Home Blog Pagina 548

L’orecchio bambino di Gianni Rodari

Giacomino, Cipollino, Giovannino, Alice Cascherina, il Barone Lamberto e poi omini di burro, di gelato. La galleria dei personaggi che evocare Rodari porta chiunque a ricordare, è pressoché inesauribile, tanto da caratterizzare l’immaginario collettivo del nostro Paese e diventare inscindibile dalla storia non solo della letteratura per l’infanzia, ma più in generale dell’Italia repubblicana, dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni.

Proprio nell’anno quindi del celebratissimo centenario dalla nascita le pubblicazioni permetteranno a qualcuno di rinfrescarsi la memoria e semmai, vogliamo essere ambiziosi, di maturare uno sguardo più attento, che permetta di cogliere elementi della sua figura che non hanno avuto sufficiente risalto e che sono rimasti in ombra. Elementi determinanti per comprendere la traiettoria personale, artistica, politica e professionale di un uomo che ha tentato nell’arco della sua esistenza di tenere insieme queste dimensioni e non scinderle come più frequentemente è accaduto.

Per esempio? Be’ non molti sanno che Rodari fu un giornalista. Iniziò molto presto, come lui stesso ebbe a dire, anche un po’ per caso, ma poi, lungo tutta la sua vita, parallelamente a quella letteraria più nota, sarà l’attività nella quale si impegnò di più, fino agli ultimi giorni. Fu “giornalista integrale”, volendo riprendere una espressione cara a Gramsci e praticò questa attività dandole un senso preciso cioè contribuire al processo di trasformazione del nostro Paese, al quale Rodari partecipò, proprio come giornalista, prendendo posizione, schierandosi e ingaggiando con quel suo stile sempre pacato, ironico, durissime polemiche contro l’Italia moralistica, precettiva, che era dura a morire e che lui costantemente provò a combattere.

È in questa costante combinazione di una dimensione culturale, ma anche educativa, pedagogica, che dobbiamo inquadrarlo…

Appuntamenti con Rodari. A Più libri più liberi, la fiera nazionale dell’editoria a Roma (Convention center Nuvola, Eur) fino all’8 dicembre, a cura di Biblioteche di Roma si tiene la mostra “Tra Munari e Rodari”. Incontri in programma: il 5 dicembre (ore 12) “Gianni Rodari una storia romana” con Maurizio Caminito, Ilaria Capanna, Giorgio Diamanti e Matteo Frasca; il 7 dicembre (ore 10.30) a raccontare “Rodari. La fantasia che ci connette al cielo” saranno Federico Appel, Rosa Maiello, Vanessa Roghi e Manierosa Rossetto. L’8 dicembre  (ore 10.30) Vittorio Bo, Pietro Greco e Vanessa Roghi parleranno  di “Chimica” rodariana. Gianni e la scienza.

Il 14 dicembre al Teatro San Raffaele al Trullo, quartiere di Roma, si svolge (dalle 9.30 alle 13.30) un convegno su Rodari giornalista. Tra i partecipanti anche i giornalisti di Left.

L’articolo di Giovanni Castagno prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

Soli e vecchi

elderly retired couple sitting together on the bench in autumn park, love concept

Finirai solo e vecchio. Si dice così, è una formula di quelle che scappa già preconfezionata, quando ci si cura poco delle parole. Soli e vecchi: l’anzianità e la solitudine sono due compagne di viaggio che nell’immaginario collettivo vanno a braccetto come due innamorati. Ma non è un film, no, e il deterioramento sociale della dignità delle persone con l’andare degli anni dovrebbe essere una delle urgenze del ministro della cura. Eh sì, lo so, non c’è mica il ministro della cura ma rende bene l’idea.

Croce Rossa Italiana ha fornito ieri i primi dati dei cinque mesi di attività del suo numero verde pensato per persone anziane e sole che chiedono compagnia, assistenza e supporto psicologico: 279 persone in media al giorno che chiamano soprattutto per motivi di solitudine. L’età media delle oltre 21mila persone che hanno chiamato il numero verde 800 06 55 10 è di 74 anni, di cui oltre la metà donne che, a prescindere dalle condizioni economiche e sociali, richiedono principalmente compagnia a domicilio, assistenza, servizi di trasporto e supporto psicologico.

Del resto che ci fai con ‘sti vecchi che sono costosi per cronicità e malattie e inoltre non sono nemmeno più produttivi. La lenta uscita da una normale socialità è la fine che spetta a molti anziani in un Paese che non è per giovani, no, ma nemmeno per vecchi: un Paese che al massimo si occupa di preparare forza lavoro per poi farla lavorare (pagandola il meno possibile) e riuscire a disfarsene con poca preoccupazione.

Siamo a posto così? Con un numero di telefono? Davvero non vi tocca sapere che ci sono persone che cercano conforto così?

Buon giovedì.

Reati ostativi e permessi: giusto “premiare” il detenuto che collabora. Depositata la sentenza

Non si può punire un mafioso se non collabora con la giustizia. In particolare un detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti – se non collabora. È questo il principio stabilito dalla Corte costituzionale che con la sentenza n. 253 depositata oggi (relatore Nicolò Zanon) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’Ordinamento penitenziario là dove non contempla che, nelle condizioni indicate, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio. Prima della dichiarazione di incostituzionalità, si presumeva che la mancata collaborazione con la giustizia dopo la condanna per certi delitti dimostrasse in modo inequivocabile la persistenza di rapporti con la criminalità organizzata. Da oggi non sarà più così. E per quanto concerne la presunta pericolosità del detenuto – tema che ha scatenato forti critiche da parte di diversi magistrati, politici e nell’opinione pubblica – essa resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Quindi, non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione.

