Home Blog Pagina 553

Trenta pesos e trent’anni di abusi

Alle 22 del 20 ottobre 2019 gli orologi del Cile, in un paranoico viaggio a ritroso nel tempo, hanno iniziato a segnare la stessa ora illegale del 1973: quella del coprifuoco. Il più grande poeta cileno vivente, Raúl Zurita, di famiglia italiana, voce indomita ed essenziale per capire ogni società ispanoamericana dalle dittature a oggi, definisce il proprio Paese «arrivista, egoista, insolidale, culturalmente sottomesso». Perché l’Italia non sa nulla e non dice nulla del Cile odierno, di quella terra in cui vive quasi un milione di discendenti italiani dei nostri emigrati di fine Ottocento? Perché il Parlamento europeo boccia la proposta di dibattito su quanto sta accadendo a Santiago? Probabilmente perché in quell’arrivismo, egoismo, insolidarietà e sottomissione culturale ci riconosciamo, e quando ci si specchia nell’incontenibile esasperazione dell’altro è meglio distogliere lo sguardo, ché magari ci si contagia. E così del frenetico succedersi di avvenimenti a Santiago e nel resto del Paese da inizio ottobre, in Europa arriva solo il debole eco della tiritera dei luoghi comuni della violenza, e ci si limita a fare da cassa di risonanza ai media allineati col governo di destra del presidente Sebastián Piñera: «Siamo in guerra». Una guerra inesistente. Una guerra dell’esecutivo contro se stesso, semmai, contro la propria incapacità assoluta di comprensione e gestione delle proteste: «Piñera non riconosce, non capisce la portata di quel che è successo al Paese, e lo crede controllato da Cambridge Analytica o da un nemico oscuro e poderoso», dice lo scrittore e regista Diego del Pozo.

La moglie del presidente, Cecilia Morel, in un audio a un’amica filtrato sui social attribuisce la responsabilità delle proteste addirittura all’intervento di forze extraterrestri: «Tutto ciò ci supera completamente, è come un’invasione di alieni e non abbiamo gli strumenti per combatterla. Ci toccherà limitare i nostri privilegi». E proprio dai privilegi dei pochi, anzi, di pochissimi, bisogna partire per arrivare a quel salto di massa dei tornelli della metro da parte di studenti universitari e del liceo, dopo che il 4 ottobre il ministro dei Trasporti annunciò il rincaro dei biglietti, invitando la popolazione ad «alzarsi dal letto prima, per godere della tariffa agevolata». «Non pagare è un modo di lottare», rispondono per la prima volta, all’unisono, gli abitanti di un Paese presentato finora come prospero e stabile dagli indicatori internazionali del capitalismo selvaggio che in realtà lo tiene asservito. Galo Ghigliotto, scrittore, editore e sceneggiatore, scrive che «il 33% dell’utile generato dall’economia cilena finisce nelle mani dell’1% della popolazione e, a sua volta, il 19,5% di quell’utile va a parare nelle tasche dello 0,1% dei ricchi più ricchi». Funziona così da trent’anni. «Iniquità e violenza sono eredità della dittatura e hanno trovato terreno fertile nel trattamento che il governo di destra di Piñera riserva ai cittadini. La Costituzione del 1980 è stata fatta per implementare il modello neoliberale e per proteggerlo, per favorire e tutelare con l’uso della forza i privilegi della classe politica e imprenditoriale», aggiunge Ghigliotto.

