Home Blog Pagina 509

Piccolo vademecum economico per sopravvivere alla pandemia

In piena pandemia, stiamo assistendo ad una riabilitazione dello stimolo fiscale e monetario quali strumenti di rilancio di un’economia europea agonizzante. Con buona pace dei custodi, governanti o influenti economisti, del rigore budgetario che perseverano a scorgere nell’aumento del debito sovrano i sintomi di un virus ancora più contagioso del Covid-19: quello della prodigalità pubblica di governi già troppo indebitati. Costoro non si rendono conto che continuano a fidarsi di vecchi modelli e stime di moltiplicatori fiscali e monetari oramai relegati nel museo della Storia.

Gli Stati del sud dell’Europa (Francia, Italia, Spagna) devastati dall’epidemia, ma pure lo stesso Draghi, a questo proposito sono chiari: condizioni eccezionali richiedono risposte eccezionali per supplire alla contrazione drammatica dei consumi, alla carenza di sbocchi di mercato per le imprese e all’incremento esponenziale della disoccupazione.

Ma non si tratta di una “conversione” fulminea e improvvida ad una nuova fede, una sorta di “illuminazione” mistica. Non va infatti dimenticato come la cultura economica originaria della Ue, prima che i suoi terminali ideologici venissero colonizzati dai falchi della deregulation, non si nutriva di quel capitalismo finanziario deregolato e selvaggio anglosassone, nel quale si riconoscono con tanto entusiasmo ben noti economisti mainstream. Essa era invece influenzata da quell’ordoliberismo dai forti connotati sociali e riformisti che ha elaborato la dottrina dell’economia sociale di mercato.

Tale dottrina (si pensi a Wilhelm Röpke) si distanzia dalla fede nella “mano invisibile” di Adam Smith e afferma che… 

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

Il Covid-diktátor di Budapest

Hungarian Prime Minister Viktor Orban is pictured during a news conference at the Chancellery in Berlin on February 10, 2020. (Photo by Emmanuele Contini/NurPhoto via Getty Images)

«Da Viktátor a Diktátor», dice l’opposizione di Orbán in Ungheria. Il soprannome usato per Viktor Orbán durante le manifestazioni di piazza nel 2018 è diventato realtà nel Parlamento di Budapest il 30 marzo. Del resto è lo stesso Orbán da tempo a definire quella ungherese una «democrazia illiberale» muovendosi sempre abilmente entro i perimetri consentiti da una Unione europea la cui debolezza in questo momento storico sta facendo molto riflettere. Lo stato d’emergenza per la pandemia Covid-19 proclamato sine die suscita indignazione. Nell’introduzione del nuovo provvedimento votato il 30 marzo si legge della «possibilità di momenti di pausa dei lavori parlamentari» durante l’emergenza. Ma con questa scusa i pieni poteri voluti da Orbán rischiano di demolire i residui di libertà in Ungheria, dando uno schiaffo allo stesso tempo a tutta la storia della democrazia occidentale.

Il Parlamento di Budapest ha approvato con 137 voti a favore e 53 contrari il disegno di legge che conferisce pieni poteri al premier fino alla risoluzione dello stato d’emergenza Covid-19. Per l’approvazione di questo testo erano necessari due terzi dei parlamentari, cifra garantita dal numero dei parlamentari della coalizione di governo, alla quale si sono uniti anche alcuni dell’estrema destra del movimento Mi Hazánk (Patria Nostra), secessionisti dello Jobbik. Oltre al regime del sine die ha destato allarme la modifica dell’articolo 337 del Codice penale. Come denuncia Amnesty International Ungheria, si introducono «due nuovi reati incompatibili con le norme e gli standard del diritto internazionale dei diritti umani». Uno di questi prevede fino a cinque anni di carcere per chiunque diffonda informazioni false o distorte che interferiscano con «l’efficace protezione» della popolazione o crei «allarme e agitazione».

È necessaria una giusta lotta alla disinformazione quando si tratta di proteggere la salute dei cittadini ma, come ha affermato Dunja Mijatovic, commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, «alcuni governi la stanno usando come pretesto per introdurre restrizioni sproporzionate alla libertà di stampa», riferendosi proprio alle nuove leggi adottate da Russia e Ungheria. Mijatovic ha aggiunto che le misure per combattere la disinformazione devono essere «necessarie, proporzionate, e sottoposte a controlli regolari da parte dei parlamenti e degli organi nazionali per la difesa dei diritti umani». Secondo il Guardian si sono già verificati casi di giornalisti minacciati in Ungheria perché…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

Liberi di non esser liberi

Mentre scrivo, in Italia sono passati 27 giorni 21 ore e 08 minuti dall’inizio della quarantena. Un isolamento che ci ha visto fare da apripista per l’Europa e il mondo intero nel fronteggiare una situazione a dir poco surreale e straniante. Dall’oggi al domani siamo stati infatti catapultati in un film di fantascienza e ognuno di noi si è ritrovato chiuso nella propria casa, limitato nella libertà di movimenti, incontri, uscite, per sconfiggere il “virus letale”. In pochi giorni abbiamo dovuto ripensare e riorganizzare vite affettive, lavoro, ritmi casalinghi, rapporti interumani.

