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Pandemia, diseguaglianze e capitalismo

I difetti più evidenti della società economica sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi” Keynes  (La teoria generale, p.566)

Tanto resta da comprendere, sul piano epidemiologico, su Covid 19 ma alcune evidenze di contesto sono già disponibili. In primo luogo le parole: non è in atto una guerra e non ci sono eroi o eroine. La “guerra” è una metafora ideologica in grado di alterare la comprensione della realtà: qui i “soldati” come le armi sono ospedali e persone che salvano vite, medici infermieri, addetti alle pulizie, volontari/e, la “vittoriaimpedire nuovi contagi realizzare vaccini e individuare le cause. “Eroi, Eroine” lavoratori e lavoratrici che chiedono salari dignitosi, formazione , diritti , tecnologia, ricerca, strutture. Quello che è stato negato negli ultimi 20 anni. Si finisce così per rimuovere la realtà: le rendite finanziarie e le spese militari si sono mangiate, prima di Covid 19, le risorse per sanità e ricerca virologica, ambiente. Non guerra quindi né tantomeno truffa o complotto , altre forme di rimozione ideologica speculare a quella bellica in cui è caduto anche Agamben.

Brecht nel suo Galileo e Susan Sontag ne La malattia come Metafora alludono a questo genere di rimozioni collettive, non assenti neppure nei modi della partecipazione popolare (flash mob e social) nata durante la quarantena. In essa , superficialmente derisa da alcuni, si mescolano come nel movimento delle Sardine fenomeni eterogenei: la ricerca di una religione civile condivisa ed egualitaria (De Luna , Una politica senza religione), una retorica vittimaria, una reazione alla scomparsa dello spazio pubblico, il desiderio di legami, il mostrarsi di spaesamento e paura. Partecipazione che contiene tutte le fratture di prima e tutte le incertezze di poi, nella quale trovano conferma sia l’idea che la “normalità” a cui dovremmo tornare è il problema e non la soluzione, sia il sospetto che il connubio di secolarizzazione e capitalismo continuino a produrre conseguenze serie sulla nostra psiche (Weber).

La “guerra” reale è quella contro la sanità pubblica e l’OMS in crisi finanziaria e di autorevolezza (come l’ONU): causa scarsa trasparenza ma soprattutto per finanziamenti inadeguati, disimpegno di molti governi, un nazionalismo che mette in scacco la costruzione di protocolli sanitari internazionali. Le accuse verso la OMS di Trump e Johnson, che hanno deciso irresponsabilmente per la quarantena sociale oltre 1 mese dopo l’Italia, occultano il fatto che fosse a loro noto da tempo il più che probabile arrivo di una nuova pandemia e che lo stesso Regolamento Internazionale Sanitario sia stato ignorato. Non è bastato il succedersi in soli 17 anni dell’attuale Covid 19 e dell’Aviaria nel 2009 – e 4 epidemie gravi, Ebola e Zika nel 2017, MERS nel 2012 , SARS nel 2003.

Ogni Stato ha proceduto per proprio conto minando dalle fondamenta , invece di riformarla e sostenerla, l’unica sede di governance globale (la sola che abbia senso) contro le pandemie. Stati Uniti e Gran Bretagna decidendo addirittura in un primo momento per una eugenetica di massa (l’immunità da gregge) con molti anziani e immunodepressi condannati a morte perché inutili socialmente e costosi economicamente. La UE incapace di coordinare che revoca di fatto Shengen mostrandosi non in grado di avviare tramite gli eurobond la riforma del Trattato di Maastricht. L’Italia ha invece disposto meglio di altri misure efficaci di contenimento e di cura, pur tra molti errori, gravi mancanze di personale e posti letto di intensiva, un rapporto Stato Regioni da riformare, troppi DPCM. Covid 19 ha reso più evidente ciò che già era noto: in Italia l’impoverimento del lavoro e dei sistemi nazionali di Welfare e, nel mondo, il venir meno di un comune impegno a tutela dell’ambiente e della salute di miliardi di persone.

Secondo il rapporto Oxfam 2019 l’1% più ricco della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari a quella di 6,9 miliardi di persone , la parte più povera (3,8 miliardi ) l’1% del totale. In questo divario e nelle sue specifiche forme nazionali trova fondamento l’idea che l’origine ultima di Covid 19 stia nelle diseguaglianze e nella distruzione della natura: i pochissimi hanno espropriato il resto della popolazione di redditi e ricchezza, con lo stesso genere di accumulazione che minaccia di morte tutte le forme di vita al punto che se Manzoni riscrivesse la Storia della Colonna Infame indicherebbe nella costituzione economica del mondo il nuovo untore. Che fare dunque da parte nostra? Organizzare il conflitto politico per 1) ottenere il rifinanziamento dei beni pubblici a scapito delle rendite e delle spese militari, 2) rafforzare il ruolo del Parlamento 3)riformare il trattato di Mastricht per un’Europa i cui scopi principali siano l’occupazione e la giustizia sociale e non la stabilità dei prezzi, 4) sostenere la OMS. Non sarà facile ma questo ci viene chiesto dalla generazione di anziani morta senza ricevere una carezza e dalla gratitudine che dobbiamo a coloro che hanno lavorato per salvare e non per uccidere. Come dice Stiglitz “it isn’t still too late to save capitalism from itself” (in People Power and Profits, p.247). Forse.

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L’avvocato Mauro Sentimenti fa parte del Cordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc nazionale)

Se i medici celebrati come eroi finiscono nel mirino degli avvocati

Gli eroi degli ospedali, gli angeli dei pazienti, addirittura i santi. Parole profondamente sentite dalla gente sulla scia di un’onda di calde emozioni. 116 medici morti, 29 infermieri e 5 ausiliari, 15.891 sanitari positivi cioè malati. Una mattanza. Perché solo una piccolissima parte di questi numeri era davvero inevitabile. Evitabili tutte le altre morti se ci fosse stata disponibilità di materiale di protezione, sensato utilizzo dei tamponi e corretta gestione della situazione. Responsabilità istituzionali concrete, vere e, volendo, perfettamente individuabili; compreso il livello politico che cerca, come sempre, di autoassolversi. Troppo comodo scindere il concetto di decisione da quello di responsabilità. Angeli, eroi e santi diventano però termini fuorvianti se, come spesso accade, allontanano dalla conoscenza della realtà. Morti sul lavoro, evitabili come migliaia di altre in Italia. Da qui l’ignobile emendamento al decreto Cura Italia, di Lega, poi forzatamente ritirato, ma anche del Pd, di depenalizzare le responsabilità dei fatti occorsi in questa epidemia per i vertici di Asl e ospedali e per il livello politico regionale.

Gli operatori sanitari non sono eroi ma persone normalissime che fanno un lavoro spesso speciale e che può richiedere un particolare coraggio. La spontaneità dei comportamenti ha dato a molti un senso di sicurezza palese, tangibile e vera che ha non poco contribuito a far meglio vivere questa incredibile situazione. I comportamenti eroici sono isolati ed eccezionali. La risposta all’emergenza è stata invece compatta, immediata e ovvia pur sapendo perfettamente i rischi connessi nell’affrontarla. È però inaccettabile che questi rischi siano stati grandemente aumentati per l’incapacità dell’alta dirigenza. Avrebbero potuto fermarsi e pretendere migliori condizioni di sicurezza; cosa neppure pensata per il costo in vite umane; puro senso di responsabilità; una risposta elementarmente umana ed etica; un movimento sconosciuto a chi ancora oggi lesina protezioni e tamponi pensando a nascondere ben altro.