In Cile si è privatizzato tutto il privatizzabile: educazione, sanità, pensioni, settore minerario (maggiore produttore di rame del mondo, il Cile ha anche grandi risorse di litio, solo per citare due minerali fondamentali al nostro sviluppo tecnologico e industriale); l’affitto di un bilocale a Santiago costa in media 495 euro, ma lo stipendio minimo è di 373; ben il 30% del salario dei meno abbienti, in una città enorme come Santiago, viene destinato alle spese di trasporto, e quest’anno ci sono già stati rincari per elettricità, acqua e gas; la settimana lavorativa è di 44 ore; Wallmapu, il territorio Mapuche, è stato completamente militarizzato e qualsiasi scusa è buona per incriminare i nativi; la legge sull’aborto continua, tra mille altre costrizioni, a privare di libertà le donne; l’indice di suicidi tra adolescenti e anziani è molto alto: impossibile resistere a tanta spaventosa precarietà, a tanta violenza. È stata questa la spinta sociale a far saltare i tornelli e provocare «un’esplosione inorganica e del tutto cittadina, priva di direzione politica: nessuno l’ha organizzata», racconta Nona Fernández, scrittrice molto apprezzata in Italia e autrice de La dimensione oscura (Gran vìa) un capolavoro del XXI secolo che rianalizza e ricostruisce la dittatura attraverso i gesti e i pensieri di un torturatore.

Limitarsi a guardare le immagini della violenza nelle strade «generata in gran parte dai militari e attribuita al “lumpen”- continua Fernández – significa non rendersi conto che il “lumpen” è scaturito da anni e anni di liberalismo. Il “lumpen” non va assolto dalle proprie responsabilità ma è anch’esso vittima di questo sistema schifoso in cui siamo immersi e che ci obbliga a volere sempre qualcosa, e poi qualcos’altro e qualcos’altro ancora». Sotto la tensione sociale sanguina la memoria storica: non sempre è vero che le ferite si curano lasciandole aperte. «Della dittatura non c’è stata riparazione sufficiente; Pinochet è morto da senatore a vita e il suo feretro è stato vegliato come ex comandante in capo nella Escuela Militar de Chile, mentre migliaia di famiglie ancora oggi non sanno nulla di dove si trovino i resti dei loro cari, oppure se li vedono recapitare a pezzi e in consegne successive, come nel caso del giornalista Carlos Berger», aggiunge Ghigliotto.

La disunione della sinistra ha favorito il ritorno di Piñera alla guida del Paese; i media cileni, inoltre, sono in maggioranza controllati da gruppi economici affini al governo, e anziché dar conto onesto delle cause dell’esacerbazione sociale hanno puntato il dito e le telecamere sui saccheggi ai supermercati, alle farmacie e alle casse automatiche delle banche, quando la protesta è dilagata: nessuno ha detto che, nel mentre, la polizia era impegnata a proteggere i quartieri ricchi della città. L’esercito nelle strade, il coprifuoco, la dichiarazione dello stato di emergenza sono i simboli del madornale errore di Piñera, la molla che nei ricordi dei cileni ha riportato indietro di trent’anni le lancette dell’orologio della memoria e ha inasprito gli animi. D’altra parte questo è un governo di parentame e di saldi legami con la dittatura del ’73: sono parenti il presidente Piñera e il ministro dell’Interno Chadwick (lui e altri membri dell’esecutivo furono collaboratori di Pinochet) e a loro volta hanno parenti che si cibano della prelibata torta delle privatizzazioni. Un 49% dei cittadini non votò per la destra alle ultime elezioni e Piñera riuscì a intercettare il voto delle fasce della popolazione meno politicizzata agitando il fantasma del “Cilezuela”. «Tutto è più trasparente, ora, in Cile», dice la scrittrice María José Ferrada, della quale è uscito da poco in Italia Kramp (Edicola Ediciones) una storia di ribellione agli schemi che trova nuovo vigore alla luce delle proteste di questi giorni. «È saltata per aria l’immagine di Paese stabile che finora si proiettava fuori dai nostri confini. Continuare ad accettare le cose come abbiamo fatto finora ci faceva più male dei lacrimogeni».