E adesso che la curva dei contagi si sta stabilizzando per avviarsi – si spera – verso la discesa si comincia a pensare a quella che scienziati, giornalisti e politici chiamano “fase 2”, vale a dire una lenta ripresa delle nostre vite, mantenendo però sempre e comunque gli opportuni accorgimenti di mascherine, distanza di sicurezza e, quando possibile, smart working. Molti di noi hanno imparato a utilizzare le nuove tecnologie per fare video lezioni, conferenze, riunioni… e la casa è divenuta il nostro spazio lavorativo. La linea tra ambito privato e ambito pubblico si è assottigliata e riusciamo a scrivere, fare lezioni…tra una lavatrice, qualche esercizio di yoga-pilates e i bambini che fanno i compiti su una piattaforma digitale.
In questo momento abbiamo compreso come non mai la fondamentale importanza delle nuove tecnologie digitali senza le quali saremmo davvero persi: esse ci consentono di mantenere il contatto con i nostri cari e con l’esterno. Facciamo tutto “comodamente” da casa: spesa, lavoro, compleanni, aperitivi con gli amici, saluti ai parenti…

Ci ritroviamo così ad avere una montagna di tempo, un tempo però che non è più scandito da un “dentro” e da un “fuori”, ma che si srotola tutto insieme, velocissimo e ci sommerge alla fine delle giornate. La limitazione delle nostre quotidiane libertà di azione si è così trasformata in un’enorme libertà di pensare, riflettere, leggere…è come se quella libertà “esteriore” si fosse trasformata in una libertà “interiore”.
In questi mesi di isolamento forzato c’è chi sicuramente riesce a…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

I ventilatori polmonari? Così li facciamo low cost

Faccio l’astrofisico sperimentale, ho raccontato il mio mestiere in un libro, L’esperienza del cielo. Diario di un astrofisico, e insegno, attualmente con videolezioni, presso l’Università di Milano-Bicocca. Isolamento a parte, cosa c’entro con la battaglia al coronavirus?

Confinato dall’epidemia tra le mura domestiche, per curiosità o per gioco mi sono messo a cercare come funzionano i ventilatori polmonari su Internet. Mi sono così imbattuto in un crowdfunding appena creato per un prototipo chiamato Mvm (Milano ventilatore meccanico). Risalendo ai nomi che ci sono dietro al progetto, ho trovato chi lo guida. Si tratta di Cristiano Galbiati, professore a Princeton che avevo incontrato anni fa durante un convegno, e Art McDonald, premio Nobel per la Fisica nel 2015. Ho subito scritto un messaggio a Galbiati offrendo il mio aiuto. Mezz’ora dopo ho ricevuto la sua chiamata e poche ore dopo mi sono ritrovato a un banco da lavoro con una mascherina in volto e tanta pressione addosso.

Ma facciamo un passo indietro. Il leitmotiv che sentiamo dall’arrivo dell’epidemia di Covid-19 è: «Flatten the curve!», il cui controcanto è «State in casa!». Appiattire la curva dei contagi giornalieri isolandoci, perché il problema principale è la capacità del Sistema sanitario nazionale. A supporto di questo richiamo d’allarme sono arrivati diversi grafici, di cui mostro una variante qui a fianco: un ripido picco di contagi giornalieri, in blu, prodotto dall’assenza di misure di contenimento, a confronto con un picco più basso, più ritardato e più appiattito appunto, che descrive come la diffusione del virus possa essere rallentata e distribuita nel tempo grazie al distanziamento sociale. La capacità del sistema sanitario, indicata dalla linea orizzontale rossa, dipende da tantissimi fattori, dei quali uno dei più critici, forse il più critico, è la disponibilità di ventilatori polmonari. Anche con tutti i soldi del mondo, ci vuole tempo per produrli e distribuirli. Ma se ne avessimo improvvisamente migliaia di unità in più, allora, come mostrato dalle frecce verticali, si potrebbe spostare verso l’alto la linea rossa e far sì che salga oltre la curva blu dei contagi, anticipando persino gli effetti dell’appiattimento dovuti al distanziamento sociale. Insomma, oltre che abbassare e ritardare la curva blu per portarla entro la capacità del sistema sanitario rappresentata dalla linea rossa, si può alzare la linea rossa stessa. Forse potremmo salvare più vite e potremmo uscire di casa prima.

Quanti ventilatori polmonari servono?

