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Stragi di Stato, non è mai tardi per la verità

Social centers in procession to Milan to commemorate the victims of the massacre of Piazza Fontana. In front of Palazzo Marino few hundred protesters gathered behind banners and marched through the town until reach Piazza Fontana. Photo: Marco Aprile /NurPhoto (Photo by NurPhoto/Corbis via Getty Images)

Travolti dai drammatici avvenimenti del presente, vale ancora la pena di ricordare quel 12 dicembre di mezzo secolo fa e la strage di piazza Fontana? E se decidiamo che sì, è giusto ricordare quei morti dilaniati dall’esplosione alla Banca dell’Agricoltura, ad è giusto ricordare Pinelli e Valpreda, gli anarchici innocenti sacrificati in nome della famigerata pista rossa, allora dovremo per forza pretendere qualcosa di più dalle istituzioni della nostra Repubblica.

Non sarebbe giusto che ancora una volta ci accontentassimo delle normali e mille volte ripetute espressioni di indignazione rispetto a una verità negata: quasi di sorpresa rispetto ai tanti anni trascorsi, alle inchieste e ai processi incapaci di condannare e fare giustizia. Non basta più indignarsi e fingere di non sapere chi furono i veri colpevoli e quanto la bomba di Piazza Fontana abbia influito nei decenni successivi, sulle sorti della nostra democrazia: nata debole e resa ancora più debole dalle conseguenze di scelte fatte tra il ’44 e il ’45, quando a dettare le condizioni furono i vincitori della seconda guerra mondiale.

Condizioni accolte dai vinti senza troppe proteste che hanno però funestato, con una spessa coltre di menzogne di Stato, gli anni della Repubblica. Insomma credo che valga la pena di ricordare l’inizio della strategia della tensione se servirà a superare l’ipocrisia con la quale sono state accantonate nel mezzo secolo trascorso, le gravissime responsabilità del nostro Stato. Sono stati pubblicati molti libri in questi mesi che raccontano la storia delle indagini e di processi impossibili. Ma a noi è sufficiente…

Sandra Bonsanti è tra i relatori del convegno “Noi non dimentichiamo” che si è svoltyo sabato 7 dicembre a Firenze, alla Biblioteca delle Oblate. Interventi, tra gli altri, di Carla Nespolo, Guido Calvi, Stefania Limiti, Miguel Gotor, Giuseppe Nicolosi, Paul Ginsbor

L’articolo di Sandra Bonsanti prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 

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La primavera di Baghdad, laica ed egualitaria

An Iraqi woman raises her fist as she takes part in an anti-government march in the center of the southern city of Basra on December 2, 2019. - Iraq's rival parties were negotiating the contours of a new government today, after the previous cabinet was brought down by a two-month protest movement demanding more deep-rooted change. (Photo by Hussein FALEH / AFP) (Photo by HUSSEIN FALEH/AFP via Getty Images)

Migliaia di desideri dai colori fosforescenti, appiccicati sul muro, crescono di numero insieme ai manifestanti che affollano piazza Tahrir a Baghdad dal primo ottobre scorso. È il muro dei desideri, ricoperto di post-it: è qui che i giovani iracheni lasciano i loro sogni, le loro preghiere: «Quando finirà il bagno di sangue?», scrive una mano anonima; «Odiavo l’Iraq, ora ne sono fiera», il messaggio di Fatima, 16 anni.

Il muro dei desideri è una delle innumerevoli creazioni del presidio permanente di Tahrir. Dal 25 ottobre migliaia di persone si sono accampate nel centro della capitale irachena e hanno dato vita a una società in miniatura, egalitaria, antisettaria, profondamente politica e radicale. Il cuore pulsante della macchina organizzativa è il Turkish Restaurant, così viene familiarmente chiamato il palazzo abbandonato che dà sulla piazza. Qui dentro si organizzano i turni di lavoro e ci si riposa.

C’è tanto da fare: distribuire cibo ai manifestanti che ogni giorno si uniscono al presidio; gestire le cliniche mobili dove studentesse di medicina curano i feriti dalla polizia, la libreria nata in queste settimane e i bagni; organizzare l’occupazione dei tre ponti sul Tigri, Jumhuriya, Ahrar e Sinar, che conducono alla Zona Verde, simbolo del potere che si barrica. Eretta durante l’occupazione Usa iniziata nel marzo 2003, è sede del parlamento, dei ministeri e delle ambasciate straniere ed è stata, fino a pochi mesi fa, completamente chiusa ai cittadini di Baghdad.

A quel simbolo di prevaricazione fa da contraltare un altro simbolo, figlio della rivoluzione: il tuk tuk, il tre ruote taxi dei poveri, è divenuto un eroe, il cavaliere della rivoluzione. I suoi autisti, poveri come i clienti, spesso marginalizzati e relegati nei quartieri più miseri delle città irachene, hanno risposto subito…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 

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Il Labour si butta a sinistra, una questione di buon senso

Il 21 novembre il Partito laburista ha lanciato il proprio manifesto elettorale, un momento fondamentale della campagna elettorale, che nel 2017 diede il là alla rincorsa del Labour e lo portò ad un passo dalla vittoria. In Gran Bretagna, per tutti i partiti, il manifesto elettorale ha un’importanza maggiore rispetto a quanto siamo abituati a vedere in Italia, è un vero e proprio programma di governo che contiene proposte dettagliate (nel caso del Labour anche dal punto di vista delle coperture) al punto che, per consuetudine, la House of lords – la Camera alta del Parlamento britannico – non può in alcun modo opporsi all’approvazione di provvedimenti che siano contenuti nel manifesto elettorale del partito di governo.