L’epidemia ha fatto precipitare sotto la soglia di normalità la sicurezza degli operatori sanitari è quindi, inevitabilmente, anche quella dei pazienti. Ovvero c’è una maggiore e inevitabile possibilità di commettere errori a causa delle condizioni estreme in cui si è costretti a lavorare. A questo si aggiunge il dramma estremo di dover a volte scegliere, in carenza assoluta di letti, quali pazienti ricoverare in TI e quali no. Evidente che lasciare questa drammatica, temporanea e inevitabile situazione perseguibile legalmente potrebbe far saltare il sistema perché metterebbe in piena crisi una parte fondante dell’operato dei medici. Da parecchi giorni ormai è tornato a galla, più accentuato e velenoso che mai, lo spregevole fenomeno della pubblicità da parte di soggetti di varia natura che invitano i parenti di pazienti deceduti a fare causa a medici ed ospedali se ritengono, anche senza reali prove oggettive, che il decesso sia dovuto a qualche presunto errore medico. Il tutto gratis eccetto una percentuale sulla somma eventualmente percepita a fine processo. Allettante per alcuni il ragionamento: vale la pena di provarci, non c’è niente da perdere e semmai tutto da guadagnare. La cosa ha da sempre sui medici un effetto devastante perché innesca una spirale incontrollata di paura, insicurezza e sospetto nei confronti dei pazienti che sfocia nella medicina difensiva. Ovvero l’evitare il più possibile pazienti rischiosi e prescrivere esami, farmaci e consulenze non indispensabili solo per poter eventualmente dimostrare, in caso di denuncia, che è stato fatto il possibile per il paziente. In realtà comportamenti che non giovano a nessuno ma generano invece rischi aggiuntivi e non percepiti. I medici sanno benissimo di poter commettere errori e cercano sempre accuratamente di evitarlo. Ciò che i medici temono di più è l’essere accusati ingiustamente nonostante abbiano fatto tutto il possibile per il paziente e per evitare di sbagliare.

È la denuncia che fa scattare il vissuto sempre destruente a prescindere da come, dopo molti anni, andrà a finire il processo. Un vissuto lacerante che lede irrimediabilmente il rapporto con i pazienti ed il modo stesso di fare il medico e vivere la medicina. Distrugge quel quid indefinibile e personale ma di enorme valore che non è dovuto ma quasi sempre dato, che non può essere imposto e che ogni paziente silenziosamente in mille modi sempre chiede. Si chiama rapporto medico paziente ed è solo ed esclusivamente rapporto interumano. Temere che ognuno di quelli che stai curando ti può rovinare la vita professionale e privata, a prescindere dalla ragione o dal torto, lo compromette irrimediabilmente. È questo ciò che tutti dovrebbero sapere. Profondissimo quindi il malessere che da anni serpeggia tra i medici; sopito dall’epidemia ma ora bruscamente risvegliato dai comportamenti scellerati e vigliacchi di alcuni. Si era giustamente pensato ad una copertura legale che tutelasse i medici per il solo periodo epidemico a seguito delle drammatiche condizioni in cui sono costretti a lavorare; non una impunità o una autorizzazione a sbagliare ma una misura coerente alla eccezionalità delle condizioni. Non se ne è fatto più nulla perché era legata a quella, di ben altro significato, degli amministratori e dei politici; si vedrà in seguito è stato detto, con calma; forse. Queste le realtà in cui inquadrare il termine, altrimenti un po’ vuoto, di eroi.

Nonostante tutto questo la maggior parte dei sanitari continuerà a fare come sempre hanno fatto pur sapendo perfettamente che, finita questa bufera, eroi ed angeli saranno presto dimenticati e loro torneranno ad essere sconosciuti, insultati, aggrediti anche fisicamente, denunciati ingiustamente e pagati quattro soldi. Finché non si raggiungerà l’estremo limite di rottura e qualcuno si sorprenderà. Il personale sanitario è la componente più preziosa, delicata e meno sostituibile dei sistemi sanitari perché non sono le macchine, le linee guida o i farmaci che curano veramente ma l’uso che ne fanno gli uomini con il sapere intelligente ed il rapporto con i pazienti. Da decenni le professioni sanitarie sono state profondamente lese, indebolite, abbandonate ed a volte anche umiliate sia dalle istituzioni che dai tanti singoli opportunismi; sempre però pretendendo di salvare a tutti la vita. C’è qualche cosa che non va in questa storia.
Quando sarà finita ricordiamoci di tutto questo; quando chi ha fatto, per interesse, questi immensi danni alla sanità, cioè anche ad ognuno di noi, farà finta di cambiare affinché tutto resti come prima. Pessimismo? No; realismo e realtà vere contro cui ancor più strenuamente dovremo resistere e lottare.

Quinto Tozzi, cardiologo; già responsabile di terapia intensivista cardiologica; già direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)

La mia carezza quotidiana mi ritira la spazzatura

Foto Claudio Furlan/LaPresse 31 Marzo 2020 Milano (Italia) cronaca Squadre della nettezza urbana Amsa sanificano Piazza Duomo Photo Claudio Furlan/LaPresse 31 March 2020 Milano (Italy) news Worker from Amsa wearing protection gear sanitize Piazza Duomo

Per una serie di motivi sono in isolamento, quella quarantena isolata, da solo, in cui non si può nemmeno mettere la testa fuori dalla porta, come decine di migliaia di italiani. La solitudine è qualcosa che ti mostra il mondo intorno come se lo guardassi dal fondo di un bicchiere, ingrandito e con i bordi sfumati. La quarantena per molti italiani, quelli che non vengono raccontati dalla narrazione che va per la maggiore, non è qualcosa di romantico terapeutico ma è una paura passata tutto il tempo ad ascoltare i segnali del proprio corpo, penzolando tutto il giorno intorno a un termometro e sperando di non avere bisogno di altri, di altro.

Tutti i giorni viene a ritirarmi la spazzatura un addetto. Un ragazzo giovane, con capelli e occhi neri come onice, ha poco più di vent’anni, è bardato come un personaggio di Guerre Stellari con una mascherina ipertecnologica che gli ridisegna il viso, due proboscidi di gomma. Si vedono gli occhi, nerissimi. È il lavoratore che tutte le mattine fa il giro delle persone in isolamento e si vede lontano un chilometro che ha una paura blu, seduto nel suo camioncino chiuso dentro come se fosse un fortino, abbassa il finestrino solo per porgere il sacco che servirà per domani. Ogni giorno sorride. Nonostante tutto. Nonostante quel mestiere invisibile che l’ha portato sull’orlo del burrone, nonostante non sia uno di quelli che viene romanticizzato durante questa quarantena.

Nei momenti in cui tutto sembra sul punto di crollare improvvisamente gli invisibili mostrano quanto siano fondamentali, anche se silenziosi e nascosti. Quel sorriso è la mia carezza quotidiana, è il mio cordone ombelicale con il mondo che c’è lì fuori. Lui non lo sa ma è il mio ossigeno quotidiano. Se è classe dirigente quella che ha il potere di modificare il nostro quotidiano allora la mia classe dirigente è quel camioncino che passa tutte le mattine e quella voce che mi avvisa, sto arrivando, mi dice.

Ci sono mestieri che attraversiamo senza nemmeno accorgercene, li incrociamo per strada e non catturano nemmeno per un istante il nostro sguardo. Sono i mestieri che stanno tenendo in piedi questo Paese e che lo tenevano in piedi anche prima del virus. Sono i cosiddetti lavori bassi e invece quanto siamo bassi noi quando iniziamo a dare per scontata anche la fatica delle persone.

Grazie, ragazzo.

Buon mercoledì.

L’antisemitismo di Corbyn era una bufala per farlo fuori. Le prove in un dossier

Il tema dell’antisemitismo all’interno del partito Laburista è stato centrale durante la leadership di Jeremy Corbyn. O meglio, è stata centrale la vulgata secondo la quale Corbyn e i suoi sodali alla guida del partito avrebbero favorito o quantomeno non scoraggiato l’antisemitismo all’interno del Labour.

In realtà, come riportato più volte anche su Left, non si è mai trattato di accuse specifiche nei confronti di Corbyn. Anche i suoi più acuti detrattori, incalzati, finiscono per riconoscere che non pensano che l’ex leader laburista sia personalmente un antisemita. Piuttosto, Corbyn veniva accusato di non aver fatto abbastanza per affrontare il problema, di aver chiuso un occhio nei confronti dei suoi sodali che avevano atteggiamenti antisemiti.

