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Evasori, senza manette, con nome e cognome

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A proposito della tanto decantata virata sull’evasione fiscale di questo governo (che dovrebbe virare su un bel po’ di argomenti ma continua spedito, dritto) ci sono dei numeri che raccontano perfettamente come sarebbe possibile dare segnali forti (anche quelli, sempre promessi, in calce a ogni governo che si rispetti) con il minimo sforzo.

Se avete bisogno dei nomi e dei cognomi, delle partite Iva, degli indirizzi e dei citofoni di quelli che “evadendo rubano soldi alla collettività” (parole dell’esponente di punta di governo, l’avvocato degli italiani) allora vi basta spulciare nel rapporto di R&S Mediobanca (che non sono propriamente dei pericolosi comunisti) per accorgersi che nel 2018 i «big del web» con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano una cifra irrisoria: 64 milioni di euro (sempre più dei  59 milioni versati nel 2017, eh). Microsoft ha pagato 16,5 milioni, 12,5 milioni di Apple, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba solo 20 mila euro.

A livello mondiale fra il 2014 e il 2018 i giganti del web hanno risparmiato oltre 49 miliardi di euro di tasse a livello globale, domiciliando circa la metà dell’utile ante imposte in Paesi a fiscalità agevolata.

Sono le stesse società che vengono celebrate ogni piè sospinto per il loro miracoloso business. Sì, sono loro, quelli bravissimi a fare slalom tra le norme. E la mancanza di una web tax (e la distrazione dell’Europa) rendono tutto questo terribilmente facile.

Inutile ricordare che di solito le battaglie andrebbero fatte partendo dai colossi, quelli che governano l’economia molto spesso più della politica. Inutile dire che ci vorrebbe fegato per portare la questione all’ordine del giorno. E inutile dire che la credibilità di un governo (di qualsiasi governo) si rivela proprio quando ha il coraggio di regolamentare i potenti, mica i sottomessi.

E volendo è tutto qui, con nome e cognome, senza nemmeno bisogno di sventolare manette.

Buon giovedì.

Se ci fossero stati i social al tempo di Hitler

«Se Facebook fosse esistito negli anni 30, avrebbe permesso a Hitler di postare spot di trenta secondi sulla sua “soluzione” per “il problema degli ebrei”». Non usa mezzi termini l’attore Sacha Baron Cohen, nel potente discorso pronunciato durante una serata organizzata a New York dall’Anti defamation league, ong ebraica con sede negli stati Uniti che combatte antisemitismo e pregiudizi. Stavolta l’ideatore di Borat e Ali G non ha indossato le vesti di uno dei protagonisti delle sue celebri gag, ma ha parlato a nome suo, impersonando il suo «personaggio meno popolare, cioè Sacha Baron Cohen». Nel mirino ci sono il ruolo dei social network nella nostra società, la loro mancanza di responsabilità e l’inerzia nel limitare la diffusione di fake news e discorsi d’odio. Per Baron Cohen c’è «un pugno di società della rete che costituiscono la più grande macchina di propaganda della storia». Chi sono? «Facebook, YouTube e Google, Twitter e tutti gli altri», dice l’attore senza girarci attorno.

«Gli algoritmi su cui sono basate queste piattaforme – spiega – amplificano deliberatamente quei contenuti che permettono di mantenere coinvolto l’utente. Cioè storie che solleticano i nostri istinti più bassi e che fanno scattare lo sdegno e la paura. È per questa ragione che YouTube consiglia miliardi di volte video come quelli di Alex Jones, il famoso cospirazionista. È per questa ragione che le fake news battono le vere notizie – lo dimostrano anche alcuni studi: le bugie si diffondono a una velocità maggiore rispetto alla verità. E non c’è nessuna sorpresa nel fatto che la più grande macchina di propaganda della storia abbia contribuito a diffondere la più antica teoria cospirazionista della storia: la bugia secondo cui gli ebrei siano, in qualche modo, pericolosi. Come recitava un titolo di giornale: “Pensate soltanto a cosa avrebbe potuto fare Goebbels se ci fosse stato Facebook”».

Insomma, i social network vengono accusati di fare poco o niente per impedire un loro uso distorto e pericoloso quando finiscono “nelle mani sbagliate”. «Oggi, in tutto il mondo – dice l’attore – ci sono demagoghi che fanno appello ai nostri istinti peggiori. E quelle teorie del complotto che una volta rimanevano confinate ai margini della società, ora sono mainstream. È come se l’Età dei Lumi, quella delle argomentazioni basate sui fatti, stesse finendo, delegittimando la conoscenza e rifiutando il consenso scientifico. La democrazia, che si basa su verità condivise, è in ritirata. E l’autocrazia, che invece dipende da bugie condivise, sta avanzando. I delitti basati sull’odio stanno crescendo, così come gli attacchi omicidi contro le minoranze religiose ed etniche Cosa hanno in comune tutte queste tendenze pericolose? Io sono solo un attore comico, non uno studioso. Ma una cosa mi è molto chiara. Tutto questo odio, tutta questa violenza, sono agevolati da una pugno di società della rete che costituiscono la più grande macchina di propaganda della storia».

E questa oligarchia del potere informativo, secondo Baron Cohen, potrebbe mettere a repentaglio l’assetto costituzionale dei Paesi occidentali. «Credo che le nostre democrazie pluraliste siano sull’orlo del baratro», afferma.