Jeremy Corbyn ha presentato questo manifesto come il più radicale e innovativo della storia britannica, addirittura più ambizioso di quello del 2017 che all’epoca fu accolto con stupore e un certo scetticismo.
Scorrendo le oltre cento pagine del programma salta subito agli occhi come uno degli aspetti più radicali sia costituito dalle proposte per una “rivoluzione industriale verde” che non a caso aprono il manifesto.

Il Labour infatti, da molti mesi, ha in qualche modo inglobato Extinction rebellion, il movimento di attivisti per l’ambiente che in Gran Bretagna ha guidato le proteste e gli scioperi contro i cambiamenti climatici, inserendo molte delle proposte del movimento all’interno del proprio programma elettorale, già a partire dalle mozioni approvate all’ultima conference annuale di Brighton.

Il manifesto si apre dunque con la promessa di lanciare una rivoluzione industriale che trasformi l’economia britannica e che la conduca, entro il 2030, ad una massiccia riduzione delle emissioni, innanzitutto istituendo un Consiglio per gli investimenti sostenibili composto dal ministro delle Finanze, il ministro dello Sviluppo economico e il governatore della Banca d’Inghilterra che, insieme a sindacati e mondo industriale, monitori che gli investimenti messi in piedi dal governo rispettino gli obiettivi di una nuova economia sostenibile. Inoltre l’impatto ambientale verrà inserito…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 

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Si scrive Mes, si legge austerity

Nei sistemi finanziari moderni, la moneta non è una merce ma un contratto di credito, a fronte del quale vi è un debito che circola di mano in mano. Non c’è moneta, in sostanza, senza un credito e un debito. Il rischio di una crisi finanziaria è dunque sempre presente, soprattutto ove l’economia non produca redditi sufficienti a ripagare i debiti, oppure i crediti siano concessi per operazioni di dubbia redditività. Per ridurre questi rischi è necessaria un’istituzione – la Banca centrale – che controlli il funzionamento del mercato e che, in emergenza, sia disposta ad intervenire offrendo la liquidità necessaria. Questa funzione di “prestatore di ultima istanza” deve essere svolta sia nei confronti delle banche commerciali, sia nei confronti dei titoli del debito pubblico.

Nei Paesi aderenti alla moneta unica, e solo in essi, il legame tra debito pubblico e Banca centrale è invece reciso: i governi, per finanziarsi, non possono appoggiarsi alla propria Banca centrale ma devono rivolgersi ai mercati finanziari. Ove i mercati considerino a rischio il debito di un Paese, possono rifiutarsi di acquistare i titoli del debito pubblico e causare il suo fallimento. Anche senza arrivare a questo, mancando una Banca centrale, se il Paese è considerato a rischio salgono i costi di collocamento dei titoli pubblici sul mercato: da qui, ad esempio, l’impennata dei tassi di interesse sui titoli italiani nell’estate del 2011; da qui anche il maggiore livello del tasso di interesse sui titoli pubblici del nostro Paese rispetto ad altri Paesi in condizioni economiche analoghe, o peggiori, generato in sostanza dal fatto che i mercati non considerano del tutto esclusa la possibilità che l’Italia esca dalla moneta unica, e che pertanto i possessori dei nostri titoli possano subire delle perdite.

Per ovviare all’assenza del prestatore di ultima istanza, nel 2012 è stato istituito il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), di cui si sta discutendo la riforma. Il capitale del Mes, sottoscritto dai Paesi che vi aderiscono, è pari a 700 miliardi di euro. Il Mes (conosciuto anche come Fondo salva Stati, ndr) segue specifiche procedure per il sostegno ai Paesi in difficoltà. In sostanza, per accedere agli aiuti, il Paese deve…

L’editoriale di Andrea Ventura prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 2019

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Gianni Cuperlo: La sinistra alla prova degli anni Venti

Manifestazione delle Sardine in Piazza Duomo a Milano. 1 dicembre 2019 ANSA /NICOLA MARFISI

In viaggio. La sinistra verso nuove terre è il titolo del suo ultimo saggio pubblicato per Donzelli. Quel volumetto uscito l’anno scorso conteneva già alcune tracce del lavoro che Gianni Cuperlo sta portando avanti come politico e intellettuale all’interno di un Partito democratico in cerca di una «rifondazione», aprendo un dialogo con le piazze e i movimenti. Un lavoro che è sfociato nella convention dello scorso novembre a Bologna. Una tre giorni dal titolo “Tutta un’altra storia. Gli anni Venti del 2000”, che Cuperlo ha aperto con una considerazione alta e suggestiva: «Di rivoluzioni ce ne sono state tante nella storia ma pochissime sono state le rivoluzioni delle idee».

