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Per una cura possibile

True friendship. Care support happiness. Men women standing hugging in nature park.

Nel numero 47 del 22 novembre, Left ha intervistato una giovane donna medico, specializzanda in psichiatria, che ha affermato la necessità e l’importanza che il Sistema sanitario nazionale si occupi di salute mentale con una cura complessiva della persona nella ricerca e nella conquista di un benessere profondo di quest’ultima, la quale ha la possibilità di accedere nel servizio pubblico ad un percorso di psicoterapia, libera e gratuita.

Nello stesso giorno all’ospedale S. Eugenio di Roma, il Dipartimento di salute mentale della Asl Rm/2, ha organizzato un incontro di formazione per illustrare l’organizzazione dei servizi territoriali e di alcune iniziative dedicate alla salute mentale, con un’attenzione particolare all’intervento precoce di presa in carico degli adolescenti e dei giovani adulti.

Nel corso della mattinata sono state presentate due metodologie organizzative: una si riferisce alla presenza di servizi centralizzati per gli adolescenti che implica un invio ad altri servizi al raggiungimento dell’età adulta. L’altra privilegia la continuità dell’intervento e prevede, all’interno dei Csm, uno spazio dedicato al trattamento degli adolescenti integrato con altri servizi.

Nella realtà si osserva che sempre di più i giovani adulti si rivolgono spontaneamente al Ssn per chiedere aiuto, senza che ci sia un invio o un iter particolare. Ciò significa che culturalmente stanno cambiando l’immagine e la convinzione del diritto alla cura e al benessere (legato alla qualità della vita), basate su due semplici ma strutturanti idee: non c’è da vergognarsi di avere bisogno di aiuto ed è possibile ricevere, rispetto allo stare male, una risposta per un cambiamento che implica una trasformazione del proprio stato di sofferenza.

Su questa linea il responsabile,  dottor Barba, la dottoressa Pompei e l’infermiera Mangano hanno portato ad esempio la realtà del Centro di salute mentale (Csm-9) del Laurentino 38 che risponde alla complicata realtà territoriale, caratterizzata da situazioni di svantaggio culturale e socio-economico, proponendo ai pazienti tra i 18 e 25 anni, ma spesso spingendosi anche fino ai 28 o 30 anni, una psicoterapia di gruppo condotta dalla psicologa psicoterapeuta Roberta Pompei, alla quale si aggiungono momenti di incontro propedeutici, quali i laboratori cineforum e di lettura, ed il sostegno psicologico alle famiglie dei pazienti (condotti in collaborazione con i tirocinanti specializzandi dott.ssa Negri e dott. Pietromarchi ), che costituiscono un momento di continuità con il trattamento effettuato nel Csm-9.

La terapia di gruppo all’interno del Csm si giustifica per la necessità di rispondere ad una vasta utenza giovanile, ma nasce per un orientamento teorico, quello della Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, che pensa la cura per la guarigione resa possibile in un setting gruppale, dall’utilizzo del transfert e dall’interpretazione delle dinamiche non coscienti e delle immagini dei sogni, quali strumenti terapeutici.

La forma mentis che fa capo alla prassi terapeutica ritiene fondamentale il rapporto terapeuta-paziente nella certezza di un’origine psichica sana dell’essere umano, la quale può essere perduta proprio nei rapporti interumani quando sono deludenti. Pertanto le possibilità di cura e di guarigione hanno maggiore probabilità di realizzarsi nella persona malata di mente, quanto più essa abbia ricevuto tempestivamente la cosiddetta “diagnosi precoce”, che il medico può fare per un giovane paziente, qualora egli presenti i primi segni di una malattia mentale incipiente che può essere curata per tempo con la psicoterapia.

Da ciò si comprende quanto la psicoterapia, soprattutto quella di gruppo, sia fondamentale per il giovane adulto: egli è nella posizione di poter trasformare il suo vissuto e i suoi rapporti con gli altri e il terapeuta è capace di vedere queste possibilità trasformative.