La rete e i social sono stati fondamentali per raschiare via la patina della perfezione; il motore della macchina del fango in questo caso erano i giornali, la televisione e la radio vicini al potere. In un ultimo, pindarico ed estremamente ridicolo tentativo di appropriarsi della protesta che ha unito un milione e mezzo di persone solo a Santiago, Piñera ha dichiarato «vogliamo tutti un cambiamento», ed ha annunciato un tardivo rimpasto di governo e il blocco degli aumenti, che verrà compensato da una redistribuzione delle risorse. Non toccherà gli imprenditori quindi, lascerà tranquille le élites e, di conseguenza, nelle strade non cambierà nulla, dice ancora Nona Fernández: «Nessuno vuole fermarsi né recuperare alcun tipo di normalità, perché ora abbiamo un’opportunità storica: cambiare la Costituzione, averne finalmente una che garantisca i diritti di tutti i cittadini, non solo quelli delle aziende e dei loro proprietari. Vogliamo cambiare l’intera scacchiera su cui si sta giocando da trent’anni».

Non possiamo dimenticare i morti causati dalla brutalità della repressione della protesta; le stime ufficiali parlano, al momento, di 19 persone, ma altri dati elevano il numero a oltre 200. Si stanno verificando inoltre un gran numero di incendi apparentemente incontrollati, e tra quelle macerie appaiono cadaveri che si sospetta l’esercito scaraventi lì per sbarazzarsene. Secondo il dossier elaborato dall’Istituto nazionale dei diritti umani, il 25 ottobre i detenuti erano 3.162, dei quali ben 545 donne e 343 bambini, bambine e adolescenti. Quindici le denunce presentate per violenza sessuale. La repressione in provincia sembra sia stata molto più feroce che a Santiago. Cosa si fa, cosa possiamo fare, tutti, ora? «La protesta rappresenta il ritorno alla consapevolezza dell’importanza del senso di comunità», spiega Paolo Primavera di Edicola Ediciones, una casa editrice con radici sia in Italia che in Cile. «Questa è una lezione per molte società: cancellando l’egoismo possiamo essere il motore di ogni cambiamento auspicabile», aggiunge. «Quel che succede là fuori, a Hong Kong, a Beirut, in Siria, a Caracas, ci riguarda e ci tocca da vicino, perché siamo tutti collegati. La fragilità e la vulnerabilità ci hanno reso più forti, ci hanno risvegliati», conclude la scrittrice Lola Larra. È senz’altro il momento di girare la frittata, come cantavano i Quilapayun negli anni 60, «que la tortilla se vuelva que los pobres coman pan y los ricos mierda, mierda»; e magari di smentire perfino il grande Zurita, contrastare la disinformazione e fare in modo che né l’Italia né l’Europa distolgano lo sguardo dal Cile e da se stesse.

“In her footsteps”: il messaggio di pace di Rana Abu-Fraiha, regista arabo-israeliana

L’Italia si è arricchita di un terzo festival del Cinema dedicato alle donne regista, dopo Firenze e Milano. Si tratta di DocuDonna a Massa Marittima, organizzato da Cristina Berlini, regista anche lei, napoletana, che abita in Toscana da dodici anni dopo aver trascorso dieci anni ad Amsterdam. Dal cospicuo materiale ricevuto ha selezionato, con l’aiuto di Silvia Lelli, documentarista e antropologa dell’Università di Firenze, dieci opere rilevanti per tematiche sociali e antropologiche, proiettate in una tre giorni di fine ottobre.

Ha ottenuto il Premio DocuDonna 2019 per il Miglior documentario internazionale la regista arabo-israeliana Rana Abu-Fraiha, che ha presentato In her footsteps (2017, Israele).
Quando si accendono le luci in sala, dopo la proiezione, la giovane regista chiede che alzino la mano le mamme; poi che facciano lo stesso le figlie. Poi pone una domanda collettiva «Vi siete riconosciute?», iniziando un dialogo spontaneo e fresco, proprio come è lei. Ma il film, a tratti molto doloroso, riguarda ben più del rapporto madre-figlia.