È tempo per la sinistra di aprirsi a un pensiero nuovo che metta al centro le persone, la socialità, il benessere non solo materiale?
Diverse sono state le rivoluzioni che hanno cambiato il modo di lavorare o di vivere, l’elettricità, la macchina a vapore, la catena di montaggio. Invece pochissime sono state le rivoluzioni che hanno avuto la potenza per cambiare il modo di pensare. L’Illuminismo o il Romanticismo per dire. La rivoluzione digitale e l’algoritmo appartengono a questa seconda categoria ed è per questo che a noi spetta un compito enorme.

Vale a dire?
Fondare una sinistra disancorata dalle…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Gianni Cuperlo prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 

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Resistere, pensare, parlare, scrivere. Una vita, un uomo: Antonio Gramsci

Pensare a Gramsci nella Roma e nell’Italia di oggi, in mezzo al frastuono televisivo che continuamente fanno i “principi” di oggi, è un’attività della mente che per me, o per alcuni, o forse per molti di noi, oggi si connette a un dolore che in verità non è immediatamente comprensibile. Quasi lo vorresti schivare, ti accorgi che vorresti pensare ad altro. Si sono fidati di te chiedendoti di parlare, e a te sembra di avere la testa del tutto vuota. Vorresti aver declinato l’invito: tentare di evitare il dolore sembra infatti che sia una naturale propensione della mente.

La cosa ti coglie di sorpresa, sull’inizio non sai di cosa si possa trattare. Eppure ricordi facilmente altre vivaci e non dolorose occasioni di studio e di discussione, negli anni, intorno al lascito teorico e morale del fondatore del Partito comunista d’Italia, alla sua ricerca, alle sue intuizioni e proposte. Ricordi l’entusiasmo dell’accalorarsi in scontri verbali accesi di allora, le appassionate lealtà che si riconoscono reciprocamente, i biechi tradimenti che si svelano, l’ira nello scoprire, e poi nel documentare, l’inganno mostruoso che intorno a questa grande figura, e in danno di tutti noi – che speravamo in una trasformazione dell’Italia nella quale ci proponevamo di aver parte – alcuni piccoli uomini, fattisi grossi solo perché gonfiati dall’alienazione religiosa che allora, dopo il 1956, cominciavamo a chiamare “culto della personalità”, tessevano e avevano cominciato a tessere fin da quando Antonio, solo, troppo stanco, troppo malato, in lotta personale continua contro la depressione in agguato, era ristretto nelle galere fasciste.

Eppure, lui, aveva continuato a resistere. A pensare, a parlare, a scrivere. Non c’era questo dolore di oggi, allora. C’era, e c’è ancora certamente oggi, il dolore per lui, per questo nostro geniale compagno e fratello, stroncato a soli 46 anni – e noi ne abbiamo parecchi di più di così adesso. Trasaliamo nel constatare che quel martire ci potrebbe essere figlio, ormai. Il dolore, come fresco di oggi, per la vita impossibile che, allora, il tempo e maledettamente i suoi stessi compagni gli avevano apparecchiato e alla quale non si poté mai sottrarre.

Per gli amori che non poté vivere, per i figli che non poté aiutare a crescere, per le gioie che gli uomini pur incontrano nel corso della propria vita e che lui non poté provare, per la grande bellezza del mondo che a lui fu sempre negata. Ma non “questo” dolore, di cui sto cercando di dire. Un’altra cosa. Allora, quando per le prime volte parlavamo di lui, e scoprivamo la sua vita coraggiosa, e ci entusiasmavamo per il suo pensiero, erano tempi che, quando un compagno cadeva, ci dicevamo che adesso avremmo raccolto noi, noi ancora vivi, la sua bandiera, la sua testimonianza, il suo lascito: che l’avremmo fatto germogliare e fruttare nella vita pulsante del movimento ampio della Sinistra, senza impazienze infertili e nei tempi che sarebbero stati quelli reali, certo, ma indubitabilmente!

Era quello che chiamavamo ampliamento della conoscenza, capacità di progetto, intelligenza collettiva. E lealtà. Ammaestrati da esperienze drammatiche ormai alle nostre spalle, avremmo portato noi avanti, anche grazie a lui, il cammino che in lui – come in tante altre compagne e compagni – era stato così brutalmente stroncato da una violenza inumana di cui gli uomini – unici tra tutte le specie viventi – sono capaci. Perché allora, e ne eravamo proprio certi, la Sinistra, diamine, c’era. Magari non sapevamo bene dove esattamente stesse. magari capivamo già che in realtà era ancora tutta da costruire o da ricostruire, ma nelle piazze che ancora si riempivano di popolo, i nostri occhi si incontravano ancora facilmente in occhi del tutto simili ai nostri!