Storicamente sta maturando all’interno dei Servizi di salute mentale, la convinzione che occuparsi anche di prevenzione primaria (prima dell’evidenziarsi di sintomi e patologie importanti ), facilita l’intervento di prevenzione secondaria (cioè l’intervento di trattamento specifico dei disturbi e della patologia). Inoltre psichiatri e psicologi hanno ipotizzato l’organizzazione di strutture residenziali per adolescenti e giovani, in alternativa al ricovero in Spdc proprio per agire tempestivamente sulle condizione di salute mentale del giovane cittadino.

Durante l’incontro del Dsm della Asl Rm/2 coordinato dal dott. Campora, è stato pure chiesto se fosse più importante privilegiare l’aspetto dell’accoglienza o dell’appropriatezza all’interno dei servizi. Senza alcun dubbio la risposta della responsabile dott.ssa Lozza e del dott. Ciavoni ( Cs, 7 ) è stata: “entrambi gli aspetti” soprattutto con gli adolescenti perché, anche solo tralasciandone uno, si rischierebbe di trincerarsi dietro barriere formali e burocratiche.

A proposito è stato sottolineato dal prof. Paolo Fiori Nastro dell’ Università “La Sapienza”, quanto sia importante lavorare nelle situazioni ancora “sottosoglia” in continuità terapeutica con il Tsmree (tutela salute mentale e riabilitazione età evolutiva) nella presa in carico e trattamento di giovani pazienti che manifestano i sintomi prodromici. La prevenzione e l’individuazione precoce di sintomi psicotici evidenti ma ancora transitori o sottosoglia, sono prioritari, soprattutto se riferite ai giovani, perché, ha raccontato la ricercatrice dott.ssa Monducci, è stato misurato in varie ricerche che più lungo è il tempo di non presa in carico e di non trattamento, più è forte la comparsa delle patologie e la gravità delle stesse.

E’ emersa in questa fase dell’incontro, la necessità di affiancare all’organizzazione sanitaria un lavoro di prevenzione e informazione nella scuola primaria e secondaria su temi attuali come la parità di genere, la prevenzione sull’uso di droghe e sui comportamenti a rischio, su tematiche come il bullismo, i disturbi alimentari, la sessualità, che vuol dire rispetto e non violenza, portando come esempio esperienze associative di alta qualificazione come “La scuola che verrà” che opera nel quinto Municipio.

Nello scenario di un servizio pubblico siffatto che offre ai cittadini la possibilità di curarsi assume grande importanza la formazione dei futuri psicoterapeuti. I tirocini post laurea e di specializzazione sono l’opportunità di vivere l’esperienza sul campo e di mettere in gioco la validità umana del terapeuta. Gli ambulatori sono di fatto la “frontiera” della sanità pubblica per la promozione della salute mentale e non vi è posto migliore in cui operare per uno psicologo in formazione, qualora egli abbia un interesse profondo per la terapia e per la cura, due parole intimamente connesse, le quali, se legate a loro volta alla realtà del servizio pubblico, la costituiscono come cardine istituzionale per la prevenzione secondaria (e primaria quando è possibile) e per il benessere della collettività.

In conclusione, il servizio pubblico può e deve offrire rispetto alla psicoterapia privata una formazione e un lavoro di rete istituzionale di qualità per la cura e la prevenzione della malattia mentale affinché gli psicoterapeuti siano agenti trasformativi, sia sociali che culturali, attraverso la realizzazione di una psicoterapia accessibile anche alle classi socialmente svantaggiate. La salute è un bene comune.

Gabriella Terenzi è psicologa e psicoterapeuta

La comunità

C’è chi ama la pioggia e chi non sopporta la pioggia, c’è chi cammina stando a stento a non pestare le righe della pavimentazione e chi invece ha paura di prendere l’ascensore. Io ho sempre avuto una passione quasi insana per le parole che fatico a spiegare o a farmi spiegare.