Il numero di ventilatori distribuiti su tutto il territorio italiano è tra cinque e diecimila, ma ce ne servirebbero almeno tre volte di più. Esistono infatti

stime che indicano che la richiesta potrebbe salire a diverse decine di migliaia di unità in brevissimo tempo. Per capire se sia verosimile, facciamo un calcolo di ordini di grandezza: circa il 5% dei positivi al Covid-19 ha bisogno di essere ricoverato in terapia intensiva, e circa il 2,3% ha bisogno di essere intubato invasivamente per la ventilazione polmonare. Al 4 aprile i positivi accertati nel nostro Paese erano poco meno di novantamila, cioè circa lo 0,1% della popolazione italiana, di cui circa 4mila in terapia intensiva. Se di questi pazienti, oggi, duemila necessitano di ventilazione invasiva, nell’ipotesi in cui il contagio si estendesse anche solo all’1% della popolazione italiana, allora anche la richiesta salirebbe di un fattore 10, cioè servirebbero ventimila unità per la terapia invasiva. Sappiamo oltretutto che i contagi non si distribuiscono in modo uniforme sul territorio, e che…

* Federico Nati è un astrofisico sperimentale dell’Università di Milano – Bicocca. Ha lavorato in Cile e negli Stati Uniti, viaggiando per missioni scientifiche dai telescopi del deserto di Atacama all’Antartide dove, tra novembre 2018 e gennaio 2019, ha lavorato presso la stazione americana di McMurdo. Qui ha condotto un’ambiziosa missione per la messa in opera di un telescopio all’avanguardia che otterrà informazioni mai viste prima da regioni del cosmo dove nascono le stelle. Nati ha raccontato le sue missioni in Antartide e altri luoghi remoti del pianeta nel libro L’esperienza del cielo. Diario di un astrofisico (La nave di Teseo ed.)

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

L’arte di uscire dalla crisi: Chiara Costa

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sara passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Chiara Costa, responsabile dei progetti culturali della Fondazione Prada risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Siamo in un periodo di crescente complessità, che vede molte nostre libertà limitate al fine di contenere il più rapidamente possibile il contagio. Le settimane passate ci hanno costretti a concentrarci più del solito sulla domanda che accompagna Fondazione Prada da sempre: a cosa serve una istituzione culturale?

Il nostro pubblico esiste anche senza essere fisicamente in fondazione, come continua a esistere il nostro impegno di lavoro, anche se da remoto. Internet è, per noi come per tutto il mondo culturale, lo spazio di un linguaggio dell’assenza, che bisogna imparare a parlare fluentemente. Ed è la nuova tecnica (non semplicemente tecnologia) che abbiamo a disposizione per fare. In questo momento la proposta culturale della fondazione è online, dove stiamo approfondendo diverse tematiche.

Innanzitutto alcune novità, come la rassegna “Perfect Failures”, in collaborazione con MUBI, che è disponibile dal 5 aprile sulla piattaforma di streaming online di film d’autore. Poi “Readings”, una vasta antologia sonora in formato di podcast gratuiti e destinata a crescere, che comprende più di 50 saggi critici e testi di narrativa di autori come Nicolas Bourriaud, Benjamin H.D. Buchloh, Massimo Cacciari, Simon Castets, Germano Celant, Christoph Cox, Charles Esche, Emilio Gentile, Alison Gingeras, Jonathan Griffin, Boris Groys, Udo Kittelmann, Rachel Kuschner, Roxana Marcoci, Salvatore Settis, Ali Smith e molti altri. A queste si aggiunge un lavoro dettagliato sul nostro archivio, che esploriamo criticamente attraverso un possibile “glossario” dell’identità della fondazione, o anche raccontando i viaggi delle opere di collezione e di conseguenza mostre ed istituzioni che le ospitano.

È anche sempre possibile visitare virtualmente le mostre in corso, e trovare materiali inediti sull’Accademia dei bambini, lo spazio sperimentale della fondazione dedicato all’infanzia ideato nel 2015 dalla neuropediatra Giannetta Ottilia Latis, oggi curato dal pediatra neonatologo Gabriele Ferraris. Ci affidiamo a una moltitudine di idee, parole, immagini e piattaforme perché un’istituzione culturale ha bisogno di non essere univoca. Così come non esiste un’unica cura per arrivare alla guarigione, esiste certamente la prevenzione sul lungo periodo, che per noi è da sempre la centralità del pensiero.

*

L’arte di uscire dalla crisi – Leggi le altre interviste

Chiedimi come finirono i Beatles

“Paul is quitting the Beatles”. Paul sta abbandonando i Beatles. Questo titolo comparve a caratteri cubitali sulla prima pagina del Daily Mirror il 10 aprile 1970, esattamente 50 anni fa. La notizia arrivò così repentina da costringere il giornale a rivedere l’impaginazione già impostata, rimandando ad una breve intervista a McCartney che dichiarava in sostanza conclusa l’avventura della band probabilmente più famosa nella storia della musica leggera. In realtà quello era solo l’epilogo di una vicenda iniziata nella primavera del 1968, quando i quattro rientrarono scaglionati dal loro viaggio di meditazione in India, iniziato a metà febbraio. Laggiù Lennon e McCartney composero gran parte del White Album, e ognuno dei due diede dei suggerimenti all’altro sui brani, ma nulla di più.