I nostri sorrisi di allora. E ce l’avremmo certamente fatta. Per lunghissimi anni, in realtà, di Gramsci si era parlato molto di più all’estero che in Italia, da un po’ d’anni anche da noi – e forse proprio in dipendenza dalla (o in reazione alla) sempre più innegabile presenza nella società italiana ed europea di una ricerca teorica nuovissima – si sono susseguite le pubblicazioni su di lui, e il dibattito è sembrato molto più vivo di prima. È sembrato. Ma bisogna – è vitale! – saper distinguere! Ci sono stati tanti lavori e opere su Gramsci che a ben vedere hanno preso voce solo dal bisogno di confondere, per giustificare e confermare la bontà e gloria e necessità storica del percorso perverso che, di tradimento in tradimento, da Togliatti ci ha portati a Matteo Renzi, di sostenere e confermare l’egemonia (che evidentemente si era temuto potesse vacillare di fronte a quelle nuove proposte, e a un loro possibile incontro con la prassi politica della Sinistra d’allora), in quello che un tempo era il campo della Sinistra, di quelli stessi – e degli eredi di quelli stessi – che prima l’avevano voluto rinchiuso in galera, che poi avevano certamente respirato di sollievo quando, davvero e definitivamente, quella mente aveva cessato di pensare, che ancora solo un momento dopo quella morte, come disgustosi avvoltoi, si erano precipitati a fare a brani il suo pensiero per piegarlo, stuprandolo, ai propri scopi politici in vista dei quali – forse per una debolezza intellettuale, ma noi diremmo piuttosto umana – quel fondamentale concetto gramsciano di egemonia – privato criminalmente di ogni contenuto di rapporto interumano – veniva inteso e deformato brutalmente in quelli non umani, e antropologicamente elementari e materiali, di “potere” e di “dominio”.

Quelli che hanno scritto quei libri, questo dolore che dicevo prima, non lo conoscono di certo. Non sanno proprio di che cosa si possa trattare. Tanto è vero che spesso ci sghignazzano, anzi. Ma ci sono stati altri, pochi libri, che sono stati onesti e hanno detto le verità che gli altri hanno continuato a celare. Nel passato ci siamo trovati a presentare quello di Mauro Canali (“Il tradimento: Gramsci, Togliatti e la verità negata”, ed. Marsilio) stasera presentiamo quello di Noemi Ghetti: Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro edizioni). Che, con una sensibilità – non temiamo di dire – certamente ancora più profonda e intelligente, ha colto altri nessi e significati finora occultati. Quel nostro dolore, nel pensare a Gramsci, ci sembra allora davvero sano e inevitabile.

Perché oggi una Sinistra politica, dove spendere i possibili frutti contemporanei di una riflessione e di un approfondimento del suo pensiero rivoluzionario, e all’interno della quale riprendere proseguire e realizzare la sua prassi rivoluzionaria allora stroncata, oggi davvero in Italia non c’è. Hai paura allora di poter arrivare a pensare che quell’eroe sia morto per niente. Una Sinistra politica oggi in Italia non c’è. Certo, se non c’è non potrà che esserci, un domani: perché le contraddizioni – anche se un’epoca tenta di annullarle o (meglio) di negarle – in realtà non possono semplicemente e magicamente sparire! Dunque ci vogliamo fidare – sperando di non sbagliarci un’altra volta – del lavorio sempre a lungo invisibile di quella “vecchia talpa” che dai tempi di Shakespeare era riemersa in quelli di Hegel, ma che – fortunatamente – aveva trovato poi una figura, a noi certamente – lo confessiamo volentieri – parecchio più simpatica, nel “18 Brumaio” di Karl Marx.

La vecchia talpa della rivoluzione. Ma intanto, se ora non c’è – e prima sembrava esserci – significa per forza che c’è stato un fallimento e una sconfitta. Quando una prassi fallisce, in politica proprio come nel metodo scientifico, si dimostra conseguentemente errata anche la teoria sulla quale essa aveva fatto base. E d’altra parte una prassi priva di teoria, ha sempre prodotto e sempre potrà produrre soltanto conferma della scissione e ripetizione del fallimento. Occorre allora rimettersi al lavoro, come si disse tanto tempo fa, “provando e riprovando”. Dopo la sconfitta drammatica della rivoluzione del 1848, Karl Marx, costretto dal governo francese e dalla persecuzione di tutte le polizie d’Europa, si trasferì a Londra e iniziò lì una lunga stagione di costruzione teorica. Nel novembre del 1926 Antonio Gramsci, dopo la sconfitta del Biennio rosso, la presa del potere di Mussolini nell’arco di tempo che va dal 1922 all’assassinio Matteotti, all’attentato Zamboni e alle leggi “fascistissime” del 1925, una volta costretto – e sarebbe stato fino alla morte – nelle carceri fasciste, si mise a studiare e a scrivere.

Noi oggi, dopo una lunga storia di sconfitte che fa data almeno dalla togliattiana svolta di Salerno, attraverso la morte del Sessantotto e poi il crollo dei sistemi del comunismo reale, da molto tempo ormai studiamo e facciamo ricerca teorica. Era accaduto “che un giorno un uomo qualsiasi avesse scritto di una nascita umana alienata ma non perversa. Era stata spazzata via una teoria millenaria che sosteneva la natura originariamente corrotta e perversa degli esseri umani, la necessità dell’educazione degli uomini, la rassegnazione alla nevrosi e al dolore per il naturale conflitto degli istinti umani con la società”. Ci mettemmo al lavoro.