Rana Abu-Fraiha ha iniziato a girarlo nel 2012, cinque anni dopo l’apparire del cancro che ha continuato a tormentare sua madre per altri cinque lunghi anni. Le riprese documentano l’avanzare della malattia e insieme del dolore fisico, senza mai scadere nel voyerismo, sorrette come sono dalla ricerca che lei ha scelto di fare, aiutata dal mezzo cinematografico, su questa donna eccezionale, il loro rapporto e il processo di separazione da lei. Con una ulteriore complicazione. Il desiderio della madre di essere seppellita nel cimitero di Omer, la città ebraica dove vive da quando si è sposata e dove ha allevato le figlie e il figlio, facendoli studiare alla scuola pubblica, non può essere esaudito, secondo gli impiegati del Comune.

Lo testimoniano nel film telefonate incrociate, a varie riprese, dove da ambo le parti c’è sempre un civile confronto. In una scena lei telefona ponendo il problema, in una successiva ascolta il diniego. Proseguendo nel film, ci apriamo alla speranza per le parole della seconda sorella, che pare aver ottenuto questo permesso. Ma poi la delusione: per una musulmana che ha scelto di vivere in una città ebraica non ci sono gli stessi diritti dei suoi concittadini. La invitano a fare domanda al paese natio del marito, il villaggio beduino di Tel Sheva (Israele), soluzione inaccettabile per lei che si è allontanata dalla società di provenienza , per sfuggire ad un’educazione che sottomette le donne alla legge del padre.

Una scelta che, ce lo dicono alcuni dialoghi nel documentario, il marito ha accettato per amore, mentre ha causato alle figlie di dover fronteggiare durante la loro crescita un problema identitario più grande di quello comune a tutti gli adolescenti.

Però i video girati dal padre, che mostrano la mamma con i bambini piccoli, sono teneri, a tratti spiritosi, e rivelano l’armonia e la serenità familiare in cui sono cresciuti. E insieme svelano da chi ha preso “il vizio” di filmare fin da piccola la regista. Il padre le rivela in una scena del film che, non avendo neppure una foto della sua infanzia, si è attrezzato per fornire ai suoi figli dei filmati girati durante la loro fanciullezza. Questi, inseriti come flashback, alleggeriscono il racconto e ci danno conferma della bontà di una scelta materna di separazione dal luogo nel quale si è trovata a nascere, di cui non condivideva il pensiero dominante. Vero è che il coraggio le è venuto anche dall’incontro con l’uomo di cui si innamora e che poi sposa. E infatti, alla domanda «Qual è il tuo sogno?», risponde a sua figlia «Che tu trovi il compagno giusto».

La volontà di sepoltura della madre non va scambiata per un problema religioso. È, al contrario, testimonianza del fatto che lei crede nell’uguaglianza fra diversi. Non è stato il luogo di nascita ad impedirle la scelta di integrarsi in una nazione considerata ostile dalla sua gente, non deve essere la religione ad impedirle di essere ricordata dove ha vissuto. Un semplice ma profondo messaggio di pace maturato nella quotidianità.

La regista che ci sta davanti in sala, dalle risposte ci rivela una libertà di pensiero e un coraggio che fanno onore alla scelta della madre, rendendone la morte ancor più drammatica.

Rana Abu-Fraiha è oggi una regista di successo. Oltre il premio ottenuto a Massa Marittima, ne ha collezionati molti altri per questo stesso film. Premio Van Leer per il miglior regista di documentario (2017) Premio miglior regista di documentario al Festival del cinema ebraico (2018), per citarne due. Ma anche la carriera delle sorelle non è da meno: la sorella piccola dirige un ristorante giapponese in Oriente, la seconda è stata accettata come medico di pronto soccorso in un’équipe israeliana. Donne realizzate, dunque, in contesti internazionali.
L’ultima scena, con un’immagine forte e melanconica ad un tempo, aggiunge un monito alla storia e svela l’origine del titolo: quando scompare una persona che è stata propulsiva per la vita di tutti i suoi cari, non rimane che continuare a camminare nel tracciato da lei creato. Uscirne porterebbe a perdersi.