Mi spiego: lo stare insieme, ad esempio, le regole che governano lo stare insieme, cosa accade quando una cittadinanza o gli abitanti di una nazione smettono di essere un blocco sociale, cominciano a sfaldarsi, quella colla che tiene insieme le persone e che poi improvvisamente si secca e comincia a sbriciolarsi e le persone che prima camminavano fianco a fianco, addirittura per mano, improvvisamente non riescono più a capirsi, non sorridono più all’unisono, non sorridono nemmeno più, iniziano a guardarsi di sbieco, non si fidano e non si sopportano, e da fuori sembra che non sia accaduto niente, nessun fatto e nessun problema conclamato ma è come se si perdesse il senso e le persone diventano isole, il paese diventa un arcipelago di persone sole che si sfogano solo un po’. Ecco, quando si sfalda una comunità, non so nemmeno se esiste una parole, se c’è un verbo per descrivere questa cosa qui, quella è una delle cose che mi fa volare via.

Mi accade per il contrario, ben inteso, mi accade anche quando persone che prima si strusciavano appena, magari solo pestandosi il piede mentre si infilavano di corsa a farcire un treno pendolare, improvvisamente, perché da fuori gli amori e i disamori sembrano sempre improvvisi se ci pensate come se non ci fossero sfumature, e poi quei due che si sono maledetti per una gomitata accidentale una mattina, una mattina come tutte le mattine senza nemmeno troppo freddo o troppo caldo o troppo umido o con il treno più in ritardo rispetto al solito e nemmeno con più pendolari del solito, si guardano con un secondo in più di attenzione, come se si impigliassero uno addosso all’altro, si fermano a notare l’attaccatura dei capelli o le mani quanto sono sottili e la pelle e le orecchie e i cuori si sintonizzano come la chiave giusta per il bullone pescata al primo colpo dal mazzo, e sono tutti e due vicini come se fossero nati così, talmente allineati da sentire il singhiozzo di un bisogno l’uno dell’altro, come se avessero trovato un vocabolario comune, la stessa lente per osservare il mondo intorno.

E si fanno comunità. A me polverizza il cervello capire quella cosa lì, quando un gruppo di persone si fanno una cosa unica. Comunità la chiamano. Comunità si dice in italiano. Se sfogliate il vocabolario trovate la spiegazione ma non ci sono le istruzioni.

(dal mio spettacolo Se si insegnasse la bellezza, scritto per l’associazione Comuni Virtuosi. Con le piazze piene di questi giorni vale la pena riflettere, sulla comunità)

Buon lunedì.

Un golpe contro Evo, l’indio disobbediente

Ptake part in a demonstration in support of Bolivia's overthrown president Evo Morales in front of the US embassy in Buenos Aires on November 22, 2019. (Photo by JUAN MABROMATA / AFP) (Photo by JUAN MABROMATA/AFP via Getty Images)

Jeanine Áñez, la presidente provvisoria ultraconservatrice della Bolivia che ha preso il posto di Evo Morales dopo il golpe del 10 novembre, ha promulgato la legge che stabilisce nuove elezioni generali dopo l’annullamento di quelle del 20 ottobre. «In Bolivia c’è stato un processo elettorale dove Evo Morales ha vinto con oltre 600 mila voti di scarto» spiega a Left Gennaro Carotenuto, professore di Storia contemporanea all’Università di Macerata, esperto di America latina.

«Nessuno mette in discussione il risultato, neanche l’Organizzazione degli Stati americani (Oea). Questo processo è stato surrettiziamente cancellato dal colpo di Stato, che ha raggiunto il suo scopo: eliminare l’indio disubbidiente e il suo progetto politico che appena un mese fa era ancora maggioritario nel Paese. I golpisti avranno vinto anche se ci saranno elezioni tra pochi mesi, perfino se le dovesse vincere il Movimento al socialismo». Il Mas è il partito di Morales, quello che detiene attualmente due terzi dei seggi in Parlamento. Nonostante ciò, la legge che porta nuovamente alle urne è stata approvata all’unanimità.