Era accaduto che una scoperta scientifica, la scoperta di Massimo Fagioli della nascita umana, avesse dimostrato che quell’eguaglianza che la Sinistra, da quando ha preso voce, aveva nominato e sognato come “Chimera” da perseguire, ma per un futuro imprecisato e imprecisabile, è piuttosto la condizione ontologica di base della nostra comune specie umana, in virtù delle dinamiche della stessa nascita biologica degli esseri umani, di una capacità di reagire e di una capacità di fantasia ad essa connesse che ci caratterizzano. Di tutti gli esseri umani, donne e uomini – prima di tutto: l’unica vera differenza che nella specie c’è – ma poi e per esempio di “palestinesi” e “israeliani”, per restare nell’attualità di questi giorni, o magari di “anglosassoni” e di “cinesi”, di “migranti” e di così detti “autoctoni”, o di “proletari” e di “borghesi”. A noi dunque adesso tocca una lontananza paradossalmente “aristocratica”, persino fisica, radicale e intollerante, da proprio TUTTA quella “soi-disant” Sinistra di oggi o che ancora pretenderebbe di dirsi tale (mentre spesso dice anche – non proprio coerentemente! – che oggi non ci sarebbe più una vera differenza tra “sinistra” e “destra”).

Quando qualcosa che in realtà non c’è dice pertinacemente di esserci – e qualcuno ci casca sempre – dice il falso, e la situazione è certamente persino peggiore. Quella *soi-disant* Sinistra politica italiana di oggi in realtà si prostra tutti i giorni servilmente e vergognosamente davanti a papi vescovi e preti, i più feroci nemici dell’umanità – come scriveva Antonio Gramsci -, propone continuamente immagini deformate e terribili dell’umano reso disumano, e si alimenta nel frattempo sempre volentieri degli avanzi rimasticati e ripugnanti delle mense di capitalisti, faccendieri, finanzieri e criminali vari. Ogni epoca ha il suo compito da svolgere per il progresso umano, e questo oggi è senza dubbio il nostro. Un tempo avremmo detto – ma lo diciamo ancora – a noi spetta “affilare le armi della critica”. A noi oggi spetta un indispensabile e necessarissimo lavoro culturale e teorico, che infatti facciamo e stiamo facendo.

Per la verità con davvero inattesi – da noi stessi.! – grandi risultati e successi. Fra pochi giorni celebreremo i nostri quaranta anni di ricerca al Castello Sforzesco di Milano, e all’Aula Magna della Sapienza di Roma, il più grande Ateneo d’Europa. Questa ricerca non poteva riuscire – ce lo dicevano tutti – e invece è riuscita! Di Gramsci allora, per continuare questa ricerca, ci serve quasi tutto: la intransigente laicità, di fronte al servile prostrarsi davanti al Vaticano di tanti oggi, la capacità di studio e di fatica personale, di fronte alla stupidità e all’ignoranza abissale dominante, l’intelligenza e la profondità di pensiero, di fronte alla totale fatuità autoreferenziale e alla assoluta vacuità di quelli che ci parlano dagli schermi televisivi, la coerenza e la serietà di una proposta di costruzione di una egemonia culturale della Sinistra sullo stato delle cose presenti che faccia base sulla partecipazione dell’altro, sulla ricerca di un consenso attivo dei propri simili e non sul decisionismo autistico e neo-fascista dei nostri governanti di oggi, la capacità di emozione e di riferimento costante a quanto nella realtà umana non è riconducibile all’utile e al conveniente, ma sa legarsi a immagini femminili e irrazionali che sono la nostra più intima e vera realtà umana.

Viviamo in tempi abbastanza terribili, l’inumano, “tranquillamente” e dovunque, pare avere la meglio sull’umano. Chi ci dice che questo è il migliore dei mondi possibile, ci è nemico e odioso. Talvolta, francamente anche noi, serenamente ridiamo di fronte alle pagliacciate del potere che i media ci impongono quotidianamente, ma, non affatto convinti che basti una risata a seppellire quei mostri, perseveriamo nella nostra ricerca intransigente, memori dell’ammonimento di Altan quando ci ha detto “Attenzione ai pagliacci: possono diventare feroci”. E memori però anche dell’unica frase di Lenin che ancora ci piace, senza riserve: “Che la pazienza e l’ironia sono le doti migliori di un rivoluzionario”. Il libro di Noemi Ghetti, del tutto all’interno di questo percorso, è dunque davvero importante per noi. E le vogliamo bene per averlo scritto. E sostenuto.