Il ministro Fioramonti: Non basta evitare tagli, urge investire in istruzione e ricerca

LORENZO FIORAMONTI MINISTRO ISTRUZIONE

Anche in epoca di crisi, nel 2008, la Germania e altri Paesi europei hanno investito nella scuola e nell’università come volano di sviluppo, non così in Italia. All’epoca di Berlusconi furono drasticamente tagliati i fondi alla scuola e alla cultura. E da allora non c’è stato alcun reintegro.

Ministro Fioramonti, lei più volte ha posto la questione dei fondi per la scuola e per la ricerca, come settori strategici per il futuro dei giovani e per la crescita democratica del Paese. È urgente un cambio di rotta?
È più che urgente. È necessaria un’importante inversione di tendenza. Questa sensibilità nel nuovo esecutivo l’ho colta, ma ora servono i fatti. Risorse. Stanziamenti. È vero: i grandi Paesi in Europa hanno investito nell’istruzione e nella ricerca, con il risultato di una spinta decisiva alla loro economia. Investire sulla formazione non incide solo sul prodotto interno lordo, ma anche sulla qualità di quello che si fa e si produce. Non c’è futuro senza un’economia della conoscenza. Aver tagliato i fondi all’istruzione ha reso l’Italia meno reattiva alle sfide contemporanee, dallo sviluppo tecnologico alla riconversione industriale in senso sostenibile. Per questo ogni giorno mi batto per incrementare gli stanziamenti. A Bruxelles, dove sono stato recentemente per la riunione del Consiglio dell’Unione Europea sull’educazione, anche tutti i ministri delle Finanze hanno convenuto su come sia indispensabile investire in formazione e ricerca. Prendendo spunto da questo, se è l’Europa che indica questa strada, bisogna che consenta a tutti i Paesi di avere…

L’intervista di Simona Maggiorelli al ministro Fioramonti prosegue su Left in edicola dal 15 novembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

La cassetta degli attrezzi della speranza

Una mobilitazione in contrapposizione alla manifestazione della Lega nata via social che ha richiamato in Piazza Maggiore, nel cuore di Bologna, migliaia di persone, 14 novembre 2019. Tutte, sfidando la pioggia, con una sardina, vera, disegnata, stampata su una maglietta, su un cappello o su un cartellone. Ben più di 6mila bolognesi, numero che dava il titolo al flash-mob ideato da un gruppo di giovani dal titolo "Bologna non si lega", alle 20.30 si sono presentati in Piazza Maggiore per salire stretti come 'sardine' sul Crescentone, all'ombra di San Petronio, per protestare pacificamente contro la convention leghista al Paladozza ANSA/UFFICIO STAMPA ZINGARETTI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Ci sono due blocchi contrapposti. Anzi, a dire la verità ce n’è uno che esercita la sua egemonia culturale e dall’altra parte quelli che provano a rispondere ricadendo nella stessa malefica retorica: in Italia, in Europa e in un pezzo del mondo la gente ha scelto (più o meno consapevolmente) di farsi guidare dalle paure, dagli orrori percepiti (non importa se siano o meno reali) e dalle emergenze costruite. In pratica significa svegliarsi ogni mattina con la brama di difendersi, anche se non si sa bene esattamente da cosa e da chi, rimanendo sempre in difesa, spremendosi in un arroccamento sempre più duro e sempre più ristretto, convinti di non avere occhi e energie per nient’altro che non sia la preservazione di se stessi. Il risultato è semplice: un Paese contrito, infeltrito, che sogna gabbie e che si incattivisce per proteggersi. Ecco.

L’opposizione si scorge anche semplicemente rovesciando le parole. Immaginate gente che decida di farsi guidare dalla speranza, al contrario della paura: gente che ogni mattina si svegli respirando a larghe falcate verso il progetto di futuro, allargandosi alle possibilità, aprendosi alle interferenze vissute come occasioni, impegnata a essere più larga possibile per non perdere nemmeno un particolare.