La presunzione di pericolosità – non più assoluta ma relativa – può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale. É fondamentale aggiungere – scrive la Corte in un comunicato – che tutti i benefici penitenziari, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

Da via Arenula fanno sapere che «i tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro per verificare, insieme al Parlamento, un’adeguata e tempestiva soluzione». Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha aggiunto: «Sono sicuro che le forze politiche saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza».

Si tratta «di una sentenza sicuramente che contiene principi importanti e spunti interessanti ma non possiamo definirla rivoluzionaria bensì cauta» osserva Davide Galliani, professore associato di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Milano, e autore, con altri, del libro Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale. «Un aspetto che mi lascia perplesso è quando leggo in sentenza che per ottenere i benefici non solo occorre che il legame con l’organizzazione criminale non ci sia nel presente ma è necessario che il ripristino del collegamento con la criminalità organizzata non avvenga in futuro. Occorrerà attendere la giurisprudenza».

«Si tratta di una sentenza che non rivoluziona il sistema dell’esecuzione penale per quanto riguarda i cosiddetti reati ostativi – spiega Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino – ma apre una piccola breccia nel muro di cinta del fine pena mai in Italia: la decisione si limita al solo beneficio del permesso premio però con argomentazioni contro la presunzione assoluta di pericolosità sociale».

Ilaria Cucchi è la nuova Antigone: va in scena il caso di Stefano

Esiste una verità del corpo che si fa racconto. Un corpo indifeso, nudo, da cui è scomparsa la vita e il pudore. Un corpo da mostrare o da nascondere? Si è aperta così l’anteprima dello spettacolo La notte di Antigone, messo in scena al Campoteatrale a Milano dalla compagnia Eco di Fondo.

Quel corpo tutta la platea lo ha immaginato con il viso scarno e tumefatto dai lividi, come siamo stati abituati a vederlo nelle foto circolate sulla stampa e in tv, perché era quello di Stefano Cucchi. L’Antigone di questa storia è Ilaria, la sorella che, come la protagonista del mito greco di Sofocle, ha combattuto (e combatte) per restituire giustizia e verità al fratello ucciso.

Anche se nessuno ha mai detto i loro nomi per tutta la tragedia, tutti ne hanno immaginato i volti. I volti di Ilaria e Stefano e dei loro genitori. E sono state le loro facce a traghettare il racconto, ma avrebbero potuto essere anche quelle di Hiadi Giuliani e Carlo o di Federico Aldovrandi e di sua madre Patrizia Moretti.

Lo spettacolo si concentra sul racconto, misto di immaginazione e realtà, della notte in cui Ilaria ha deciso che avrebbe mostrato al mondo le foto del corpo del fratello. Proprio quelle immagini davanti alle quali è stato impossibile riuscire a continuare a sostenere che fosse caduto dalle scale o chissà cos’altro.

È combattuta, arrabbiata, rievoca suo fratello in modo umano e quindi imperfetto. Non come un angelo, ma con tutti i suoi difetti, i non detti e le incomprensioni. Si dilania nel dubbio se sia giusto sottoporlo al processo mediatico che si scatenerà, se sia giusto che tutti gli altri conoscano Stefano. E che lo giudichino.

Lei che quel fratello non è riuscita a proteggerlo e che aveva persino pensato che il carcere magari sarebbe riuscito in ciò in cui comunità, famiglia e Lei avevano fallito. A tratti lo incolpa persino della sua morte. Lui che non le aveva permesso di aiutarlo. Poi però ritorna in sé e si ricorda che qualunque cosa Lui abbia o non abbia fatto, detto, pensato Loro non avrebbero dovuto toccarlo, picchiarlo, abbandonarlo.

Giacomo Ferraù e Giulia Viana hanno riscritto la tragedia di Sofocle interrogandosi, hanno lavorato a questo testo negli ultimi 3 anni ponendosi le domande che ciascuno di noi ascoltando le testimonianze di casi come quello di Stefano si è fatto.

«È una storia ma ne contiene molte altre. Ricorda a tutti che comunque per un caso così tanti altri sono rimasti in sordina e non sempre si è avuta giustizia o verità» spiegano i due drammaturghi e attori. «Sono due concetti contigui verità e giustizia ma spesso non consequenziali. Sono limitrofi, ma è importante sapere se è la giustizia che porta verità o la verità che porta giustizia. Questo è il punto di partenza di ogni Antigone».

Ilaria quella notte deve decidere se avere paura o coraggio, il coraggio di sopportare che la sua vita, quella delle persone a lei care e anche suo fratello siano messi in pubblica piazza, alla gogna, per poter ottenere verità e magari anche giustizia.

Nel mito classico da un lato c’è Antigone che sacrifica sé stessa perché il corpo del fratello Polinice, ritenuto un traditore, trovi una degna sepoltura; dall’altra parte Creonte, colui che detiene il potere e che ha ordinato che il cadavere rimanga insepolto.

