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La politica e il virus dell’anaffettività

Nel mese di marzo è uscito un numero della rivista scientifica The Lancet che analizza gli effetti dell’epidemia da Covid-19 sulla popolazione dei bambini e degli adolescenti. L’articolo sottolinea la bravura del sistema amministrativo del ministero dell’Istruzione cinese nell’approntare, in pochissimo tempo, una rete telematica di corsi online ben organizzati, grazie agli sforzi e alla collaborazione degli insegnanti. Queste misure hanno attenuato l’ansia dei genitori per gli esiti che, l’interruzione obbligata dei corsi scolastici, avrebbe prodotto sull’apprendimento dei loro ragazzi. L’articolo continua dicendo che, nonostante questi sforzi e queste misure siano necessarie e lodevoli, possiamo pensare che ci siano altre motivazioni che renderebbero la prolungata chiusura delle scuole e il confinamento a casa, dannosi per la salute fisica e mentale dei ragazzi.

Gli autori dell’articolo osservano che, durante i normali periodi di vacanza, i ragazzi passano molto più tempo davanti al computer o alla televisione, hanno abitudini dietetiche poco sane e ritmi di sonno irregolari. Ma sempre secondo gli autori, un problema più importante e forse trascurato è l’impatto psicologico di alcuni elementi stressogeni. La perdita dei rapporti con i compagni di classe e gli amici, con gli insegnanti, la paura del contagio, la scarsa informazione, la noia e la perdita del lavoro dei genitori, possono avere un effetto più duraturo e dannoso, sulla salute psichica dei bambini e adolescenti. La quarantena da Covid-19 potrebbe causare uno stress post traumatico, come è già stato documentato per eventi simili. L’interazione tra lo stress psicologico e il cambiamento dello stile di vita potrebbe aggravare il fenomeno che il confinamento in casa ha sulla salute mentale e fisica dei ragazzi.

Il governo, la scuola e i genitori consapevoli di questi aspetti negativi dovrebbero…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 aprile 

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SOMMARIO

Fase 2: alcune certezze, tante incognite

In questa magmatica situazione, inondati da informazioni di ogni genere e qualità, presi dal legittimo desiderio di tornare almeno ad una parvenza di vecchia normalità può essere difficile identificare gli elementi che ci consentano di inquadrare più correttamente la situazione. Ci sono alcune certezze, molte cose dubbie e troppe cose che non sappiamo. Cerchiamo di individuare alcuni degli elementi più importanti per le nostre opinioni.

Le cose certe
Siamo ancora nella fase 1 e la fase 2, a meno di pericolose forzature, non è dietro l’angolo; la discesa dei numeri è ancora troppo lenta e non è trascurabile il rischio di una micidiale seconda ondata che ci costringerebbe a stare a casa per ancora più tempo e ucciderebbe molte altre persone e l’economia. Informazioni un po’ più precise sono quelle delle singole regioni che però viaggiano con tempi e valori diversi e sono tutte ancora molto vulnerabili; la media italiana è troppo condizionata dalla Lombardia e quindi poco significativa ma comunque dà un’idea di ciò che accade. Sottostimati a volte alcuni aspetti (le morti ed i contagi). Non si può gestire bene nulla senza dati sufficienti ed affidabili.

Il numero dei tamponi è particolarmente delicato; farne pochi significa, tra l’altro, tenere artificialmente basso il numero dei positivi e delle morti. La scelta e la responsabilità politica e tecnica rispetto a dove farli ed a chi farli è esclusivamente regionale e locale. È fuorviante considerare solo il loro numero sull’intera popolazione; deve essere invece normalizzato (tamponi / 100.000 abitanti); evidente che i 10 milioni di abitanti della Lombardia non sono i 320.000 del Molise. Il numero dei posti letto liberi in TI detto così significa molto poco; servono altri dati (che forse non avremo mai) tra cui anche quelli scabrosi relativi ai criteri di selezione dei pazienti da non ricoverare in TI. La lenta discesa della curva significa che il contrasto attivo al virus sul territorio è ancora debole e insufficiente e che le misure collettive e individuali di contenimento, non essendo quelle cinesi, sono ancora lente.

La strage di sanitari in ospedale e nel territorio e l’enorme numero di contagiati poteva essere in gran parte evitata con una corretta gestione delle protezioni e dei tamponi; la responsabilità non ha scusanti ed è tutta regionale e aziendale.  L’autonomia regionale in ambito sanitario ha dimostrato tutto il suo fallimento; i molti modi di fare le stesse cose hanno fortemente condizionato la capacità di risposta all’epidemia anche in termini di contagi e morti. Evidentissima l’insofferenza di alcune regioni alle disposizioni nazionali salvo pretendere risorse anche a discapito di altre regioni; sovranismo becero in salsa regionale.

Il territorio
La sanità territoriale è l’elemento più vulnerabile e sottovalutato di tutto il sistema; la sua diffusa inadeguatezza ha compromesso la funzione di barriera alla diffusione del virus, il trattamento precoce dei pazienti, la sorveglianza delle Rsa e la protezione degli ospedali. I risultati delle poche eccezioni lo confermano ulteriormente. Puntare solo sul potenziamento degli ospedali e delle TI ignorando il territorio è stato colpevolmente e palesemente perdente. Fondamentale per uscirne dalla situazione è la sorveglianza epidemiologica attiva: individuazione dei positivi, isolamento, trattamento precoce e individuazione dei contatti e per ognuno di questi ripetere il ciclo; l’Oms lo dice da decenni. La chiusura ed il distanziamento sociale hanno funzionato. Potevano fare di più se ci fossero stati meno furbi, un senso civico diffuso e se alcune attività industriali fossero state chiuse davvero e prima; gli opposti estremi di Codogno, Vò e Bergamo confermano e dovrebbero insegnare molto.

L’industria in questa storia ha ancora oggi un ruolo spesso negativo per la finta incapacità di comprendere che la salute viene sempre prima degli affari; gli evitabili e tragici fatti della bergamasca speriamo siano almeno da monito per la fase 2. Un vigile compromesso, che non può però essere suicida, è realisticamente necessario anche per salvaguardare il lavoro e l’economia. Con questi numeri non si può oggi pensare ad una fase 2 imminente; più la si anticipa più è alto il rischio di seconda ondata. Programmarla su dati attendibili è fondamentale; lo si sta facendo ma non sappiamo come; cedere alle pressioni di parte ed a vecchie idee vanificherebbe tutto, per questo un po’ di trasparenza sarebbe salutare e doverosa.