*

Il testo originale di Fulvio Iannaco è stato pubblicato su Babylon post l’8 novembre 2015

Il fiore rosso della rivolta

Quella mattina che le camionette caricarono gli studenti per la prima volta e i poliziotti acciuffarono quelli che inciampavano nel filo di ferro delle aiuole della piazza, e si accanirono soprattutto sulle ragazze, una grande indignazione attraversò la città. Gli studenti stavano protestando solo con qualche cartello in mano contro una legge di allora, la “2314”, davanti al rettorato, quando la carica era arrivata, vigliacca, da più direzioni. Poche ore dopo quasi tutte le facoltà della città erano occupate. Assemblee affollatissime – già con la mente allo Smolny – discutevano animatamente il da farsi. Non lo sapevano ancora, ma era cominciato il ’68. Passarono i giorni e vi furono gli scontri alla stazione di Pisa, passarono le settimane e vi fu la battaglia di Valle Giulia. Gli studenti avevano perso l’innocenza, adesso attaccavano per primi, volavano le pietre e le prime bottiglie molotov, la polizia talvolta era messa in fuga.

Un senso d’onnipotenza cominciò a prendere i ragazzi e le ragazze. E venne il Maggio. La Rivoluzione era per l’anno seguente. La dialettica con i comunisti – colti di sorpresa e alla ricerca del controllo di un movimento che non comprendevano – divenne scontro violento: quando il segretario della federazione comunista con un pugno al ventre scaraventò giù dal palco il ragazzo che parlava su mandato dell’assemblea cittadina degli studenti, nella piazza piena che manifestava in sostegno delle lotte della Sorbona, la rottura divenne definitiva: il movimento la svuotò, quella piazza, e lasciò soli i “burocrati” e il loro servizio d’ordine, ma già da tempo un odio per un tradimento antico divideva i giovani dal partito. Perché prima della loro nascita avevano disarmato la “Resistenza”, perché prima della loro nascita avevano confermato il potere dei preti e dei padri e delle madri e dei maestri che soffocavano la loro vita, perché nelle tante pagine che avevano scritto i giovani non avevano trovato neanche un rigo che parlasse ai loro cuori appassionati. Perché si erano resi complici e autori di una morale privata opprimente e innaturale. Perché non erano diversi in fondo da quei padri, da quelle madri, da quei maestri e da quei preti.

«Osare pensare, osare ribellarsi, osare vincere» diceva la frase che avevano preso dalla rivoluzione culturale cinese. E il fiore rosso della rivolta, la loro stessa giovinezza, era quanto avevano di bello da spendere. Ma sapevano che sapersi ribellare non bastava: occorreva anche pensare, occorreva vincere. Occorreva vincere, e il difetto di teoria li portò a prendere a modello la più recente delle vittorie, prima della loro nascita: la lotta partigiana. E cominciarono a parlare di lotta armata e di insurrezione. O vittorie remote, asiatiche o latino-americane. E cominciarono a parlare di guerriglia nelle metropoli. Parlavano di armi, ma se glielo aveste chiesto non riuscivano a immaginarsi con un’arma in mano a ferire la carne viva d’un uomo. Non riuscirono ad avere un pensiero che commisurasse alla loro realtà concreta la prospettiva paziente della costruzione d’una vittoria reale: moderna e insieme umana. Sarebbe stato necessario un pensiero per portarli a una vittoria.

I giovani si guardavano intorno: si sentivano pieni di forza, ma non sapevano come usarla, quella forza; sapevano solo che «non si può fare la rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria». E allora giunsero i Maestri. Dissero che loro lo avevano, il pensiero, che loro avevano la teoria. Giunsero gli amici di Althusser e di Foucault, quelli che sapevano tutto di Spinoza e di Cartesio, di Heidegger e della scuola di Francoforte e di antipsichiatria – quei giovani non avevano ancora letto nulla o avevano letto Catullo e Shakespeare e Majakovskj -, giunsero quelli come Toni Negri, e si offrirono all’ammirazione dei ribelli privi di teoria. Vampiri di carne giovane, furono creduti, per troppa povertà; portatori di fallimenti personali e patologie anche gravi che sapevano occultare agli occhi dei ribelli, furono ammirati e idolatrati. Per quell’ingenuità fiduciosa che è la cosa più bella – pericolosissima – della gioventù. Costituirono una grande finzione. Una assenza di teoria e di pensiero riuscì a farsi credere presenza. E i giovani, furono obbligati a fingere anche loro. Lo sapevano già fare, come tutti i ragazzi lo sanno, fin dalla adolescenza: quando al bar con i compagni avevano finto esperienze sessuali strabilianti, o nel loggione del teatro o alla mostra d’arte avevano finto competenze mai neppure approssimate, solo per far bella figura con le ragazze.