Uno stillicidio continuo che ha intaccato l’immagine di Corbyn e del partito Laburista, trasformato da incessanti campagne mediatiche in un partito “istituzionalmente razzista”, che costringeva i propri parlamentari di religione ebraica a dimettersi per le minacce ricevute, che addirittura metteva in pericolo la sicurezza dei cittadini britannici di religione ebraica. Questa campagna è diventata particolarmente serrata nell’estate del 2019, quando lo stallo parlamentare sulla Brexit e la defenestrazione della May da parte di Johnson rendevano molto probabili nuove elezioni politiche.

La vicenda ha avuto due momenti chiave: il primo a maggio 2019, con l’apertura di un’indagine da parte della Equality and Human Rights Commission (Ehrc) commissione statale che ha il compito di vigilare sul rispetto delle norme contro la discriminazione; il secondo qualche mese dopo (10 luglio 2019), quando la Bbc trasmette un documentario all’interno della trasmissione Panorama in cui ex dipendenti del Labour descrivono il partito a guida Corbyn come un partito intrinsecamente antisemita e con una leadership attivamente impegnata nell’insabbiare le denunce interne di antisemitismo. Il documentario fece scalpore a causa dell’alto rango dei funzionari coinvolti: tra questi, l’ex party secretary Ian McNicol, e l’ex responsabile dell’ufficio legale, Sam Matthews.

Veniamo all’oggi. L’indagine della Ehrc non si è ancora conclusa, e il partito Laburista vi sta collaborando fornendo documentazione atta a chiarire i suoi meccanismi disciplinari interni. Sabato scorso, si è scoperto che tra questi documenti sarebbe dovuto figurare anche un dettagliato rapporto sul funzionamento dell’ufficio legale del partito nel periodo 2014-2019. Tuttavia, secondo quanto riferisce SkyNews, gli avvocati del Labour hanno invitato il partito a non allegare questo documento, apparentemente perché questo avrebbe potuto peggiorare la posizione del partito stesso. Passano poche ore e l’intero rapporto – di ben 860 pagine e corredato da email, messaggi Whatsapp e altri dati sensibili – compare sui social media, scatenando un vero e proprio putiferio. In effetti, il documento contiene elementi estremamente controversi, ma non riguardo l’antisemitismo.

Sebbene gli estensori del rapporto (ancora ignoti) ammettano come alcuni membri del partito abbiano mostrato comportamenti antisemiti “della peggior specie”, non sono state rinvenute prove che questi siano stati condivisi da parte della leadership laburista né tantomeno tentativi di insabbiamento da parte di Corbyn o del suo staff. Quello che invece emerge da questa indagine interna è la testimonianza inconfutabile di un attivo boicottaggio da parte dei più alti funzionari del Labour, assunti dalle gestioni precedenti, nei confronti del proprio partito e in particolare del proprio segretario. Il rapporto evidenzia come il quartier generale del Partito fosse animato da un’atmosfera settaria, in cui la buona gestione appariva messa in secondo piano rispetto agli interessi di fazione: essenzialmente, la destra del partito.

“Ironicamente” si tratta proprio degli stessi funzionari comparsi nella trasmissione Panorama lo scorso luglio, a partire dall’ex segretario McNicol (oggi elevato alla Camera dei Lord). Il rapporto mostra come durante la loro gestione l’ufficio incaricato dei procedimenti disciplinari operasse in maniera poco professionale, e che molti casi di razzismo e discriminazione siano stati nei fatti ignorati. Il documento si spinge addirittura a sostenere la tesi secondo la quale la gestione di certi casi di alto profilo sia stata volontariamente manipolata dai funzionari proprio per creare imbarazzo alla leadership.

Tuttavia, l’ufficio aveva dimostrato di saper lavorare in maniera efficiente su dossier ritenuti più “prioritari”. Tra questi, quello che i funzionari nelle loro conversazioni private chiamavano “trot hunting”, la caccia al trotzkista: sospensioni ed espulsioni irrogate a membri di nuova iscrizione, sull’onda del successo di Corbyn, sospettati di avere una storia politica di estrema sinistra.

Il rapporto contiene molti altri dettagli sul conflitto tra apparato di partito e staff di Corbyn, ben al di là della questione antisemitismo. Da questo vero e proprio “dossieraggio”, fondato su oltre 10mila email e chat interne, emergono rivelazioni del tutto esplosive. Per dare un assaggio: gran parte dei funzionari si augurava apertamente la sconfitta del Labour alle elezioni del 2017, progettando la sostituzione di Corbyn con il sempre più acerrimo nemico Tom Watson.

L’exit poll che dava il Labour in crescita e i Conservatori di Theresa May senza maggioranza venne accolto come uno choc, o nelle parole di una dirigente «il contrario di tutto quello per cui abbiamo lavorato in questi anni». Dal rapporto sembra trasparire come i funzionari gestissero, all’insaputa della leadership, una linea di finanziamento diretta a finanziare le campagne di candidati espressione della destra del partito. Tra questi, il futuro “scissionista” Chuka Umunna, candidato nel sicurissimo collegio londinese di Streatham.

Nelle loro chat private, anche i più alti funzionari si lasciavano andare ad affermazioni di dubbio gusto su militanti, parlamentari, e colleghi, talora in termini razzisti e sessisti, o vantando veri e propri atti di bullismo (es. rivelazioni alla stampa di fatti privati). Tra i bersagli principali Corbyn e il suo staff, le Mp Diane Abbott (“ministro ombra” dell’Interno) ed Emily Thornberry (Esteri), ma anche semplici militanti. Le scorrettezze nei confronti di Diane Abbot sono particolarmente odiose essendo lei la prima parlamentare nera della storia inglese ed è vittima da decenni di pesantissimi attacchi personali e battutacce razziste. Addirittura in una occasione la Abbot – che è uno dei simboli della sinistra interna del partito – si era rifugiata in bagno per piangere in seguito ad un episodio spiacevole in Parlamento e lo staff del Labour ha scoperto in quale bagno fosse e lo ha riferito alla stampa perché potessero andare a cercarla.

Solo nel 2018, Corbyn sostituisce Iain McNicol con una sua alleata, Jennie Formby. Quasi tutti gli altri funzionari citati nel rapporto si dimettono nei mesi successivi. Da quel momento, rileva il documento, il Labour, ha introdotto regole disciplinari più severe e rafforzato il proprio sistema di soluzione delle controversie, affrontando i casi di antisemitismo in maniera più efficace che in passato.

A suo modo, il rapporto rende giustizia a Jeremy Corbyn. Pur riconoscendo senza mezzi termini che l’antisemitismo è un problema nel Labour (e nella società britannica), non vengono rinvenute prove a suffragio delle accuse più infamanti indirizzate in questi anni. Piuttosto, emerge con chiarezza come i suoi avversari interni abbiano seguito una strategia di aperto boicottaggio, al punto da mancare ai propri doveri professionali – tristemente, anche a danno dei militanti che hanno sofferto discriminazioni. Il rapporto è anche un bella gatta da pelare per Keir Starmer che ha appena stravinto il congresso del Labour proprio con la promessa di porre fine alle esasperate divisioni interne e si trova adesso a dover gestire una crisi getterà benzina sulle divisioni tra destra e sinistra del partito.

Tutti sul “quando” e invece ci serve il “come”

Foto Fabio Ferrari/LaPresse 08 Aprile 2020 Collegno, Torino, Italia Cronaca Emergenza COVID-19 (Coronavirus) - Servizio "Pit-Stop": tamponi senza scendere dall’auto. ll test veloce di controllo su persone positive e non più sintomatiche sul territorio dell’azienda sanitaria Asl To3 di Collegno (Torino). Il progetto è dedicato ai pazienti Covid positivi in sorveglianza sanitaria e in isolamento domiciliare che necessitano di test con tampone per la verifica della negatività virologica. Photo Fabio Ferrari/LaPresse April 08, 2020 Collegno, Turin, Italy News COVID-19 (Coronavirus) "Pit-Stop" service: swabs without getting out of the car. The quick check test on positive and no more symptomatic people on the territory of the Asl To3 healthcare company in Collegno (Turin). The project is dedicated to positive Covid patients in health surveillance and in home isolation who need swab tests to verify virological negativity.