Per questo motivo, il comico nel suo discorso avanza diverse proposte. La prima riguarda la disparità di trattamento tra social network ed imprese editoriali, una disparità che dovrebbe finire. «È venuto il momento di chiamare queste società (i social network, ndr) con il loro vero nome: sono i più grandi editori della storia. Ed ecco un’idea anche per loro: attenetevi agli standard e alle prassi fondamentali dei giornali, dei magazine e delle notizie televisive».

E poi, altro punto, perché permettere che ogni post pubblicizzato di propaganda politica sia diffuso, senza alcuna verifica preliminare? «Consideriamo la questione delle inserzioni politiche – spiega ancora l’attore -. Per fortuna Twitter le ha bandite, alla fine. Google sta mettendo a punto dei cambiamenti. Ma se le paghi, Facebook invece pubblicherebbe qualsiasi inserzione “politica” tu gli chieda, anche se è falsa. E ti aiuterà perfino a micro-targettizzarla per ottenere dagli utenti il massimo effetto. Usando questa logica distorta, se Facebook fosse esistito negli anni ’30, avrebbe permesso a Hitler di postare spot di 30 secondi sulla sua “soluzione” per “il problema degli ebrei”. Per cui, ecco un buon standard e una buona prassi: Facebook, comincia a verificare la verità delle inserzioni a carattere politico prima di farli girare, smetti di microtargettizzarle subito e quando si capisce che sono false, restituisci i soldi e non pubblicarle».

Nel suo discorso, il comico, sceneggiatore e produttore britannico tiene conto anche del recente discorso del Ceo di Facebook Mark Zuckerberg, in cui «metteva tutti in guardia contro le nuove leggi e i nuovi regolamenti pensati per aziende come la sua». «Alcune delle sue argomentazioni – spiega Baron Cohen – sono semplicemente assurde». E, a suo avviso, sarebbero motivate semplicemente dalla paura di diminuire i profitti della azienda della Silicon Valley.

Ad esempio, dice ancora l’attore: «Quando discute sulla difficoltà di rimuovere i contenuti, Zuckerberg ha chiesto: “Dove si traccia la linea?”. Sì, tracciare la linea può essere difficile. Ma quello che dice davvero è un’altra cosa: rimuovere le falsità dalla rete è troppo costoso. Queste sono le aziende più ricche del mondo. E hanno i migliori ingegneri del mondo. Potrebbero, se volessero, risolvere tutti questi problemi. Twitter potrebbe utilizzare un algoritmo che toglierebbe l’hate speech dei suprematisti bianchi, ma non lo fa perché, a quanto pare, rischia di buttar fuori qualche politico molto importante. Forse non sarebbe così male! La verità è che queste aziende non cambieranno mai veramente perché il loro intero business model è basato sul generare più engagement dell’utente, e niente lo riesce a fare meglio delle bugie, della paura e dello sdegno».

Una denuncia forte, insomma, quella dell’attore britannico, che rivendica di aver per tutta la vita e con passione lanciato «sfide all’intolleranza e al fanatismo». In Italia, tra i primi a volerla fare propria sono stati gli esponenti di Italia Viva, fautori – onorevole Luigi Marattin in prima fila – della proposta di rendere obbligatoria la carta di identità per accedere ai social. Un’idea nata con lo scopo di frenare l’odio e la disinformazione sulla rete, che però è stata fortemente criticata da numerosi esperti (e di cui ci siamo occupati anche nelle pagine del nostro settimanale, con un commento di Silvia De Conca) in quanto inefficace e antidemocratica.

Il punto, ad ogni modo, è che – a differenza di quanto forse pensano gli esponenti del nuovo partito di Renzi – l’attore non lascia intendere in alcuna parte del suo discorso di condividere una proposta come quella avanzata da Italia viva. Al contrario, lungi dal richiedere un ulteriore impegno da parte dei cittadini, l’orazione di Baron Cohen sottolinea la necessità di uno sforzo della controparte, quelle piattaforme 2.0 che temono di dover decurtare i loro lauti profitti per assolvere all’impegno di mantenere un ecosistema informativo decente, in cui fascismo, razzismo, misoginia, non siano benvenute.

Il machismo uccide ma non lo dite ai neofascisti di Vox

Ancora un 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne, per manifestare. Quest’anno in Spagna, il contesto è davvero sconcertante. Finora ci sono stati 94 femminicidi e solo nel secondo trimestre del 2019 sono state presentate oltre 40mila denunce, la famosa punta del grande iceberg. Allo stesso tempo ci sono le scelte politiche delle destre in grande spolvero, che negano proprio l’esistenza della “violenza di genere” e che vogliono abrogare la legge che mira a combatterla.

Manuela Carmena, ex-sindaca di Madrid, quattro anni fa, fece una scelta molto simbolica decidendo di proclamare tre giorni di lutto cittadino per ogni donna uccisa in città. Lo definì un “gesto necessario” perché un femminicidio è una questione politica, non privata, sempre. La normativa prevedeva anche che, per ogni caso di omicidio machista, si facesse un minuto di silenzio nell’intera area madrilena. Per ricordare che finché un crimine da privato non diventa visibilmente pubblico e quindi politico, è destinato a ripetersi più facilmente.