Ormai conclusi i tempi dei lavori a quattro mani come “She Loves You”, “Tomorrow Never Knows” o “A Day in the Life”. Nell’agosto del 1968 durante le registrazioni in sala, infastidito dal clima opprimente dovuto all’atteggiamento direttivo di Lennon e McCartney, Ringo abbandonò definitivamente il gruppo e andò in vacanza in Sardegna in barca a vela con la famiglia, dove tra l’altro compose “Octopus’s Garden”. Ricevette un telegramma dagli altri tre e tornò ad Abbey Road dieci giorni dopo, ad attenderlo un caldo striscione di benvenuto e braccia sinceramente aperte. La faccenda rientrò. L’album bianco uscì nell’ottobre del 1968 ed è il primo in cui si può ravvisare la distanza che stava crescendo tra i quattro: è fatto noto che ognuno propose agli altri le proprie composizioni ricevendo pieno supporto strumentale, ma non molto di più.

A gennaio 1969 Paul avviò un nuovo progetto chiamato “Get Back”, che aveva l’intenzione di catturare il sound grezzo registrando in presa diretta e senza artifici, riportando il gruppo alle atmosfere live degli esordi, un ritorno alle origini non solo a livello musicale come del resto suggeriva il titolo. Idea grandiosa immediatamente naufragata per il clima pesante che si creò durante le prove, che raggiunse il culmine il 10 gennaio quando fu Harrison a lasciare temporaneamente la band a causa dei continui battibecchi con Lennon in quel periodo tossicodipendente e McCartney che voleva dare le direttive dell’intera operazione in maniera troppo autoritaria, relegando all’angolo alcune sue composizioni  (tra queste c’era anche “Something” !!). McCartney tempo dopo si scuserà più volte per l’accaduto, complice il clima negativo del momento. Ma ormai qualcosa si era incrinato. Il progetto fallirà, il materiale registrato in quei primi mesi del 1969 verrà rifiutato dal gruppo e messo nel cassetto, salvo essere ripreso un anno dopo dall’ingegnere del suono Phil Spector e pubblicato in album l’8 maggio 1970 con il titolo Let it Be, un mese dopo l’annuncio formale dello scioglimento, il che lo rende a tutti gli effetti un lavoro postumo… e uno dei fallimenti più di successo della storia discografica arrivando immediatamente al primo posto negli Stati Uniti e al secondo in Gran Bretagna.

Il vero ultimo album dei Beatles fu Abbey Road, sviluppato con brani che erano stati composti per lo più nel tardo 1968 e registrati in prima battuta insieme al materiale di “Get Back» nei primi due mesi del 1969. Successivamente i pezzi vennero rielaborati e arrangiati principalmente da Paul, il quale sviluppò praticamente tutto il lato B dell’album da solo. Fino ad arrivare a giovedì 7 agosto 1969, data dell’ultima registrazione in studio in cui furono presenti tutti e quattro i membri. Il pezzo ? Non poteva essere altro che “The End”, composizione di McCartney chiaramente riferita all’epilogo della band. Nel brano ognuno ha uno spazio per un assolo: dopo il primo verso «Oh Yeah ! All Right ! Are you gonna be in my dreams tonight ?» inizia Ringo con la batteria (unico suo assolo in tutta la discografia beatlesiana), poi tocca alle chitarre, prima Paul, poi George, infine John. Quest’ultimo, quel giorno presentatosi alle prove come ormai di consueto insieme a Yoko Ono, al momento dell’ingresso in sala le disse di aspettare, che quella volta sarebbe entrato da solo. L’ultima frase del brano, «And in The End the Love you take is equal to the Love you make», è un distico dal sapore shakespeariano, scritto per stessa ammissione dell’autore cercando di copiare lo stile del bardo.

L’album uscì nel settembre del 1969 riscuotendo un successo clamoroso e resistendo alla prova del tempo (ha compiuto 50 anni lo scorso settembre e ancora oggi è considerato tra i primi 20 album di tutti i tempi). In concomitanza con la sua pubblicazione Lennon annunciò informalmente agli altri tre che lasciava il gruppo, facendo però intendere che poteva non essere una cosa definitiva. Il resto è poca cosa, il 3 gennaio 1970 ci sarà l’ultima seduta di registrazione in tre senza John, poi solo vicende amministrative fino all’ufficializzazione a mezzo stampa del 10 aprile, e alla divisione formale a conclusione di una carriera che ha dell’incredibile: più di duecento brani composti in sette anni (una media di 30 canzoni l’anno), di cui almeno 50 ritenuti ormai degli standard reincisi da innumerevoli altri musicisti. I Beatles sono arrivati ad avere in classifica anche sette hit in contemporanea tra i primi dieci posti, cosa mai più ripetuta nel corso della storia della musica leggera. Ancora oggi rappresentano un fenomeno di successo così clamoroso che è divenuto oggetto di studio da parte di molte organizzazioni ed università.

Nel 2000, a trenta anni dal loro scioglimento, George Martin produsse un album celebrativo contenente tutti i loro numeri uno in classifica britannica o statunitense. Questa raccolta balzò subito al primo posto in moltissimi Paesi risultando l’album di maggior successo del nuovo millennio. Un riscontro di enorme portata al di là delle mode stagionali dovuto principalmente all’alchimia compositiva di Lennon e McCartney, che riuscirono a esaltarsi l’un l’altro con punte di sana competizione e di alta collaborazione, ma anche alla coesione del gruppo, fotografata mirabilmente da Graham Nash: “Li ho conosciuti nel 1959 quando ancora non erano i Beatles, credo che allora si chiamassero ancora Johnny and the Moondogs.