Ci sono stati errori; a livello regionale soprattutto strategici, di pianificazione organizzativa, di verifica; a livello nazionale di tempistica, eccessiva mediazione e debolezza a pressioni. La responsabilità di ciò che accade negli ospedali e nel territorio è di esclusiva pertinenza regionale. Il governo e il ministero della Salute emanano disposizioni di massima che sono la cornice entro cui ogni regione può e deve muoversi per applicarle, fermo restando il potere di aumentarle (ma non di diminuirle). Lo Stato con la Protezione civile cerca in tutti i modi di aiutare le Regioni a reperire materiali e personale. Sono quindi completamente pretestuosi e fuorvianti i vigliacchi scarichi di responsabilità di alcune regioni.

Il modello lombardo ospedalocentrico, fortemente privatistico con un territorio debolissimo si è dimostrato un fallimento. L’aumento notevole dei posti di TI e l’immane sacrificio del personale non ha impedito la loro saturazione e la temuta selezione dei pazienti da ricoverare. L’ospedale (che non è un ospedale!) in Fiera è la cosa tecnicamente più insensata ed economicamente più fallimentare di tutta questa epidemia; solo un caso? Stante il certo perdurare della circolazione del virus per gestire al meglio i milioni di malati ad esso più vulnerabili (cronici, anziani e disabili) serve una rapida riorganizzazione dell’assistenza da centrare ancora più sul territorio e su percorsi rigidamente separati. I malati di tutte le altre patologie non sono magicamente spariti e nel frattempo non sono di certo migliorati; devono essere rapidamente rivalutati e ripresi in carico. Il personale sanitario ha dato una risposta ovunque eccezionale pagando un prezzo altissimo in termini di morti, malati e contagiati la cui responsabilità quasi completa e senza alibi alcuno è a carico delle regioni e delle Asl soprattutto per la carente e tardiva protezione del personale.

Le cose dubbie
I test sierologici cosiddetti “rapidi” al dito sarebbero utili ma non sono ancora ben validati (troppi falsi positivi e falsi negativi per prendere decisioni minimamente sicure); pericoloso il fai da te via internet. I test sierologici con classico prelievo di sangue vanno un po’ meglio e sono in corso di avanzata validazione. Pensare ad un test che a breve termine dia un lasciapassare per lavorare e uscire di casa è decisamente prematuro. I test hanno grande valore per studi sulla popolazione ma sono ancora di scarsa utilità per il singolo. Secondo picco. È possibile; dipende solo dai nostri comportamenti personali, da quelli delle altre persone e da come si muoveranno i nostri governanti soprattutto regionali. Determinante sarà il ruolo dell’industria e dei controlli per l’osservanza a tutti i livelli delle disposizioni di sicurezza a seguito delle riaperture; una grande criticità i trasporti pubblici.

Le cose che non sappiamo
Non sappiamo quando finirà. Conviveremo per un bel po’ di tempo con il virus e quindi con le restrizioni anche se variamente attenuate; il virus difficilmente sparirà ma non sappiamo quanto sarà virulento e diffuso. Ogni previsione è viziata dal non sapere quanto durerà l’immunità dopo la malattia e quando si raggiungerà l’agognata immunità di gregge. Non sappiamo quanto enorme sarà la ricaduta reale sull’economia e sull’occupazione, cosa farà l’Europa e se saremo soli. Non sappiamo se riusciremo a superare le spinte regionalistiche e gli interessi privatistici per spostare sul territorio il baricentro dei sistemi sanitari per meglio difenderci dai contagi. Non sappiamo se noi stessi saremo contagiati; dipenderà molto dalla nostra intelligenza ma sempre troppo anche dagli altri. Non sappiamo come saremo e faremo noi egli altri tra qualche mese, come cambieranno le nostre vite e molte cose nel mondo. L’impatto sulla società e sull’economia potrebbe rendere moltissime cose variamente diverse per un periodo non breve. Sicuro invece che lo stile di vita precedente per qualche tempo ancora sarà un ricordo. Come dice Giulio Cavalli siamo talmente concentrati sul quando finirà la fase 1 che non pensiamo a come sarà la fase 2; le sorprese non mancheranno. Spero di essere stato più realista del re.

*

Quinto Tozzi è cardiologo; già responsabile di terapia intensivista cardiologica e direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)

«Cari bianchi, l’Africa non è il vostro parco giochi»

Non fosse stato per i calciatori, non ce ne saremmo nemmeno accorti. Il primo di aprile, e non è uno scherzo, due esperti francesi hanno alzato un polverone parlando in televisione (qui il video) di come si potrebbe avviare una sperimentazione per capire se il vaccino contro la tubercolosi può provocare una maggiore resistenza contro il coronavirus. Il primario del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cochin di Parigi, Jean-Paul Mira dice così: «Se posso essere provocatorio: non dovremmo fare questo studio in Africa, dove non ci sono mascherine, non ci sono cure, non c’è rianimazione… Un po’ come si fa in alcuni studi sull’Aids? O tra le prostitute, perché sappiamo essere molto esposte?». Al che Camille Locht, direttore di ricerca all’Inserm (Istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina), gli risponde: «Esatto, stiamo pensando in parallelo a uno studio in Africa con lo stesso tipo di approccio». Ma è giusto chiedere a chi vive in Africa, o a chi è affetto da Hiv, o alle prostitute di fare da tester? In un istante si sono scatenati i commenti sdegnati dei telespettatori. La notizia è arrivata a noi attraverso le reazioni sui social di due ex giocatori africani famosi anche in Italia. Il campione ivoriano Didier Drogba: «Non siamo cavie!» sbotta sdegnato. Ancora più esplicito un altro campione, il camerunense (ed ex Inter) Samuel Eto’o che twitta: «L’Africa non è il vostro parco giochi. È tempo di ribellarsi. L’Africa non è un laboratorio per fare dei test. Non considerate gli africani come cavie».