Un Paese intero appeso alla conferenza stampa della Protezione Civile delle 18. Una messa laica che si ripete ogni giorno e tutti con l’orecchio teso ad ascoltare i numeri, le parole, le impressioni e quelli che vedono ottimismo e quelli che sentono che non è ancora abbastanza e tutta una ridda di opinioni che inondano le televisioni, internet e le radio, spesso discordanti se non addirittura opposte.

Ci misuriamo la febbre tutti i giorni e tutti i giorni il nostro termometro è un elenco di numeri messi in colonna che determinano l’andamento della nostra giornata, dei nostri umori, della nostra speranza come se vi fosse tutto lì, quello che siamo e quello che saremo, come se l’unica via possibile sia uscirne il prima possibile per tornare a essere quello che eravamo. Tutti incollati a capire quando finirà tutto come se il fato fosse l’unico giudice e noi qui, inermi a subire il destino con quell’infantile voglia di schiudere gli occhi e sperare che tutto finisca come quando si era bambini.

Ma non siamo bambini, no, e quei numeri forse andrebbero presi un po’ meno sul serio. Il vicedirettore de Il Post lo scrive perfettamente in un suo post: i “contagiati” non sono il numero dei contagiati poiché ormai anche la Protezione Civile riconosce che sono almeno dieci volte di più, i “morti” sono molti meno di quelli che sono morti al di fuori degli ospedali e non sono stati tamponati, i “guariti” comprendono un enorme numero di persone che sono state dimesse dall’ospedale ma non risultano ancora guarite e i “tamponi” non sono le persone che sono state sottoposte a tampone ma il totale dei tamponi eseguiti anche sulla stessa persona. Insomma, un po’ poco per affidare a questi numeri il senso della nostra vita e di quella che verrà.

Se ci pensate in compenso si parla in continuazione di quando finirà (i medici non sanno più come dire che è una domanda a cui non si può rispondere ora, c’è una sola risposta, vaccino) e poco o niente di come fare. Ma dove sono i tamponi? Dove sono le mascherine? Come li riconosciamo i presunti sani che invece sono malati quando domani rientrano in fabbrica? Siamo d’accordo che il tracciamento delle persone sia la soluzione più rapida e funzionale a disposizione? Perfetto, a che punto siamo? C’è qualcuno che ha una visione di come vivere una normalità che saremmo costretti a cambiare? Con quali strumenti? Con quali regole? In un Paese normale, se ci pensate, in un Paese maturo, il dibattito si farebbe su questo, già da un bel pezzo. Anche perché oggi è il 14 aprile e molta gente è tornata a lavorare. E la domanda è sempre la stessa: come?

Buon martedì.

Fuga dalla quarantena attraverso i classici

Gli studenti, diceva al principio del Duecento il dotto cistercense Elinando di Froidmont, non stanno mai fermi. «Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Parigi, gli autori classici ad Orléans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo». Al netto della tirata moralistica, la rivoluzione universitaria medievale vede nella mobilità un imperativo categorico. Per formarsi bisogna spostarsi.

In questi giorni terribili possiamo riflettere sul fatto che proprio il medioevo abbia inventato tre istituzioni che fanno da midollo spinale del mondo moderno e civile – l’università, l’ospedale, il Comune. E che l’università sia ora costretta a negare per qualche tempo la sua natura dinamica, insegnando da ferma. Anche se non siamo contagiati o non abbiamo parenti o amici colpiti dal virus, stiamo comunque sperimentando una fortissima limitazione della libertà di movimento e di relazione; e come docenti, la difficoltà di svolgere il nostro mestiere nella chiusura simultanea di aule, biblioteche, archivi, musei, luoghi della cultura in genere. E non c’è torre d’avorio che possa farci sentire meno diminuiti da questa ondata di morti. Insegnare diventa difficile non solo perché non si è in aula, ma ancor più perché bisogna trovare le parole adatte al giorno e all’ora. La sospensione forzata potrà servire a farci riflettere – non solo noi universitari, ma tutta quella società che si reputi civile – su quanto spazi e istituzioni come quelle siano indispensabili alla nostra vita, e quanto la loro chiusura incida sul funzionamento di un Paese. E magari a indurre la politica a ragionare sulla necessità fisiologica di investire seriamente sulla ricerca e sull’istruzione. Ma anche al senso della nostra missione.

Da oltre un mese stiamo riflettendo, con responsabilità mista a smarrimento, su come possiamo svolgere il nostro ruolo di fronte a una simile emergenza. Non a caso ho adoperato la metafora eburnea per alludere all’isolamento dell’intellettuale: in questo momento sto tenendo un corso sugli avori medievali e più volte mi sono chiesto che senso abbia parlare di oggetti magnifici ma così lontani da noi quando le nostre vite stanno cambiando così profondamente. Ma vite, città, paesaggio e mondo sono impregnate di immagini anche remote. Per quanto ci possa sembrare bizzarro, noi siamo quel che siamo anche perché mille anni fa un genio rimasto anonimo ha intagliato nell’avorio la coperta del Codex Aureus di Echternach, facendo del Crocifisso una maschera di umanità sofferente che mai si era vista, e la matrice di molte cose che si vedranno. E proprio riscoprendo e rileggendo questa identità maturata nel tempo possiamo trovare spunti e occasioni per non perdere un senso della storia che ci aiuti a relativizzare quel che sta accadendo con tutta la lucidità necessaria. Relativizzare non significa minimizzare, ma variare punti di riferimento e pietre di paragone. In questi giorni si parla spesso di Camus e Saramago, oltre che, ovviamente, di Manzoni e Boccaccio. Ma la percezione letteraria delle epidemie non può eludere Tucidide e Lucrezio.

Legittimo domandarsi quale sia il modo migliore di seguitare a far didattica, ma in fondo anche se si possa riconoscere agli storici dell’arte un ruolo specifico in questo frangente. Tanto più che la materia prima delle nostre ricerche non è al momento accessibile. Ma dobbiamo liberare subito il campo da un equivoco che potrebbe diventare pernicioso anche in tempo di pace: le lezioni a distanza, soprattutto nel comparto umanistico e a maggior ragione in quello storico-artistico, sono surrogati palliativi che non potranno mai sostituire il calore, la vitalità e l’interattività di una lezione in aula, seminariale o frontale che sia, e tanto meno una visita mirata davanti all’opera. Pernicioso perché la didattica digitale può incontrare fervidi estimatori anche passata l’emergenza. E quindi provocare rimodulazioni dell’offerta formativa che siano ispirate dall’adesione a un formato ritenuto più moderno e flessibile – in nome di una malintesa idea di aggiornamento – e non da progetti condivisi maturati all’interno della comunità scientifica. Ma resta che in questa fase dobbiamo saper sfruttare al meglio il privilegio di seguitare, nel blocco generale del Paese, ad aiutare centinaia di migliaia di giovani italiani (e di riflesso tutti coloro che entrano in contatto con loro) a farsi contagiare dal virus benigno della riflessione: l’argine culturale e psicologico di ogni pandemia. Ecco: anche gli avori medievali servono a rimanere aperti per pensare. E a restare vivi e umani

I nostri atenei si sono attivati con modalità differenti, secondo l’attrezzatura tecnologica di ciascuno, per garantire forme varie di didattica a distanza. In questa prima fase si sono seguite in genere due vie: lezioni tenute interamente in diretta, anche in un’aula vuota, ma comunque pubblicate su piattaforma digitale (una prassi che le ulteriori restrizioni credo abbiano sospeso quasi dappertutto); ovvero caricamento su piattaforma di presentazioni in powerpoint con registrazioni audio, o anche di soli file audio. Una soluzione veloce e funzionale, che tuttavia impedisce ogni interattività. Più sofisticata, e ancora bisognosa di rodaggio da parte di docenti non sempre avvezzi a questo sistema, è una lezione in videoconferenza, in cui gli allievi possono interagire in chat ed eventualmente prendere la parola. Sia i docenti che i discenti stanno prendendo confidenza con i mezzi strada facendo, nell’ipotesi, ormai sempre più concreta, di arrivare a giugno senza più tornare in aula. Stiamo tutti imparando ad imparare, insomma.