Anche all’epoca chiunque li conoscesse sapeva che avevano qualcosa di speciale. Era impossibile entrare nel loro cerchio, dove ognuno era in intima sintonia con gli altri tre». Questo potenziale fu intuìto dal manager Brian Epstein che lo rese commercializzabile per lo show business, che negli anni 60 ancora permetteva a chi lo volesse di conservare la propria genuinità. D’altro canto la capacità della band di esibirsi dal vivo e trasmettere energia era notevole, con aspetti tecnici e musicali annessi, merito della gavetta fatta negli anni della formazione grazie alla quale misero a punto quel sound caratteristico che poi riprodussero in sala di registrazione.

Questo grazie al lavoro “artigianale” di sovrapposizione delle diverse tracce, ad esempio quella degli assolo o di strumenti aggiuntivi con quella della base ritmica eseguita contemporaneamente da tre o quattro strumenti e a volte completa di voci guida di sottofondo. La voce solista veniva incisa a parte così come i cori e le seconde e terze voci che costruivano le linee melodiche in armonia. Altro asso nella manica fu il produttore George Martin, definito “il quinto beatle”, cui si deve una quota parte del loro successo. Per raccontare la prima di tante vicende, fu lui che nel 1963 presentò loro un brano ritenuto una hit sicura. I Beatles per tutta risposta rifiutarono per proporre la loro musica, precisamente “Please Please Me”, una composizione di Lennon. Martin accettò la sfida suggerendo però un arrangiamento del pezzo con un tempo più accelerato, che grazie a tale accorgimento raggiunse il numero uno in classifica. Per la cronaca, il brano scartato fu fatto incidere ad un’altra band, arrivando ugualmente in vetta, dimostrando che il produttore non era proprio uno sprovveduto.

Ultimo aspetto che ha contribuito a creare il mito fu proprio la modalità dello scioglimento, concluso tutto sommato in tempi brevi e senza strascichi o album di palese declino e scarsa qualità, come è avvenuto per molte altre band anche importanti. I Beatles si sono divisi mentre continuavano a riscuotere come agli esordi un successo planetario.

 

Sarebbe un errore riaprire ora le librerie

Independent bookshop owner Edgar Rai sorts books for delivery in the Uslar & Rai bookstore in Berlin's Prenzlauer Berg district on March 31, 2020, amid a new coronavirus COVID-19 pandemic. - The owners of the shop, currently closed due to the Coronavirus lockdown, have turned to delivering their books free of charge to customers in their neighbourhood, and all over Berlin. Volunteers, as well the owners themselves, offer same-day delivery, by bicycle, to their customers, with daily sales sometimes outperforming their former walk-in business. (Photo by John MACDOUGALL / AFP) (Photo by JOHN MACDOUGALL/AFP via Getty Images)

Dopo le pagliacciate di Sgarbi e la smania di Renzi, a pretendere la riapertura delle librerie si sono sommati pure il decano dei librai rossi, Romano Montroni, nonché un’eletta schiera di imprenditori e intellettuali che hanno espresso il loro dissenso con un appello sul Manifesto. Al grido di «Dateci pane per i nostri denti spirituali. Non di sola tachipirina vive l’uomo», hanno firmato Nichi Vendola, Ginevra Bompiani, Franco Arminio, Rosetta Loy, Valerio Magrelli e molti altri. Bisogna tener conto però del pericolo al quale andrebbero incontro i librai, anche se regolamentando gli ingressi tra gli scaffali. D’altro canto i clienti pronti a uscire di casa sarebbero presumibilmente pochi. Oltre alla serenità non trascurabile dei commessi, che difficilmente si conserverebbe per quanto continue fossero le sanificazioni degli ambienti, le condizioni estreme alle quali si tornerebbe rischierebbero di peggiorare economicamente la vita dei librai stessi. E accadrebbe in brevissimo tempo, tanto per le catene quanto per le indipendenti, che con quest’aria mortifera faticherebbero a sostenere anche solo i costi dei corrieri per i rifornimenti.

Se un appello del genere non vuole essere la solita posa di chi può permettersi di restare dietro uno schermo abbarbicato alla sua torre d’avorio, predicando bene e razzolando male, perché riaprirle di corsa? Forse perché non potrebbe andare peggio di così. Per fronteggiare la pandemia di Covid-19 il ddl #IoRestoaCasa, datato 11 marzo, ha stabilito che dal giorno seguente tutte le librerie in Italia sarebbero rimaste chiuse, non dispensando beni di prima necessità, almeno sino al 13 aprile, come impone l’ultima proroga comunicata dal presidente del Consiglio Conte in persona.