Nella regione e nella città di Madrid, in mano alle destre, è stato impedita l’approvazione di qualsiasi dichiarazione istituzionale contro la violenza maschile sulle donne. È la prima volta in 14 anni, da quando è stata promulgata la legge spagnola sulla violenza di genere. Lo stesso è successo nei 365 comuni e nelle regioni autonome dove Vox, il partito di ultradestra, ha rappresentanza o appoggia le giunte governate dal Partito Popolare e da Ciudadanos, sempre sostenendo che «la violenza non ha genere», che «non esistono crimini machisti» e che la legge deve essere revocata quanto prima.

Chi lavora alla rete municipale di Madrid contro la violenza di genere ha inviato una lettera a tutti i partiti per far sapere la propria disapprovazione: «Non posizionarsi, non condannare la violenza contro le donne attraverso una dichiarazione istituzionale è, per omissione, violenza simbolica». Alle ore 12 una performance architettata via twitter: centinaia di persone si radunano davanti al consiglio portando un cartello con il nome di ogni donna assassinata, 1.028 dal 2003, tutte quelle che Vox, da oggi, vorrebbe far sparire.

Migliaia le persone che hanno partecipato ai presidi e alle manifestazioni convocati nelle città spagnole dai collettivi femministi, per rifiutare qualsiasi violenza sessista. Non si è manifestato solo in nome delle troppe donne ammazzate, violentate, maltrattate, abusate – secondo i dati del ministero degli Interni viene segnalata una violenza ogni 5 ore – ma anche per ricordare che la Spagna viola tutte le regole internazionali su come giudicare la violenza sessuale. E vanta una stragrande maggioranza di giudici senza alcuna formazione di genere e che ignora i trattati internazionali che proteggono i diritti umani delle donne. La legge sulla cosiddetta violenza di genere del 2004, approvata durante il governo Zapatero, riconosce come vittime di questa violenza le donne che sono state aggredite dai loro partner o ex-partner. Cioè, solo quando esiste una relazione sentimentale tra la donna e il suo aggressore, la legge prevede tutta una serie di misure pianificate per la sua protezione, la sua difesa, nonché i fondi per assicurarle. La Spagna, ormai da 15 anni, vive in questa anomalia e considera come unica violenza di genere quella che accade nell’ambito delle relazioni affettive, nella sfera privata, escludendo il resto della violenza maschile comunque esercitata contro le donne proprio perché donne. In questo 25 novembre ancora più femministe sono scese in strada a manifestare contro un sistema che ostacola le donne e che è parte di una costruzione sociale che non inizia dalla violenza fisica o psicologica di un amante, o dall’insulto di un marito o di un padre. Il suo punto di partenza è nel divario salariale o nella difficoltà di accedere a un lavoro che non sia precario, nelle molestie per strada o sul luogo di lavoro, nelle discriminazioni sempre e comunque perché donne, migranti o razzializzate, o gitane, o disabili, o sex worker. Tutto questo va ben oltre l’idea collettiva di «violenza domestica» o familiare a cui un partito come Vox vorrebbe ridurre la violenza di genere.

Mobilitazioni in oltre trecento città, una mappa dettagliata di tutti gli appuntamenti girava da giorni in rete e si colorava di punti viola, il colore della marea femminista, da Alicante, Barcellona, Cartagena, Bilbao, a San Sebastián, Gijón o Saragozza. Fino alle isole Canarie, giù nell’oceano atlantico di fronte all’Africa, dove la giornata del 25N è iniziata nel peggior modo possibile con l’omicidio, a Tenerife, di una ragazza per mano del suo compagno.

La mancanza di consenso nelle istituzioni rivitalizza i movimenti femministi che si sentono minacciati nelle proprie scelte e conquiste dall’ascesa di partiti sessisti e xenofobi. A Madrid la manifestazione più grande aperta dallo striscione “machismo mata” (il maschilismo uccide), un fiume di persone che ha invaso per tutta la serata la città, dal Paseo del Prado alla Puerta del Sol.

Cosa può proporre la sinistra alle piazze delle “sardine”

Le settemila 'sardine' che hanno occupato Piazza Cavour in un flashmob di protesta contro la presenza del leader della Lega Matteo Salvini, Rimini, 24 novembre 2019. ANSA/PASQUALE BOVE

Diciamo le cose come stanno, semplici, chiare e limpide: la Sinistra in Italia non c’è, inutile girarci attorno. Sopravvivono simulacri di forze politiche, personalità diverse che si propongono, (talvolta qualcuna in cerca d’autore), ma complessivamente una rappresentanza politica vera e piena della sinistra non esiste.

Intendiamoci: nel Paese navigano sentimenti, passioni, aspirazioni, speranze, valori che si richiamano al mondo e alla tradizione della sinistra (ricordo le lenzuola anti-Salvini, le mobilitazioni pro-Lucano, quelle in difesa della Capitana, per ultime Le Sardine), ma niente che poi leghi con un filo rosso queste passioni e mobilitazioni ad un soggetto politico. Semplicemente perché la sinistra non c’è: nascono mille fiori per le strade, è vero, ma non è scontato siano rose che fioriranno, forse sono crisantemi.

C’è stato un tempo in cui le piazze si riempivano perché organizzate dai partiti, ora si riempiono solo se non organizzate dai partiti: qualcosa vorrà dire?