Infatti la modalità di insegnamento “da remoto” cambia anche quando sembra somigliare alla classica lezione frontale, ma cambiano eccome anche le modalità di apprendimento, che tende a diventare un fritto misto di pezzi e bocconi. Come quando guardiamo un film in dvd e lo interrompiamo dove e quando ci pare, e così lo riprendiamo e lo rivediamo. Tra l’opera d’arte e lo studente si crea una doppia mediazione, perché il docente è un mediatore che si avvale di strumenti riproduttivi, come le proiezioni. Ma in questi casi abbiamo mediazioni di mediazioni, e per giunta parcellizzate. E per un po’ di tempo gli originali sono negati alla vista. Molti capolavori d’avorio stanno a quattro passi da noi, al Museo del Bargello, ma non possiamo fisicamente avvicinarli.

Al netto dei formati digitali, sono anche i contenuti a dover venire rimodulati, proprio a causa della specificità dei mezzi di comunicazione. Dobbiamo in realtà tornare a ragionare anche su cosa comunichiamo. Andare subito al sodo, correndo il rischio di essere troppo assertivi e poco dubbiosi. E valorizzare quel che riteniamo davvero importante, senza perdere di vista una bibliografia che a sua volta sarà condizionata dalla chiusura delle biblioteche. Vale anche per noi: si lavora con quel che si ha sui propri scaffali, o nel pc. O si trova sul web o su banche dati. Per questo una buona didattica deve combattere pure il rischio dell’isolamento e dell’autoreferenzialità. Come la ricerca, anche la didattica si costruisce infatti nella condivisione dialettica del sapere. Non possiamo comunicare l’avvitamento sul nostro ombelico.

In questa prospettiva la distanza dalle aule e la rinuncia forzata a visite sul campo, viaggi e convegni possono esserci di stimolo ad affinare una didattica che sia comunque efficace, e intanto a ripensare oggetti e metodi della disciplina, a ritrovare una dimensione di ascolto. E pure a riguadagnare il beneficio di una lentezza che può servirci a ripartire con altra consapevolezza del nostro ruolo. Nei primi giorni dell’emergenza ci siamo illusi che i musei restassero aperti, incoraggiando il ricorso all’arte anche come antidoto all’alienazione e alla paranoia, oltre che come strumento privilegiato per comprendere il mondo e alimentare identità e senso di comunità. Ma forse proprio la distanza rende ancora più importante la dimensione etica del nostro lavoro, la funzione sociale del fare storia dell’arte. Proprio l’emergenza può aiutarci a ritrovare uno spirito di comunità interattiva che non sempre sappiamo coltivare nella quotidianità frenetica del tempo normale (e a rallentare il tempo, quando tutto sarà finito). E predisporci a nuovi e più consapevoli viaggi. Intorno al 1120 Ugo di San Vittore distillava la propria esperienza di docente in un manuale intitolato Didascalicon, e ribadiva che il bravo studente deve fare esperienza all’estero, perché la stessa dimensione interiore va esplorata nella luce dei diversi contesti, e non del proprio studiolo.

«È molto sensibile l’uomo che sente ancora la dolcezza della terra natale, è già forte colui che sa fare di ogni luogo la sua nuova patria, ma è veramente perfetto nella virtù colui che valuta tutto il mondo come un luogo d’esilio. Il primo ha fissato il suo amore in una parte della terra, il secondo lo ha distribuito in molti luoghi, ma il terzo ha annullato in sé stesso l’amore del mondo». Nell’attesa che ripartano treni e aerei, possiamo intanto fare quel che suggerisce Ugo nella nostra mente, attraverso relazioni umane che devono diventare ancor più profonde. Perché sono voci come queste, e non la nuova peste nera, a rendere il medioevo attuale.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 3 aprile 

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L’amico sconosciuto

Quando ha scritto Sulle ali degli amici, una filosofia dell’incontro (Marsilio), testo filosofico aperto alla lettura del presente, la pandemia non era ancora immaginabile. Ora, in questo difficile scenario il libro di Pietro Del Soldà ha assunto un senso ancor più cogente. «Ho finito di scrivere all’inizio di quest’anno e a ripensarci mi sembra tanto tempo fa», ammette il giornalista di Rai Radio3, studioso di filosofia e scrittore. «Ma sto anche realizzando che il tema forte del libro, cioè la proposta di un’idea di amicizia più profonda, coinvolgente e “politica”, sta acquistando sempre più attualità e concretezza». L’importanza dell’amicizia, non solo come fatto privato, «ora in questa surreale esperienza di immobilità, incertezza e distanziamento sociale solo in parte mitigata dal “buon uso” di smartphone e tablet, si è resa più evidente. La crisi è anche questo: è visione del cuore pulsante della nostra vita e dei problemi veri».

La pandemia ha reso evidente a tutti la centralità del “noi” e del senso della collettività. Ha messo in luce la nostra interdipendenza, il fatto che nessuna persona è un’isola e l’importanza della tutela della salute come bene pubblico.
Oggi ci rendiamo conto che siamo espressione di un corpo sociale. Non siamo solo cittadini di una democrazia che garantisce la libertà individuale, in gioco c’è dell’altro: la sfera pubblica entra prepotentemente nelle nostre case, nell’intimo delle relazioni, le condiziona, addirittura le impedisce. La sfida per ciascuno di noi consiste nel non vivere tutto questo solamente come una colonizzazione del nostro spazio.

Anche la parola “libertà” va ripensata?

Dobbiamo reagire capendo che la libertà non ha senso senza la responsabilità. Questo oggi ci è richiesto: essere responsabili, dare cioè risposta all’appello che viene da fuori. Possiamo scoprire che è falsa l’idea, pur molto rassicurante, secondo la quale ogni gesto che compiamo è reversibile, per lo più non rilevante perché ci scivola addosso come l’acqua sulla pelle. Oggi, al contrario, capiamo che in ogni azione ne va di noi stessi. Cade così quel diaframma che “prima” separava l’io più profondo, privato e quasi nascosto, dalle azioni che compiamo nel mondo esterno. E l’aspetto ancor più illuminante di questo periodo è che, proprio mentre riscopriamo il peso e l’irreversibilità delle nostre azioni, ci ricongiungiamo al corpo sociale di cui siamo parte e che dipende da ogni nostro gesto per la sua sopravvivenza.

Aristotele sosteneva che l’uomo è animale politico. Queste settimane di isolamento e distanziamento come responsabilità verso gli altri sconfessano pienamente il pensiero neoliberista fondato sull’assunto thatcheriano: «Non esiste la società esistono gli individui»?

L’individuo “thatcheriano”, lanciato in una corsa solitaria verso una felicità tutta sua, che vede gli altri come competitor o come spettatori (on line e off line) delle sue performance, è il mito su cui si fonda la società in cui viviamo. Ma in realtà è frutto di un errore di prospettiva che ci impedisce di essere davvero unici e diversi. Quell’individuo, considerando la relazione (d’amicizia ma non solo) come strumento per perseguire obiettivi personali, non sa vivere la relazione come orizzonte esistenziale, in cui soltanto può prender forma la sua vera natura. Solo gli amici, nel senso dei philoi di cui parlano gli antichi, proprio in quanto vivono l’uno per l’altro, riescono anche a differenziarsi. L’individuo thatcheriano, al contrario, è un modello stereotipato, che induce al più radicale conformismo.

L’amicizia è disinteressata. È una scelta libera non  vincolo di sangue. Non è esclusiva, non ha a che fare con il calcolo, con l’utile, «è anti-economica», tu scrivi. In certo senso scardina l’antropologia capitalistica incentrata sull’homo oeconomicus?

L’homo oeconomicus ottimizza i mezzi secondo una razionalità calcolante che pensa solo al fine individuale da perseguire, ogni cosa viene ricondotta al suo incessante calcolare. Ma l’oikonomia, in realtà, è l’amministrazione della casa, oikos, che non può essere estesa fino a coincidere con la polis: farlo (è proprio quello che facciamo noi da molto tempo) è un errore. L’amicizia a cui io penso è invece una forza che mi apre, mi espone al “pericolo” del contatto con l’altro, e che richiede da me la dispersione delle certezze consolidate, dei tesori (di fama, di sicurezza, di tranquillità) accumulati sin qui. L’amicizia vera mi mette in gioco, mi mobilita, non m’acquieta ma m’inquieta, esponendomi così però all’esperienza della felicità più grande.