«Questa è stata secondo me una decisione politica del Mas per arrivare a quello che ora è considerato il bene supremo, cioè mettere fine alle violenze e alle persecuzioni e garantire l’agibilità politica del partito di maggioranza nel Paese. Vedremo se avranno avuto ragione e se questo porterà alla fine della repressione e poi a elezioni regolari» spiega Carotenuto. La tornata elettorale del 20 ottobre è stata infatti…

L’intervista di Alessia Gasparini a Gennaro Carotenuto prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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Un nuovo anello per Tolkien

Su internet, o meglio, sui social network si sta consumando una tragedia. Un nutrito numero di persone si sta accapigliando e sta gridando allo scandalo. La motivazione è che qualcuno sta depredando questa gente dell’infanzia. L’identità del principale imputato del suddetto crimine è nota, è Ottavio Fatica, che assieme a un numero imprecisato di complici – riuniti sotto un unico nome, quello dell’Associazione italiana studi tolkieniani (Aist) – si è macchiato di un imperdonabile misfatto, ovvero di aver osato ritradurre un caposaldo della letteratura dei nostri tempi, Il Signore degli Anelli dello scrittore inglese J.R.R. Tolkien.

Ora, un incipit del genere può sembrare troppo drammatico, persino esagerato, ma presa con la dovuta ironia è proprio quello che sta accadendo in rete da giorni, settimane, mesi. Va detto che si tratta di una situazione che si protrae da quasi oramai un paio di anni, quando è stato annunciato che Bompiani aveva deciso di lanciarsi in questa coraggiosa impresa, non priva di ostacoli e pericoli, proprio come il cammino di Frodo Baggins verso la Montagna Fiammea. Sì, già quest’ultimo termine vi suonerà strano, se siete lettori della vecchia traduzione di Vittoria Alliata di Villafranca che ha fatto innamorare migliaia di lettori nei molti decenni passati sugli scaffali delle librerie. E il fulcro della questione, attorno al quale ruota tutto il resto, è questo. Ci si è messo troppo ad approdare a una nuova traduzione, rendendo l’Italia un caso pressoché unico al mondo.

Complici le pellicole cinematografiche di Peter Jackson, con cui sono cresciute le recenti generazioni di tolkieniani e dove venivano recitati frasi, nomi, toponimi della versione di Alliata, molti ora stentano ad accettare l’enorme e meritorio lavoro compiuto da Fatica, arrivando persino a scagliarsi a male parole contro il traduttore. Certo, oramai è una peculiarità dei social quella di lasciare che tutti abbiano il permesso o addirittura il diritto-dovere di dire tutto, che “tutti sappiano tutto di tutto”, che tutti si possano pronunciare nelle maniere più sordide nei confronti degli altri con la convinzione di rimanere impuniti; e questo vale per qualsiasi argomento, anche se stavolta a essere colpita è la letteratura. Poche, davvero poche, sono state…

L’articolo del Kollektiv Ulyanov prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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Se questa è la discontinuità

Foto pubblicata dal profilo Twitter dei Vigili del Fuoco #Savona #A6, proseguono le operazioni di ricerca dei #vigilidelfuoco, rese difficili dallinaccessibilità del luogo. Inviate squadre #usar, #cinofili, mezzi movimento terra #24novembre", si legge in un post. TWITTER VIGILI DEL FUOCO +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++ ++HO ? NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Scriveva a febbraio, in una lettera indirizzata al governo Conte 1, Achille Variati, presidente dell’Upi, l’Unione delle Province: «Serve un piano generale di investimenti e messa in sicurezza delle infrastrutture di competenza delle province, in particolare per i ponti». Un’urgenza nota, ma irrisolta: all’indomani del crollo del ponte Morandi, era stato proprio l’ex ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli a lanciare un monitoraggio straordinario di tutti i ponti e viadotti non autostradali.