Solo che per apparecchiare ogni mattina una speranza serve una cassetta degli attrezzi già pronta ai bordi del letto: contiene fiducia, prospettive più lunghe della probabile paga al massimo fino a fine mese, la sensazione di potersi fidare di una giustizia sociale, la certezza di potersi appoggiare a un solido sistema sociale. La cassetta degli attrezzi per architettare la speranza è la risposta politica a questo tempo lugubre. Non serve urlare quanto siano brutti e cattivi quegli altri: tocca esercitare alternativa.

Ieri a Bologna è accaduto esattamente questo: c’era il palazzetto leghista che ha soffiato sulla paura (mentre Zaia lasciava annegare Venezia per tenere sorridente un cartello in mano sul palco bolognese, a fare la majorette per il suo padrone) e c’era la piazza strapiena di gente che fieramente vuole essere alternativa. Solo che a quella gente, quella che manifestava per contarsi e per contare alla faccia di Salvini, bisogna offrire la cassetta degli attrezzi. In fretta. In modo credibile.

Questo manca.

Buon venerdì.

La Cassazione ha bocciato il decreto di Salvini, ma lui non lo sa

ROME, ITALY - NOVEMBER 10: Demonstrators hold signs during a demonstration in Rome, on November 10, 2018 in Rome, Italy. The Security Decree Bill 'Decreto Sicurezza' tightening immigration policy and championed by far-right League leader and Deputy Prime Minister Matteo Salvini was passed comfortably in the senate earlier this week. 20000 people from all over Italy gather together in Rome under the slogan 'United and in solidarity against the Government, racism and the Salvini Decree' (Photo by Awakening/Getty Images)

«La Corte di Cassazione dà ragione alla Lega: per avere il permesso di soggiorno per motivi umanitari non basta dimostrare di essersi ‘integrati’. Alla faccia di quelli che riaprono i porti e che vogliono cancellare i decreti sicurezza». Questo il commento di Matteo Salvini alla sentenza della Cassazione che ha accolto un ricorso presentato dal Viminale stabilendo che le richieste di permesso di soggiorno per motivi umanitari di tre migranti, due di origine gambiana e un bengalese, siano nuovamente esaminate.

Peccato che quanto dice l’ex ministro dell’Interno non sia vero: la Corte di Cassazione non dà ragione alla Lega, anzi, boccia sostanzialmente lo spirito e l’interpretazione dei “suoi” decreti Sicurezza. Vediamo perché.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha stabilito la non retroattività del primo decreto sicurezza, per cui tutte le domande di protezione umanitaria presentate prima del 5 ottobre 2018, quando cioè il decreto è entrato in vigore, dovranno essere esaminate alla luce della normativa allora vigente. Insomma, non si tratta certo di una conferma della “linea dura” di Salvini sull’immigrazione, che anzi viene parzialmente demolita, perlomeno per i migranti che hanno chiesto all’Italia di valutare lo status di protezione internazionale prima dell’entrata in vigore della norma.

Inoltre, la Corte ha stabilito che il solo dato di esseri socialmente ed economicamente inseriti in Italia non basta per concedere ai migranti il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ed è necessario anche valutare la “specifica compromissione” dei diritti umani nei rispettivi Paesi di origine. Una decisione che ricalca una precedente sentenza della Cassazione, quella del 23 febbraio 2018, la 4455/2018, che indicava come parametro per il riconoscimento della protezione umanitaria la comparazione tra la condizione del richiedente asilo in Italia e la condizione di vulnerabilità cui era esposto il richiedente nel Paese d’origine. Tale decisione però, al contrario di quanto sostiene la propaganda delle destre, non ha nulla a che vedere con l’impianto dei decreti sicurezza.

«Colpisce innanzitutto il totale capovolgimento di senso della sentenza da parte della stampa vicina al precedente governo – dice a Left Fulvio Vassallo, giurista e attivista per i diritti dei migranti – la quale, piuttosto che mettere in evidenza la sconfitta totale della linea della retroattività del decreto Salvini, si punta su un’affermazione della Corte che non è neanche nuova. Già in passato si era messo in rilievo come il criterio dell’integrazione sociale non possa essere considerato in modo isolato ma vada rapportato alla situazione della persona nel Paese di origine».