Potrebbe essere proprio l’amicizia, intesa anche come rapporto orizzontale, solidale, di reciprocità una delle chiavi per la tenuta sociale oggi e per la ripresa?

Sì, se però la intendiamo non come una solidarietà tra “simili” per fare gruppo contro i diversi, contro gli untori. L’amicizia a cui penso è anzi una forza che abbatte i fortini dell’io narcisista, competitivo, performativo, e del noi sovranista che vede gli altri come minacce. L’amicizia come apertura e come consapevolezza che siamo parti di un destino comune è la chiave per ripartire. Quest’amicizia, insegna del resto Aristotele, è il vero «cemento della polis», «che i saggi legislatori tengono persino in maggior conto della giustizia».

In questi drammatici mesi abbiamo visto moltissimi gesti di solidarietà, dalla spesa sospesa, ai concerti sui balconi. Sono gesti che hanno a che vedere più con l’amicizia per come tu la definisci a partire da Socrate e Aristotele che con la carità. Cosa le distingue?

La carità è amore del prossimo “attraverso Dio”, è amore dell’uomo in quanto uomo, non fa distinzioni, non si sofferma a conoscerlo, a esperirne il carattere. L’amicizia è invece conoscenza, è anzi l’unica via possibile per conoscere non solo l’altro ma anche noi stessi. Sono amori diversi che però non si escludono bensì, al contrario, possono coesistere e cooperare. L’amicizia vissuta come rapporto esclusivo, che volta le spalle alla comunità di cui gli amici fan parte, nega se stessa. Oggi vedo molta voglia di rapporti profondi, basati sulla condivisione dei pensieri e delle emozioni più importanti (e questa è l’amicizia vera che stiamo riscoprendo nella crisi), e pure molta voglia di aiutare chi non conosciamo e non conosceremo mai (la spesa sospesa ne è un esempio perfetto). Dobbiamo impegnarci affinché quando, passata la paura, la fase 3 (grazie al vaccino) ci restituirà alla normalità, tutto questo non scivoli via insieme alla paura del Covid-19.

L’amicizia arricchisce la vita interiore e affettiva, ha a che vedere con l’apertura verso l’altro, il diverso, lo sconosciuto, «non è comoda», è un «gioco serio», è dialogo e dialettica. È una dimensione dinamica che stimola la ricerca e la conoscenza?

L’amicizia vera non è solo un volersi bene affettuoso e rassicurante. Il mio libro si apre con la morte di Socrate, il quale accetta la condanna a morte e rifiuta la possibilità di salvarsi andando in esilio (cioè verso una vita non più “politica”), mentre i suoi amici più cari non si danno pace, cercano di convincerlo a fuggire e poi si disperano. Le loro lacrime, per noi segno di affetto sincero, sono invece per Socrate la prova del fatto che quegli uomini non sono ancora all’altezza della vera amicizia. L’amicizia richiede apertura di sé e impegno, richiede fatica, è una «messa in pratica del bene» non assicura ma ci espone anzi alle forze più impetuose e più creative. Quelle forze si agitano anche dentro ciascuno di noi, anche se spesso le ignoriamo per quieto vivere, pigrizia o paura: l’amico è colui che mi rimette in contatto con esse, tira fuori la mia energia creatrice e mi consente di darle piena espressione. Per questo definiscono l’amicizia una con-creazione.

La bellezza salverà il mondo diceva Dostoevskij, in che modo bellezza e amicizia si legano?

Socrate dice a un certo punto «ciò che è amico è il bello, e come il bello, così l’amico non si lascia definire, ci sfugge di mano perché è scivoloso e lucente». Paradossale come sempre, Socrate ci invita a pensare l’impensabile: bellezza e amicizia hanno la stessa fonte, sono esperienze di quell’armonia dinamica delle passioni che solo insieme agli amici posso davvero sperimentare, e verso la quale sono sospinto dall’incontro con la bellezza terrena (un’opera d’arte, un paesaggio, il volto di una persona) che “mi mette le ali” e mi eleva oltre la paura, la noia e il disgusto. Frasi enigmatiche, che nel libro “sciolgo” mettendole alla prova con esempi concreti del mio rapporto con la bellezza della letteratura e della pittura.

Molti pensatori antichi consideravano l’amicizia come un valore fondante della polis, come è avvenuto che abbia preso il sopravvento un’ideologia feroce come quella proposta da Hobbes e che sopravvive oggi in teorie nazionaliste, sovraniste basate sulla costruzione del nemico?

La concezione dell’altro come un nemico non si esprime solo nel sovranismo. Anche l’individualismo esasperato si oppone all’altro (come singolo e come Stato). Se vogliamo davvero contrastare il successo dell’inimicizia nella politica contemporanea, dobbiamo anche ripensare quanto dell’opposizione amico-nemico, tipicamente espressa nel ’900 da Carl Schmitt, sopravviva nel cuore delle nostre democrazie avanzate.

L’amicizia fra i popoli, la collaborazione a livello internazionale sono assolutamente necessarie per battere il virus. Il sovranismo fallisce completamente di fronte all’emergenza che stiamo vivendo?

La cooperazione internazionale è la chiave per uscirne, e in questo senso l’esperienza della collaborazione scientifica a livello globale per trovare farmaci efficaci e un vaccino costituisce un modello da “esportare” oltre i confini della scienza, negli ambiti ben più conflittuali dell’economia e della geopolitica. È la sfida che abbiamo di fronte: possiamo vincerla o perderla, dipende da noi, da tutti noi, nessuno escluso.

Da ultimo una domanda al conduttore e autore di Tutta la città ne parla: la radio, intesa come servizio pubblico, in questo momento è una “voce amica” che può aiutare, portando nelle case informazione, ma anche strumenti per la didattica, rompendo il guscio dell’isolamento fisico?

Nel libro dedico alcune pagine alla “amica radio”. La radio (il mezzo di comunicazione più affidabile per il pubblico europeo) riscopre oggi una nuova vita e funzione. A Radio3 ci siamo resi conto che le nostre parole e i nostri suoni “nudi”, non rivestiti da immagini, non sono stati sommersi dall’esplosione mediatica del coronavirus. Abbiamo dato molto spazio alla competenza di chi ne sa di più e all’esperienza delle persone coinvolte che, con i loro messaggi, si sono rivelate “autori” al nostro fianco. E poi, come sempre, abbiamo dato spazio alla bellezza, intesa non come fuga dalle bruttezze del mondo ammalato (sarebbe come l’esilio di Socrate), ma come cura, come terapia per la nostra sofferenza e preoccupazione, per elevarci insieme a pensare un mondo migliore.

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

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Il virus del fondamentalismo

Fase 2. Come ne usciamo? Serve un colpo d’ala. Serve immaginazione, una visione politica. Servono massicci investimenti in ricerca scientifica e nella sanità pubblica. Ma non solo. Quella che inizialmente era una crisi sanitaria sta diventando una questione sociale.

Uno degli effetti più evidenti del coronavirus è l’impoverimento generale della popolazione. E c’è il rischio che il tasso di povertà continui a crescere. Basterà il «poderoso intervento da 400 miliardi» annunciato dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che va ad aggiungersi ai 25 miliardi già stanziati? In quanto tempo saranno erogati gli aiuti di Stato? E quali altri provvedimenti saranno messi in campo per chi più di tutti rischia di rimanere indietro? Pensiamo per esempio a colf e badanti, lavoratori stagionali e intermittenti, ai lavoratori atipici e agli autonomi; pensiamo a chi lavora in nero e ai migranti, braccianti agricoli sfruttati e sospinti dai decreti Salvini ancor più in zone grigie di “irregolarità”. In Portogallo il premier Antonio Costa ha lanciato una moratoria, regolarizzando i lavoratori senza permesso di soggiorno e i richiedenti asilo: proposta da emulare ma che da noi ha avuto solo un timido rilancio, come si racconta in questo numero.