La stragrande maggioranza dei quali, circa 30 mila, è di competenza delle province. Toninelli prescrisse che entro i primi di settembre, due settimane dopo quell’immane disastro, che stava per ripetersi pochi giorni fa sull’autostrada Torino-Savona, tutte le 76 province italiane (e gli altri enti gestori) gli mandassero un report sulle condizioni di sicurezza di queste infrastrutture fondamentali per la circolazione di uomini e merci. Con annessa indicazione degli «interventi necessari a rimuovere le condizioni di rischio da essi riscontrate, corredando le relative segnalazioni di adeguate attestazioni tecniche e indicazioni di priorità».

Fu una corsa contro il tempo: tecnici e funzionari erano rientrati trafelati dalle vacanze. Il Mit venne travolto da una gragnuola di carte e previsioni di spesa. Una mappatura da cui emersero cifre eloquenti e storie da brividi. Il romanzo tragico e imbarazzante di migliaia di manufatti vecchi e pericolanti, eretti 50 o 80 anni fa con tecniche ormai superate, inadatti per il volume di traffico e le macchine contemporanee, sopravvissuti a generazioni di tir senza il beneficio di un controllo strutturale. Il 65 per cento di questi trappoloni per umani a cielo aperto, percorsi ogni giorno da milioni di italiani, avrebbe avuto bisogno di interventi rapidi e sostanziali.

Che fine ha fatto il rapporto «urgentissimo»?
Ne è seguito un iter, una tempistica, una bridge map? Sono state mobilitate..

L’articolo di Maurizio Di Fazio prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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Amnesty international: Vogliamo sapere dal governo che si sta facendo tutto il possibile per Silvia Romano

Il festival del Cinema dei diritti umani che si svolge a Napoli fino al 30 novembre è stato scelto come “palcoscenico” da Amnesty international e altre associazioni umanitarie (tra cui Emergency, Un ponte per, Mediterranea e Hic sunt leones) per lanciare un pubblico appello affinché Silvia Romano torni libera.
Le Ong si sono inoltre attivate per raccogliere, attraverso i loro siti, i messaggi di solidarietà a Silvia e alla sua famiglia (info su amnesty.it). «Chiediamo al governo italiano una dichiarazione ufficiale sullo stato delle indagini in corso e un impegno a 360 gradi affinché Silvia possa fare presto ritorno a casa», si legge nell’appello.

Ne abbiamo parlato con il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury. «È necessario tenere accesi i riflettori su questa vicenda, ormai Silvia è da più di un anno nelle mani di rapitori e salvo rare eccezioni la sua storia è uscita dal cono d’ombra mediatico solo in occasione del triste anniversario della sua scomparsa avvenuta il 20 novembre 2018» osserva Noury. «Anche noi di Amnesty – prosegue – per quasi dodici mesi abbiamo doverosamente seguito una linea di bassissimo profilo. Dopo di che abbiamo messo in pratica questa iniziativa solo in seguito all’autorizzazione della famiglia. Si tratta peraltro di un appello che al momento non prevede nemmeno una raccolta di firme ma solo di messaggi di solidarietà che poi invieremo alla mamma di Silvia: in sole 24 ore ne sono stati scritti oltre tremila. È un bellissimo segnale di vicinanza e interesse».

Nonostante sia passato tanto tempo, la ricostruzione del rapimento presenta ancora molti lati oscuri. Le indagini hanno portato all’arresto di tre cittadini kenioti: Adan Omar, Abdulla Gababa Wario e Moses Luwali Chembe, accusati di sequestro di persona e terrorismo. Il che lascia presagire foschi scenari e di certo il silenzio delle istituzioni italiane non aiuta a diradare la nebbia. «In tutto questo periodo il nostro governo…

L’intervista di Federico Tulli a Riccardo Noury prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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Fridays for future, un anno vissuto intensamente

«Chiunque tu sia, ovunque tu sia, abbiamo bisogno di te». Con queste parole, ormai un anno fa, Greta Thunberg dava il la a un movimento internazionale di contrasto ai cambiamenti climatici che nessuno aveva mai immaginato prima. Erano gli inizi di settembre quando ragazzi di diversi Paesi europei (tra cui Francia e Germania) cominciano a scendere in piazza ogni venerdì, seguendo l’esempio della sedicenne svedese Greta Thunberg. In Italia i primi scioperi si sviluppano a partire da dicembre, con la nascita di alcuni gruppi locali di Fridays for future nelle grandi città (Torino, Milano, Roma, Napoli, Pisa ecc.).

Le prime settimane sono le più difficili: inizialmente, anche qui a Torino, ci ritroviamo a manifestare in cinque o sei, e il confronto con le altre piazze europee è impietoso. Col passare del tempo, però, il movimento comincia a crescere anche nel nostro Paese. La prima data a cui tutti noi attivisti puntiamo per sfondare il muro dell’invisibilità è il 15 marzo, giorno del primo Sciopero globale per il futuro. Le settimane di avvicinamento allo sciopero sono emozionanti: moltissimi studenti ci scrivono sui social, si informano, ci mandano foto dei loro cartelloni.

L’attesa è tanta. Di pari passo, i vari movimenti locali si organizzano in maniera più definita: si creano dei coordinamenti di cui fanno parte gli attivisti più esperti, si struttura una rete di relazioni nazionale e internazionale. Sui social, che rappresentano un preciso termometro dell’attenzione mediatica sui nostri temi, le pagine locali e nazionali registrano aumenti di condivisioni impressionanti. Quando finalmente arriva il 15 marzo, gli sforzi di centinaia di attivisti da Nord a Sud d’Italia vengono ripagati: le piazze sono strapiene, con numeri da capogiro. Oltre 600mila persone manifestano in tutta la penisola, con picchi di partecipazione nelle metropoli come Milano, Roma, Torino, Napoli, Firenze.
Un risultato del tutto inaspettato. Chi l’avrebbe…

Luca Sardo è coordinatore di Fridays for future – Torino

L’articolo di Luca Sardo prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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“Solo quando lo dico io!”

Italian former Prime Minister and leader of Italia Viva (Italy Alive) party Matteo Renzi during the tv program ?Quarta Repubblica? hosted on Rete 4 by journalist Nicola Porro, Rome, 25 november 2019. ANSA/FABIO FRUSTACI

C’è qualcosa di interessante nella vicenda che vede coinvolto l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi, ex segretario del Partito democratico, ex uomo di punta dell’ex fondazione Open, ex abbandonante della politica rientrato in politica e attuale segretario del nuovo partito Italia viva: l’incoerenza.

Badate bene, non è solo l’incoerenza di Matteo Renzi, anzi, è un’incoerenza piuttosto generale, colpisce larga parte della nostra classe dirigente ma i fatti di questi giorni propongono un tema che andrebbe affrontato con cura. C’è un’indagine in corso (di cui è quasi inutile parlare, in attesa che si pronunci l’autorità giudiziaria) e c’è la notizia di una casa che Renzi avrebbe acquistato grazie al prestito (personale, che nulla ha a che vedere con la fondazione Open) da parte della famiglia Maestrelli. Riccardo Maestrelli era stato nominato nel 2015 nel Cda di Cassa, depositi e prestiti proprio dal governo Renzi. Ma vabbè.

Ciò che interessa ora è la rabbia di Renzi (ma ripeto, vale per molti, mica solo per Renzi) perché i giornali si occupano dell’acquisto della sua abitazione, ribadendo con vigore un presunto limite da non oltrepassare tra pubblico e privato, tra privato e politico. La richiesta, c’è da dire, è piuttosto curiosa. Siamo in un tempo in cui i politici cercano di convincerci di essere degli ottimi personaggi pubblici prima che buoni legislatori e amministratori, percorrono le timeline dei nostri social con le foto e le dirette e le storielle delle loro vacanze in giro per il mondo insistendo nella proiezione di se stessi come influencer piuttosto che politici. Ci dicono “siamo come te, siamo come voi”. E pretendono che ci si affezioni a qualsiasi loro spigolo.

L’hanno voluto loro. Hanno trasformato loro la politica in spettacolo e insistono perché si continui così. Sono loro che chiedono di essere valutati su base empatica e non su base meritocratica.

Insomma, dai, siete voi che volete essere pubblici, oscenamente pubblici. E ora vi coprite con la foglia di fico? Dico, dai, davvero, non vi incuriosirebbe sapere come e dove ha comprato a casa il vostro cantante preferito? Eccolo, il cantante preferito.

Buon venerdì.

In cerca di Silvia

Mamma Francesca ha scelto ancora una volta il silenzio. Non ha aperto a nessuno dei giornalisti che hanno suonato il citofono dell’appartamento al quarto piano di un tranquillo stabile in zona Casoretto a Milano. Lo stesso dignitoso silenzio che dal 20 novembre del 2018 ha caratterizzato l’attesa che la sua Silvia tornasse a casa. Tutta la famiglia Romano se lo è imposto in questi mesi di angoscia e speranza. Riservando totale fiducia alle istituzioni e alle autorità giudiziarie. È trascorso poco più di un anno dal rapimento della giovane cooperante milanese sequestrata in Kenya da un gruppo armato che intorno alle 20 fece irruzione nel piccolo villaggio di Chakama, a 80 chilometri da Malindi. Otto uomini arrivarono a bordo di un furgone, lanciarono una bomba a mano e spararono all’impazzata con dei mitragliatori. Solo per puro caso non ci furono vittime. Una decina di feriti tra cui alcuni bambini il bilancio dell’assalto. Raggiunto l’orfanotrofio in cui Silvia svolgeva la sua opera di volontariato per conto della Onlus italiana Africa Milele chiesero di lei, «la straniera».

La trovarono nel suo alloggio e la trascinarono via sotto lo sguardo inerme di quelli che ormai erano i suoi amici. Impotenti. Da quel momento, fino allo scorso settembre, nessuna notizia sul suo destino. Gli inquirenti hanno però una certezza: «Silvia è viva e si sta facendo di tutto per riportarla a casa». Questa l’unica informazione filtrata da ambienti di intelligence. Nulla di più, solo uno stringato «ci sono nuovi elementi di indagine». «Le notizie che abbiamo raccolto qui in Kenya portano in Somalia – racconta Omer Abdallah, freelance e fixer per testate internazionali -. Silvia sarebbe passata dalle mani di banditi senza scrupoli a quelle di jihadisti appartenenti all’organizzazione Al-Shabaab, che sarebbero stati già individuati. La vostra Procura di Roma è informata di tutto dall’Alta Corte del South West State». A confermare le parole di Abdallah anche fonti di Piazzale Clodio che parlano di un’informativa arrivata dalla sezione specializzata anti pirateria che dallo scorso luglio indaga sul caso di Silvia Romano. La pista era già emersa a seguito della trasferta degli inquirenti in Kenya nell’agosto scorso. Dopo aver analizzato documenti e atti dell’indagine svolta dalle autorità locali, i magistrati italiani avrebbero p…

L’inchiesta di Antonella napoli prosegue su Left in edicola dal 29 novembre 2019

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Quando il silenzio non vale più di mille parole

Tutto al condizionale. La vita di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita un anno fa in Kenya e tuttora ostaggio, probabilmente in Somalia, è una lunga faticosa catena di verbi al condizionale che bisbigliano sotto la coltre di silenzio. Qualcuno dice che l’intelligence italiana abbia chiesto riserbo, altri temono che questo silenzio nasconda solo le difficoltà nella trattativa per la sua liberazione. Di certo rimbomba questo silenzio, come rimbomba. Notizie certe ce ne sono poche ma interessanti: nove giorni prima di essere rapita Silvia Romano si reca alla centrale di polizia vicina al villaggio di Chakama dove stava per la onlus italiana Africa Milele per denunciare un pastore anglicano che aveva atteggiamenti molesti verso alcune bambine. Il 20 novembre avviene il sequestro: un gruppo di uomini armati (chi parla di cinque, chi di otto) creano caos nel mercato del villaggio sparando alcuni colpi di arma da fuoco in aria e si dirigono nella camera dove alloggiava Silvia Romano portandosela via in spalla.

L’obiettivo era chiaro, i comportamenti erano risoluti: volevano prendere lei, solo lei. Sui mandanti sono state fatte diversi ipotesi: inizialmente si pensava a un rapimento per ottenere denaro dal riscatto, poi si è parlato di un gruppo fondamentalista islamico e qualcuno ha scritto che sia stata venduta per essere portata in Somalia. Sulla Somalia hanno scritto diverse testate nonostante il governo di Mogadiscio continui a smentire. Poi ci sono le cose non fatte: la denuncia di Silvia Romano non è mai stata protocollata perché, spiega l’agente di Polizia che ha raccolto la denuncia, mancherebbero i dati delle presunte vittime e del presunto molestatore. Ma anche negli archivi dell’aeroporto di Mombasa dove il 5 novembre 2018 Silvia romano era atterrata risultano mancanti proprio dei file che la riguardano. Il telefono di Silvia è scomparso per poi risultare acceso il 6 aprile di quest’anno. I due presunti rapitori arrestati dalle autorità locali intanto hanno trovato i soldi necessari per pagare la cauzione e uscire dal carcere: 26mila euro sono una cifra enorme per quei luoghi e i due risultano praticamente indigenti. Una cosa è certa: la politica sulla vicenda di Silvia Romano continua a balbettare. Siamo ben lontani dalle potenti prese di posizione per altri casi simili e il caso sembra essere ritenuto assolutamente secondario nel dibattito pubblico. Del resto Silvia è una di quei buonisti che scelgono di aiutarli a casa loro esponendosi al pericolo coscientemente, secondo un certo pensiero prevalente, ed è giusto che paghi i suoi errori senza pesare nel dibattito politico, evidentemente. Due quotidiani di destra (che per ecologia lessicale eviteremo di citare) ci hanno detto che Silvia Romano sarebbe stata costretta a convertirsi all’Islam e addirittura a sposarsi con uno dei suoi rapitori. Gli astuti giornalisti ci dicono anche che le loro fonti sarebbero elementi dell’intelligence italiana.

Curioso, no? La stessa intelligence che accoratamente chiede di non scriverne per non minare le possibilità di successo della sua liberazione avrebbero conferito con alcuni giornalisti per dare queste colorite informazioni che sarebbero perfette per insozzare un po’ l’immagine di Silvia Romano. Sarebbe curioso sapere se gli apparati dello Stato davvero ritengano l’eventuale conversione dell’ostaggio una notizia utile per il proseguo delle trattative. O forse, semplicemente, su Silvia Romano (come su tutte le vittime di questi ultimi anni tossici di questo Paese) si gioca una putrida guerra di propaganda che se ne frega delle persone, della loro salvezza e dell’informazione intesa come pratica etica. Ma anche questo discorso in fondo è così vigliaccamente basso rispetto alla realtà di Silvia e della sua famiglia. Quindi? Se ne può sapere qualcosa?

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 29 novembre 2019

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