Come ha sottolineato poco dopo Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, che è stato per due anni Presidente del Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, proposte del genere sono «l’eredità di una mentalità coloniale». Mentalità condivisa in Italia, dove non abbiamo mai fatto davvero i conti con le “imprese” fasciste e spesso ignoriamo cosa voglia dire avere un privilegio bianco. Potremmo aggiungere che il paragone con la cura dell’Aids ha già dato origine a similitudini che non reggono: nel caso dei positivi al coronavirus nessuno dice loro che “se la sono cercata”, come sentiamo invece ancora oggi ripetere a causa di uno stigma ancora presente nei confronti di chi è positivo all’Hiv. Tornando all’episodio francese, non è certo il primo a mostrare come in una situazione di emergenza globale molti approfittino delle differenze sociali per acuire le disuguaglianze. In un primo momento, infatti, la risposta al virus è stata una sinofobia diffusa, che dal passato è tornata a colpire anche chi fosse solamente sospettato di essere asiatico. Ma quando il Covid-19 si è propagato in Italia abbiamo iniziato a capire cosa significhi essere considerati solo come degli untori. Non Salvini, che il 29 gennaio usava i migranti come capro espiatorio, come d’altronde fa quotidianamente: «Vi sembra normale che nel resto del mondo chiudano frontiere, blocchino voli e mettano in quarantena chi arriva dalla Cina mentre in Italia spalancano i porti?».

Intanto una parte del paese si è confermata solidale, avviando iniziative per le fasce più deboli, ma non sono mancate le eccezioni di alcuni comuni che hanno imposto requisiti discriminatori per l’accesso ai buoni spesa annunciati il 29 marzo. Inserendo, come riporta l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) «il limite del permesso di soggiorno CE di lungo periodo (come i Comuni di Ferrara o dell’Aquila), oppure escludendo del tutto gli stranieri (come il Comune di Ventimiglia). Tuttavia, nella maggior parte dei casi a noi segnalati, gli Avvisi contengono il requisito della residenza anagrafica, tagliando comunque fuori una buona parte della popolazione, tra cui i senza fissa dimora (anche italiani!), i richiedenti asilo e gli stranieri irregolari».

Il disastro sanitario colpisce anche gli insediamenti della popolazione rom, assente nelle cronache, dove come ricorda l’attivista Dijana Pavlovic ci sono «tante persone in spazi piccoli, privi di servizi e spesso senza neppure l’acqua». Nessuno è immune, ripetono i medici, perciò un contagio all’interno di un campo rom causerà contagi all’esterno. Dobbiamo concludere che il coronavirus discrimina perché colpisce alcuni, o è democratico perché può colpire tutti? Oppure è un grande equalizzatore, come ha detto il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo? Le immagini arrivate dagli Stati Uniti hanno mostrato come il minore accesso alla sanità faccia sì che in alcune città afroamericani e latinos siano la maggior parte delle vittime. Anziché occuparsene, a queste comunità viene suggerito,di evitare alcool, tabacco e droghe, mentre è noto che non potendo ricorrere al telelavoro molti continuano ad essere esposti al contagio. Dopo i morti bruciati nelle strade a Guayaquil, in Ecuador, dove gli obitori sono pieni, i droni hanno ripreso le fosse comuni nel Bronx di New York, dove sono aumentati i corpi di chi non ha parenti o non ha nessuno in grado di sostenere le spese per la sepoltura. Insomma questo virus, come qualunque altro virus, non è razzista: sono alcuni privilegiati occidentali ad esserlo, casomai.

«Cara Italia, ascolta questo silenzio». Lettera aperta dei Fridays for future

Cara Italia,
ascolta questo silenzio.

La nostra normalità è stata stravolta e ci siamo svegliati in un incubo. Ci ritroviamo chiusi nelle nostre case, isolati e angosciati, ad aspettare la fine di questa pandemia. Non sappiamo quando potremo tornare alla nostra vita, dai nostri cari, in aula o al lavoro. Peggio, non sappiamo se ci sarà ancora un lavoro ad attenderci, se le aziende sapranno rialzarsi, schiacciate dalla peggiore crisi economica dal dopoguerra.

Forse avremmo potuto evitare questo disastro?

Molti studi sostengono che questa crisi sia connessa all’emergenza ecologica. La continua distruzione degli spazi naturali costringe infatti molti animali selvatici, portatori di malattie pericolose per l’uomo, a trovarsi a convivere a stretto contatto con noi. Sappiamo con certezza che questa sarà solo la prima di tante altre crisi – sanitarie, economiche o umanitarie – dovute al cambiamento climatico e ai suoi frutti avvelenati. Estati sempre più torride e inverni sempre più caldi, inondazioni e siccità distruggono già da anni i nostri raccolti, causano danni incalcolabili e vittime sempre più numerose. L’inesorabile aumento delle temperature ci porterà malattie infettive tipiche dei climi più caldi o ancora del tutto sconosciute, rischiando di farci ripiombare in una nuova epidemia.

Siamo destinati a questo? E se invece avessimo una via d’uscita? Un’idea in grado di risolvere sia la crisi climatica sia la crisi economica?

Cara Italia, per questo ti scriviamo: la soluzione esiste già.

L’uscita dalla crisi sanitaria dovrà essere il momento per ripartire, e la transizione ecologica sarà il cuore e il cervello di questa rinascita: il punto di partenza per una rivoluzione del nostro intero sistema. La sfida è ambiziosa, lo sappiamo, ma la posta in gioco è troppo alta per tirarsi indietro. Dobbiamo dare il via a un colossale, storico, piano di investimenti pubblici sostenibili che porterà benessere e lavoro per tutte e tutti e che ci restituirà finalmente un Futuro a cui ritornare, dopo il viaggio nell’oscurità di questa pandemia.

Un futuro nel quale produrremo tutta la nostra energia da fonti rinnovabili e non avremo più bisogno di comprare petrolio, carbone e metano dall’estero. Nel quale smettendo di bruciare combustibili fossili, riconvertendo le aziende inquinanti e bonificando i nostri territori devastati potremo salvare le oltre 80.000 persone uccise ogni anno dall’inquinamento atmosferico.