Nel frattempo, è passata in sordina l’entrata in vigore del tanto atteso ddl Lettura – 26 marzo – che ha ridotto la scontistica a un massimo del 5 per cento, togliendo il vantaggio ai giganti dell’e-commerce come Amazon.
Decreto di cui attualmente può godere solamente la grande distribuzione e che si spera aiuti a breve un mercato in ristagno da quasi 17 anni. La prima reazione al blocco è stata la drastica riorganizzazione dei piani editoriali: saranno 23.200 i titoli in meno che saranno pubblicati su base annuale, ossia un terzo dell’intera produzione, secondo i dati aggiornati…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

Mafie, smemorati e giornali

«Io sono venuto qui a guardare i conti e a dire di non dare più i soldi all’Italia perché scompaiono in tre regioni: Sicilia, Calabria e Campania, quindi mafia, ‘ndrangheta e camorra»: sono le parole esatte che pronunciò Beppe Grillo a Strasburgo al Parlamento Europeo il primo luglio del 2014. 7 anni fa. Sembra passata un’era geologica fa e invece il Movimento 5 Stelle è nato e si è consolidato elettoralmente esattamente con questi toni, con questi contenuti e con queste semplificazioni. La base elettorale che ne ha fatto il partito più rappresentato in Parlamento è quella che vedeva (e vede ancora, poiché in parte ha abbandonato il M5S) marcio marci dappertutto, tutto uno schifo e che sognava l’abbattimento della classe dirigente come fine ultimo.

Stupisce che il ministro Di Maio ieri si sia così furiosamente indignato con il quotidiano tedesco Die Welt che ha scritto: «dovrebbe essere chiaro che in Italia, dove la mafia è forte e sta adesso aspettando i nuovi finanziamenti a pioggia da Bruxelles». Sono le stesse parole di Beppe Grillo, scritte in modo più elegante. Allora facciamo che in cambio Di Maio e gli altri chiedano anche scusa per avere usato la banalizzazione come arma di indignazione politica. Basterebbe questo, il mondo è più complesso di come lo racconta la propaganda e ce ne siamo accorti, dire una cosa così, semplice semplice.

Poi c’è un altro punto: Di Maio chiede al governo tedesco di intervenire contro l’opinione di un quotidiano che non ha nessun legame governativo. Scagliarsi contro un giornale è stupido, pretendere che il governo debba rettificare l’opinione di un editorialista è populista e semplicistico, ancora. Se il governo italiano si sente diffamato da quell’articolo valuti i presupposti legali per tutelarsi senza farne una ragione di Stato. Semplice.

A proposito: c’è una circolare del Viminale mandata ai questori il 27 marzo in cui si scrive, nero su bianco, che in tempi di Coronavirus ci sono «ampi margini di inserimento per la criminalità organizzata nella fase di riavvio di molte attività». Le parole del giornalista tedesco sono un’odiosa banalizzazione di un concetto che esiste e che preoccupa anche lo Stato italiano. Brutta cosa le banalizzazioni, eh?

A proposito: da noi Libero e Il Giornale hanno titolato, in prima pagina, mica in un loro editoriale, “è stata la culona”, riferito alla Merkel, “ciao ciao culona”, “vaffanmerkel”, e “la culona si è sgonfiata”. Non risultano pervenute richieste ufficiali dal governo tedesco per il governo italiano di intervenire, mai.

Un’ultima cosa: sappia Die Welt che l’Italia ha le peggiori mafie ma anche la migliore antimafia del mondo. Antimafia sociale, culturale e giudiziaria. E le mafie sono un problema mica solo italiano, i mafiosi sono già oltre quello stantio editoriale, molto più europei di molti che si professano europei.

Buon venerdì.

Un vaccino contro il fondamentalismo

Fase 2. Come ne usciamo? Serve un colpo d’ala. Serve immaginazione, una visione politica. Servono massicci investimenti in ricerca scientifica e nella sanità pubblica. Ma non solo. Quella che inizialmente era una crisi sanitaria sta diventando una questione sociale.

Uno degli effetti più evidenti del coronavirus è l’impoverimento generale della popolazione. E c’è il rischio che il tasso di povertà continui a crescere. Basterà il «poderoso intervento da 400 miliardi» annunciato dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che va ad aggiungersi ai 25 miliardi già stanziati? In quanto tempo saranno erogati gli aiuti di Stato? E quali altri provvedimenti saranno messi in campo per chi più di tutti rischia di rimanere indietro? Pensiamo per esempio a colf e badanti, lavoratori stagionali e intermittenti, ai lavoratori atipici e agli autonomi; pensiamo a chi lavora in nero e ai migranti, braccianti agricoli sfruttati e sospinti dai decreti Salvini ancor più in zone grigie di “irregolarità”. In Portogallo il premier Antonio Costa ha lanciato una moratoria, regolarizzando i lavoratori senza permesso di soggiorno e i richiedenti asilo: proposta da emulare ma che da noi ha avuto solo un timido rilancio, come si racconta in questo numero.

“Nessuno resti indietro” avevamo titolato due numeri fa, quando il lockdown doveva essere necessariamente il più serrato possibile per impedire che tante regioni raggiungessero il picco assieme, facendo crollare il Sistema sanitario nazionale. Nessuno resti indietro, ripetiamo, tanto più ora che si inizia a parlare di ripartenza. Con quali misure di sicurezza per i lavoratori? Con quali garanzie per tutti i cittadini rispetto alla necessità di essere tracciati al fine di poter convivere con il virus finché non ci sarà un vaccino? Come cambierà la nostra idea di libertà? Sono questioni niente affatto secondarie che solleviamo in questo sfoglio.