«In questo caso» sottolinea Ferraù «l’assioma è opposto. Il Creonte della tragedia esponeva il cadavere, invece adesso si trova ad insabbiare, a dover nascondere. E chi si trova dall’altra parte, Antigone, espone il cadavere, lo dà in pasto al dibattito mediatico, alle bocche di persone che non hanno vissuto la vicenda ma che ne parlano come se la conoscessero».

Le anteprime milanesi della Notte di Antigone avrebbero dovuto essere seguite da un dibattito aperto con il pubblico. Quando gli attori hanno concluso la performance e si sono presi i loro bravi applausi doveva scattare un momento collettivo di riflessione, critica o approvazione. Invece c’è stato silenzio.

Tutti hanno una loro opinione, c’è il complottista che vede casi Cucchi dietro ogni angolo, quello che chiuderebbe le carceri, quell’altro che proprio non riesce a credere che rappresentanti delle Forze dell’ordine siano arrivati a tanto. Il processo (anzi i processi) stabilirà cosa è certo e cosa non lo è.

Quel silenzio significa però qualcosa. Paura, per il crollo della certezza che chi dovrebbe tutelare possa andare così oltre. Dubbio, chissà quanti casi non hanno avuto la loro Antigone e non sono conosciuti? Spaesamento, questo è il rapporto tra Stato e cittadino?

Rispetto a questo Valentina Calderone, presidente di A buon diritto, ci ha detto: «Purtroppo non ci sono statistiche, non si possono studiare i numeri di questa questione. Sono successi e succedono, e più spesso di quanto noi non vorremmo immaginare. Quel che è certo è che negli ultimi anni i casi che sono arrivati a processo sono aumentati e non si parla più di poche e isolate situazioni. Ad esempio, adesso sono in corso due filoni di indagini all’interno di due carceri (Torino e San Gimignano, ndr), in cui per la prima volta in Italia il reato ipotizzato è quello di tortura».

Chi dovrebbe tutelare sbaglia, questo è umano. Non ammissibile, ma può accadere. Ma è il nascondere, l’insabbiare che rende tutto imperdonabile. «Quando chi sbaglia non viene allontanato in quanto indegno della divisa che porta e del compito di tutela della nostra sicurezza» sottolinea ancora la Calderone «allora i dubbi che manchi una giusta autoanalisi vengono».

Uno dei temi che queste storie di Antigoni e Creonti suscita è come mai in Italia si faccia ancora così fatica a passare dalla concezione di pene punitivi a correttive. Nonostante, come ricorda la presidentessa di A buon diritto, sia stato dimostrato da una ricerca condotta dal ministero della Giustizia come il rischio di recidiva tra chi sconti la pena in carcere sia del 70%, mentre tra i detenuti che hanno pagato il loro conto con la giustizia con pene alternative sia solo del 20%.

«Noi come corpo sociale» sottolinea la Calderone «non abbiamo voglia di affrontare temi come la colpa e il reato. E sicuramente il clima politico e culturale orientato agli slogan sulla sicurezza non aiuta questo dibattito. La concezione generale è che sicurezza uguale punizione dura. I numeri dimostrano il contrario e ci alimentiamo di un’idea sbagliata su ciò che è più sicuro per noi».

In fondo occorrerebbe non dimenticare la lezione contenuta nell’art. 27 della nostra Costituzione in cui si parla di pene che debbano tendere alla rieducazione del condannato. Pene non carcere. E di certo non tortura.

Effetto serra, per la Lega e Fratelli d’Italia non esiste

epa08013495 Smoke rises from chimneys of the gas boiler houses as the temperature dropped to minus 7 degrees Celsius in Moscow, Russia, 21 November 2019. Spanish Madrid will host the COP25 World Climate Change Conference from 02 to 13 December replacing Chile. EPA/MAXIM SHIPENKOV

A Madrid è in corso fino al 13 dicembre la 25ma Conferenza sul clima dell’Onu (COP 25) ma pochi giorni prima dell’inizio, il 28 novembre,  il Parlamento europeo ha finalmente votato una risoluzione di emergenza climatica ed ambientale con la richiesta alla Commissione di garantire che tutte le proposte legislative e di bilancio siano in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi, come previsto dall’Accordo di Parigi.

Insieme alla risoluzione è passato un altro provvedimento che spinge l’Ue ad arrivare preparata alla COP 25 con una road map che preveda una strategia per raggiungere le zero emissioni – la cosiddetta neutralità climatica – entro il 2050. Strasburgo punta ad alzare i target di diminuzione delle emissioni al 2030 dall’attuale 40% al ben più ambizioso 55%.

Un obiettivo condiviso, almeno a parole, anche dalla nuova presidente della Commissione Europea, la tedesca Ursula Von der Leyen, che nel giorno del suo insediamento – mercoledì 27 novembre – ha dichiarato che «Se c’è un campo in cui il mondo ha bisogno della nostra leadership è proteggere il clima».
La risoluzione è passata il giorno successivo all’insediamento con 429 voti a favore, 225 contrari e 19 astensioni, sebbene la cosiddetta “coalizione Ursula” non si sia presentata affatto unita. A favore hanno votato i gruppi dei socialisti (S&D), i Verdi (Green/Ale), i liberali (Renew Europe) e la Sinistra (Gue/Ngl) mentre a spaccarsi è stato il Partito popolare europeo (Ppe), gruppo più numeroso a Strasburgo e di cui la presidente Von Der Leyen è espressione – e che aveva interamente sostenuto la candidatura di chi succederà a Junker.