Immagina, cara Italia, le tue città saranno verdi e libere dal traffico. Non perché saremo ancora costretti in casa, ma perché ci muoveremo grazie a un trasporto pubblico efficiente e accessibile a tutte e tutti. Con un grande piano nazionale rinnoveremo edifici pubblici e privati, abbattendo  emissioni e bollette. Restituiremo dignità alle tue infinite bellezze, ai tuoi parchi e alle tue montagne. Potremo fare affidamento sull’aria, sull’acqua, e sui beni essenziali che i tuoi ecosistemi naturali, sani e integri, ci regalano. Produrremo il cibo per cui siamo famosi in tutto il mondo in maniera sostenibile.

In questo modo creeremo centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro ben retribuiti, in tutti i settori.

Questo Futuro è davvero possibile, cara Italia, ne siamo convinti. Per affrontare questa emergenza sanitaria stiamo finalmente ascoltando la scienza. Ed è proprio la scienza ad indicarci chiaramente la rotta da percorrere per sconfiggere la crisi climatica. Stavolta sappiamo quanto tempo ci rimane per agire: siamo già entrati nel decennio cruciale. Il momento del collasso dell’unico ecosistema in cui possiamo vivere, il superamento di 1,5°C di riscaldamento globale, già si staglia all’orizzonte. La folle curva di emissioni va capovolta già da quest’anno, e per sempre. Solo se ci riusciremo costruiremo un Paese e un mondo più giusto, più equo per tutte e tutti, non a spese dei più deboli, ma di quei pochi che sulla crisi climatica hanno costruito i loro profitti.

Cara Italia, sei di fronte ad un bivio della tua storia, e non dovranno esserci miopi vincoli di bilancio o inique politiche di austerity che ti impediscano di realizzare questa svolta.

Cara Italia, tu puoi essere d’esempio. Puoi guidare l’Europa e il mondo sulla strada della riconversione ecologica.

Non a tutte le generazioni viene data la possibilità di cambiare davvero la storia e creare un mondo migliore – l’unico in cui la vita sia possibile.

Questa è la nostra ultima occasione. Non possiamo permetterci di tornare al passato. Dobbiamo guardare avanti e preparare il nostro Ritorno al Futuro!


* Gli attivisti e le attiviste di
Fridays for future Italiawww.ritornoalfuturo.org

Ps: questo è solo l’inizio. Oggi comincia una grande campagna per la rinascita del nostro Paese, che ci porterà fino al lancio di una serie di proposte concrete, in occasione del global #DigitalStrike, il 24 aprile. E non saremo soli.

con il supporto di:

Armaioli Nicola – Chimico, Dirigente di Ricerca presso Cnr

Balzani Vincenzo – Chimico, Professore emerito presso l’Università di Bologna

Banfi Luca  – Direttore dipartimento di Chimica Università di Genova

Barbante Carlo – Paleoclimatologo, Università Venezia

Barbera Filippo – Docente di sociologia economica, Università di Torino

Bardi Ugo – Docente di Chimica e Fisica, Università di Firenze

Bartoletti Antonella – medico, socio dell’Isde e dei Gufi 

Bartolini Stefano – Docente di Economia Politica, Università di Siena

Belligni Silvano – sociologo, Università degli Studi di Torino

Bellini Alberto – Coordinatore Corso di Laurea in Ingegneria elettronica, delegato Kic

Bergamini Giacomo – Professore presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Bologna

Bigano Andrea – Economista, scienziato del Cmcc

Blanchard Guido – Dottore Forestale

Bosetti Valentina – Docente di economia dell’ambiente

Budroni Marilena – Docente di Microbiologia agraria, Uni Sassari

Bonapace Elena – economista, Italian action network

Buizza Roberto – Docente di Fisica, Sant’Anna di Pisa

Cagnoli Paolo – Resp. Osservatorio Energia Emilia Romagna, Docente di Energetica

Campanella Luigi – Docente di Chimica, già presidente Società chimici italiana

Caserini Stefano – Docente di Mitigazione dei Cambiamenti Climatici, PoliMilano

Cacciamani Carlo – fisico, dipartimento Protezione Civile Nazionale

Cassardo Claudio – Docente di fisica del clima, Università di Torino

Castellari Sergio – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv)

Ceroni Paola – Chimica, Università di Bologna

Comanducci Paolo – Rettore dell’Università di Genova

Gagliasso Elena – Docente di Logica e Filosofia della scienza, La Sapienza

Filpa Andrea – architetto, Università Roma Tre, Comitato scientifico Wwf Italia

Fuzzi Sandro – Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, Cnr

Gentilini Patrizia – medico oncologo-ematologo, comitato scientifico Isde – Medici per l’Ambiente

Giacomin Serena – climatologa, presidente di Italian Climate Network

Grosso Mario – Docente PoliMi, fondatore Associazione Ingegneri per l’Ambiente e il Territorio

Gullino Maria Lodovica – Docente di Patologia vegetale e direttore del Centro Agroinnova

Guzzetti Luca – Docente di Scienze della Comunicazione, UniGe

Iannelli Marirosa – presidente Water Grabbing Observatory

Lantschner Robert – fondatore di CasaClima, presidente di ClimAbita Foundation

Lombroso Luca – Meteorologo Ampro e divulgatore ambientale

Marletto Vittorio – fisico, responsabile Osservatorio clima Arpae Emilia-Romagna

Palazzi Elisa – Docente di Fisica del clima e ricercatrice presso Isac Cnr

Papini Alessio – Docente di Biologia, Università di Firenze

Pasini Antonello – Ricercatore presso Iia Cnr

Piombino Aldo – Docente di geologia

Poggiali Elisa – ingegnere Ambiente e Territorio, membro di 100Esperte.it

Poggio Alberto –  Ricercatore in Sistemi per l’Energia, Politecnico di Torino

Riccobon Angela – biologa, Isde Forli-Cesena

Ridolfi Ruggero – Oncologo Endocrinologo, Coordinatore Isde (Medici per l’ambiente) sezione Forlì-Cesena

Rovelli Carlo – fisico e saggista, 

Ruggieri Gianluca – Docente di Tecnologie per la Sostenibilità, UniInsubria

Tartaglia Angelo – Docente di Ingegneria e Fisica, Università di Torino

Trecroci Carmine – Docente di Macroeconomia e Finanza, Università di Brescia

Vacchiano Giorgio – Ricercatore in gestione e pianificazione forestale, Università di Milano

Ventura Francesca – Docente di Scienze e Tecnologie Agroalimentari, Presidente Aiam – Italian Association of AgroMeteorology

Venturi Margherita – Docente di Chimica, Università di Bologna

Allenarsi in quarantena

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 15-03-2020 Roma Cronaca covid-19 coronavirus Nella foto: restiamo tutti a casa! Photo Mauro Scrobogna /LaPresse 15-03-2020 Rome Home covid-19 coronavirus In the picture: "we all stay home! Thanks"

Tra i vari tutorial, corsi online, videoconferenze e dirette per tenere in allenamento tutti i muscoli durante questa quarantena forzata ne manca uno, forse uno dei più importanti, il muscolo della curiosità. Anche la curiosità è un muscolo e vatenuto bene allenato, perché si allunghi di giorno in giorno, perché non ci si infeltrisca diventando impermeabili. Come si allena la curiosità?