Ma ora il gioco s’era fatto serio: e cominciarono a fingere il possesso di patrimoni teorici di studio dei classici del marxismo e dell’economia racchiusi in libri dei quali avevano a malapena visto le copertine, finsero l’anima del poeta e dell’amante esperto e sensibile, finsero un coraggio da leoni mentre tremavano come conigli. Finsero un’identità che in segreto pensavano che non avrebbero mai avuto. E andavano alle riunioni di ogni sera inanellando parole astruse solo orecchiate, e andavano a scontrarsi con la polizia celando le “chimiche” sotto le ascelle, e avrebbero voluto solo fuggire il più lontano possibile. Ma non potevano: la pena sarebbe stata l’inesistenza. La loro identità era tutta in quel distintivo di Mao sopra il maglione nero, e nella benevolenza del capo. I ribelli erano diventati seguaci passivi. E il Sessantotto finì. Negli anni successivi la finzione continuò, sempre più disperata e obbligatoria per sopravvivere nella morte di tutti i giorni. Fino a quando cominciarono i colpi di pistola e le raffiche di mitra, e i morti riempirono le prime pagine dei quotidiani. E videro la fotografia dell’amico caduto sull’asfalto, e seppero della tortura negli scantinati delle questure, e della ragazza, la più bella, la più lontana, stuprata e percossa e fratturata nelle galere dello Stato, e dell’altra, appena ventenne, sparata in pieno viso nell’attimo in cui apriva la porta della casa dove fino a poco prima dormiva, allo squillo d’un campanello all’alba. Fino a quando sconfitti dalla potenza militare dello Stato, quelli che non erano ancora riusciti a fuggire – con un senso di fallimento che rischiava di accompagnarli per tutta la vita – si guardarono allibiti.

Ora – quarant’anni dopo – i reduci festeggiano il Sessantotto alla Facoltà di Architettura di Roma. Un po’ futili un po’ irriducibili, per gioco salottiero, si scambiano lazzi e battute, l’ex del servizio d’ordine di Lotta continua, come Liguori, oggi berlusconiano, con l’esule folle e intabarrato, appena riammesso in patria. L’architetto di successo con il militante severo. E Giuliano Ferrara, educato a Mosca, ma con le labbra ancora profumate della colonia della mano del papa, ricorda che a Valle Giulia a scagliar sassi contro la polizia c’era anche lui. Altri, non hanno nostalgie ma hanno memoria. Hanno imparato dalla propria vita, e cercano ancora, questa volta con calma, e senza rabbie e finzioni, le strade della trasformazione.

*

L’articolo di Fulvio Iannaco è stato pubblicato su Left del 7 marzo 2008 e – a gennaio 2018 – sul libro di Left 1968. Fu solo un inizio

Le presepiadi

Preparatevi perché come ogni anno, puntuali come l’influenza, arriveranno le decine di dichiarazioni sul presepe di destrorsi, sovranisti e avventori vari nel gran bazar dei miserabili populisti. Sarà tutto un cercare, dentro le redazioni di certi giornalacci, una professoressa o un preside o un rappresentante di classe che compierà il madornale errore di dire che il presepe gli fa schifo e subito salterà fuori la terribile armata dei difensori del presepe

Svetta come sempre la solita Giorgia Meloni che già ieri ha pubblicato sui suoi social una foto di presepe in bella vista con lo slogan «non vergogniamoci della nostra identità» (che ormai è uno slogan che sta bene su tutto, sui cibi, sulle caramelle e ovviamente anche sui presepi). Le presepiadi ovviamente aspettano con ansia anche la gara dell’ex ministro dell’Interno Salvini che sfoggerà, c’è da aspettarselo, qualche boutade delle sue.

Simpatici, però: celebrano degli uomini provenienti «da oriente» ma spesso descritti come neri, pieni di gioielli e ben vestiti (esattamente come quelli che odiano, mancano solo i cellulari), celebrano una mamma e un papà palestinesi, di religione ebraica, emigrati clandestinamente in Egitto che hanno fatto un figlio con la fecondazione assistita.

Celebrano, in sostanza, qualcosa di diverso rispetto a quello che professano ma sono talmente ignoranti che non si pongono nemmeno il problema. La religione come oppio per gli stolti fa già schifo così, ma la religione usata come odio dagli stolti è qualcosa che raggiunge lo Zenith della cretineria.

E anche quest’anno, come ogni anno, tutti a polemizzare sulla stessa polemica dell’anno scorso. Tutti a dire, tutti a urlare, nessuno che ascolta, nessuno che impara. Avanti così.

Buon venerdì.

Qualcosa di sinistra

Non sappiamo come andrà a finire il 12 dicembre. Le elezioni oltremanica, stando ai sondaggi, potrebbero dare una netta vittoria al machista, nazionalista, conservatore nonché premier in carica, Boris Johnson, e alla sua Brexit ad ogni costo, forte dell’appoggio dell’Inghilterra profonda. Come è già successo negli Usa per l’elezione di Trump anche grazie ai voti della Rust Belt. Johnson ha dalla sua la Gran Bretagna bianca, de industrializzata, arroccata sui pregiudizi di una piccola borghesia declassata, come ha raccontato in un bruciante romanzo inchiesta, The Cut, lo scrittore Anthony Cartwright.

Comunque vada – e i giochi sono ancora aperti – in questa storia di copertina vogliamo parlare del coraggio, della capacità di visione e della sfida lanciata dal manifesto radicale, ambizioso e solidale presentato dal leader del Labour, Jeremy Corbyn. Abbiamo provato ad approfondirne i contenuti in dialogo con alcuni esponenti della sinistra italiana ed europea, utilizzandolo per stimolare la discussione, in un momento in cui avanzano le peggiori destre mentre i tradizionali partiti di centrosinistra sono direttamente o indirettamente interrogati da movimenti giovani come quello dei Fridays for future e quello delle sardine in Italia.

Per capire la portata del cambiamento che il buon “vecchio” Corbyn è riuscito a mettere in moto bisogna ricordare anche il contesto in cui è avvenuto.

Dopo l’attacco al welfare, l’indebolimento dei sindacati e la selvaggia liberalizzazione del mercato del lavoro dell’era Tatcher (che sosteneva non vi fosse alcuna società possibile ma solo individualismo proprietario), dopo il blairismo che aveva introiettato la logica del neoliberismo, nel 2015 Jeremy Corbyn (che si definisce socialista democratico) è riuscito inaspettatamente ad arrivare ai vertici del partito smascherando il dogma thatcheriano «There Is No Alternative», accettato da Blair. Nel 2017 il Labour di Corbyn ha registrato un forte incremento degli iscritti, riuscendo a riaprire il dialogo con i giovani, avvicinandoli all’impegno politico. Un processo che è stato facilitato dall’attività di Momentum, l’ala movimentista del partito. E ora ecco il nuovo programma centrato sulla rivoluzione industriale verde (facendo proprie le proposte di Exctinction Rebellion), sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e sul diritto all’accesso al sistema sanitario pubblico, cure gratis per gli over 65 e blocco dell’età pensionabile a 66 anni (cercando di acchiappare anche i votanti più maturi e tradizionalmente più conservatori).

Punto cardine e nuovissimo del programma è il servizio nazionale per l’Educazione che avrà il compito di garantire ai cittadini l’accesso ad una formazione continua e gratuita. Corbyn propone inoltre di abolire le tasse universitarie ponendo fine allo scandalo dell’indebitamento degli studenti universitari e di lanciare una piattaforma multimediale pubblica (una sorta di facebook pubblico) e «banda larga a fibra piena gratuita» per tutti entro il 2030.

Dove trovare i soldi? Per cominciare il leader laburista suggerisce di «tassare per 11 miliardi le compagnie petrolifere e del gas, aumentare dal 19% al 26% l’aliquota sulle imprese, reintrodurre la tassa di successione tolta dal governo conservatore e aumentare le tasse per chi guadagna più di 80mila sterline l’anno». Di tutto questo hanno parlato pochissimo o quasi per niente i giornali italiani, affannandosi piuttosto a rilanciare le accuse di antisemitismo che sono state rivolte a Corbyn dal rabbino capo inglese.

Accuse che il fact checking di Domenico Cerabona smonta meticolosamente su Left.

«Che il rabbino capo inglese abbia tuonato contro Corbyn ed i laburisti non mi stupisce – ha scritto con lungimiranza il novantacinquenne Emanuele Macaluso -. Anche in Italia il cardinale Ruini, quando era capo dei vescovi italiani, sparava contro la sinistra e a favore ovviamente della destra. Lo fa ancora da pensionato».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 6 dicembre 2019

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London calling

BLACKPOOL, ENGLAND - NOVEMBER 12: Jeremy Corbyn delivers a speech on the party’s education policy at Bloomfield Road football stadium ahead of the general election on November 12, 2019 in Blackpool, England. The U.K. will go to the polls in a general election on December 12. (Photo by Anthony Devlin/Getty Images)

«Se i banchieri, i miliardari e l’establishment pensassero che noi rappresentiamo la vecchia politica, che possiamo essere comprati, che nulla stia davvero cambiando, non ci avrebbero attaccato così ferocemente». Così Jeremy Corbyn, alla presentazione del manifesto elettorale Labour, ha rivendicato la radicalità della proposta del suo partito in vista del voto del 12 dicembre. Tra i punti del programma: diminuzione delle ore di lavoro a parità di retribuzione, nazionalizzazione di poste, ferrovie, acqua ed energia, salario minimo innalzato a 10 sterline, internet veloce gratis per tutti, stop alle tasse universitarie, un piano per una “rivoluzione industriale green”, e molto altro (v. Cerabona a pag. 10). Se non stiamo parlando di socialismo, perlomeno nell’accezione più tradizionale del termine, senza dubbio si tratta di un ambizioso progetto di dismissione del neoliberismo, e dunque della Terza via blariana, unito ad una idea positiva di ridefinizione dell’economia britannica. Un passaggio che, al di là dei risultati elettorali – i sondaggi danno il Labour in rimonta, a 9 punti percentuali di distanza dai Conservatori -, lancia un forte segnale alle forze progressiste (o sedicenti tali) di tutto il continente. Italiane comprese.

«Per la sinistra europea c’è un prima e un dopo Corbyn, proprio come ci fu un prima e un dopo Blair», dice Arturo Scotto, tra i fondatori di Mdp. «O i progressisti riacciuffano la questione sociale e la rimettono al centro di una nuova identità politica – prosegue – oppure vincerà a mani basse la destra che si rafforza sul malessere diffuso». Di certo in Uk la destra…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 6 dicembre 2019

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