“Nessuno resti indietro” avevamo titolato due numeri fa, quando il lockdown doveva essere necessariamente il più serrato possibile per impedire che tante regioni raggiungessero il picco assieme, facendo crollare il Sistema sanitario nazionale. Nessuno resti indietro, ripetiamo, tanto più ora che si inizia a parlare di ripartenza. Con quali misure di sicurezza per i lavoratori? Con quali garanzie per tutti i cittadini rispetto alla necessità di essere tracciati al fine di poter convivere con il virus finché non ci sarà un vaccino? Come cambierà la nostra idea di libertà? Sono questioni niente affatto secondarie che solleviamo in questo sfoglio.

Non solo. Conte parla di «fase 2», ma manca ancora un piano sufficientemente articolato. Per cominciare bisognerebbe varare un reddito di resistenza come hanno proposto Marco Almagisti e Paolo Graziano su Left. Servono maggiori misure di sostegno al lavoro, massicci interventi pubblici. E – torniamo a proporre -, si potrebbero recuperare risorse anche dal taglio dalle spese per gli armamenti, dal recupero dell’evasione fiscale, dall’Ici non pagata dalla Chiesa. Occorre una patrimoniale dicono perfino politici che non sono mai stati di sinistra come Pierferdinando Casini. Non una sorta di flat tax, pensiamo noi, ma una patrimoniale o una efficace tassazione dei redditi modulata secondo il principio costituzionale della progressività.

Ma soprattutto per poter pensare a una fase 2 di graduale ripartenza con tutte le cautele sanitarie necessarie (aspetto cardine su cui interviene qui Enrico Bucci) c’è bisogno della risposta di un’Europa solidale, che finalmente colga l’occasione irripetibile di inverare i principi di un’unione politica e democratica degna di questo nome, che si emancipi dalle ricette neoliberiste e di austerity come scrivono Ovadia e Ferraris, da misure che sono state scelleratamente applicate anche dopo la crisi del 2008 e hanno solo contribuito a generare ulteriori disuguaglianze.

Sappiamo, purtroppo, che quella a cui andiamo incontro potrebbe essere una crisi ben peggiore. E allora bisogna pensare da subito a possibili argini e soluzioni. Tutte da costruire, ci rendiamo ben conto, ma dobbiamo fare passi in quella direzione. Ricette preconfezionate purtroppo non ce ne sono. Come non ci sono precedenti rispetto alla fase che stiamo vivendo. Se la Cina ci è servita da modello per il lockdown, per la ripresa servono strade democratiche che tutelino i bisogni ma anche le esigenze delle persone e che mettano al centro lo Stato di diritto.

Anche per questo è necessaria maggiore collaborazione sovranazionale, sul piano economico e politico. In queste settimane abbiamo visto all’opera scienziati di differenti discipline unire le forze per cercare cure e vaccini. L’astrofisico Federico Nati ci racconta di uno straordinario progetto frutto di ingegno collettivo: scienziati di tutto il mondo con competenze diverse e che prima non si conoscevano hanno unito le forze per creare respiratori low cost, ora in via di sperimentazione. È anche una lezione di metodo quella che viene in questi giorni dalla ricerca scientifica. Dovrebbe approfittarne la politica europea.

La speranza è aperta, ma il can can a cui abbiamo assistito finora è stato avvilente, con la Gran Bretagna che ha avanzato strategie neo malthusiane e all’insegna di un feroce darwinismo sociale, con l’Olanda che ha fatto da capofila contro gli eurobond, con Paesi industrializzati che hanno innalzato barriere protezionistiche impedendo che presidi sanitari raggiungessero i Paesi che ne hanno più bisogno.

Ma se l’Europa si riduce ad essere una unione di Stati nazionali dettata da interessi particolari e rinuncia ad assumersi direttamente la responsabilità di strumenti finanziari sovranazionali, questo non significa certo che la soluzione stia in scorciatoie sovraniste e nazionaliste, nei fatti del tutto impotenti di fronte a problemi globali come una pandemia.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una drammatica ecatombe negli Stati Uniti. Il negazionismo di Trump e l’assenza di una sanità nazionale pubblica stanno causando migliaia di morti. In Ungheria, il nazionalista Orbán ha approfittato dell’emergenza sanitaria per imporre una dittatura senza riuscire minimamente a tutelare la popolazione (ne parlano qui in un ampio sfoglio Zappacosta, Trasciatti e Scheiring). Peggio ancora, dal punto di vista sanitario, ha fatto Bolsonaro invitando i brasiliani a uscire e a incontrarsi come se non esistesse alcun rischio. Come ha proposto in Italia il sodale di Orbán e Bolsonaro, Matteo Salvini, chiedendo di riaprire le chiese per Pasqua. Una proposta letteralmente fuori dal mondo, ripresa da Forza Nuova, che ha lanciato una marcia di Pasqua e una processione a San Pietro, chiamando a raccolta tutti i militanti di estrema destra, in totale dispregio delle norme sanitarie e di prevenzione.

Nella domenica delle Palme la polizia è dovuta intervenire a Frascati dove è stata celebrata messa; altri casi simili si sono verificati in Calabria e altre regioni. Del resto papa Bergoglio non aveva certo dato il buon esempio con la sua passeggiata romana (vedi Left del 20 marzo) per andare a pregare, incurante delle ordinanze a tutela della salute pubblica. Ma l’eco mediatica di plauso è stata pressoché unanime. E su eminenti giornali della borghesia illuminata come il Corsera ora si leggono commenti che invocano il ritorno della religione come fatto pubblico; è tutta una gara da Polito a Galli Della Loggia. Quale religione immaginano per la sfera pubblica degli anni Duemila e a che loro dire sarebbe un collante sociale? Quella predicata dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò secondo il quale la pandemia sarebbe una punizione di Dio contro i «peccati come aborto, eutanasia e il matrimonio omosessuale»?

A chi volesse farsi un’idea più precisa di quali e quanti danni alla salute pubblica abbiano fatto i leader religiosi durante questa pandemia consiglio di leggere il reportage di Giordano Stabile, uscito il 5 aprile su La Stampa con il titolo Santuari e moschee piene, così il virus dilaga. E ancor più il lungo, e il documentato articolo, Dieu et le virus, di Laurent Joffrin, direttore di Liberation, uscito il 3 aprile. «Confidando nella scienza più che sulle genuflessioni e benedizioni» il direttore del quotidiano francese traccia una mappa che lascia sgomenti: dalla Corea del Sud, dove i militanti della Chiesa Shincheonji di Gesù hanno chiamato i fedeli a raccolta, agli Usa dove continuano i raduni di evangelici supportati da Trump, sono innumerevoli di casi di meeting religiosi seguiti da esplosione di contagi. Qualche esempio? In Israele la metà delle persone ricoverate in ospedale proviene da comunità ultra-ortodosse. In Iran il focolaio della città santa di Qom si è espanso per le cerimonie di massa che sono continuate perché l’Ayatollah si è rifiutato di interrompere i riti, sostenendo che il santuario fosse un luogo di guarigione. A Nuova Delhi, in India, più di tremila persone hanno partecipato a un incontro della Tabligh Jamaat, un’organizzazione di missionari fondamentalisti, per poi diffondere il virus in numerose regioni, tornando a casa. Accade anche nella laicissima Francia.

Scrive ancora Joffrin: «Come ben sappiamo, è stato un incontro evangelico di tre giorni che si è tenuto nella parte orientale della Francia, il “Christian Open Door”, il propagatore più efficace della malattia sul resto del territorio, quando i pellegrini illuminati dalla grazia sono tornati a casa portando, oltre alla buona parola, grandi dosi di coronavirus con cui hanno contagiato i loro parenti e i loro vicini. La “porta cristiana” in questione è stata una porta aperta alla malattia».

