parte della popolazione, il sistema sanitario pubblico lombardo, frammentato, focalizzato solo su interventi specializzati, estremamente carenti di risorse sanitarie comunitarie, estraneo ai servizi sociali di comuni e comunità, è riuscito a rispondere solo in circostanze urgenti. , scegliendo a causa dell’inflazione delle richieste nelle unità di terapia intensiva, a seconda delle aspettative di sopravvivenza di ciascun paziente.

2. L’onere dell’assistenza medica di emergenza nella fase iniziale è ricaduto sulla rete ospedaliera pubblica. La rete ospedaliera privata, nonostante la sua enorme crescita durante il governo della Lega e nonostante l’assorbimento di significative risorse regionali attraverso partenariati pubblico-privato, è stata chiamata dal governo locale a contribuire con grande ritardo, senza coordinamento e un ruolo specifico. In tutti questi anni del dominio di Lega, anche se il settore privato è stato teoricamente coordinato dalle amministrazioni ospedaliere pubbliche come parte di un cosiddetto sistema di assistenza continua in ospedale / ambulatoriale, i servizi sanitari privati ​​sono stati costruiti autonomamente, soddisfacendo le esigenze sanitarie dei feriti. che avrebbero potuto trarre il massimo profitto e ovviamente non in relazione ai bisogni epidemiologicamente documentati di sanità pubblica della regione. Indicativamente, i letti privati ​​per malattie trasmissibili (infezioni) rappresentano solo il 6% di tutti i letti privati ​​e letti di malattie polmonari solo il 7% rispetto al 74% dei letti per interventi di emergenza e siti di riabilitazione fisica. È chiaro che questo 74% rappresenta il settore più redditizio dei servizi sanitari, rispetto al resto. Di conseguenza, al tempo della crisi sanitaria, e nonostante i recenti appelli del presidente del governo locale, la cooperazione con il settore privato non era determinata da un trattato istituzionale, ma dalla sua inesistente volontà.

3. Il personale ospedaliero pubblico, in prima linea nella battaglia, ha pagato un enorme costo personale (morti, casi, gravemente malati) e ha dimostrato nel modo più drammatico la riduzione dei letti negli ultimi dieci anni rispetto ad altri ospedali europei. regioni, paragonabili alla Lombardia. Per quanto riguarda i letti in terapia intensiva, il numero insufficiente di 850 letti si è già dimostrato insufficiente negli ultimi due anni, al culmine dell’influenza stagionale, che ha messo in luce le gravi lacune nelle cure di emergenza. La riduzione dei letti in terapia intensiva, che è stata decisa dalla Lega, è stata ovviamente accompagnata da una riduzione del personale, dei mezzi tecnologici e delle risorse infrastrutturali, necessari per il funzionamento efficace del settore pubblico delle ICU.

4. Se un altro problema emergente era quello degli interventi chirurgici programmati, a causa dell’urgente riduzione dei letti chirurgici disponibili negli ospedali dichiaranti per Covid-19. In questa situazione critica, quando il governo locale ha fatto appello per il contributo del settore sanitario privato per far fronte alle emergenze (principalmente oncologia), ha pianificato gli interventi in relazione a quelle patologie che erano più vantaggiose in termini di profitto. Questa “pianificazione” è stata fatta in modo completamente opaco, senza la necessaria responsabilità nei confronti dei servizi istituzionali di gestione della salute della regione.

5. Il settore dell’assistenza sanitaria primaria (PHC) non è stato in grado di fornire un contributo decisivo, in quanto potente filtro per il flusso di incidenti negli ospedali. Anche in questo settore, l’isolamento dei medici di medicina generale dal sistema dei medici, la mancanza di mezzi, la mancanza di connessione con le strutture ospedaliere e le loro cliniche ambulatoriali nella selezione dei casi, la drammatica mancanza di mezzi di protezione del personale PHC in ricezione di incidenti. Inoltre, i deficit di sinergia e cooperazione che erano già stati evidenziati in passato dagli operatori sanitari tra governo locale, assistenza domiciliare, centri di prevenzione e interconnessione di servizi sociali e servizi sanitari sono stati notati tra l’altro con il pogrom nelle case di cura, dove il 20% di anziani.

6. La mancanza di cooperazione tra comuni / comunità e servizi PHC al fine di creare una rete di assistenza per i casi che non erano in fase acuta, nonché la riduzione della diffusione del virus da parte dei portatori asintomatici, non era possibile a causa di lacune nell’organizzazione dei servizi.