Da una parte francesi, spagnoli e portoghesi a favore della risoluzione, dall’altra italiani e tedeschi completamente contrari. Ad opporsi in primis Manfred Weber, l’iniziale Spitzekandidate per l’intero gruppo poi messo da parte a causa del veto del presidente framcese Emmanuel Macron, e l’ex presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, insieme ai deputati di Forza Italia Martusciello, Milazzo e Salini – con Silvio Berlusconi come grande assente insieme a Patriciello.

A votare contro in maniera del tutto compatta sono stati i deputati del gruppo Id, Identità e Democrazia, di cui fa parte la Lega di Salvini, i Conservatori e Riformisti (Ecr) – per l’Italia aderisce la formazione Fdi di Giorgia Meloni e gli inglesi del Brexit Party, attualmente senza famiglia all’eurocamera. Entrambi i gruppi sono riconducibili ad una linea di destra e sovranista, e le dichiarazioni di alcuni deputati non lasciano dubbi.

Secondo l’eurodeputata italiana Silvia Sardone (Id, Lega) – moglie del primo cittadino di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano, famoso alle cronache per aver negato la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre – la discussione sull’emergenza climatica sarebbe addirittura «francamente stucchevole e al limite dell’inutilità». L’eurodeputata lombarda è campionessa di benaltrismo: «Per voi invece l’immigrazione non è un’emergenza, il lavoro non è un’emergenza, i rapporti commerciali con gli altri Paesi non sono un’emergenza, le crisi aziendali non sono un’emergenza. L’emergenza la detta la moda del momento e quindi, insomma, con Greta che di fatto dà l’agenda a questo Parlamento europeo». E per finire la Sardone definisce la presidente della commissione «una fondamentalista dell’ambiente».

C’è poi Catherine Griset (Id, Rassemblement Nationale) secondo cui l’Accordo di Parigi «è morto». «Dopo il ritiro americano è impossibile mobilitare le risorse per l’Europa necessarie per il fondo verde. Inoltre, anche la Cop dovrà rivedere la sua ambizione climatica di fornte agli impegni di Asia e Africa, due regioni più inquinate della nostra». La cecità dell’Europa, spiega la deputata sovranista, si rivela più seriamente nella «visione globalista di esperti delle Nazioni Unite e Ong e nella strumentalizzazione della diplomazia climatica ai fini di combattere la sovranità degli Stati in risposta al pericolo mortale delle migrazioni».

Pietro Fiocchi (Ecr, Fdi) spiega che «nessuno ha commentato il fatto che Stati Uniti, India e Cina non stiano facendo nulla al riguardo e stanno pertanto rendendo gli sforzi europei totalmente inutili. Ora vogliamo alzare il tiro. Questo è problematico perché noi, come Parlamento europeo, abbiamo un dovere morale di spiegare ai cittadini dell’Ue come intendiamo raggiungere gli obiettivi e come intendiamo fare questo senza uccidere i loro mezzi di sussistenza e l’economia».

Insomma, buona parte dei deputati di destra non ne vuole proprio sapere nulla del clima. Il report Convenient Truths – Mapping climate agendas of right-wing populist parties in Europe, della fondazione tedesca Adelphi, uscito la scorsa primavera, contiene un’analisi dettagliata dei programmi di 21 forze politiche di destra radicale in Europa. Lo studio sottolinea come per queste formazioni le politiche ambientali ed energetiche contro il cambiamento climatico portate avanti dall’Unione europea sono costose, socialmente ingiuste, addirittura dannose per il clima. O al limite, del tutto ininfluenti. Tre le argomentazioni ricorrenti: il negazionismo climatico, secondo cui non viene negata l’esistenza del global warming, ma il fatto che questo sia indotto dall’attività dell’uomo; lo scetticismo nei confronti delle discipline scientifiche; la retorica nazionalista che vede la sovranità nazionale minacciata dagli accordi internazionali e dall’approccio multilaterale in politica estera. Tutto ciò appellandosi a una comunità immaginaria di persone vittime di élite globali e cosmpolitiche senza scrupoli.

Il principale bersaglio di tutte le formazioni politiche di destra radicale è ovviamente l’Accordo di Parigi sul clima, sul banco degli imputati come nemico della sovranità nazionale. Il dossier di Adelphi dimostra come molti di questi partiti si siano astenuti o abbiano votato contro la sua ratifica all’Europarlamento, avvenuta il 4 ottobre del 2016: tra queste la Lega («L’accordo raggiunto è stato un compromesso al ribasso per permettere alle aziende cinesi e dei Paesi in via di sviluppo di competere ingiustamente con le aziende italiane» dichiarava durante le votazioni l’eurodeputato del Carroccio Gianluca Pini).

Peccato che la comunità scientifica internazionale sia praticamente quasi unanime nell’affermare che la crisi climatica è colpa dell’uomo ed è una realtà da affrontare al più presto. Lo scorso 5 novembre una dichiarazione firmata da 11 mila scieziati provenienti da 153 nazioni ha lanciato l’ennesimo allarme: la crisi climatica sta accelerando più rapidamente e più severamente del previsto. Entro la fine del secolo, sulla base delle attuali politiche climatiche attuate in tutto il mondo, si prevede che la temperatura aumenti da 3,1 gradi a 3,7 gradi.
Ma nonostante questo, a destra prevale ancora lo scetticismo e il negazionismo climatico. La questione migratoria, cara ai sovranisti, è oramai sbiadita e i flussi imponenti del 2015/2016 solo un lontano ricordo. Serve rilanciare con qualche altra questione. E non a caso l’ultradestra ha scelto quella climatica. C’è proprio un pessimo clima a destra.