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 10 aprile 

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Precari da prima che esistesse il precariato, breve storia del caporalato culturale

A sign advises that Colosseum will be closed, following the government's new prevention measures on public gatherings, in Rome, Sunday, March 8, 2020. Italy announced a sweeping quarantine early Sunday for its northern regions, igniting travel chaos as it restricted the movements of a quarter of its population in a bid to halt the new coronavirus' relentless march across Europe. (AP Photo/Andrew Medichini)

I professionisti della cultura sono stati i primi a fermarsi e saranno gli ultimi a tornare al lavoro. Molti sono a casa già dal 23 febbraio, quando teatri e cinema sono stati costretti a chiudere per il timore del propagarsi dell’epidemia di Coronavirus. E gli ultimi tra loro sono stati gli archeologi, la cui associazione nazionale (Ana) ha sollevato per settimane il problema dei cantieri non sicuri, attivi anche dopo il decreto del 22 marzo che obbligava a chiudere i servizi non necessari, non essenziali e differibili: nei cantieri, infatti, non è quasi mai possibile osservare le norme sanitarie di sicurezza ora in vigore. Contemporaneamente, del resto, c’era chi brindava lanciando hashtag come #MilanoNonSiFerma e non diceva una parola in risposta a Confindustria. Ma già qualche giorno prima, chi opera nel settore culturale aveva sperato che quello che è poi stato chiamato Decreto Cura Italia, emanato il 17 marzo, restituisse un minimo di dignità alla propria professione.

Così non è stato, perché molti sono stati esclusi da qualsiasi forma di ammortizzatore previsto e fanno oggi parte di coloro che chiedono un reddito di base universale o un reddito di quarantena. Sono ad esempio gli intermittenti dello spettacolo (circa 200mila “a chiamata”) che in altri Paesi hanno ottenuto in questa fase misure adeguate. In Francia possono contare persino su una legge che ne norma lo status giuridico, mentre in Italia non possono nemmeno ammalarsi, perché non verrebbero pagati, nonostante abbiano sempre pagato i contributi. Solo alcune regioni, infatti, hanno stabilito che potranno accedere alla cassa integrazione in deroga. E non sono solo attori e musicisti, di cui almeno un po’ si parla grazie ai volti noti scelti da Fondazione Centro Studi Doc per la campagna “Nessuno escluso” (Manuel Agnelli, Fabio Concato, Cristina Donà, Frankie Hi-Nrg, Mannarino, Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri e altri) ma anche tecnici, attrezzisti e coloro che ci permettono di assistere a concerti ed eventi. Chiusi in casa come tutti, si sono incontrati virtualmente attraverso i social o Zoom e Skype.

Lo hanno fatto creando per l’occasione il gruppo Facebook Emergenza Continua: per la tutela dei professionist@ dello spettacolo, da un’idea di Adl Cobas Parma, e hanno continuato a farlo i gruppi regionali di Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, attivi già dal 2015. Leggere i loro post equivale a compiere un viaggio in un mondo che la maggior parte di noi conosce poco pur frequentando i luoghi della cultura. Le testimonianze raccolte rendono la portata di un sistema di caporalato culturale che questi attivisti, per lo più giovani, intendono ribaltare. Mi Riconosci, che già tre anni or sono aveva lanciato un Piano per il lavoro culturale, ha ideato un questionario che ha permesso la terza raccolta dati a cura dell’associazione, partendo dalla constatazione che quando cambia il nostro lavoro, cambia la nostra vita.

 

 

Scopriamo così che metà degli intervistati ha subito l’interruzione di ogni attività lavorativa e l’azzeramento totale delle entrate, e che il 30% degli interpellati sa di non poter resistere in questa condizione più di un mese, mentre altri riconoscono che ci riusciranno solo grazie all’aiuto insostituibile della famiglia. C’è chi vorrebbe fosse riconosciuta la disoccupazione alle partite Iva, e chi, con un contratto a breve termine, non sa a cosa appellarsi.

 

Oppure chi, con un contratto a tempo indeterminato si è visto chiedere di acconsentire improvvisamente ad una riduzione oraria per essere pagato meno. Solo il 22% degli intervistati ritiene adeguate le misure intraprese finora dal governo, ma tutti hanno le idee chiare su cosa servirebbe: estensione degli ammortizzatori sociali, da subito, ma anche più vincoli alle imprese, tutele contrattuali per i lavoratori, sgravi fiscali alle imprese del settore, investimenti pubblici.

Ci sono naturalmente anche richieste condivise con lavoratori di altri ambiti: la sospensione del mutuo o del pagamento dell’affitto, un’entrata per gli stagionali e per chi è in ritenuta d’acconto, o un maggiore finanziamento nella prossima Legge finanziaria del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo (musica, cinema, teatro, danza, circo), secondo alcuni gestito attraverso favoritismi clientelari, quando quello della concorrenza dovrebbe essere un principio guida. La paura diffusa è che pur di lavorare alcuni accettino post-pandemia paghe sempre più basse, concorrendo a peggiorare la condizione di precarietà dell’intero comparto, già critica pre-pandemia, fatta cioè di stipendi ridicoli, lavoro nero, utilizzo di volontari al posto di persone formate ed esternalizzazioni che non fanno che arricchire le solite società alle quali chi visita monumenti e musei magari guarda con ingenuo interesse.

Il Decreto Liquidità dell’8 aprile ha dato speranza ad alcuni, estendendo gli ammortizzatori sociali previsti nel precedente Decreto Cura agli assunti dal 24 febbraio al 17 marzo. Questo però non cambia la sostanza: l’orizzonte non devono essere le misure emergenziali, perché come alcuni ripetono, «Siamo precari da prima che esistesse il precariato». Ossia, la situazione era già drammatica da tempo e serve ora una riforma di lungo respiro, strutturale, scritta assieme alle rappresentanze di chi questo settore lo conosce perché ci lavora, permettendo al ministro competente di sottolineare spesso quanto sia importante il suo incarico in ragione dell’indotto che deriva proprio da queste industrie. L’analisi dell’inchiesta di Mi Riconosci, conclusasi il 3 aprile, sarà presentata on line martedì 14 aprile alle 18. Sarebbe importante che qualcuno al Mibact smettesse per un attimo di twittare #iorestoacasa o #celafaremo e si collegasse, perché a quanto pare ce la faremo solo ascoltandoci.

«Prof, quanto ci manca…»

«All’improvviso tutto è cambiato». Così inizia il racconto di Tommaso, un bambino di dodici anni che insieme alla sua classe, dalla prima settimana di chiusura delle scuole ogni giorno scrive una storia per la costruzione di una sorta di nuovo Decameron datato 2020.
Ed è davvero l’incipit perfetto per raccontare quello che è accaduto in queste ultime quattro settimane (a cui si aggiungono i quindici giorni precedenti delle scuole del Nord).
È successo tutto all’improvviso ed è davvero cambiato tutto o almeno moltissimo. La chiusura delle scuole, che si sta prolungando senza che nessuno abbia ben chiara la reale durata, ha portato nella vita quotidiana di più della metà della popolazione un cambiamento inedito e senza precedenti a memoria personale.

Un’emergenza non prevista che non ha concesso alcun tempo di programmazione. La prima cosa da registrare è che questa emergenza ha rivelato molto di ciò che nemmeno i docenti sapevano di se stessi: una risposta così immediata da essere quasi inaspettata. Prima delle indicazioni ministeriali, che sono arrivate solo il 17 marzo e che sono state piuttosto generiche, la maggior parte degli insegnanti si è posta il problema di come agire e come raggiungere i propri studenti. Ci sono le eccezioni, naturalmente, ma la maggior parte dei docenti dei diversi gradi di istruzione, ha cercato una strategia per poter proseguire quello che avveniva a scuola, ognuno con il proprio metro costruito negli anni di esperienza e di vissuto scolastico.
Ogni canale è stato utilizzato: le mail, i messaggi whatsapp, le telefonate, le piattaforme didattiche e quelle per videoconferenze online.
Molti docenti per più giorni hanno fatto le ore piccole per capire il funzionamento dei marchingegni digitali o delle piattaforme web che fino quel momento erano rimaste, a torto o a ragione, fuori dalla loro quotidianità didattica.

Il primo pensiero di molti di noi è stato: battiamo un colpo, facciamoci sentire dai ragazzi e dalle ragazze, dai bambini e dalle bambine per dire: ci siamo, ci siete anche…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

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