Primo. Con l’empatia. La distanza sociale e la clausura non siano il veleno per concedersi di credere che la nostra visione del mondo sia l’unica visione possibile. Le situazioni non sono tutte uguali, le condizioni sono estremamente disuguali e ciò che viene dato per scontato per alcuni è un privilegio. Ce ne accorgiamo ora che un decreto vieta gli abbracci ma ci sono invisibili che hanno le catene ben prima del virus. Non è vero che si viaggia con l’immaginazione: si viaggia con l’empatia, capaci di mettersi nei panni di un altro e di sintonizzarsi su bisogni che noi non eravamo nemmeno in grado di immaginare. Sentite, sentitevi addosso gli altri. Vi farà bene. Prima e dopo i pasti.

Secondo. Stare sulle persone. Dietro tutti questi numeri, piani e task force ci sono persone. Dentro la fascia “dai 75 anni in su” ci sono persone. Riuscire a vederle dietro a qualsiasi ragionamento, provare a immaginare che ogni decisione investe la quotidianità delle persone, chiedersi come cambia quella quotidianità con quella decisione è molto salutare. Si parla di fabbriche ma ci sono i lavoratori che sono persone oltre che lavoratori, che hanno dei bambini a casa (ma che fine hanno fatto i bambini in tutte queste serrate discussioni?), che hanno genitori rinchiusi, che hanno affetti che incespicano.

Terzo. Ascoltare le opinioni con cui non siamo d’accordo. Non combatterle: ascoltarle. Possono essere pessime, possono essere sbagliate ma qualsiasi opinione ci potrebbe offrire un angolo di visuale inaspettato. Non leggiamo solo ciò che conforta la nostra tesi: l’arte di essere contraddetti dimostra coraggio e apertura, è un esercizio che fa bene ai pregiudizi. Potete farlo anche sul balcone.

Quarto. Qui e ora. Essere curiosi significa non cadere nella tentazione di mettere in pausa la propria curiosità in attesa di qualcosa, in questo caso del momento in cui finisca tutto. Qui, ora, accadono fatti, alcuni strazianti, che meritano di essere vissuti, pensati, digeriti. Il curioso non aspetta di vedere come va a finire, il curioso governa il qui e ora.

Quinto. La cassetta degli attrezzi di fianco al letto. Il rischio più grande è quello di farsi prendere dalla disperanza, che è apparentemente più tenue ma è più infida della disperazione. Accanto al letto teniamo la cassetta che contiene tutti gli attrezzi per aprire gli occhi al mattino e avvitare i bulloni per meritarsi che anche questa giornata nonostante tutta vada vissuta. Ognuno ha i suoi, ci sono dentro pezzi di noi fatti a pezzi nel passato, ci sono le nostre medaglie, ci sono soprattutto i nostri sogni. Indispensabile.

Buon venerdì.

Paghi chi ha inquinato, petizione per un mondo ecosostenibile

Uno degli errori più persistenti di noi ecologisti è quello di dire che l’umanità «rischia» un disastro ecologico, invece di dire ciò che è più esatto e più vero, ovvero che l’umanità è già da decenni, dentro una catastrofe ecoclimatica, per la quale sta già pagando un caro prezzo, che nel prossimo futuro diverrà insostenibile.
È un errore comunicativo, ma anche di percezione e di conoscenza teorica da parte di tanti ecologisti, e ci penalizza molto. Anzi, oserei dire che esso è il nostro principale errore politico e strategico. Perché permette di derubricare la questione ecologica ad allarme, sì importante, sì da affrontare, prima o poi, ma che, essendo comunque bene o male un problema futuro, si può mettere nell’immediato tra parentesi, in nome dell’emergenza di turno.

Insomma, l’ambiente è importante, come no, ma ora c’è da pensare al lavoro, ora c’è da pensare al debito, ora c’è da pensare a questo e a quello: quante volte lo abbiamo sentito dire, da parte di superficiali in buona fede, o da parte di furbi in malafede?

Ogni crisi ha visto la questione ecologica nel ruolo di agnello sacrificale, la prima a cadere e finire nel mucchio delle pratiche momentaneamente sospese. Questa volta non ce lo possiamo permettere. Questo Pianeta, non se lo può permettere. Stavolta, se prevarrà la logica del “fare qualsiasi cosa”, anche la più truce e distruttiva, pur di dare fiato all’economia, l’ecosistema globale stramazzerà definitivamente. È assolutamente necessario invece far capire alle persone che tutto ciò che stiamo vivendo è già parte della crisi ecosistemica, che non è affatto estraneo alla questione ecologica, anzi, che nella contraddizione ecologica trova le sue cause più profonde e più vere.

Forse non abbiamo detto abbastanza, ad esempio, che la crisi del 2008, in fondo, era già una crisi del picco estrattivo del petrolio, anche se è apparsa una crisi sovrastrutturale, tutta dentro gli artifici della finanza: ma l’economia non si finanziarizza a caso, si finanziarizza quando i margini di profitto dell’economia reale vengono ad esaurirsi. E forse non abbiamo detto abbastanza, che le migrazioni disperate, in grandissima maggioranza, dipendono da problemi legati alla desertificazione, alle catastrofi naturali, alle guerre per l’acqua, o per le risorse in esaurimento.