Primo: non leggere

Back view of group of students in the classroom raising hands to answer teacher's question.

Ennesimo rapporto Ocse: gli studenti italiani in lettura guadagnano un punteggio di 476, inferiore alla media (487), collocandosi tra il 23° e il 29° posto. Il punteggio non si differenzia da quello di Svizzera, Lettonia, Ungheria, Lituania, Islanda e Israele. Le province cinesi di Beijing, Shanghai, Jiangsu, Zhejiang e Singapore ottengono un punteggio medio superiore a quello di tutti i Paesi che hanno partecipato all’indagine. Lo dice il rapporto nazionale Ocse Pisa 2018. In tutte le tipologie di istruzione, ad eccezione della Formazione professionale, si osserva un decremento delle competenze in lettura rispetto al ciclo del 2000 (in media -26 punti) e rispetto al 2009 (in media -20). In Italia, in lettura, le ragazze superano i ragazzi di 25 punti. In matematica i ragazzi ottengono un punteggio superiore alle ragazze di 16 punti e questa differenza è più del doppio di quella rilevata in media nei Paesi Ocse. Volendo vedere ci sarebbero anche matematica e scienze: uno studente su quattro è insufficiente.

La scuola italiana continua nel suo lento, inesorabile declino. Sforniamo studenti che non sanno leggere e, inevitabilmente, non sanno capire. Si potrebbe parlare banalmente dei tagli dalla scuola eppure non sfugge che certa politica (e in più generale certa classe dirigente) usufruisce di enormi benefici grazie all’ignoranza crassa di una parte della popolazione. Un popolo ignorante è facilmente controllabile, facilmente si convince, facilmente si governa.

Ma davvero siamo sicuri che la questione dell’istruzione non sia la base della mancata educazione civica, politica, sociale, sentimentale? Continuiamo a sentire gente che ci dice che “bisogna cominciare dalla scuola” ma intanto la scuola non comincia mai, anzi si sgretola.

Eppure il comandamento è sempre lo stesso: non leggere, non informarsi, non sapere. E così quelli sono tranquilli. E finisce che l’educazione ce la danno gli stessi che frugano nell’ignoranza. Eppure mi sembra un tema così fortemente politico, da mettere in cima ai programmi elettorali.

E invece, niente.

Buon mercoledì.

Ruini pro Salvini e i colpi di coda di una Chiesa in crisi

Ha fatto indubbiamente notizia l’apertura a Salvini da parte dell’ex-presidente dei vescovi Camillo Ruini che, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, non ha mancato di sottolineare le «notevoli prospettive» che il leader della Lega ha davanti a sé. Un endorsement che ha causato scossoni nel mondo cattolico, in particolare nelle sue frange più impegnate in politica. Clamore mediatico o riposizionamento della Chiesa in vista di future elezioni? Se si considera l’elettorato cattolico siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda: che il voto di chi si dichiara cattolico sostenga in larga misura la Lega è un dato emerso già da tempo. E non dovrebbe generare stupore nemmeno il dialogo trasversale tra le gerarchie ecclesiastiche e le varie forze politiche. L’unità politica dei cattolici risale a un tempo in cui si andava a messa la domenica e si votava Democrazia cristiana. Un ricordo sbiadito per i non più giovani e una rappresentazione sociale che suona surreale per le nuove generazioni. Cresce infatti lo scollamento tra una società secolarizzata e una classe politica in cui rimane decisamente sovradimensionata l’attenzione alla tutela dei privilegi su base religiosa.

]Tutte le ricerche sociologiche mostrano un calo dei cattolici e della pratica religiosa, un abbandono che ora coinvolge in particolare le donne. Per non parlare delle giovani generazioni: il sociologo Franco Garelli, già nel suo libro del 2016 Piccoli atei crescono, ci parlava della prima generazione incredula. Non deve stupire che in un contesto del genere gli immancabili tentativi di presentarsi alle urne come nuove Dc abbiano raccolto percentuali insignificanti di voti. Più efficace la strategia di movimenti come Comunione e liberazione, o più recentemente i gruppi che si richiamano alla cosiddetta famiglia tradizionale (in realtà omofobi e anti-choice) che, sostenendo in modo compatto le liste che presentano loro candidati, riescono ad avere esponenti nelle stanze dei bottoni, e in più schieramenti. Ma a far man bassa di voti, almeno negli anni recenti, sono le leadership forti che si intingono nell’acqua santa: godono dell’appoggio del credente bigotto, ma soprattutto raccolgono il voto dei tantissimi credenti per tradizione e conformismo, che si trovano a loro agio con candidati e partiti identitaristi, da Trump negli Usa a Lega e Fratelli d’Italia in casa nostra. Senza curarsi troppo della plateale incoerenza con tanti precetti religiosi di cui si proclamano paladini.