Non solo. Conte parla di «fase 2», ma manca ancora un piano sufficientemente articolato. Per cominciare bisognerebbe varare un reddito di resistenza come hanno proposto Marco Almagisti e Paolo Graziano su Left. Servono maggiori misure di sostegno al lavoro, massicci interventi pubblici. E – torniamo a proporre -, si potrebbero recuperare risorse anche dal taglio dalle spese per gli armamenti, dal recupero dell’evasione fiscale, dall’Ici non pagata dalla Chiesa. Occorre una patrimoniale dicono perfino politici che non sono mai stati di sinistra come Pierferdinando Casini. Non una sorta di flat tax, pensiamo noi, ma una patrimoniale o una efficace tassazione dei redditi modulata secondo il principio costituzionale della progressività.

Ma soprattutto per poter pensare a una fase 2 di graduale ripartenza con tutte le cautele sanitarie necessarie (aspetto cardine su cui interviene qui Enrico Bucci) c’è bisogno della risposta di un’Europa solidale, che finalmente colga l’occasione irripetibile di inverare i principi di un’unione politica e democratica degna di questo nome, che si emancipi dalle ricette neoliberiste e di austerity come scrivono Ovadia e Ferraris, da misure che sono state scelleratamente applicate anche dopo la crisi del 2008 e hanno solo contribuito a generare ulteriori disuguaglianze.

Sappiamo, purtroppo, che quella a cui andiamo incontro potrebbe essere una crisi ben peggiore. E allora bisogna pensare da subito a possibili argini e soluzioni. Tutte da costruire, ci rendiamo ben conto, ma dobbiamo fare passi in quella direzione. Ricette preconfezionate purtroppo non ce ne sono. Come non ci sono precedenti rispetto alla fase che stiamo vivendo. Se la Cina ci è servita da modello per il lockdown, per la ripresa servono strade democratiche che tutelino i bisogni ma anche le esigenze delle persone e che mettano al centro lo Stato di diritto.

Anche per questo è necessaria maggiore collaborazione sovranazionale, sul piano economico e politico. In queste settimane abbiamo visto all’opera scienziati di differenti discipline unire le forze per cercare cure e vaccini. L’astrofisico Federico Nati ci racconta di uno straordinario progetto frutto di ingegno collettivo: scienziati di tutto il mondo con competenze diverse e che prima non si conoscevano hanno unito le forze per creare respiratori low cost, ora in via di sperimentazione. È anche una lezione di metodo quella che viene in questi giorni dalla ricerca scientifica. Dovrebbe approfittarne la politica europea.

La speranza è aperta, ma il can can a cui abbiamo assistito finora è stato avvilente, con la Gran Bretagna che ha avanzato strategie neo malthusiane e all’insegna di un feroce darwinismo sociale, con l’Olanda che ha fatto da capofila contro gli eurobond, con Paesi industrializzati che hanno innalzato barriere protezionistiche impedendo che presidi sanitari raggiungessero i Paesi che ne hanno più bisogno.

Ma se l’Europa si riduce ad essere una unione di Stati nazionali dettata da interessi particolari e rinuncia ad assumersi direttamente la responsabilità di strumenti finanziari sovranazionali, questo non significa certo che la soluzione stia in scorciatoie sovraniste e nazionaliste, nei fatti del tutto impotenti di fronte a problemi globali come una pandemia.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una drammatica ecatombe negli Stati Uniti. Il negazionismo di Trump e l’assenza di una sanità nazionale pubblica stanno causando migliaia di morti. In Ungheria, il nazionalista Orbán ha approfittato dell’emergenza sanitaria per imporre una dittatura senza riuscire minimamente a tutelare la popolazione (ne parlano qui in un ampio sfoglio Zappacosta, Trasciatti e Scheiring). Peggio ancora, dal punto di vista sanitario, ha fatto Bolsonaro invitando i brasiliani a uscire e a incontrarsi come se non esistesse alcun rischio. Come ha proposto in Italia il sodale di Orbán e Bolsonaro, Matteo Salvini, chiedendo di riaprire le chiese per Pasqua. Una proposta letteralmente fuori dal mondo, ripresa da Forza Nuova, che ha lanciato una marcia di Pasqua e una processione a San Pietro, chiamando a raccolta tutti i militanti di estrema destra, in totale dispregio delle norme sanitarie e di prevenzione.

Nella domenica delle Palme la polizia è dovuta intervenire a Frascati dove è stata celebrata messa; altri casi simili si sono verificati in Calabria e altre regioni. Del resto papa Bergoglio non aveva certo dato il buon esempio con la sua passeggiata romana (vedi Left del 20 marzo) per andare a pregare, incurante delle ordinanze a tutela della salute pubblica. Ma l’eco mediatica di plauso è stata pressoché unanime. E su eminenti giornali della borghesia illuminata come il Corsera ora si leggono commenti che invocano il ritorno della religione come fatto pubblico; è tutta una gara da Polito a Galli Della Loggia. Quale religione immaginano per la sfera pubblica degli anni Duemila e a che loro dire sarebbe un collante sociale? Quella predicata dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò secondo il quale la pandemia sarebbe una punizione di Dio contro i «peccati come aborto, eutanasia e il matrimonio omosessuale»?