Non abbiamo speranza di vincere questa partita, se non facciamo percepire che i tagli allo Stato sociale, la precarizzazione, il razzismo, seminato usando le contraddizioni conseguenti alle migrazioni, e poi gran parte delle malattie croniche, di quelle respiratorie e cardiocircolatorie, da inquinamento urbano e da cattiva alimentazione, fino alla presente pandemia, sono già i frutti avvelenati del nostro modello di sviluppo squilibrato e quindi della crisi ecosistemica in atto, e che conseguentemente se ne esce solo accelerando la conversione verde dell’economia, con un cambio di paradigma economico, mentre se tale cambiamento lo sospendiamo in nome dell’emergenza, nella crisi si affonderà sempre di più.

Noi di Ecolobby vogliamo stare in questa sfida politica, e provare a comunicare in maniera convincente che c’è una sola via, quella della conversione ecologica, per uscire dalla crisi. E che quindi i soldi per il rilancio vanno presi da chi ha inquinato, dai venti miliardi annui di sussidi statali a petrolio, gas e carbone, che chiediamo di abolire subito (non nel 2040 come da compromesso raggiunto all’interno del governo), per dirottarli verso la svolta rinnovabile, del risparmio energetico, dell’innovazione industriale.

Paghi chi ha inquinato, è il titolo della petizione che abbiamo caricato online, sulla piattaforma Change.org. Sostenetela, fatela circolare: una petizione non cambia il mondo, ma servirà a far capire che queste cose le pensiamo in molti.

> Sottoscrivi la petizione di Ecolobby: “Paghi chi ha inquinato”

Vali solo se produci

Non siamo tacciabili di simpatie contiane. Non abbiamo mai risparmiato nulla al presidente del Consiglio, sin da quel suo andare per curie e santuari come seguace di padre Pio. E abbiamo criticato duramente il suo discorso quando si presentò in Aula nelle vesti di avvocato del popolo accettando di fare da ago della bilancia del governo giallonero, citando l’ultimo Dostoevskij, ormai religiosissimo e zarista. Ma per onestà intellettuale bisogna dire che, a partire dalla parlamentarizzazione della crisi con cui fu fermato Salvini che chiedeva pieni poteri, Giuseppe Conte ha iniziato a mostrare ben altra faccia e statura politica. Confermata in questi giorni di crisi dovuta alla pandemia, compreso il suo apprezzabile tentativo di mediare fra le due forze di governo, M5s e Pd, per cercare un accordo in Europa che non segni una resa totale alle condizionalità del Mes, rilanciando il tema dei Coronabond e del Recovery Fund.

Ora ci aspettiamo un passo ulteriore sul piano dei diritti umani. A cominciare dall’abolizione dei due decreti sicurezza salviniani. Trenta parlamentari gli hanno scritto una lettera aperta chiedendo l’immediato ritiro del decreto interministeriale che chiude i porti, dichiarando l’Italia approdo non sicuro, a causa della pandemia. Nei giorni scorsi ci sono state drammatiche richieste d’aiuto da parte di naufraghi. Urge un cambiamento radicale da parte del governo chiamato a realizzare quella necessaria e urgente discontinuità dal precedente esecutivo più volte annunciata. Serve, dunque, un rifiuto netto di quelle vecchie ricette politiche populiste, neoliberiste e sovraniste che cinicamente, lucidamente, trattano le persone come cose in nome del profitto di pochi.

È necessario rimettere al centro i legami sociali, la solidarietà, il bene pubblico e collettivo per uscire da questa crisi che non è solo sanitaria. La pandemia lo ha reso dolorosamente evidente. O ne usciamo insieme o non ne usciamo. È un fatto che tocchiamo con mano se guardiamo a quel che è accaduto e accade in Lombardia dove si sono registrati i più alti numeri di vittime da Covid-19. Perché il personale sanitario non è stato adeguatamente protetto? Perché in base a una delibera regionale i contagiati sono stati trasferiti nelle residenze per anziani, cioè le persone più a rischio? Perché la Regione ha ceduto alla pressione di Confindustria per tenere aperte le fabbriche, senza salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori? Ha un bel dire il governatore Fontana quando sostiene che in Lombardia il virus è stato più virulento che altrove. Ci vuole un bel “coraggio” da parte del leader lombardo di Confindustria Bonometti nell’affermare che la colpa del contagio è degli animali da allevamento.

Così come ci vuole una bella faccia tosta da parte dei leader dell’opposizione, Salvini e Meloni, nel fingersi salvatori della patria scagliandosi ora contro il meccanismo di stabilità (Mes) e contro i trattati europei, quando la storia ci dice che l’accordo salva Stati passò nel 2011 durante il Berlusconi IV con Meloni ministra e due ministeri della Lega.

L’attualità mette in evidenza come le ricette neoliberiste e il dogma dell’intervento provvidenziale del mercato, riproposti dopo la crisi del 2008, non abbiano fatto altro che sfibrare il sistema, che ora si è trovato ad affrontare la pandemia essendo a corto di posti letto in terapia intensiva, con una sanità privatizzata e incapace di rispondere alle domande del territorio. Il coronavirus mostra quali siano state le conseguenze dell’aziendalizzazione della sanità che ha portato a trattare la salute come fosse una merce qualsiasi. Lo abbiamo visto in Lombardia, ma anche in Svezia dove il freddo pragmatismo del governo si è tradotto in un far finta che il contagio non esistesse, arrivando al punto di prevedere – in caso di saturazione delle terapie intensive – di intubare solo gli under 70.

Per non dire della Gran Bretagna dove, come abbiamo già raccontato, si è lasciato deliberatamente che il virus circolasse prospettando una irreale immunità di gregge. Una visione cinica e sconsiderata sostenuta così ciecamente dal premier ultra liberista Boris Johnson al punto da rischiare lui stesso di rimetterci la pelle.

Ma se il Covid-19 si trasmette facilmente, non è un fatto ineluttabile che debba sterminare le fasce della popolazione più svantaggiate e meno protette. Come accade negli Usa dove gran parte delle vittime sono afroamericani senza assicurazione e, per questo, senza possibilità di accesso alle cure.

Il dramma che stiamo vivendo non è la conseguenza di una fatalità naturale, ma è anche il frutto di un capitalismo rapace, di politiche agghiaccianti che utilizzano gli operai come carne da macello e che considerano gli anziani un peso perché inutili nella catena del profitto. Così il problema delle pensioni sarebbe risolto, così il problema dell’assistenza ai malati cronici lo sarebbe altrettanto, emulando la logica nazista che sterminava chi non era produttivo e non era “funzionale”. Su questo ci sarà molto da interrogarsi, resterà come una ferita aperta anche quando saremo usciti dalla pandemia.

L’Europa non può chiudere gli occhi se vuole ancora dirsi terra di diritti umani, di cultura, di civiltà. Con la «percezione delirante del poeta» che a Don Chisciotte faceva vedere Dulcinea come la più bella, noi di Left continuiamo a guardare all’Europa con le lenti del Manifesto di Ventotene, con il coraggio di dirci partigiani di una Europa ancora possibile, come unità politica democratica e inclusiva. Il 23 aprile, giorno del Consiglio europeo, è dietro l’angolo e le premesse non sono le migliori, ma non smettiamo di lottare.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 17 aprile 

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Il senso di Sepúlveda per l’antifascismo

«Essere apolide è una delle peggiori situazioni in cui si può trovare una persona. Sei invisibile, non hai nessun diritto, sei l’ultimo della fila. Emozionalmente molesta, danneggia, provoca dolore, ma quando uno sa perché si trova in quella situazione, allora la condizione di apolide non riesce a schiacciarti», descrive così Luis Sepúlveda la dolorosa esperienza della cittadinanza negata dopo essere stato esiliato (e torturato) dal Cile di Pinochet, e i suoi 31 anni da apolide poi raccontati nel libro Storie ribelli (Guanda).

Nel contesto mondiale attuale, come immagini il futuro delle prossime generazioni? Riusciranno loro a provocare i cambiamenti necessari e ormai urgenti?

È una incognita, e io preferisco opinare su ciò che faccio io stesso per cambiare le cose che considero ingiuste. Il futuro è imprevedibile. Mi piace essere ottimista, ma vacillo quando noto che appena quattro gatti assistono a una conferenza di un esperto ambientale mentre uno youtuber ha un milione di follower. A questo punto della partita, l’unica certezza che ho è che nel mondo esiste una minoranza dignitosa, sensibile e incoraggiante.

Cosa sta accadendo in Spagna dopo le ultime elezioni in cui sembra che si fosse provato a fermare il fascismo?

Non è stato fermato per nulla il fascismo. Prima delle elezioni gli eredi del franchismo erano accovacciati nell’ombra, semi nascosti nel Partito popolare. Ora, attraverso Vox, un partito apertamente fascista, sono presenti in Parlamento e in tutte le istituzioni. C’è stata la possibilità di un governo progressista, guidato dal Psoe e da Podemos, ma in questi giorni abbiamo assistito alla real politik, visto che l’ala della destra del Psoe esige una virata al centrodestra e Podemos si è perso in un gioco di egocentrismo inesplicabile. In Europa avanzano le ultra destre. In Italia cresce Fratelli d’Italia e c’è la lega di Matteo Salvini, che, nonostante da ministro abbia attuato politiche inumane, ha comunque grossi consensi. Stiamo assistendo a una ripetizione della storia ma in altre chiavi. Il capitalismo ha generato una crisi economica con un solo obiettivo: imporre precarietà salariale, l’incertezza del lavoro e la negazione dei diritti come normalità. Prima della crisi, la normalità era lottare per migliorare i salari e per ottenere più diritti, ora la normalità è pregare perché i salari non vengano abbassati e perché ci tolgano sempre meno diritti. E siccome bisogna sempre trovare un colpevole, prima erano gli ebrei, ora i colpevoli sono i poveri e coloro che avvertono che il mondo si sta mettendo male, molto male.

Anche l’America Latina passa un momento storico complicato: il Brasile con Bolsonaro, l’Argentina con Macri, il Cile con Piñera. E poi l’Ecuador, la Colombia. E se guardiamo al Centroamerica, non é meglio la situazione, in Honduras, El Salvador, Haiti, Nicaragua…. Che ne pensi di queste ondate di destra neoliberista?

Il loro obiettivo è riuscire a far sì che le persone accettino di essere sfruttate come fosse una cosa normale, che accettino il saccheggio delle risorse e i crimini ambientali come l’unica normalità possibile. Del resto, da molto tempo ormai, la sinistra o parte di essa, ha smesso di pensare che ci possano essere alternative visibili e possibili al neoliberismo.

Che futuro vedi per il Venezuela?

L’unica possibilità per il Venezuela di uscire dallo status quo attuale è che decidano i venezuelani, senza ingerenze esterne. Però in America Latina non è tutto “nero”. Restano ancora delle “isole felici” come Bolivia e Uruguay. Quest’ultimo a fine mese andrà alle elezioni nazionali e bisogna vedere se la sinistra riuscirà a mantenersi al governo.

Conosci bene Pepe Mujica, cosa ne pensi del suo modo di fare politica?

Di Pepe Mujica ciò che ammiro è la capacità di essere anche un grande pedagogo, la sua capacità di parlare chiaro, di dire che siamo maledettamente limitati e che è poco quello che si può fare, perché il capitalismo ha vinto, ma bisogna tentare di fare qualcosa, anche se è poco.

In queste ultime settimane “grazie” agli incendi in Amazzonia si è molto parlato del tentativo di sterminio degli indios brasiliani. Tu e la tua compagna, la poetessa cilena Carmen Yañez siete molto attenti alla situazione di un altro popolo indigeno, il popolo Mapuche. I media mainstream non ci raccontano quasi nulla al riguardo. Puoi dirci qualcosa?

Il conflitto Mapuche è un conflitto nascosto, perché le politiche di sterminio si sono sempre fatte l’ombra cercando di tenere tutti all’oscuro. La società cilena, o per lo meno una grande parte di essa, è di un razzismo atroce. Disgraziatamente in Cile si è imposto il peggio del discorso della ultra destra fascista. Da qui l’odio verso il povero, verso i mapuche, un popolo che rappresenta dei valori che secondo il potere devono essere eliminati. Ma resistono, insieme a una parte della società, la minoranza, che ha ancora memoria.

Sei molto attivo sui social parlando soprattutto di politica. Pensi d’essere in qualche modo un “influencer”? Questa attività come viene accolta da chi ti conosce come romanziere?

Un influencer? No, in assoluto. Faccio conoscere la mia opinione, i miei punti di vista, che sono condivisi per la maggior parte dei miei lettori. Non ho mai nascosto ciò che sono e ciò che penso.

Immagini giornate senza scrivere?

Sì e no. A volte mi piacerebbe dedicarmi a leggere, ad ascoltare musica, guardare film, occuparmi di un piccolo orto, ma la tentazione di scrivere è forte e non ci posso fare nulla.

Cosa ti piace leggere?

Di tutto e in modo caotico, molto caotico.

Dopo il tuo romanzo “La fine della Storia” é arrivata “Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa”. Ci puoi anticipare se stai lavorando a qualcosa di nuovo e di cosa si tratta?

Lavoro tutti i giorni. Ora sto finendo un romanzo che ha come protagonista Belmonte, lo stesso di “Un nome da Torero” e “La fine della Storia”. Lavoro a diversi progetti contemporaneamente e a seconda di come si sviluppano, dopo un certo tempo diventano un libro. Lavoro perché mi piace ciò che faccio, mi piace il mio lavoro.

Sei tradotto in moltissime lingue, dal cinese al greco passando per il turco e lingue slave, ecc. Immagino che sia una soddisfazione essere letto da culture così diverse.

È una enorme soddisfazione. A volte guardo il muro dove sono disposti soltanto i miei libri, nella mia biblioteca, e vedo i dorsi in tante lingue diverse. E dopo aver mormorato “quello sono io ed è ciò che ho fatto”, mi sento bene, soddisfatto con la vita e i suoi risultati.

Hai appeno compiuto 70 anni, come hai festeggiato?

Con la mia famiglia, i miei figli, nipoti, nuore, generi. Dopo con gli amici più vicini. E ci sono anche delle feste programmate a Milano, Parigi e Lisbona. Ci sono volte in cui bisogna mettere il fegato a disposizione degli amici.

*
L’intervista di Gabriela Pereyra a Luis Sepúlveda è stata pubblicata su Left dell’11 ottobre 2019

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La regina Elisabetta e il re Euro

Sono bastati 4 minuti alla regina Elisabetta per dire che il popolo inglese troverà nella sua banca tutto il denaro necessario per far fronte alla crisi del virus. Senza ricorrere al mercato per indebitarsi. Ci sono volute estenuanti trattative tra sherpa e leader dell’Eurogruppo per produrre un “accordo” farraginoso in cui la sostanza è che oltre il virus ci troveremo una montagna di debiti assai poco condivisi. Anzi. Un brutto accordo.

Nostalgia per la monarchia, la Brexit, l’inflazione? Niente di tutto questo. Semplicemente la sensazione che oltre lo straniamento del virus c’è quello di vivere in un contesto, l’Unione Europea, che “fatica” ad essere normale. Cosa è normalità? Certo la solidarietà. Ma una Unione politica è solidarietà strutturata. Non mercanteggiata. Con in più l’accompagno degli articoli di giornali che dicono che la mafia italiana aspetta i soldi europei, che poi sarebbero tedeschi. Cui fa da contraltare il nazionalismo antitedesco. Infatti la prima cosa da bandire è lo strepitio delle destre che in ogni Paese hanno votato quasi tutto il peggio delle politiche di austerità e si accaniscono oggi contro gli eurobond.

Ma, ciò detto, il problema di cosa fa la governance europea di fronte alla più grave crisi sanitaria, economica e sociale da tempo immemorabile rimane. Normalità vorrebbe che si usi la Banca centrale europea per stampare i soldi che servono e per coprire il debito necessario che viene condiviso dagli Stati con gli eurobond. Invece la Unione europea “lo fa strano”, per… 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 aprile 

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Le risposte che mancano

Alle regioni, ad esempio.

Sapete che professione esercitano i contagiati di questo ultimo periodo, quelli che hanno incrociato il virus nonostante la quarantena? L’hanno preso in famiglia? Se sì, quindi sono stati sottoposti a test tutti i membri della famiglia? L’hanno preso sul posto di lavoro? Quindi sono stati controllati i colleghi, sono state verificate le condizioni di lavoro, si è verificato che esistano tutti gli accorgimenti e i dispositivi che servono in quel luogo di lavoro?

E poi: quelli che sono guariti dalla malattia sono stati sottoposti a tampone o semplicemente vengono lasciati liberi di tornare a lavorare senza ulteriori verifiche? Quando sarà possibile immaginare l’accesso al tampone per le migliaia di persone che sono sottoposte a isolamento solo con diagnosi sintomatica?

Più banalmente: quando si potrà fare un serio screening sulla popolazione?

Al governo, ad esempio.

Cosa si ha intenzione di fare per tutte le attività che non riprenderanno a breve? Spettacoli dal vivo, ristorazione, alberghiero come faranno a superare questi mesi? Quali misure si metteranno in campo?

Come organizzare i trasporti pubblici? Si confida sul fatto che dal 4 maggio tutti si spostino con un mezzo privato? E chi non può? Chi non ce l’ha? E comunque il traffico reggerà?

Quanto durerà questa carenza dei dispositivi che servono per ripartire? Ci saranno abbastanza mascherine dal 4 maggio quando molti si sposteranno quotidianamente? Quando un cittadino potrà sapere se ha contratto il virus? Come risolvere il problema degli isolamenti che si renderanno ancora necessari a chi non ne ha la possibilità?

Riapriranno gli asili? E chi si occuperà di loro se i genitori dovranno tornare a lavorare? E per quelli che continueranno a lavorare da casa chi provvederà a tutti gli strumenti che servono per lavorare? Lo Stato? Le aziende?

Come si pensa di colmare il gap che impedisce a molti ragazzi di seguire le lezioni? Chi si occuperà degli anziani che saranno costretti ancora alla quarantena? Come risolvere la questione dell’assistenza domiciliare che si è fermata in questo periodo?

Come risolvere il problema dell’agricoltura che vive sul lavoro degli stagionali che si spostano ora che non ci si può spostare? Dove si troveranno i braccianti? Come calmierare i prezzi che stanno già crescendo?

Com’è possibile mettere in sicurezza le carceri che non hanno nessuna possibilità di garantire distanziamento sociale? Quali comportamenti e dispositivi per detenuti e operatori?

Era il 21 febbraio quando si è ammalato il paziente 1 nell’ospedale di Codogno. Siamo stati a casa, ligi alle regole. Non notate anche voi quante domande rimangano appese, così, nel silenzio? Fra due settimane finisce la quarantena decisa per decreto, sicuri di non essere in ritardo?

Buon giovedì.