L’identitarismo religioso funziona come richiamo alle urne, mentre il mondo laico si disperde tra divisioni e astensionismo. Eppure in Italia c’è voglia di laicità. Il sondaggio, commissionato dall’Uaar alla Doxa e presentato nel maggio scorso, oltre a mostrare un calo dei cattolici e una crescita degli atei rispetto ad analoga rilevazione di cinque anni prima, delinea maggioranze di concittadini a favore della separazione Stato-Chiesa, contrari ai finanziamenti pubblici alle scuole private e all’edilizia di culto, favorevoli all’abolizione o al ridimensionamento dell’obiezione di coscienza all’aborto, che chiedono il versamento allo Stato delle imposte su tutti gli immobili di proprietà della Chiesa (www.uaar.it). Di fronte a dati del genere sulla secolarizzazione e sulla propensione a provvedimenti laici, vi sono ampi spazi per riportare alle urne un elettorato non rappresentato, e magari per far cambiare idea a qualche identitarista di facciata. Ammesso e niente affatto concesso che in periodo di crisi economica la rivendicazione di diritti civili non porti lontano, basterà aggiungere al pacchetto un taglio deciso agli oltre sei miliardi annui di costi pubblici della Chiesa, da reinvestire in ricerca e istruzione per avere una proposta giusta, concreta e condivisa dal corpo elettorale.

Roberto Grendene è il segretario nazionale della Uaar

Cop25, chi manovra i manovratori del clima

OBERHAUSEN, GERMANY - JANUARY 06: Steam and exhaust rise from different companies on a cold winter day on January 6, 2017 in Oberhausen, Germany. According to a report released by the European Copernicus Climate Change Service, 2016 is likely to have been the hottest year since global temperatures were recorded in the 19th century. According to the report the average global surface temperature was 14.8 degrees Celsius, which is 1.3 degrees higher than estimates for before the Industrial Revolution. Greenhouse gases are among the chief causes of global warming and climates change. (Photo by Lukas Schulze/Getty Images)

Solo persone che fanno del sopruso verso i deboli una loro regola di vita, possono negare che il cambiamento climatico sia già una durissima realtà con cui bisogna fare i conti ogni giorno, una verità che dovrebbe funzionare più di qualsiasi appello del mondo scientifico.
Dovrebbero bastare le immagini di Venezia sott’acqua per raccontare la tragedia a cui va incontro l’umanità, soprattutto la sua parte più povera.
Fenomeni naturali… bla, bla, bla… scrivono e ripetono in televisione, prezzolati gazzettieri, gli stessi che chiamano taxi del mare i gommoni con cui i migranti cercano di sfuggire ai soprusi, alle guerre o più semplicemente alla desertificazione dei propri territori.
Eppure, se si guardano i risultati dei precedenti vertici sul clima, sembra proprio che le regole del gioco le decida questa gente. Dal 2 dicembre l’Onu ne ha convocato un altro, la COP25. Si svolge a Madrid, ma si sarebbe dovuto fare a Santiago del Cile o in alternativa in Brasile entrambe scartate, la prima perché travolta dalle manifestazioni di protesta del suo popolo e la seconda per manifesta ostilità del suo presidente, impegnato a dar fuoco alla foresta amazzonica.
Dicono che parteciperanno una cinquantina di capi di Stato, cioè di decisori politici, e quasi 30mila loro consulenti. Già questa sproporzione fra chi decide e chi consiglia cosa decidere, è sospetta.
Dei 30mila partecipanti annunciati una buona metà sono lobbisti o “facilitatori”, tutti inviati dalle multinazionali del fossile e del nucleare, per controllare e possibilmente determinare il solito vuoto di decisioni dei documenti finali. La regola non è impedire che si prendano impegni, anche solenni ed ambiziosi, ma che sia facoltativo applicarli nelle politiche dei vari governi. Quindi, in poche parole, che non siano previste sanzioni per chi deciderà di non rispettarli. Se questo sarà il compromesso a cui anche questo appuntamento di Madrid giungerà, suoneranno come vuote le parole del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres che chiedono di agire in fretta, ammonendo che è già stata varcata la soglia da cui non si torna più indietro. Basta un dato, dei tanti diffusi dall’ultimo rapporto dell’Onu a dirci quanto grandi siano i ritardi accumulati: anche questo vertice di Madrid si apre con le emissioni climalteranti in aumento. Non solo. Se a ciò si aggiunge che fra la COP24 di Parigi, nel 2018, e questa di adesso a Madrid, uno dei paesi che più emette gas serra, gli Usa, si tira fuori da qualsiasi accordo possibile, non resta che prepararsi al peggio. Si tratta di un colpo quasi definitivo dato alla necessaria multilateralità con cui va affrontato il problema, aggravato dal fatto che tutti gli altri paesi, Europa in testa, saranno spinti dalla decisione americana a non fare nulla, in attesa che gli Stati uniti cambino presidente e opinione.
E così non solo non si previene, ma si fa poco anche per le necessarie politiche di adattamento. Tanto per incominciare va detto che possono adeguarsi al clima che cambia solo i paesi ricchi, cioè una piccola parte dell’umanità, mentre la parte povera, a cui non resta che scappare dalle proprie terre, viene abbandonata o agli eventi estremi o alla repressione se cerca di sfuggirvi.
Questi sono i crudi presupposti con cui confrontarsi e che indurranno tanti al pessimismo. Sarebbe augurabile non all’impotenza. Come non accorgersi che questa volta il loro rituale si svolge disturbato da un movimento collettivo, animato dalle nuove generazioni? E’ vero che tutti i vertici hanno avuto il loro contro vertice, ma questa volta c’è una grande novità. Da ormai un anno si susseguono manifestazioni e proteste in tutto il mondo, cresciute grazie all’esempio della giovane svedese Greta Thumberg.
È quindi augurabile che siano tante e tanti coloro che parteciperanno all’appuntamento alternativo, la COP sociale, che inizierà con una grande manifestazione il prossimo 6 dicembre, sempre a Madrid.
Conforta soprattutto che l’obiettivo degli organizzatori sia quello di proseguire la mobilitazione anche dopo la conclusione del vertice ufficiale. Sarà anche vero che quel movimento non ha ancora la forza sufficiente per orientare le decisioni, ma la sua consapevolezza e la sua diffusione stanno crescendo rapidamente e quindi è giusto sperare che oltre ad annunciare catastrofi, possa influire e faccia prendere le decisioni giuste per impedirle.

Pensateci prima

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio esulta dopo i risultati del voto finale in aula della Camera al termine della discussione della proposta di legge costituzionale in materia di riduzione del numero dei parlamentari, Roma, 8 ottobre 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Forte, eh? Ora tutti pentiti di avere tolto il finanziamento pubblico ai partiti si accorgono che dare la politica in mano ai privati rende difficilissimo farla (a meno che non abbiate amici che vi prestino parecchi soldi e beati voi se non vi chiedono nulla in cambio) e rende molto opachi i rapporti tra politici e finanziatori.

Accade sempre così: in nome del populismo (che tutti fingono di combattere, sì, ciao) e per evitare la fatica di sostenere ragioni giuste anche se impopolari si corre a fare una legge per poi pentirsene. L’aspetto interessante è che poi quelli che hanno sbagliato sono gli stessi che vorrebbero rimanere al potere per correggerla: sempre loro, solo loro, pentiti solo per qualche minuto e poi sempre pronti a ricominciare.

Che lo svilimento della politica sia perfetto per gli interessi dei ricchi e dei potenti è una lezione che la storia avrebbe dovuto insegnarci ma evidentemente la gioia di immaginare i politici più poveri è troppo più forte della cura di avere una democrazia che funziona. Chissà quando se ne esce, da questo tunnel.

E allora varrebbe la pena anche fare un riflessione sul taglio dei parlamentari che tutti invocano per agitare gli animi e raccogliere voti. Dicono che si risparmierebbero 500 milioni di euro che, detta così, è un cifra che fa gola, certo, ma 500 milioni sono 0,007% della spesa pubblica. Sicuri che valga la pena una riforma così drastica per una cifra così irrisoria. Pensateci, prima però.

Dicono che servirebbe per velocizzare le leggi? Ma davvero? Eppure il Lodo Alfano passò in meno di tre settimane: non è che le leggi non passano per altri motivi? E poi: ma chi ha detto che le leggi giuste debbano essere veloci? Ma non trovate che sia una boiata pazzesca?

Si parla del numero dei parlamentari degli altri Paesi: se volessimo essere seri valuteremmo il numero di abitanti per deputato piuttosto che mischiare situazioni che centrano poco tra loro. Ci si accorgerebbe che con questa riforma l’Italia scivolerebbe all’ultimo posto tra i grandi Stati europei. Non so quanto voi riusciate a farvi ascoltare dai deputati di riferimento del vostro territorio: sarà peggio.

E poi? Perché non tagliare le indennità piuttosto che i parlamentari? Il risparmio sarebbe lo stesso e Di Maio potrebbe convincerci che sia davvero uno dei punti principali del Movimento 5 Stelle, no?

Insomma, ognuno la pensi ovviamente come vuole. Ma pensateci prima, stavolta.

(ps: domani a Milano ne parlano quelli dell’associazione Chiamamilano in via Laghetto 2 alle ore 20. Ma ci sono incontri in giro dappertutto. Ascoltate, approfondite, decidete. Ma pensateci prima)

Buon martedì.

Cop25 e Green new deal: Italia all’avanguardia contro l’effetto serra e la povertà energetica?

Il presidente del Consiglio, la Confindustria, i partiti: tutti ci dicono che l’Italia è all’avanguardia nel Green new deal, nella riconversione ecologica per contrastare i cambiamenti climatici. Ma sarà vero? Cerchiamo di capirlo meglio partendo dal ‘PNIEC’: suona quasi come una parolaccia, sembra uno pneumatico che si sta sgonfiando. Invece no, vuol dire Piano Nazionale Integrato Energia e Clima. Oppure sì? È uno pneumatico sgonfio? Forse sì e forse no. Dipende da quello che succederà da qui al 31 dicembre. Pochi giorni per definire le azioni e gli obiettivi che l’Italia deve attuare dal 2020 al 2030 per ridurre l’impatto su clima.

Vi sembra poco? Secondo gli scienziati abbiamo 11 anni per intervenire e mitigare il riscaldamento climatico, la produzione di gas serra, per invertire il trend e portare il nostro pianeta e la nostra società a essere più giusta e sostenibile. Quindi proprio fino al 2030. Solo questa considerazione ci dovrebbe far capire quanto è strategico il PNIEC e quanto è importante che parta come uno pneumatico bello gonfio di interventi e strategie.

Eppure non ne parla nessuno. Siamo tutti concentrati sul “fondo salva stati” o sulla finanziaria per decidere qualche centesimo in più o in meno su qualche tassa. Ma che ce ne faremo di qualche centesimo se avremo fallito un piano così importante per il nostro futuro?