A chi volesse farsi un’idea più precisa di quali e quanti danni alla salute pubblica abbiano fatto i leader religiosi durante questa pandemia consiglio di leggere il reportage di Giordano Stabile, uscito il 5 aprile su La Stampa con il titolo Santuari e moschee piene, così il virus dilaga. E ancor più il lungo, e il documentato articolo, Dieu et le virus, di Laurent Joffrin, direttore di Liberation, uscito il 3 aprile. «Confidando nella scienza più che sulle genuflessioni e benedizioni» il direttore del quotidiano francese traccia una mappa che lascia sgomenti: dalla Corea del Sud, dove i militanti della Chiesa Shincheonji di Gesù hanno chiamato i fedeli a raccolta, agli Usa dove continuano i raduni di evangelici supportati da Trump, sono innumerevoli di casi di meeting religiosi seguiti da esplosione di contagi. Qualche esempio? In Israele la metà delle persone ricoverate in ospedale proviene da comunità ultra-ortodosse. In Iran il focolaio della città santa di Qom si è espanso per le cerimonie di massa che sono continuate perché l’Ayatollah si è rifiutato di interrompere i riti, sostenendo che il santuario fosse un luogo di guarigione. A Nuova Delhi, in India, più di tremila persone hanno partecipato a un incontro della Tabligh Jamaat, un’organizzazione di missionari fondamentalisti, per poi diffondere il virus in numerose regioni, tornando a casa. Accade anche nella laicissima Francia.

Scrive ancora Joffrin: «Come ben sappiamo, è stato un incontro evangelico di tre giorni che si è tenuto nella parte orientale della Francia, il “Christian Open Door”, il propagatore più efficace della malattia sul resto del territorio, quando i pellegrini illuminati dalla grazia sono tornati a casa portando, oltre alla buona parola, grandi dosi di coronavirus con cui hanno contagiato i loro parenti e i loro vicini. La “porta cristiana” in questione è stata una porta aperta alla malattia».

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

Aspettando il contagio zero

A person wearing a face mask passes by a canal, with in background St. Mark's bell tower, in Venice, Monday, April 6, 2020. The government is demanding Italians stay home and not take the leveling off of new coronavirus infections as a sign the emergency is over, following evidence that more and more Italians are relaxing restrictions the west's first and most extreme nationwide lockdown and production shutdown. The new coronavirus causes mild or moderate symptoms for most people, but for some, especially older adults and people with existing health problems, it can cause more severe illness or death. (AP Photo/Andrew Medichini)

Vi sono segnali che inducono a pensare che, in Italia, la crisi epidemica più grave dal dopoguerra stia passando. Mi riferisco in particolare al fatto che da qualche giorno il tasso di nuovi ricoveri in malattia intensiva sembra rallentare; e questo è quello che ci serve, perché il grosso dei morti di questo orribile periodo ha a che vedere anche con l’inevitabile e previsto collasso del sistema sanitario, inadatto a fronteggiare un’epidemia seria.

La reazione a questo rallentamento è tuttavia poco razionale: dopo la fantomatica ricerca di inesistenti picchi (che non esistono in una curva prodotta da dati rumorosi e composti di tantissimi effetti diversi) oggi ci si è spostati a scrutare il futuro per individuare la data del giorno a “contagio zero”. Ho una notizia per voi: è ancora una volta un esercizio inutile. Per vari motivi: innanzitutto, perché un giorno senza contagi non preclude al fatto che il giorno dopo ve ne saranno. In secondo luogo – e questo è il punto importante – perché stiamo parlando di un sistema darwiniano in rapida evoluzione. Il virus rimarrà, come insegna il fatto che la peste sia ancora fra noi: ogni soluzione deve quindi prevedere il fatto che dovremo convivere con questo e con tantissimi altri nuovi parassiti emergenti.

Attenzione: questo significa anche che farmaci e vaccini saranno – come sono sempre stati – una soluzione tanto più utile quanto meglio saranno disegnati, tenendo conto della capacità mutazionale dei coronavirus e degli altri patogeni all’orizzonte; ma rischiano comunque di essere soluzioni temporanee (anche se magari su tempi lunghi, va detto). In questo senso, quei farmaci che agiscono su di noi, invece che sul virus – abbattendo per esempio l’infiammazione anomala causata dal virus – potrebbero essere fondamentali perché, non esercitando pressione selettiva sul virus, non ne selezionano ceppi mutati che eliminino la risposta farmacologica (come invece accade per ogni antivirale).

Ma perché improvvisamente dobbiamo preoccuparci di…

 

* Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare, è professore aggiunto alla Temple University di Filadelfia (Usa). Si occupa di dati biomedici, frodi scientifiche e biologia dei sistemi complessi

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 10 aprile 

SOMMARIO

Leggi e sfoglia online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE