epa07925848 'Justice four Daphne' is written on a cardboard showing a photo of Daphne Caruana Galizia, during a picket in front of the Maltese embassy for murdered journalist Daphne Caruana Galizia in Berlin, Germany, 16 October 2019. Reporters Without Borders organized a picket for murdered journalist Daphne Caruana Galizia, who was killed on 16 October 2017 in Malta, while investigating the Panama Papers case. EPA/CLEMENS BILAN
Vale la pena soffermarsi sull’arresto avvenuto ieri a Malta di Yorgen Fenech, amministratore delegato del Tumas Group e direttore generale della centrale elettrica a gas di Malta, con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia.
Per mesi abbiamo assistito da lontano (lontani per quanto si può essere lontani a ottanta chilometri di distanza) alla disumanizzazione della giornalista maltese (uccisa nell’ottobre del 2017) descritta come una strega e come una visionaria dalle teorie strampalate. L’arresto di ieri invece conferma che Galizia ci aveva visto benissimo e ancora una volta si scopre che si perde la vita ogni volta che si mette il dito lì dove potere e illegalità si incontrano sotto banco.
Yorgen Fenech è stato identificato come proprietario della 17 Black, società con sede a Dubai che avrebbe foraggiato con 2 milioni di euro i conti panamensi di Keith Schembri, capo staff del primo ministro maltese Joseph Muscat, e del ministro Konrad Mizzi. Fenech è stato al centro della trattativa per il nuovo impianto energetico insieme al primo ministro Joseph Muscat già a partire dalla campagna elettorale del 2013 e il Corriere di Maltascrive che il progetto della centrale elettrica assicurò a Electrogas 3,9 miliardi di euro in 19 anni. Affare di Stato. Insomma.
Eppure quando è morta Daphne Caruana Galizia alcuni sindaci maltesi addirittura hanno festeggiato il suo omicidio, in quel gorgo di odio che serve per isolare una persona prima di ucciderla. “Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci.”, diceva Gandhi e invece qui troppo spesso succede che “Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi muori.”
E chissà se riusciremo a farne memoria. Per Daphne e per tutti quelli che muoiono così. Soli.
Basket beats borders, “il basket per superare i confini”, questo il nome del progetto nato nel gennaio 2017 come opportunità di scambio e cooperazione tra realtà sportive popolari romane e la polisportiva Palestine youth club di Shatila. Un filo rosso lungo Roma-Beirut che vuole dar voce ad una condizione drammatica, che viene spesso resa inesistente da un mondo che non vuole vedere. Shatila, campo profughi creato a Beirut nel 1949, rappresenta l’emblema delle ingiustizie subite dal popolo palestinese e la menzogna per intere generazioni di essere “nati profughi”. Si sviluppa come un insieme disordinato di palazzi autocostruiti, fra i quali si insinua una ragnatela di cavi che fornisce elettricità a intermittenza, mentre alle abitazioni si distribuisce solo acqua salata. «Una delle immagini che più mi ha colpito di questo viaggio» racconta Luca, capitano degli All reds basket del centro sociale Acrobax «è quella di una chiave gigante saldata sul fianco di un ex serbatoio dell’acqua, come fosse un monumento situato in una delle entrate di Shatila … mi hanno raccontato che alcune famiglie si tramandano, di generazione in generazione, la chiave della loro casa lasciata in Palestina e con essa la speranza di poterci tornare».
Foto di Daniele Napolitano
La situazione nel corso degli anni non è mai migliorata; oltre alle difficoltà del quotidiano legate ai bisogni primari, occorre fare i conti con molte discriminazioni: per poter lavorare al di fuori del campo, i palestinesi devono ottenere un permesso di lavoro che comunque non consente di accedere a ben 42 professioni. A subire questa violenza sono specialmente i ragazzi che, vedendo stroncate le loro aspirazioni, raramente proseguono gli studi e per la mancanza di luoghi di aggregazione diventa difficile tenere i rapporti. Lo sport assume così un ruolo fondamentale e salva la vita perché ne dà un senso sano e positivo, incoraggiando i giovani a non perdere interesse nelle cose, ad analizzare con occhio critico le questioni sociali, a resistere e a ribellarsi alla “normalità” che parla di impossibilità, di matrimoni precoci, di delinquenza e droga.
«Abbiamo creato una squadra di ragazze perché credo che lo sport possa cambiare in meglio le cose. Credo che per loro sia arrivato il turno di giocare in questa vita e in futuro saranno le donne a cambiare la società!» racconta il coach Majdi, anche lui rifugiato palestinese nato a Shatila. La squadra di pallacanestro femminile del Palestine youth club, nata nel 2015, conta oggi 25 giocatrici, tra i 16 e i 22 anni, che nello sport trovano un’occasione per divertirsi, per confrontarsi e per crescere. La squadra rappresenta un esempio di integrazione, giocano insieme ragazze palestinesi musulmane, palestinesi cristiane, siriane e libanesi, come Rola che insieme alla sua famiglia, sostiene la causa delle compagne. Le ragazze si allenano in media due volte a settimana nei playgrounds pubblici di Qas Qas, quartiere a circa 1 km da Shatila.
Foto di Daniele Napolitano
«Abbiamo bisogno di un campo privato per sentirci sicure e a nostro agio mentre giochiamo o semplicemente per fare stretching» dice Amena, una giocatrice, raccontando i disagi nel fare alcuni movimenti sotto lo sguardo di chi si ferma incuriosito a bordo campo o dei ragazzi che vanno a giocare in quello a fianco. «In generale la reazione di chi ci incontra è positiva» continua Amena «è piuttosto raro che delle ragazze giochino a basket come gli uomini. Vorrei dire alla mia società di lasciar fare alle ragazze lo sport che preferiscono, così il futuro sarà migliore». Nel corso degli anni sempre più ragazze si sono unite alla squadra, un’apertura anche per i genitori che le lasciano libere di andare al campo e di giocare a basket. «Ci divertiamo! Quando gioco sono felice e non penso alle cose negative» ci confida Noha; «è importante perché ci permette di uscire e non restare sempre a casa» le fa eco Wafaa che ha iniziato a sua volta ad allenare alcune bambine del campo. Così, nella difficile Shatila, il basket diventa per le ragazze occasione per rivendicare i propri diritti, possibilità di emancipazione e libertà di movimento.
Nelle prime due edizioni, il progetto B.b.b. ha dato alle ragazze del Palestine youth club la possibilità di partire e di venire in Italia per giocare con le squadre di basket popolare romane All reds basket, Atletico San Lorenzo e Bulles fatales. Molte di loro non avevano mai viaggiato prima: per uscire dal Libano, un rifugiato palestinese deve avere un invito ufficiale e, congiuntamente, un visto dall’ambasciata del Paese di ingresso. Un incontro unico dove la pallacanestro rappresenta l’occasione di entrare in contatto con diverse culture e nuove persone con cui condividere esperienze di vita e di sport.
Foto di Daniele Napolitano
Per l’edizione 2019, il progetto si è dato come priorità quella di sostenere la realizzazione di un centro di aggregazione giovanile all’interno di Shatila. Una campagna di raccolta fondi ha permesso di partecipare attivamente alla costruzione delle mura del centro nel quale è stata ospitata la delegazione italiana, con grande calore, lo scorso ottobre. Una volta completato e reso attivo, sarà uno spazio per la comunità in cui si potranno svolgere non solo attività sportive ma anche di sostegno allo studio, workshop per le donne, eventi culturali.
«Era importante capire la loro vita e le loro esigenze, per poter indirizzare meglio la nostra attività di sostegno» dice Peppe degli All reds e continua Luca «fargli sapere che ci sono tante persone che supportano la loro lotta, che non sono soli! ». Il progetto B.b.b. vuole opporsi alla rassegnazione che dilaga all’interno del campo ed essere una forza creativa che aiuta in particolare le nuove generazioni, a trovare non solo la speranza, ma la certezza di poter migliorare la propria vita. Basket beats borders continua ad andare avanti e a tenere gli occhi aperti, in nome di interessi e aspirazioni comuni. «Senza dubbio ci ritroveremo ancora su un campo da gioco. Che sia Roma, Beirut, Madrid, Bilbao o Baghdad. Inshallah!»
Il leader della Lega Matteo Salvini nella Sala Salvadori della Camera durante una conferenza stampa della Lega, Roma 13 Novembre 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI
Dice l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che l’indagine aperta nei suoi confronti per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio quando lo scorso agosto 164 migranti rimasero per 19 giorni a bordo della Open Arms davanti alle coste di Lampedusa è “una medaglia” e che rifarebbe e rifarà tutto. Se vi sembra una frase già sentita e una scena già vista non vi sbagliate: nel suo sforzo di sembrare davvero capitano il leader leghista già una volta fece il gradasso per un’indagine simile solo che poco dopo corse a chiedere al Movimento 5 Stelle (al tempo suoi alleati di governo) di essere salvato in Parlamento. Salvini è così: un pendolo tra smargiassate e fughe. Non un bel vedere.
Inutile anche aggiungere che lo stesso Salvini parla di “spreco di soldi pubblici” per l’indagine della magistratura nei suoi confronti: da Berlusconi ha imparato tutto il peggio sulla pavidità di fronte alla giustizia, è un ottimo allievo. Inutile anche andarsi a leggere le reazioni dei suoi compari (alleati o elettori) che ovviamente ripetono le solite manfrine della difesa dei confini, del complotto della magistratura e tutta una serie di frasi fatte che hanno imparato a memoria e ormai ripetono dappertutto, matrimoni e funerali compresi.
«Sono stufo di essere indagato» fu la frase che pronuncia Al Capone quando venne arrestato per evasione fiscale. Per non essere stufo Salvini potrebbe fare una cosa semplice semplice: non scappare dal processo. Sarebbe l’occasione, una volta per tutte, di chiarire quali siano le norme, le leggi e le disposizioni che regolano la protezione umanitaria in Italia e nell’Europa. Volendo vedere sarebbe un’occasione anche per i sovranisti di casa nostra poiché potrebbero avere chiaro il quadro normativo e eventualmente gli spazi per modificarlo.
Basterebbe non avere paura. Semplicemente. Senza fare il gradasso. Prendersi la responsabilità delle proprie azioni e avere il fegato di non rivendicarle solo su twitter. Semplice, no?
Prelates attend the Pope's Easter Sunday mass at St. Peter's square on April 21, 2019 in the Vatican. - Christians around the world are marking the Holy Week, commemorating the crucifixion of Jesus Christ, leading up to his resurrection on Easter. (Photo by Vincenzo PINTO / AFP) (Photo credit should read VINCENZO PINTO/AFP via Getty Images)
«Lasciami stare, non mi devi più toccare». Per sottrarsi agli abusi e alle molestie del prete subiti in canonica ha registrato tutto con il telefonino raccogliendo elementi rilevanti che hanno portato all’arresto dell’uomo. La protagonista di questa storia ha solo 11 anni e ha fatto tutto da sola. L’uomo si chiama don Michele Mottola, ha 60 anni ed è stato parroco a Trentola Ducenta fino al maggio di quest’anno, quando cioè è stato sospeso dalla diocesi di Aversa (Caserta) e sottoposto a un processo canonico tuttora in corso.
«È solo un gioco, non facciamo niente di male» si sente dire al sacerdote nelle registrazioni consegnate sei mesi fa dai genitori della bimba ai poliziotti del Commissariato di Aversa che ha avviato le indagini e informato la diocesi locale e la Procura di Napoli Nord. Pochi giorni fa si è tenuto l’incidente probatorio che ha messo la bimba e il prete uno di fronte all’altro e lei ha confermato che le violenze andavano avanti da tempo. Mentre don Mottola ha replicato dicendo che la minore stava farneticando. Questa linea difensiva che sembra ricalcare la visione dei bambini freudiana (seduttori, bugiardi e perversi per natura) non gli è bastata per evitare l’arresto – del resto sono anni che quella pseudo teoria è stata definitivamente confutata dalla scienza psichiatrica – e ora l’ex parroco è in carcere a Secondigliano, guardato a vista.
A molti dei nostri lettori probabilmente questa storia non risulterà ignota avendo ottenuto un ampio risalto anche sui media generalisti. E questa attenzione mediatica è davvero inusuale specie quando il presunto violentatore è un prete. Quanti sanno ad esempio che all’inizio di giugno don Vincenzo Calà Impirotta è tornato libero dopo che la Cassazione ha annullato per sopraggiunta prescrizione (soli 9 giorni…) la sentenza di condanna in appello a tre anni di reclusione che confermava quella di primo grado? E quanti sono a conoscenza del fatto che il processo canonico nei suoi confronti si è concluso a ottobre con…
Italian Minister of Defence Elisabetta Trenta gathers to an official ceremony on the first anniversary of the Morandi highway bridges collapse, in Genoa, Italy, 14 August 2019
ANSA/SIMONE ARVEDA
Imperdibile l’ex ministra Trenta. Tra l’altro è la stessa (vale la pena ricordarlo) che nello scorso governo qualcuno voleva rivenderci come l’unica che si opponeva, dura e pura, alle salvinate di Salvini. In un’intervista al Corriere della Sera la ministra si definisce sotto attacco per le notizie sulla sua abitazione da ministra che ha mantenuto dopo che è stata assegnata al marito, maggiore dell’esercito.
Mentre si sforza di fare apparire tutto normale sciorina una serie di affermazioni che fanno spavento: ci dice che ha una casa al Pigneto ma che quel quartiere è invivibile perché “si spaccia droga” (e chissà che gioia per gli abitanti del quartiere nel sapere che si spostano gli ex ministri, mica si combatte la droga), ci spiega che la sua vita è “diversa” per le “relazioni e gli incontri” (evviva tutti quelli che si stringono in estate per il barbecue) e conclude con un “la casa non è un privilegio”.
Ora, sia chiaro, il tema non è tanto il diritto o meno dell’assegnazione della casa all’ex ministra (tra l’altro indagherà la procura, appunto) ma l’aspetto sconcertante sta tutto nel modo in cui l’ex ministra decide di difendersi, lontano anni luce dalla retorica anti-casta con cui il Movimento 5 Stelle ha alzato la voce per anni e la ministra conclude addirittura rivendicando il pagamento di un affitto ridicolo (di circa 500 euro) per una casa in pieno centro.
Si torna al vecchio discorso dell’opportunità di certi atteggiamenti al di là della legalità. Solo che l’opportunità è un argomento sempre molto sottile e delicato. E se per anni l’hai trattato in modo grossolano è normale che alla fine ne vien travolto grossolanamente anche tu. Perfino Di Maio ha dovuto prenderne le distanze.
Del resto il senso della misura sembra non pagare politicamente di questi tempi. Ma la mancanza del senso della misura, si sa, prima o poi torna sempre indietro.
Un'immagine dell?equipe multidisciplinare che ha effettuato l?intervento, Cesena, 16 novembre 2019. All'ospedale Bufalini di Cesena un musicista con un tumore cerebrale è stato operato al cervello da sveglio, mentre eseguiva alcune melodie musicali al piano. Si tratta di un intervento eseguito nei giorni scorsi utilizzando la tecnica dell''Awake Surgery' (Chirurgia da sveglio) che consiste nell'operare il paziente in condizione di veglia con un duplice scopo: asportare la massa tumorale e, nel caso specifico, salvaguardare le abilità musicali.
ANSA/ AZIENDA USL DELLA ROMAGNA
+++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++
Grigie villette a schiera circondate da neri cancelli si alternano lungo le vie della nuova Hasankeyf, una uguale alle altre. Il loro colore spento si distingue appena dal marrone e dal giallo ocra della terra su cui sorgono, altrettanto anonima e priva di qualsiasi dettaglio in grado di catturare l’attenzione di chi la osserva. Le strade, appena asfaltate, non hanno ancora nomi e sembra siano state realizzate unicamente per essere percorse dal vento e dalla polvere. Tutto è immobile intorno a noi, non si sentono le risate dei bambini o le voci degli adulti, né i versi degli animali e tantomeno lo scorrere del fiume Tigri.
Siamo a soli tre chilometri da TurchiaTurchia, verde e viva, eppure sembra di essere su un pianeta lontano e inospitale. E per alcune persone lo è davvero.
«Non ho più una casa e non ne avrò una nuova qui nella nuova Hasankeyf. Per il governo non esisto, non ho gli stessi diritti di mio fratello e di altre donne del villaggio. Non ho un marito, non ho dei figli, quindi secondo le autorità non posso avere una nuova abitazione».
Diyana (nome di fantasia) ci racconta la sua storia mentre sediamo in veranda con un bicchiere fumante di chay tra le mani. Il velo colorato le copre i capelli e le incornicia il volto ancora giovane. Gli occhi, marroni e profondi, lasciano trapelare tutta la rabbia, la tristezza e il senso di impotenza che prova ogni giorno da quando il governo ha dato a lei e a tutti gli abitanti di Hasankeyf una data ultima entro cui lasciare il villaggio.
Diyana è solo una delle circa 80 mila persone che dovranno abbandonare per sempre le case di quelle 199 cittadine che sorgono lungo le sponde del fiume Tigri, nel Sud-est della Turchia, e che ben presto saranno sommerse dalle acque della diga Ilisu. Il governo turco…
Nel centenario del “biennio rosso” torinese, arriva in libreria Antonio Gramsci. L’uomo filosofo (Aipsa edizioni) di Gianni Fresu che, dopo un dottorato di ricerca all’Università di Urbino, è professore di Filosofia politica in Brasile all’Universidade federal de Uberlândia. A partire dal titolo del libro, che richiama un tema fondamentale dei Quaderni gramsciani, gli proponiamo di commentare alcuni aspetti della sua ricerca.
L’espressione “ogni uomo è filosofo” implica la fondamentale certezza di quello che Gramsci nel Quaderno 7 definisce «sentimento» di «uguaglianza naturale cioè psico-fisica» di tutti gli esseri umani, poiché «tutti nascono allo stesso modo»: una proposizione rivoluzionaria, che prefigura trasformazioni sociali e politiche mai come oggi inattuali, eppure necessarie.
Questa espressione sintetizza l’idea di emancipazione umana in Gramsci, intesa non solo come abolizione delle contraddizioni sociali che impediscono l’effettiva uguaglianza tra gli uomini, ma come sovvertimento della gerarchia che divide l’umanità in dirigenti e diretti, contrapponendo lavoro intellettuale e lavoro manuale: una frattura innaturale, frutto di un lungo processo di divisione e specializzazione del lavoro.
Presentare il sapere, la filosofia, la politica come materie troppo complicate e inaccessibili per i «semplici» ha per Gramsci la funzione di porre la necessità di una casta incaricata di amministrare le funzioni intellettuali, capace di rendere invalicabile il confine tra lavoro manuale e intellettuale fino a rendere insuperabile la condizione di subalternità delle masse popolari.
Il giovane rivoluzionario, il dirigente politico, il teorico: la partizione del libro rinvia a tre fasi della vita di Gramsci, inserendole allo stesso tempo in un quadro di profonda continuità di cui alcuni temi, come la cultura proletaria, costituiscono il filo conduttore di fondo.
La questione dell’utilizzo strumentale dei «semplici» da parte delle classi dirigenti è il filo rosso che…
Pope Francis (Rear C), cardinals and bishops take part in a liturgical prayer within the third day of a landmark Vatican summit on tackling paedophilia in the clergy, on February 23, 2019 at the Vatican. ANSA/Vincenzo PINTO / POOL
In Italia si stima che un quinto degli immobili di culto e non siano di proprietà della Chiesa cattolica. L’esenzione Imu di cui beneficia in virtù del Concordato ammonta ad oltre 600 milioni di euro l’anno. Senza poi considerare i circa 200 milioni di euro l’anno di benefici per le concessioni gratuite (o quasi) di beni immobili statali adibiti ad edifici di culto, comprensivi dei costi (a nostro carico) per il loro mantenimento. Sono i dati dell’inchiesta dell’Uaar sui fondi pubblici e le esenzioni di cui gode la Chiesa cattolica. Cifre esorbitanti, che più volte abbiamo ricordato ai nostri lettori (v. Left del 16 febbraio 2018). E che stridono – o forse risuonano, dipende dal punto di vista – con l’atteggiamento di chiusura che diverse curie d’Italia nutrono verso chi, nei molti immobili sfitti di proprietà ecclesiastica, trova rifugio.
Dal Nord a Sud, accade che i prelati prediligano il business all’accoglienza di persone in difficoltà economica. E così, le emergenze abitative vengono “misericordiosamente” affidate all’intervento poliziesco della celere, e “risolte” a suon di sgomberi. Di seguito, vi proponiamo una mappa delle curie che apprezzano le ruspe. Ruspe sante, sia ben chiaro, alimentate a “fede” nella proprietà privata e “amore” per l’esclusione sociale. Con buona pace di…
Pope Francis Looks UP during his weekly general audience in St. Peter's Square, at the Vatican, Wednesday, Nov. 13, 2019. (Photo by Massimo Valicchia/NurPhoto via Getty Images)
Il Corsera sembra andare in soccorso del capo leghista riesumando il cardinal Ruini, che raccomanda: «La Chiesa dialoghi con Salvini, ha notevoli prospettive davanti a sé». Il suo uso e abuso del rosario in politica? «Un modo per affermare il ruolo della fede», dice il cardinale che, da capo della Cei, lanciò una campagna a tappeto per far fallire il referendum del 2005 sulla Legge 40/2004; a tutto danno dei diritti e della salute delle donne. All’epoca, con papa Ratzinger, tuonava contro il progresso scientifico e si lanciava alla re-conquista della penisola spacciando la dottrina religiosa come antropologia. Sul Messaggero, ora, a Ruini risponde l’attuale capo della Cei, Bassetti, rivolgendosi ai «laici responsabili», salvo poi lanciarsi nella difesa della linea dura dei valori non negoziabili, tuonando contro l’eutanasia e ribadendo che «l’antropologia cristiana è nell’interesse di tutti».
Discorsi a zig zag, per confondere e irretire, andando a caccia di sponde fra i politici genuflessi a destra come nel centrosinistra. Ma il Paese reale presta poco ascolto. O almeno lo fa sempre di meno, stando a quel che emerge anche da un report di cui ha scritto su La Stampa la direttrice del Dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali dell’Istat, Linda Laura Sabbadini. Ci ha colpito molto un dato: oggi la secolarizzazione avanza sempre più rapidamente fra le donne, segno di un’emancipazione femminile sempre più forte. Per saperne di più siamo andati a disturbare la dirigente dell’Istat che in questi giorni si trova a New York. Balza agli occhi un fatto abbastanza eclatante, le diciamo: per la prima volta in Italia il numero delle persone che non vanno in Chiesa supera quelle che ci vanno regolarmente (rispettivamente il 25,9% e il 25%).
«Il calo della pratica religiosa regolare, cioè almeno una volta a settimana, è in atto da molti anni. I dati dell’Istat permettono di analizzarlo dagli anni Novanta», precisa Sabbadini. Ma ecco l’elemento nuovo: «Mentre prima a fronte di questo calo si assisteva a…