Cosa è il PNIEC e a cosa serve? A dicembre 2018 la Commissione europea ha definito il regolamento 2018/1999 “sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima” che prevede la realizzazione dei “piani nazionali integrati per l’energia e il clima”. Tali piani per il primo periodo (2021-2030) devono dedicare particolare attenzione agli obiettivi 2030 relativi alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, all’energia rinnovabile, all’efficienza energetica e all’interconnessione elettrica. Un altro aspetto da indicare nei piani è la percentuale di popolazione in povertà energetica e gli obiettivi per ridurla. In Italia il 16% della popolazione (dati 2016 dell’Osservatorio Europeo sulla povertà energetica) è in povertà energetica cioè in una situazione nella quale non è in grado di pagare i servizi energetici primari (riscaldamento, raffreddamento, illuminazione, trasporti e corrente) necessari per garantire un tenore di vita dignitoso, a causa di una combinazione di basso reddito, spesa per l’energia elevata e bassa efficienza energetica nelle proprie case. Un chiaro esempio della correlazione che esiste tra giustizia sociale e giustizia ambientale. Le politiche per l’energia rinnovabile devono necessariamente essere orientate anche alla riduzione delle povertà e delle diseguaglianze. Come, appunto, all’eliminazione della povertà energetica.

Inoltre l’Italia, per la sua collocazione, è uno dei Paesi europei più esposti alla crisi climatica: si prevede una perdita di alcuni punti percentuali di Pil già a metà secolo e fino al 10% del Pil nella seconda metà del secolo. Il Sud Italia sarà particolarmente colpito dalla crisi climatica, aggravando il già ampio divario delle condizioni economiche del Sud rispetto al resto del Paese. La crisi climatica rischia di aumentare le diseguaglianze non solo tra Sud e Nord ma anche tra ricchi e poveri.

Lo schema del PNIEC doveva essere presentato entro il 2018 e il piano definitivo entro il 31 dicembre di quest’anno. L’Italia ha in effetti presentato lo schema di piano a gennaio 2019. Ma a giugno 2019 la Commissione Europea ha rilevato che il piano dovrebbe porre maggiore attenzione al tema dell’efficienza energetica, rafforzando le misure nell’edilizia e nei trasporti e aumentando l’uso di energia rinnovabile per il riscaldamento e il raffrescamento. Devono inoltre essere specificate le misure per ridurre la dipendenza energetica e aumentare la diversificazione. Devono essere stabiliti obiettivi, traguardi e scadenze chiari per realizzare le riforme previste nei mercati dell’energia. Elencate le azioni intraprese per eliminare i sussidi per i combustibili fossili. Soprattutto devono essere precisati gli obiettivi e i finanziamenti per ricerca e innovazione, affrontati i problemi della povertà energetica e specificati anche come garantire una transizione equa, in particolare fornendo maggiori dettagli sugli impatti sociali, occupazionali, delle competenze e sulla distribuzione del reddito.

In sintesi un mezzo disastro. Che dobbiamo recuperare entro il 31 dicembre. Sono in corso audizioni presso le commissioni parlamentari. Riusciremo a migliorare il nostro piano? Ma soprattutto riusciremo a realizzare gli impegni che prenderemo? È auspicabile, ma un controllo dal basso e un’adeguata e costante informazione saranno essenziali per monitorare l’efficacia del processo di riconversione ecologica. Anche perché l’Italia considera il gas naturale una fonte rinnovabile. Ma il gas naturale è destinato a esaurirsi e, soprattutto, genera comunque effetto serra. Certo meno del carbone o del petrolio ma non è impatto zero come le vere rinnovabili. Lo stesso ministro Patuanelli nella recentissima audizione alla Camera del 27 novembre parlava di gas e della realizzazione del gasdotto TAP chiaramente destinato ad mantenere e aumentare l’importazione di gas in Italia.

Intanto tra il 2 e il 13 dicembre si tiene il COP25 a Madrid. Un evento importante che speriamo produca indicazioni e impegni concreti in coerenza con l’accordo sul clima di Parigi 2015.

Mancano 10 anni per evitare che i cambiamenti climatici siano irreversibili. Possiamo usare questi 10 anni per attuare una transizione ecologica che riduca le diseguaglianze, elimini la povertà energetica e migliori i diritti sociali, civili e ambientali che sono ormai chiaramente fortemente interconnessi. Oppure possiamo usare questo tempo per sviluppare un nuovo “capitalismo verde” che semplicemente trova un nuovo modo di produrre e consumare utilizzando la scusa dell’ecologia per integrare e cambiare l’offerta di prodotti e continuare ad aumentare i propri profitti. La COP25 è in corso, il PNIEC deve essere presentato nei prossimi giorni. In che direzione va, quale modello di transizione prefigura? Sarebbe giusto che, prima di mandarlo alla Commissione, fosse reso disponibile a tutti perché ne possano essere valutate le misure ambientali e i relativi effetti sociali e occupazionali. Il PNIEC varrà per i prossimi 10 anni. Potrebbe essere una grande occasione per dimostrare che è vero che l’Italia è all’avanguardia nel Green New Deal. Oppure no. Una cosa però è certa: non abbiamo più il tempo per perdere l’occasione di essere concreti.

Guido Marinelli, comitato nazionale èViva, cofondatore associazione PerIMolti