«I presupposti della protezione umanitaria – prosegue Vassallo – sono molto più ampi di quelli richiesti per la sussidiaria e per l’asilo e non si basano su una situazione di pericolo che corre la persona ma su una comparazione tra la situazione che ha la persona giunta in Italia e quella che sarebbe la situazione di questa persona se venisse riportata nel Paese di origine. La protezione umanitaria, evidentemente, alla luce di questa sentenza, va riconosciuta con gli stessi requisiti a tutte le persone che hanno fatto richiesta di protezione prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini».

La comparazione dell’integrazione sociale del migrante con la situazione della persona nel Paese di origine, insomma, è una forma di tutela giuridica per i profughi che trovano rifugio nel nostro Paese, e la conferma da parte della Suprema corte di questa garanzia non ha nulla a che vedere con l’impianto delle politiche migratorie della Lega.

«Le Sezioni Unite – si legge in una nota chiarificatrice diramata dall’Asgi – hanno confermato l’approdo cui era giunta la storica sentenza n. 4455/2018 (seguita da moltissime altre), che ha valorizzato l’integrazione sociale, in attuazione dell’art. 2 della Costituzione e dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, affermando la necessità di compararla con il rischio di violazione dei diritti fondamentali in caso di rientro nel Paese di origine. Diritti che non costituiscono un catalogo chiuso bensì aperto»

«L’insicurezza provocata dal decreto legge n. 113/2018 – prosegue la nota – è stata oggi in parte attenuata grazie alla Corte di cassazione e ora le Commissioni territoriali si potrebbero trovare a dovere riesaminare migliaia di richieste per le quali, dal 5 ottobre 2018, si sono astenute dall’esaminare anche la protezione umanitaria, con ulteriore danno alle finanze pubbliche». E, soprattutto, con danni verso coloro che avevano diritto ad essere protetti dal nostro Paese.

Ma la sentenza della Cassazione non può certo essere un punto di arrivo per chi da sinistra lotta contro le politiche disumane contro chi scappa da guerre e persecuzioni. «Per il futuro – ricorda ancora Vassallo – rimane da valutare quanto questo decreto sicurezza sia conforme all’articolo 10 della Costituzione, dal momento che la protezione umanitaria, che il decreto abolisce, in realtà, secondo la stessa Corte di Cassazione, era applicazione diretta di quell’articolo».

Quel pasticciaccio brutto del Mose di Venezia

VENICE, ITALY - NOVEMBER 12: A policeman watches a tourist walking in the water near the Rialto bridge on November 12, 2019 in Venice, Italy. High tide, or acqua alta as it is more commonly known, stood at 126 centimeters this morning. (Photo by Stefano Mazzola/Awakening/Getty Images)

Galosce, cosciali, stivali waders, persino goldoni, parole che non fanno parte del vocabolario comune ai cittadini italiani, ma di quello dei veneziani sì. La minaccia delle maree è sempre stata parte della storia di questa città, e nel corso dei secoli si può dire che abbia contribuito a plasmare la forma mentis degli abitanti, inclini a rialzarsi di fronte ad ogni tragedia o calamità naturale. Di per sé la capacità che la città ha di far fronte da sola alla spinta inesorabile delle acque è qualcosa di innegabilmente poetico, la fa sembrare una guerriera imperturbabile, che sfida a mani nude qualcosa di molto più grande di lei, ma come per un’eroina tragica il finale più scontato è quello di soccombere.

La sua capacità di resistenza varia di molto a seconda del livello che le acque raggiungono su quello di medio-mare, se è vero che le acque fino ai +80 cm non sono così rare, sono quelle sopra i 110 cm ad essere disastrose. Raggiunto quel livello anche le paratie che servono per camminare in giro per le calli e le vie dell’isola vengono tolte, in quanto inutilizzabili. Il disastro è una questione di trenta centimetri. È in quei trenta centimetri che cambia tutto. Se passa quelli, l’acqua supera le paratie di negozi, entra in alberghi, bar e abitazioni situate al pianterreno, provoca disastri. Il sale non perdona niente, non è come un’allagamento d’acqua dolce; penetra nelle cose, si deposita all’evaporazione dell’acqua, rompe i motori delle pompe, fa saltare i mosaici, quel che tocca distrugge.