E non appaia un ragionamento nostalgico, tutt’altro, ma la sottolineatura della necessità di riflettere sullo stato delle cose, un invito a riflettere su sé stessi e sul mondo che si dovrebbe avere l’ambizione di rappresentare.

La stessa discussione attorno alla frammentazione della sinistra, primo e più grave problema, è talvolta mal posta: la frammentazione a sinistra c’è sempre stata. Basti ricordare che, negli anni 70, quelli delle grandi mobilitazioni di massa, in campo a vario titolo e con diversa consistenza, a sinistra potevamo contare il Pci, il Psi, il Psdi, il Pdup, il Psiup, Dp, per fermarci ai principali soggetti “parlamentari” e una miriade di formazioni extra-parlamentari.

Deve essere altro allora quello che determina l’assenza di un soggetto politico grande, rappresentativo e autorevole, e cioè l’abbandono e lo spreco di un patrimonio e di una ricchezza politica e culturale che non aveva eguali nel mondo occidentale, e che determinava un vitale e produttivo modo di essere nel corpo del Paese.

Per questo, a margine, non mi convince la narrazione sul superamento della forma partito – strumento per la trasformazione del mondo attraverso l’organizzazione di pensiero collettivo – in quanto semplicisticamente ritenuto superato, novecentesco: non si abbandona la ruota solo perché è stata inventata più di 5000 anni fa.

Ma tornando al ragionamento iniziale, quei partiti avevano un approccio differente all’interpretazione della società e un rapporto reale con il Paese.

Quelle forze politiche si confrontavano avendo ciascuno una visione di mondo, un’idea di mondo, di progetto, di prospettiva, che oggi è del tutto assente. Gli attuali soggetti politici non riescono ad uscire dai propri apparati e dai palazzi.

Esisteva un modo di stare nei conflitti, affrontarli, farsene carico, rappresentarli, farli vivere, crescere, ora del tutto abbandonato. Ad esempio, semplificando: il Pci aveva previsto il ’68? Aveva previsto il ’77? Mi pare di no, però ebbe la capacità di confrontarsi con quanto accadeva nel Paese, contaminarsi, dialogare, comprendere, rappresentare. Né rinchiudersi né inseguire: comprendere.

Infatti il ’68 non ridimensionò il Pci. Il ’77 neanche. Ricordiamo in quegli anni Bologna descritta in tante piazze come capitale della repressione? Il Pci non guardò con sufficienza, non si arroccò, non allontanò dall’alto della sua ‘grandezza’ masse di gente che erano portatori di idee nuove, errori anche, ma vivacità e speranze. Il sindaco di Bologna aprì la città: disse questa città è vostra, accolse e dialogò: arricchì Bologna e il partito.

E ricordiamo la Roma impaurita e chiusa degli anni di piombo? Petroselli e Nicolini aprirono Roma, inventarono l’Estate Romana, restituirono la città alla propria gente, ricostruirono un tessuto sociale.

La “vecchia” sinistra riusciva quindi ad essere “egemonica” nella società perché aveva la capacità di una visione (oltre ad avere interpreti francamente di livello superiore, per cultura, elaborazione, empatia), e in questo senso la frammentazione, pure esistente, era sì un problema (quante discussioni sulla ricomposizione della scissione di Livorno fra Pci e Psi), ma non tale da determinarne l’inconsistenza.

Oggi l’approccio, miope, verso le piazze che sempre più spesso spontaneamente si animano, si riduce nella rincorsa ad intestarsele, non a comprendere, a contaminarsi, a modellarsi raccogliendo le migliori energie, e quindi giustamente, quei movimenti non hanno nessun interesse a farsi mettere cappello, ma li spingono viceversa a sottolineare la loro distanza dai partiti.

Non è quindi questo un ragionamento nostalgico, ma l’invito a riflettere su quella che di fatto per la sinistra ha rappresentato l’abbandono di certe pratiche e certi modi di essere: una sconfitta culturale prima ancora che politica.

Quello che manca e di cui c’è bisogno è una visione generale di mondo, l’idea di un’altra società possibile. Chi può immaginare di rinascere e trovare forza, se la sinistra si limita a lanciare appelli, raccolta di firme, sit-in? Ma senza recuperare la necessità di una prospettiva, di un’idea di futuro da confrontare nelle piazze.

La destra vince perché offre un modello di società (che ovviamente contrastiamo), anche con parole semplici, ma facilmente comprensibili: indica un nemico (lo straniero, le istituzioni europee, le banche e i suoi ‘servi’), indica una soluzione (difesa dei confini, della famiglia, della sicurezza, dell’identità nazionale, della libertà nelle scelte economiche).

La sinistra, oltre al rifiuto di quella visione, cosa propone? La lotta alle bottigliette di plastica tanto per darsi una spruzzatina di verde, l’accoglienza umanitaria, la solidarietà sempre più di tipo caritatevole?

C’è bisogno allora di riprendere ad essere sinistra vera, riscoprire le ragioni della propria esistenza, e quindi di riparlare di socialismo, che sappia interpretare le nuove sensibilità, i nuovi rapporti di lavoro, i nuovi sfruttamenti, che sappia riproporre il contrasto ideologico, e materiale, cioè sulla pelle e nella carne viva delle persone, tra una società basata sullo sfruttamento, dell’uomo e delle risorse, e la necessità del suo superamento.

C’è bisogno di uno strumento che trasformi le piazze, anche di questi giorni (Le Sardine), da momenti di protesta, pure essenziali e necessarie, a piazze propositive di cambiamento.

In questo senso, ad esempio, bisognerebbe spiegare che anche l’ambientalismo e la salvezza del pianeta sono incompatibili con una società capitalista, condannata alla crescita continua e ininterrotta, per produrre profitto per i pochi e accentrare le ricchezze anziché distribuirle, e non un pur giusto invito a buone pratiche quotidiane.

Allora i piccoli soggetti politici esistenti, se davvero volessero rimettere in moto l’abbandonato rapporto con la società, dovrebbero prima di tutto recuperare il ruolo di elaborazione politica, di analisi e confronto vero, e perciò una volta per tutte uscire dai palazzi e dai propri arroccamenti e si accorgerebbero, in questo momento storico, che forse sarebbe utile anche spogliarsi delle proprie divise.

Esiste una massa enorme di persone che ormai non vota, una massa enorme di persone che ha pensato di affidare legittime aspirazioni al cambiamento ai 5S e che in misura sempre maggiore si sente ora se non tradita, disorientata, si prospettano scenari politici inediti, stravolgimenti nelle collocazioni politiche e sociali, la sinistra ha il dovere di parlare a quei mondi, non a Di Maio o Di Battista di turno, ma a quelle masse, comprenderle, essere dentro quei sconvolgimenti, quelle contraddizioni, provare a farle maturare, a governarle in qualche modo e anche a migliorare se stessa. Se non ne è capace non ha senso di esistere.

Questa necessità politica e culturale non può che passare inevitabilmente che attraverso lo scioglimento delle formazioni esistenti, che sopravvivono sempre più stancamente a sé stesse, lo scioglimento degli apparati di cui oggi solo vivono, senza condizioni, tranne quella di sedersi allo stesso tavolo per confrontare le idee, non i posizionamenti reciproci, e soprattutto per ascoltare, ragionare sui propri errori e rimettersi in collegamento con la gente.

È fisiologico che parole come “scioglimento” disturbino, provochino un naturale senso di orgoglio che fa scattare l’arroccamento e l’autodifesa. Usiamone altre allora, diciamo “contaminiamoci”, “intersechiamoci”, persino “abbracciamoci”. Facciamo di tante parole sparse un paragrafo, di tanti paragrafi una pagina, di tante pagine un libro, di tanti libri una libreria. Insomma immaginiamo qualcosa di più grande da costruire e offrire.

Ma come tristemente sappiamo il problema non è lessicale, ma essere disposti a rinunciare a rendite di posizione, a piccole convenienze da segreteria, a cerchi autocelebrativi. Non c’è altra strada, e non è facile.

Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti, componente Comitato nazionale èViva

L’indignazione 2, il ritorno

Come nei film, tipo Lo squalo, che a forza di sequel sono andati avanti per decenni anche le autostrade italiane stanno diventando una serie stradatelevisiva che però non appassiona nessuno. Provoca danni, stupore, morte, spavento, solo che qui è tutto vero e non c’è il sangue finto a colorare le scene d’azione.

Era il 14 agosto di un anno fa quando il Ponte Morandi crollava con 43 morti e 566 sfollati e ci ricordiamo tutti perfettamente le parole della politica, degli esperti e degli opinionisti su quella terribile tragedia: “che non accada mai più”, dicevano a reti unificate. E invece? E invece continua ad accadere. Non ci sono i morti, per fortuna, e quindi l’associazione con quello che è successo non è così facilmente immediata però il contesto di altri pezzi di strade e autostrade è criminale esattamente come un anno fa.

L’Autorità giudiziaria (badate bene, mica gli amministratori o il ministero, no, l’Autorità giudiziaria) l’altro ieri aveva deciso di chiudere un pezzo dell’Autostrada A 26 (collega Genova a Alessandria, sì, sempre Genova) e l’inchiesta della Procura sui viadotti sembra che stia raccogliendo dati allarmanti. La situazione nel resto d’Italia non è dissimile.

Le strade che percorriamo sono insicure. È una frase spaventosa anche solo a scriverla, figurarci passare su quelle strade.

Avviene però qualcosa di curioso: un anno dopo ci si indigna, ancora, come se non fosse passato un anno. Accade sulle autostrade ma se ci pensate ciclicamente su diversi argomenti: morti, lutto, indignazione, promessa, niente e poi si ricomincia di nuovo con i nuovi morti. Per carità, è vero che alcuni problemi sono complessi e di difficile risoluzione ma risulta piuttosto ridicolo, per non dire addirittura patetico, che i protagonisti dell’indignazione siano sempre gli stessi (il caso Mose con Zaia ne è un fulgido esempio): proprio come in una serie televisiva si ripetono gli eventi e non cambiano gli attori ma al contrario di una serie televisiva qui i personaggi che “falliscono” rimangono in sella a farci gustare il loro prossimo “fallimento” e si indignano sempre come se fosse la prima volta, come se la memoria valesse al massimo per qualche settimana.

E pensavo che deve essere proprio facile governare così, con un condono ogni mese che cancella i ricordi, come il raggio di Ritorno al Futuro. Ed è proprio difficile farsi governare così, da popolo immemore che confida nel caso.

Buon mercoledì.

Nessuna discontinuità

Mettetevi il cuore in pace, davvero. E preparatevi al solito giochetto che se vi salirà un po’ di disgusto sarete accusati di “regalare voti a Salvini”. Anche perché il gioco piuttosto banale delle due tifoserie contrapposte pretende che si stia o da una parte o dall’altra e se qualcuno fa notare che mentre la parte di Salvini (con tutte le sue brutture) sembra piuttosto definita, l’altra invece non si capisce bene quale sia e cosa voglia allora vi accuseranno ancora: di “regalare voti a Salvini”.

I fatti però sono difficili da scalfire e i fatti dicono chiaramente che l’impianto dei decreti sicurezza rimarranno così come sono. Il sistema virtuoso degli Sprar rimane in macerie esattamente come voleva Salvini, non ci sarà nessun ripristino della protezione umanitaria e anche sulla guerra alle Ong ci si muoverà, al massimo, a ridurre le pene pecuniari. Chi lo dice? Lo scrive il Presidente della Repubblica Mattarella nelle lettere che accompagnavano i decreti salviniani con alcune osservazioni e la ministra dell’Interno Lamorgese ha già ripetuto più volte che ci si muoverà su quella linea. Niente di più. Chissà mai qualcosa di meno.

Quindi? Quindi nessuna discontinuità. Nessuna. E non si tratta di mancata discontinuità rispetto alle politiche di Salvini ma si tratta di continuità con le politiche che furono di Minniti. La “sicurezza” in Italia è un solco che ha molti padri e che nessuno ha il coraggio di mettere in discussione.

Per carità, tutto lecito. Ma se i morti annegati poco distanti da Lampedusa prima avrebbero fatto urlare mezzo mondo perché ora c’è tutto questo silenzio?

La risposta, terribile, potrebbe essere che quelli di prima urlavano fieri le proprie azioni mentre questi di adesso invece compiono le stesse azioni ma le anestetizzano. Eppure per chi ha una visione di discontinuità rispetto al passato non c’è differenza.

Buon martedì.

Angela Davis: Tutte le discriminazioni hanno la stessa origine

Angela Davis, nata a Birmingham in Alabama nel 1944, è il simbolo vivente della lotta contro il razzismo, l’oppressione della donna e il capitalismo. Accusata nel 1970 di omicidio e sequestro di persona in seguito a un’azione militare delle Pantere Nere in un tribunale della California, venne assolta dopo una lunga battaglia processuale. Da allora la sua lotta non si è mai interrotta. Docente universitaria, militante prima del Partito comunista e poi dei movimenti antirazzisti e femministi, è stata prima firmataria dello sciopero delle donne dell’8 marzo 2017. Tra le sue opere pubblicate in Italia, Autobiografia di una rivoluzionaria (Garzanti, 1975), La libertà è una lotta costante (Ponte alle Grazie, 2018), Donna, razza e classe (Alegre, 2018). John Lennon e Yoko Ono le hanno dedicato “Angela” e i Rolling Stones “Sweet black Angel”.

In Europa e in Occidente stanno emergendo significativi movimenti femministi e in difesa dei migranti. Secondo lei è possibile unificare questi movimenti in una prospettiva di sinistra?
Negli Usa il femminismo nero è sempre stato impegnato a dimostrare che razza, genere e classe sono inseparabili nella realtà sociale in cui viviamo. Le femministe nere hanno respinto per prime l’approccio “o movimento femminista o movimento antirazzista”. Dobbiamo porci quindi il problema di come trovare le interrelazioni tra i due movimenti. Come s’intrecciano razza, classe, genere, sessualità, nazione e abilità? Si tratta di una questione chiave. Riflettere sulle relazioni tra le lotte contro il razzismo negli Stati Uniti e lotta per la difesa dei migranti messicani vuole dire per esempio adottare un approccio femminista moderno e rivoluzionario.

Lei è stata anche un’anticipatrice nell’elaborazione del concetto di intersezionalità. Come si è sviluppata la sua riflessione?
Naturalmente l’intersezionalità – cioè le correlazioni tra razza, classe, genere, sessualità – si è evoluta molto con il tempo…

L’intervista di Yurji Colombo ad Angela Davis prosegue su Left in edicola fino al 28 novembre

SOMMARIO ACQUISTA

Scuse non accettate

Giancarlo Talamini è un professore di Storia e Latino in un liceo di Fiorenzuola. Uno che dichiara apertamente di amare “la retorica fascistoide di Salvini e pure di Casapound” e che tutto preso dal suo impeto che puzza di “ordine e disciplina” ha scritto: «essendo un docente alle superiori andrò al flashmob delle Sardine per vedere se becco qualche mio studente. Poi piangerà ad avere un prof che lo rimanda e gli farà vedere il 6 con il binocolo».

Giancarlo Talamini odia le “sardine”. Ovvio: manifestare e manifestarsi è un disturbo per chi vuole il pensiero unico perché i pensieri è incapace di fabbricarli.

Si accende lo sdegno. Il ministro Lorenzo Fioramonti scrive che “educare al rispetto dei principi della Costituzione è uno dei fondamenti dell’istituzione scolastica, tra questi vi sono certamente il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero ed a partecipare alla vita pubblica secondo i modi garantiti dalla Costituzione stessa. La scuola è inclusiva e, per definizione, deve educare al pensiero critico e indipendente” e dappertutto si levano grida di indignazione.

Sia chiaro: il professore Talamini ha il diritto di pensare ciò che vuole ma ha anche il dovere di assumersene le responsabilità. E soprattutto di non rompere le scatole ai suoi studenti.

E invece? E invece in serata Talamini scrive una mail che gronda contrizione: “Buonasera, sono Giancarlo Talamini, il docente che ha pubblicato su facebook, le esternazioni,  attualmente circolanti in rete. Ne approfitto per scusarmi pubblicamente con tutti gli studenti, genitori, colleghi e dirigenti che non era certo nelle mie intenzioni mettere in difficoltà attraverso il mio scritto. Chi ha mi conosciuto sa che non sarei mai e poi mai in grado di compiere azioni del genere.”

Scuse non accettate, professore. Chi non si rende conto del valore delle proprie esternazioni non è in grado di educare i giovani. Non siete voi che dite che bisogna meritarsi di essere italiani? Ecco, bisogna meritarsi anche di essere professori. O no?

E in ultimo: ma dove sta il coraggio delle proprie idee? Dai, un po’ di dignità, su. C’è gente che accetta di andare in galera, tra i No Tav, per sostenere le proprie idee. Un po’ di contegno, su.

Buon lunedì.

Alla scoperta di una storia da sempre negata. Quella delle donne

Si sta verificando un’apertura di interesse, intorno al volume appena uscito, di cui sono co-curatrice (I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia, a cura di Franca Bellucci, Alessandra F. Celi, Liviana Gazzetta, Roma, biblink, 2019, volume promosso dalla Società Italiana delle Storiche): lo constatiamo e volentieri corrispondiamo. È la conferma che, di fronte ad un panorama italiano e non solo in cui perdurano tensioni gravi, anche sanguinose, nella relazione uomo – donna, si devono sperimentare ulteriori azioni anche culturali, che risultino efficaci. Può essere che siano vane le parole che si accumulano, mentre tutti gli aspetti degli squilibri restano inalterati.

Viene da meditare in profondità sulla severa, interrogativa e rigenerativa cancellazione di parole nell’opera dell’artista Emilio Isgrò. Per attivare il corretto circuito l’attesa di molti si rivolge alla scuola: ma anche questa attesa rischia di disperdersi, se, considerando che dal 2015 la scuola mette in atto un intervento specifico (le Linee guida nazionali del Miur), lo stallo continua. Si ha l’impressione che ogni azione varata tenda a diventare routine, perdendo di efficacia.

Il nuovo libro ha una proposta basata su una modalità snella, essenziale: misurata in ogni parte del progetto realizzato. Dunque, nulla a che vedere con il modo con cui i manuali sono soliti rispondere alla complessità del mondo, in genere cioè aumentando la mole delle pagine. Del resto questo nuovo volume non si colloca nell’ambito dei manuali. Pur con le sue molteplici sezioni questa è un’opera serrata intorno all’obiettivo: che è quello di realizzare il racconto storico con la presenza, in ogni tempo, delle donne, superando l’abituale dislivello negativo che ad esse è riserbato.

Intorno a questo obiettivo precipuo si sono intrecciati materiali diversi, comunque di coerente sguardo critico. Il corpo più ampio del libro è costituito da singoli documenti, fonti concernenti la presenza storica delle donne. La disposizione cronologica rispetta la tradizione scolastica, partendo dall’antico per giungere al contemporaneo: con una allure, però, che si intensifica verso il contemporaneo. Queste fonti richiamano, attraverso un semplice cifrario, la sezione posta in testa al libro: quella dei saggi diacronici, agili excursus sulle “parole-chiave” curati da specialiste e specialisti: Genere/ Corpo / Famiglie/ Patrimonio/ Diritto/ diritti/ Potere/ Cristianesimo/ Violenza/ Formazione e cultura/Lavoro.

Si incrociano così, in queste due preponderanti sezioni, due linguaggi culturali, quello precisamente focalizzato del documento e quello dei saggi, che abbraccia il tempo lungo in tagli di cultura antropologica. I due linguaggi sono però solidali nel considerare come la prospettiva di genere è legata allo sguardo: sul momento e, in modo diverso e consapevole, a distanza di tempo.

Vi sono altre sezioni nel libro, snelle ma significative: la sezione iconografica, che guida a decodificare le immagini-documento, la sezione filmica che guida all’utilizzo didattico di pellicole. È evidente che i contatti dell’attualità e della prospettiva oltrepassano le scansioni abituali nella scuola. Ci si apre dunque a questa consapevolezza problematica: in particolare con la sezione delle bibliografie sulla condizione della donna nel mondo, stringata, ma ricca di informazioni, buona premessa per aprirsi alla dimensione geografico-culturale in atto nella società.

La forza comunicativa del progetto sta nel tener presente con piena consapevolezza che i e le giovani percorrono i gradi dello studio per trovare risposte alle problematiche della loro contemporaneità e del loro fisico prendere posto nella società. C’è una importante estensione da considerare: che non è detto che la formazione riguardi esclusivamente gli studenti. Si tiene presente infatti l’utilità dell’autoformazione degli stessi insegnanti (si veda l’ultima sezione, con il Questionario di autovalutazione): si delinea quasi una società solidale impegnata nel reciproco insegnamento, attenta a non incorrere nel paternalismo indotto dalla autoconvinzione di sufficienza.

È evidente che quest’opera smentisce chi considera che la storia, come infine la cultura, sia appannaggio degli uomini, o chi afferma che le donne mancano negli archivi. Anche se, è vero, gli archivi sono da scandagliare con maggior convinzione, dando il nome appropriato alle donne e recuperando presenze di vite per frammenti.
Tra le fonti del libro, tutte opportunamente inquadrate, si considerano testi significativi anche quelli in cui la protagonista reale e talvolta “generale” è proiezione di uomini, che delle donne parlano senza interpellarle, autori accreditati nel loro momento e, non di rado, nel tempo successivo.

Dunque si recuperano anche testi rilevanti che appartengono ad altri ambiti disciplinari, poiché, secondo un punto di vista diffuso, consideriamo la cultura storica come capace di colloquiare con molti altri ambiti disciplinari, con una forte vocazione a ricostruire tessuti di antropologia culturale. Ma, certo, è proprio la voce delle donne che più spesso si ascolta, attraverso i loro scritti, o ricorrendo ai verbali rimasti, presso i tribunali, presso i notai: registrazioni fedeli, ma frammentarie, connotate e condizionate. Del resto, tutto il passato giunge per frammenti, in staffette di memorie e di scritture, e la cultura ha gli strumenti per interpretare e ricostruire. È però importante che ci siano lo sguardo, l’ascolto che valorizzano i soggetti. La perdita delle testimonianze si verifica quando cade l’attenzione.

Pensando all’oggi, al prolungarsi in società delle relazioni non risolte, c’è da osservare che le soluzioni tardano sia per l’indifferenza, sia per le trincee che si alzano di fronte a quanto fa problema. L’auspicio è che il dibattito culturale non si nasconda dietro le trincee, ma che desideri la relazione, l’intreccio dei soggetti. Il nostro volume guarda al programma della società inclusiva: nei riguardi delle donne, ma anche dei soggetti nuovi che si profilano nella società contemporanea.

 

Per approfondire, segnaliamo la recensione del libro “I secoli delle donne” di cui Franca Bellucci è una delle coautrici e curatrici, pubblicata su Left del 22 novembre 2019 

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Venezia affonda, sì ma nell’incuria

TOPSHOT - A woman crosses the flooded St. Mark's squareby St. Mark's Basilica after an exceptional overnight "Alta Acqua" high tide water level, early on November 13, 2019 in Venice. - Powerful rainstorms hit Italy on November 12, with the worst affected areas in the south and Venice, where there was widespread flooding. Within a cyclone that threatens the country, exceptional high water were rising in Venice, with the sirocco winds blowing northwards from the Adriatic sea against the lagoons outlets and preventing the water from flowing back into the sea. At 22:40pm the tide reached 183 cm, the second measure in history after the 198 cm of the 1966 flood. (Photo by Marco Bertorello / AFP) (Photo by MARCO BERTORELLO/AFP via Getty Images)

Ai primi di novembre ho accertato che in una platea di quaranta studenti universitari di secondo livello dei corsi di laurea in Storia dell’arte e Scienze dello spettacolo all’Università di Firenze nessuno sapeva di un’alluvione che esattamente un quarto di secolo prima aveva devastato il Piemonte. Ma tutti sono rimasti basiti nell’apprendere che tra il 5 e il 6 novembre 1994 l’esondazione del Po e del Tanaro provocò la perdita di settanta vite umane (quattordici nella sola Alessandria, coperta d’acqua per oltre il cinquanta per cento). Non li biasimo. Quasi nessuno di loro c’era, nel 1994, ma non è la sola attenuante della disinformazione.

Neanche nei giorni del venticinquennale quel disastro è stato oggetto di una riflessione, se non esaurita in un ambito prevalentemente locale. Fuori dal Piemonte se ne è parlato poco o nulla, benché quella catastrofe abbia parecchio da insegnarci. Tra le molte cose che non si ricordano sono i danni enormi riportati dal patrimonio artistico e monumentale, e risarciti con grande fatica e attenzione. Ma siccome l’arte di quelle terre stenta a entrare nel canone nazionale, neanche le tragedie che la riguardano trovano spazio in una forma di memoria tramandata, mentre l’allagamento di San Marco a Venezia fa (giustamente) il giro del mondo. L’ignoranza del patrimonio, che non sta tutto nelle cosiddette città d’arte, ci rende spaventosamente vulnerabili.

Ecco perché l’oblio dell’alluvione di Alessandria può rappresentare una chiave di lettura e di reazione a quel che sta succedendo in questi giorni (mentre scriviamo, mezza Italia è ancora sott’acqua), e che rilancia il tema cruciale della fragilità del patrimonio e della difesa del suolo. Cruciale e vitale, perché si tratta non di lasciare intatti paesaggi pittoreschi, ma di salvare vite. Ancora una volta il tema è affrontato prevalentemente – se non esclusivamente – in termini di emergenza, e non mai di progettazione degli interventi. Quelli da realizzare in tempi di pace. Parlo non a caso di difesa del suolo, perché se è clamoroso quanto accaduto a Venezia, l’acqua ha ferito il nostro territorio più storicizzato anche là dove non c’erano barriere subacquee da alzare: Matera è stata solcata da cascate di fango, e persino a Firenze e a Pisa è maturata apprensione per le piene dell’Arno. Da dove cominciare, dunque, per imbastire …

L’articolo di Fulvio Cervini prosegue su Left in edicola dal 22 novembre

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