7. L’assunzione urgente di personale per colmare le lacune è stata affidata al settore privato, senza specificare i criteri di assunzione stabiliti dai servizi sanitari pubblici.

8. Le lacune e le incertezze emerse nella gestione della crisi sanitaria da parte delle regioni, ma soprattutto della Lombardia, il cattivo coordinamento, la mancanza di attuazione di modelli di intervento operativo, hanno mostrato nel modo più chiaro che il decentramento senza regole, principi e limiti non è solo una fonte di disuguaglianza ma anche di grave inefficienza. Per tutti questi motivi, il collettivo “Milano 2030”, che comprende personalità come il professor Angelo Barbato e si compone di una rete di sindacati, associazioni, partiti e movimenti politici di sinistra, nonostante le loro differenze, ha scelto di partecipare a un’iniziativa politica che non ha precedenti storici: richiedere formalmente al governo centrale la rimozione immediata delle responsabilità di sanità pubblica dal governo locale della Lombardia e l’assegnazione a un commissario (Commissario ad acta) di e responsabile della gestione politica. Questa iniziativa, che ha lo scopo di affrontare la terribile crisi e proteggere la salute pubblica, si basa sull’attuazione dell’articolo 32 della Costituzione italiana.

9. Dalla Lombardia abbiamo imparato non solo l’importanza di misure preventive tempestive, come è ampiamente detto, ma anche qualcos’altro che non viene detto: che il potere e l’efficacia di un sistema sanitario pubblico è un valore profondamente ideologico, politico, , infine, morale. L’ideologia neoliberista dei partenariati pubblico-privato, senza un quadro, principi e regole, può essere disastrosa per la salute pubblica. È successo nella ricca Lombardia.

L’articolo originale è stato pubblicato il 17 aprile su tvxs.gr

Traduzione a cura di  Γιώργος Καρνέζης

Trotula, scienziata dell’anno Mille

«Vi dico di una donna filosofa di nome Trotula, che visse a lungo e che fu assai bella in gioventù e dalla quale i medici ignoranti traggono grande autorità e utili insegnamenti. Ci svela una parte della natura delle donne. Una parte può svelarla come la provava in sé; l’altra perché, essendo donna, tutte le donne rivelavano più volentieri a lei che non a un uomo ogni loro segreto pensiero e le aprivano la loro natura». (Anonimo).
Chi parla è un autore francese del tutto anonimo della seconda metà del XIII secolo. E la donna di cui racconta con tanto entusiasmo è non meno misteriosa. Sappiamo che ha nome Trotula (o, forse, Trota), che è nata e vissuta a Salerno nell’XI secolo e che non è una filosofa. Neppure a rigore una filosofa naturale, anche se sa di filosofia naturale. Trotula è un medico. La prima donna medico e scienziata d’Europa. Il suo nome può sembrare strano. Ma lo è solo per noi che viviamo quasi mille anni dopo. Trotula è infatti il diminutivo di Trota, nome assai diffuso in età medioevale nell’Italia meridionale: nei necrologi delle confraternite salernitane tra l’XI e il XIII secolo sono citate almeno 70 donne con questo nome. Vale analogo discorso per Trocta o per Trotta, come qualcuno vuole che si chiami: anche di questi eventuali nomi, Trotula può ben essere il diminutivo. Ci sono alcuni che amano puntualizzare: Trotula è (sarebbe) solo il nome di un libro, Trotula appunto, messo a stampa nel XVI secolo e attribuito a una donna il cui nome reale era Trota. Ma se è così, l’equivoco sarebbe nato molto presto, visto che l’anonimo francese che la chiama Trotula vive nel Duecento. Trotula, dunque, non sarebbe mai esistita e sarebbe semplicemente il titolo di un libro ascrivibile a Trota (o a Trocta o a Trotta). Il nome più gentile si sarebbe imposto per sbaglio. Ma è ormai così diffuso che noi, per semplicità, continueremo a chiamare Trotula la signora, ove anche sia altamente probabile che il suo vero nome fosse Trota.

Che il lettore non si spaventi per questo strano e ingarbugliato incipit. Serve solo a mettere in chiaro fin dall’inizio che della prima donna medico e scienziata d’Europa – Trotula di Salerno – sappiamo poco con documentata certezza. E anche in quel poco che sappiamo, lo avrete già capito, c’è un bel po’ di confusione. Tuttavia, tra ciò che conosciamo per certo c’è che Trotula è realmente esistita. E che nell’XI secolo la sanatrix salernitana, proprio perché donna e proprio perché esponente autorevole della famosa Scuola medica della città campana, gode della fiducia delle sue pazienti. Esattamente come sostiene l’anonimo autore francese. Non si discosta troppo dalla verità storica chi le attribuisce una grande cultura teorica e clinica, pari se non superiore a quella di molti magistri (maestri maschi) della Scuola…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 aprile 

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A caccia di fake news con Carlo Ginzburg

LYON;FRANCE - MAY 31: Italian historian Carlo Ginzburg poses while attending a book fair in Lyon, France on the 31st of May 2008. (Photo by Ulf Andersen/Getty Images)

Marc Bloch, nel suo capolavoro Apologia della storia o Mestiere di storico, ha scritto: «Questa capacità di afferrare il vivente, ecco davvero, in effetti, la qualità sovrana dello storico … . E forse essa è, in principio, un dono delle fate che nessuno potrebbe pretendere di far proprio se non l’ha trovato alla sua culla. Nondimeno, essa ha bisogno di essere costantemente esercitata e sviluppata». Poche frasi sembrano adatte per descrivere l’itinerario di pensiero e di ricerca di uno storico come Carlo Ginzburg. A partire dagli anni 70 con la microstoria ha, insieme ad altri, rinnovato profondamente la storiografia italiana. Da anni prosegue la sua riflessione intrecciando questioni cruciali di metodo e approfondimenti nelle direzioni più originali. Gli abbiamo posto alcune domande, per provare ad affacciarci nel laboratorio dello storico.

Professore, la prefazione de Il formaggio e i vermi da poco ripubblicato da Adelphi contiene una netta e puntuale critica di Foucault. Che ruolo hanno avuto la sua ricerca in particolare e la microstoria in generale, nell’opporsi ad un approccio ideologico nel campo storiografico?
Andrei cauto, perché naturalmente qualcuno potrebbe obiettare che anche la microstoria ha delle implicazioni ideologiche. Credo che la questione si possa formulare nei termini che ho proposto in un saggio, Our words, and theirs (2012), che riflette, a molti anni di distanza sulle mie ricerche passate, compreso Il formaggio e i vermi. Se si esamina il rapporto fra domande e risposte nell’ambito della ricerca appare chiaro che le domande sono sempre, in qualche misura, intrise di ideologia. Ma attraverso il dialogo con le testimonianze del passato è possibile correggere l’elemento anacronistico delle domande da cui si parte. Nel caso di Foucault si riscontra una sorta di violenza prevaricatrice delle domande rispetto alle risposte. In altre parole, quest’uomo, intelligentissimo, che aveva letto moltissimo, era a mio parere prigioniero delle proprie domande. Qui l’elemento ideologico si tocca con mano: una rigidità delle domande rispetto a una possibile e auspicabile flessibilità che consente una loro modificazione nel corso della ricerca. Direi che Foucault trova sempre quello che cerca, punto e basta: e questo è un limite.

Il senso del prefisso micro di microstoria è stato spesso frainteso. In realtà porta con sé uno sguardo, un coraggio conoscitivo, un’ambizione di ipotizzare ricostruzioni che è assolutamente macro…
Il prefisso micro è stato inteso troppo spesso, anche da studiosi molto noti, come relativo alla piccolezza, ossia alle dimensioni, reali o simboliche, dell’oggetto; invece il micro è relativo al microscopio, cioè allo sguardo adottato, che è uno sguardo analitico. A questo proposito ricordo sempre che la collana Microstorie, di cui eravamo responsabili Giovanni Levi ed io, pubblicata da Einaudi a partire dal 1981, si aprì con un mio libro su Piero della Francesca: un pittore che non può certo essere considerato piccolo, da nessun punto di vista! Quindi lo sguardo analitico può essere rivolto su grandi temi, affrontati da un punto di vista inatteso, come nel libro su Galileo di Pietro Redondi. La possibilità di stabilire una connessione micro-macro esiste: a questo punto entra in gioco la generalizzazione. Nel caso del Formaggio e i vermi, c’era, è vero, un personaggio del tutto ignoto, in cui io mi sono imbattuto per caso. Ma anche lì mi sono posto il problema della generalizzazione: per esempio quando, confrontando i libri letti da Menocchio con il…

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Mortalità e coronavirus, quando dati veri diventano fake news

Abbiamo un governo che fa fatica a comunicare. Questo è ormai chiaro a chiunque anche soltanto facendo il confronto con altri paesi dove i capi di stato spiegano quotidianamente con l’aiuto di slide e con un linguaggio chiaro quello che fanno e quali sono i tempi stimati per uscire dal lockdown e il modo in cui si pensa di farlo.

A questa incapacità di comunicare del nostro governo dobbiamo purtroppo aggiungere lo scandalo di quotidiani nazionali importanti che non si capisce se fanno apposta a pubblicare articoli e “notizie” del tutto errate (per non dire false).

Parlo del Sole 24 ore che il 17 aprile ha pubblicato sul suo sito un articolo a firma di Paolo Becchi (professore ordinario di Filosofia del Diritto presso l’Università di Genova) e Giovanni Zibordi (trader e consulente manageriale e finanziario) dove si sostiene, sulla base di dati Istat, che la mortalità in Italia nei primi 3 mesi e mezzo del 2020 sarebbe complessivamente minore di quella dell’anno scorso e degli anni precedenti, malgrado l’epidemia di Covid.

Da questo dato fanno una serie di considerazioni “politiche” tra cui quella per cui il lockdown italiano sarebbe eccessivo perché la mortalità relativa (cioè i morti per milione di abitanti) è più alta di quella di paesi in cui il lockdown è più leggero.

Gli autori sostengono quindi che il nostro lockdown in realtà non è servito a nulla, sia perché i morti sono di meno, sia perché la mortalità relativa è più alta.

Ora io capisco che Confindustria voglia uscire al più presto dal lockdown e che il suo giornale spinga in questo senso. Ma questo articolo è scandaloso perché si basa su numeri male interpretati e le considerazioni che fa sono completamente errate.

I numeri riportati nell’articolo sono sbagliati perché l’Istat ancora non sa qual è il numero complessivo di morti che si sono avuti in Italia dall’inizio dell’anno!

I dati pubblicati dall’Istat in questi giorni sono quelli ricevuti da una parte dei comuni che rientrano nell’Anpr (Anagrafe nazionale della popolazione residente).

I comuni Anpr sono quelli che trasmettono i dati all’Istat quasi in tempo reale e sono i 3/4 del totale. Gli altri comuni forniscono i dati all’Istat in modo più lento e ci vogliono 4 mesi per averli elaborati e inseriti nelle tabelle.

Tra tutti i comuni Anpr (5.866) sono stati selezionati solo quelli (1.689) in cui ci sono stati almeno 10 morti nel 2020 e che hanno avuto un incremento complessivo della mortalità di almeno il 20% rispetto alla media degli anni scorsi.

Tra questi 1.689 comuni ci sono molti dei comuni che sono stati colpiti dall’epidemia. Sono quindi dei dati preziosi da cui si possono ricavare delle informazioni molto interessanti.

Non possono però essere considerati per ricavare il totale dei decessi! Ed è incredibile doverlo spiegare!

Ovviamente c’è scritto chiaramente sul sito dell’Istat se si ha la pazienza di leggere. C’è anche una infografica semplicissima, sempre a leggerla…

Il dato VERO che emerge è che, in quei 1.689 comuni fino al 3 aprile 2020 ci sono stati 18.337 morti in più rispetto al 2019 (78.555 vs 60.218) e poco di più rispetto alla media 2015-2019 (59.917).

Altro che meno morti del 2019…

Si può discutere di tutto anche in maniera forte, ma per favore cerchiamo di fare attenzione ai dati di cui parliamo.

Altrimenti poi si rischia di determinare comportamenti realmente pericolosi.

Questo vale per tutti ma sarebbe più che obbligatorio per i grandi media come il Sole24ore.

*

UPDATE ore 21.03: In calce all’articolo del Sole24ore è comparso un comunicato del Comitato di redazione che ne prende le distanze. E a metà pezzo è stata pubblicata una precisazione dell’Istat.

==> L’immagine è stata realizzata da me con una tabella pivot di excel elaborata sui dati Istat che si possono trovare qui: https://www.istat.it 

Qui la pagina dell’Istat con i link a tutte le tabelle con i dati aggiornati (oggi 18 aprile) al 3 aprile (con il passare del tempo le tabelle verranno aggiornate con nuovi dati): https://www.istat.it/it/archivio/240401

Tra le cose che si trovano in questo pagina ci sono:
==> Un sistema interattivo per graficare l’andamento cumulativo dei decessi: https://www.istat.it/it/archivio/241428

 

Una infografica che spiega come sono raccolti i dati dei decessi

 

 

Reddito minimo, in Spagna è una questione vitale

O desafío do líder de Unidas Podemos e o malestar do PSOE hibernan a coalición Sánchez escucha la intervención de Iglesias, durante el pleno del Senado del pasado febrero Sánchez escoita a intervención de Iglesias , durante o pleno do Senado do pasado febreiro Sánchez ascolta l'intervento delle Chiese, durante la sessione plenaria del Senato dello scorso febbraio © KIKO HUESCA | EFE

La situazione continua ad essere critica per la Spagna, per il numero di decessi e di contagi registrati. Quindi nessuna attenuazione del confinamento, o forse sì, ci sarà un parziale ritorno all’attività di settori come l’industria e l’edilizia, ma il presidente del Consiglio Sánchez ha ribadito che non è immediata l’entrata in una seconda fase e ha sottolineato che semmai dovrebbe essere immediato l’allentamento della tensione politica. Anche Iglesias, vicepresidente del governo, in una intervista televisiva, ha cercato di richiamare l’opposizione delle destre a misurare le critiche all’esecutivo con la dimensione inedita dei problemi che la diffusione del coronavirus ha creato alla Spagna.

Missione impossibile. Le destre proseguono con una campagna irresponsabile e violenta. In realtà a Casado, segretario del Pp, e ad Abascal, leader di Vox, del diffondersi del virus nella popolazione non interessa più di tanto. Quello che preme loro è destabilizzare la maggioranza che sostiene il governo, approfittare del dilagare dell’infezione per cacciare Sánchez e smontare l’alleanza fra il Psoe e Unidas Podemos. Cinismo e sistematica alterazione della verità sono gli ingredienti della campagna di delegittimazione.
Non potendo attaccare sulle lacune della sanità pubblica – perché proprio le destre, al governo in Spagna fino a qualche mese fa, sono le principali responsabili dei tagli indiscriminati che hanno reso il servizio sanitario debole e carente e oggi non fanno alcuna autocritica – i partiti dell’opposizione addossano il dilagare del virus alla decisione del governo Sánchez di non aver impedito i gremiti cortei femministi dell’otto marzo.

Strumentalizzazione dei morti da parte della destra per cercare di rovesciare il governo, eludendo la sua parte di responsabilità nella gestione, esagerando gli errori degli altri e nascondendo i propri. Intanto Sánchez medita di convocare una riunione con tutte le forze politiche per una proposta che si ispira al Patto della Moncloa, quello del 1977, durante la presidenza di Adolfo Suarez, quando il Paese…

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Quel pasticciaccio brutto della Regione Lombardia

Foto LaPresse - Mourad Balti Touati 23/09/2019 Milano (Ita) - Piazza Citta' di Lombardia Cronaca A Palazzo Lombardia conferenza stampa di presentazione delle celebrazioni ed eventi per gli 80 anni dell'Ospedale Niguarda con la presenza del Presidente di Regione Lombardia e del Sindaco di Milano Nella foto: Marco Bosio, Giulio Gallera, Attilio Fontana, Giuseppe Sala Photo LaPresse - Mourad Balti Touati 23/09/2019 Milan (Ita) - Piazza Citta' di Lombardia News A press conference at Palazzo Lombardia to present the 80th anniversary of the Niguarda Hospital with the presence of the President of the Lombardy Region and the Mayor of Milan In the picture: Marco Bosio, Giulio Gallera, Attilio Fontana, Giuseppe Sala

«Come Confindustria ci stiamo “battendo” affinché nelle nostre fabbriche tutto questo finisca il prima possibile, che almeno sotto l’aspetto lavorativo si torni quanto prima a una “normalità” perché siamo da sempre certi che le nostre fabbriche siano i posti più sicuri dove stare, perché siamo da sempre sicuri che le norme di sicurezza sanitaria che ognuno di noi ha messo in atto ci permettono di lavorare in assoluta tranquillità, perché siamo sicuri che per ognuno di noi ancor prima del profitto quello che da sempre ci contraddistingue è la tutela del benessere dei nostri collaboratori, che da sempre per noi sono il “bene” più prezioso delle nostre aziende». È un brano della lettera che Claudio Schiavoni, presidente di Confindustria Marche Nord, ha scritto ai suoi associati in occasione delle feste pasquali.

Dopo oltre 50 giorni di lockdown e contagi, se ovviamente non abbiamo elementi per dubitare della buona fede di Schiavoni, ne abbiamo però a sufficienza per ritenere che in Italia durante l’esplosione del coronavirus una parte degli imprenditori non ha affatto anteposto «la tutela del benessere dei loro collaboratori» al «profitto». Ripercorriamo questa vicenda per gradi: è importante che non venga rapidamente dimenticata quando nel dibattito pubblico la gestione dissennata della crisi sanitaria verrà oscurata dall’attenzione rispetto alla ripresa, alla fase due.

Il 28 febbraio l’Associazione degli industriali bergamasca diffondeva un video intitolato “Bergamo is running”, Bergamo sta correndo, col quale…

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Discriminazioni contagiose

Se c’è una verità, tra quelle «di per sé evidenti» della Dichiarazione d’Indipendenza americana, che durante l’emergenza Covid-19 è stata (nuovamente) tradita, è che gli uomini sono tutti uguali.
Negli Stati Uniti questa pandemia sta mostrando infatti con sempre maggiore evidenza la gravità delle disuguaglianze che si sono create negli anni a livello sociale e non solo.

Durante la settimana che è terminata con il 21 marzo le richieste di unemployment insurances, i sussidi di disoccupazione, hanno avuto un’impennata senza precedenti: si è passati da 281 mila a 3,3 milioni, aumentate ancora nelle settimane successive fino a oltre 16 milioni di richieste. Un record che supera di gran lunga quello precedente, cioè le 695 mila richieste che risalgono al 2 ottobre 1982. Il coronavirus ha colpito duramente i lavoratori statunitensi: secondo un sondaggio di Data for progress, il 33% degli intervistati aveva già perso il lavoro ad inizio aprile, oppure era stato messo in congedo non pagato, aveva subito una sensibile riduzione delle ore di lavoro oppure era stato messo in aspettativa. Tra questi, il 41% si aspettava di avere problemi a coprire le spese necessarie a sopravvivere già nell’immediato.

Per sopperire a questa crisi non solo sanitaria, ma anche economica, il presidente Donald Trump ha stanziato una misura da più di duemila miliardi di dollari che prevede un assegno da 1.200 dollari per gli adulti e da 500 per i minori di 17 anni. Secondo il sondaggio di Data for progress, però, si tratta solo di un palliativo, insufficiente a coprire le spese di una famiglia americana media. Uno degli aspetti più gravi della perdita dell’impiego per un adulto negli Stati Uniti è che molto spesso l’assicurazione sanitaria, indispensabile per potersi permettere qualsiasi tipo di trattamento ospedaliero, è vincolata al contratto di lavoro. Questo tipo di assicurazione è il più diffuso tra chi ha meno di 65 anni, l’età in cui quasi tutti gli americani diventano idonei per il programma Medicare, che è gratuito. Tra i nuovi disoccupati a causa del Covid-19, molti potrebbero rimanere senza assicurazione sanitaria, mentre altri potrebbero richiedere l’iscrizione ai registri del Medicaid, altra forma di sanità gratuita riservata a chi si trova sotto la soglia di povertà stabilita dal governo federale (17.618 dollari per adulto e 36.158 per una famiglia di quattro persone, come riporta il Philadelphia Inquirer). Sembrerebbe tutto a posto, se non fosse che occorrono più di 30 giorni per essere registrati a Medicaid, dopo un impegno notevole sia nel procurarsi i documenti necessari che nella …

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Lettera aperta di 100mila medici e odontoiatri al ministro Speranza

Al Ministro della Salute on. Speranza
Ai Governatori di tutte le Regioni
Al presidente della FNOMCEO dott. Filippo Anelli
Ai Presidenti Federali degli Ordini dei Medici Regionali

Siamo un gruppo di circa 100.000 Medici, di tutte le specialità e di tutti i servizi territoriali e ospedalieri sparsi per tutta Italia, nato in occasione di questa epidemia, che da quasi 2 mesi ormai, sta scambiando informazioni sull’insorgenza della malattia causata dal Coronavirus, sul come contenerla, sul come fare, a chi rivolgersi, come orientare la terapia, come e quando trattarla, e siamo pressoché giunti alle stesse conclusioni: i pazienti vanno trattati il più presto possibile sul territorio, prima che si instauri la malattia vera e propria, ossia la polmonite interstiziale bilaterale, che quasi sempre porta il paziente in Rianimazione.
Dagli scambi intercorsi e dalla letteratura mondiale, si è arrivati a capire probabilmente la patogenesi di questa polmonite, con una cascata infiammatoria scatenata dal virus attraverso l’iperstimolazione di citochine, che diventano tossiche per l’organismo e che aggrediscono tutti i tessuti anche vascolari, provocando fenomeni trombotici e vasculite dei diversi distretti corporei, che a loro volta sono responsabili del quadro variegato di sintomi descritti.

I vari appelli finora promossi da vari Organismi e Organizzazioni sindacali, che noi abbiamo condiviso appieno, sono stati rivolti a chiedere i tamponi per il personale sanitario, a chiedere i dispositivi di sicurezza per tutti gli operatori, che spesso hanno sacrificato la loro vita, pur di dare una risposta ai pazienti, non si sono tirati indietro, nessuno. Proprio per non vanificare l’abnegazione di medici e personale sanitario, oltre ai Dispositivi di Protezione e ai  Tamponi, chiediamo di Rafforzare il Territorio, vero punto debole del Servizio Sanitario Nazionale, con la possibilità per squadre speciali, nel decreto ministeriale del 10 Marzo, definite USCA, di essere attivate immediatamente in tutte le Regioni, in maniera omogenea, senza eccessiva burocrazia, avvalendosi dell’esperienza di noi tutti nel trattare precocemente i pazienti, anche con terapie off label, alcune delle quali peraltro già autorizzate dall’Aifa.
Siamo giunti alla conclusione che il trattamento precoce può fermare il decorso dell’infezione verso la malattia conclamata e quindi arginare, fino a sconfiggere l’epidemia.
Il riconoscimento dei primi sintomi, anche con tamponi negativi (come abbiamo avuto modo di constatare nel 30% dei casi) è di pura pertinenza Clinica, e pertanto chiediamo di mettere a frutto le nostre esperienze cliniche, senza ostacoli burocratici nel prescrivere farmaci, tamponi, Rx e/o TC, ecografia polmonare anche a domicilio, emogasanalisi, tutte cose che vanno a supportare la Clinica, ma che non la sostituiscono.
Lo chiediamo, indipendentemente dagli schieramenti politici e/o da posizioni sindacali, lo chiediamo come Medici che desiderano ed esigono di svolgere il proprio ruolo attivamente e al meglio, dando un contributo alla collettività nell’interesse di tutti.
Lo chiediamo perché tutti gli sforzi fatti finora col distanziamento sociale, non vadano perduti, paventando una seconda ondata di ricoveri d’urgenza dei pazienti tenuti in sorveglianza attiva per 10-15 giorni, ma che non sono stati visitati e valutati clinicamente e che ancora sono in attesa di tamponi.
La mappatura di questi pazienti, asintomatici o paucisintomatici, e di tutti i familiari dei casi conclamati è oltremodo indispensabile per non incorrere in un circolo vizioso, con ondate di ritorno dei contagi appena finirà il “lockdown”.

L’arte di uscire dalla crisi: Cristina Cobianchi

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sara passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Cristina Cobianchi, fondatrice e presidente di AlbumArte, risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Nessuno si sarebbe mai aspettato una cosa come questa. Una specie di apocalisse, quella che abbiamo sempre sperato di non sognare la notte, perché sarebbe stato un incubo che ci avrebbe fatti risvegliare prede di un’ansia incontrollabile che ci avrebbe condizionato la giornata.

E invece eccoci qui, all’inizio increduli e recalcitranti a spacciarla per influenza, poi sempre più impauriti, confusi, diffidenti, smarriti. Tutti a casa, ognuno rimasto con il suo piccolo cielo dalla sua piccola finestra e il suo piccolo scorcio di città, rimasta, a poco a poco, deserta. I primi giorni di domicilio forzato, la mente era ancora pronta ad agire, a creare, ad ispirarsi, non aveva perso la progettualità e la proiezione nel futuro, come per una specie di abbrivio della vita stessa. Poi abbiamo imparato anche a rendere quella mente, abituata a una vita sollecitata da un ritmo che ora stentiamo a sentire nostro, meno attiva, per pensare meno, sperando che così tutto potesse essere più facile da sopportare.

Proprio il primo giorno in cui siamo rimasti a casa e forse proprio perché all’inizio, perché probabilmente, poi, non ne sarei stata più capace, ero al telefono con un artista e, prendendo spunto delle nostre prime reazioni, abbiamo deciso di realizzare la prima mostra virtuale di AlbumArte, che fosse una riflessione sul tema della casa in tutte le sue declinazioni. Abbiamo attinto alla nostra comunità artistica, ormai consolidata e in 24 ore, ben 46 artisti e artiste si sono resi disponibili a scegliere tra i loro lavori qualcosa di inerente al concept della mostra. Abbiamo redatto il press kit e inviato a tutta la stampa, organizzato un opening virtuale realizzato solo attraverso brevissimi video degli artisti coinvolti, abbiamo continuato a postare due opere al giorno sui nostri profili social e, a fine mostra, realizzeremo una gallery di tutte le opere sul nostro sito e un catalogo virtuale. Una vera mostra, ma on line. Anche i video postati per l’opening, verranno raccolti in un unico lungo video, che sarà testimonianza di un momento molto preciso della nostra storia. La nostra comunità creativa vuole così testimoniare una partecipazione umana oltre che artistica, una presenza attiva e propositiva che affronta le difficoltà e ne rilancia i contenuti. Un’artista coinvolta nel progetto scrive “per molti di noi l’arte è una leva per afferrare il mondo” e questo è lo spirito con il quale abbiamo affrontato il progetto, che, per fortuna è stato molto apprezzato ed è stato per tutti noi una delle poche note liete di giornate dedicate alla tristezza e alla preoccupazione.

Ma malgrado i tanti volonterosi tentativi di offrire validi contenuti al tormento dello spirito, questa emergenza è molto dura da affrontare.

C’è chi suggerisce di utilizzare questo periodo per approfondire la conoscenza di se stessi, chi pensa che anche questo proposito, senza strumenti adatti, sia rischioso. Chi spera che l’umanità ne uscirà migliore, chi ritiene che comunque finalmente la terra respiri, ma, purtroppo, una cosa è forse più certa: molti moriranno e moltissimi ne usciranno economicamente distrutti.

In mezzo ai lavoratori in futura difficoltà, ci sono quelli delle arti e della cultura e, tra questi, il settore dell’arte visiva, che comprende molti professionisti indipendenti, i quali, come sappiamo, non sono sufficientemente tutelati. Un artista non ha un albo professionale forte e strutturato, o un progettista di attivazione culturale, un curatore free lance, quelli che recensiscono le mostre per i più noti quotidiani specializzati on line, neanche. Molti rientreranno tra i soggetti a partita IVA, per i quali stanno uscendo provvedimenti, ma il settore nel suo complesso, sofferente da sempre, da questa tragedia, prima di tutto umana e in un secondo tempo umana ed economica, ne uscirà malissimo.

Sarebbe interessante che si potesse creare una piattaforma progettuale dove interagire per poter offrire e attingere a contenuti e proposte che possano far arrivare a una visione diversa della programmazione artistica, della sua diffusione e soprattutto del suo sostentamento. Ma ritengo che tutto quello che pensiamo e cerchiamo di progettare per il futuro adesso, debba necessariamente essere modificato di ora in ora ed è proprio questo destabilizzante tempo sospeso che ci fa comprendere che dobbiamo fermarci e cercare di ri-capire, con tempi che non possiamo più immaginare di gestire, almeno non nell’immediato. Non si può neanche riprogrammare le mostre finché non si definiscano i termini temporali della questione, perciò immagino che ideare gli antidoti alle conseguenze economiche, sia ancora più difficile. Un fondo statale, pubblico o privato? E in quali modalità? E le mostre cambieranno come cambieranno gli appuntamenti della filiera economica dell’arte? In meglio o in peggio? Cosa sarà il meglio e il peggio dopo il corona virus (perché ci sarà un prima e un dopo)? Secondo quali parametri verrà definito? Quali saranno i nuovi paradigmi e le nuove coordinate del nostro lavoro? Purtroppo non possiamo dirlo adesso o forse neanche cercare di immaginarlo.

Io nella mia esperienza ho di nuovo potuto costatare l’importanza della comunità coesa e penso che il concetto di comunità e di condivisione possa essere un attore importante per il prossimo futuro, sia sotto il profilo di categoria contrattuale, che per una nuova sentita creatività.

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