La gravità del problema è nota già dal secolo scorso, dopo la tragedia del 1966, la più grande piena storicamente verificata. Anche in quel caso, il problema non era solamente locale, ma riguardava l’intera penisola italiana. In quel terribile novembre andarono sott’acqua anche le campagne del Nordest con la tristemente celebre alluvione del Piave, ed è difficile togliersi dalla memoria le foto d’archivio del centro di Firenze sommerso da un Arno straripante. L’acqua a Venezia il 4 novembre 1966 toccò quota +194cm, fu un disastro. Alla piena di ieri mancavano solo 7 cm.

Nel 1973, sulla scia di quella catastrofe, venne varata la Legge speciale per Venezia. La n° 171 “Interventi per la salvaguardia di Venezia” che tentava di affrontare in maniera organica le diverse problematiche legate alla salvaguardia della città lagunare ponendole come obiettivo di interesse nazionale.

L’idea del sistema Mose nasce anche da lì. “Modulo sperimentale elettromeccanico”, ovvero un sistema di 78 paratoie mobili divise in quattro schiere, poste alle bocche di accesso alla laguna di Venezia, composte da strutture scatolari metalliche cave al loro interno, agganciate a dei cassoni di alloggiamento posti sul fondo del mare tramite cerniere che ne consentono il movimento: quando non in uso giacciono sul fondale piene d’acqua, altrimenti questa viene fatta uscire tramite pompe ad aria compressa. L’idea è quella di proteggere la città e la laguna da piene eccezionali, senza creare una barriera fissa, che danneggerebbe in maniera irreparabile l’intero ecosistema lagunare in modo da preservare Venezia, Chioggia e le altre isole lagunari, oltre che il patrimonio storico, artistico e ambientale.

Un elemento già funzionante, pur parte di un’opera molto più grande, c’è. Nel suo piccolo, il Baby Mose ripara il centro di Chioggia, isolando il canale principale del centro storico, il Vena, dalla laguna in caso di acqua alta. La struttura entra in funzione a +90cm di acqua sul medio mare e ha capacità di azione fino ai +130cm, oltre quel limite non ha più effetto perché il testimone dovrebbe passare al fratello maggiore, il MoSE vero e proprio, che però, a distanza di decenni non è ancora stato attivato.

Se da una parte in queste ore c’è un grande richiamo trasversale all’unità nazionale, esiste anche un detto e non detto, uno scaricabarile di responsabilità che si sente mormorare tra comune, regione e Stato. Se ora l’intero Consorzio Venezia Nuova (concessionario del ministero delle Infrastrutture per la realizzazione del Mose, ndr) è commissariato, e la sua gestione è di conseguenza statale, tanto che lo stesso comune, a detta del sindaco Luigi Brugnaro si sentirebbe quasi “escluso” dalla vicenda, verrebbe sommessamente da segnalare che se si è arrivati a tanto è perché sia a livello comunale (giunta Orsoni, ex sindaco accusato di finanziamento illecito e poi prosciolto causa prescrizione) sia a livello regionale (ex governatore Giancarlo Galan, che patteggiando riesce ad ottenere uno sconto di pena considerevole per le accuse di corruzione, assieme alla confisca di beni per il valore di circa 2,6 milioni di euro). A destra e a sinistra, nel corso degli anni il Mose, presentato come un’opera strategica per la salvaguardia dell’interesse pubblico, è diventato una mangiatoia per politica e impresa. L’intera vicenda ha l’odore acre e marcio di decenni di sprechi, agitazioni, polemiche, rinvii, manette, dimissioni, commissariamenti.

I ritardi legati alle maxi-inchieste per corruzione e agli arresti che ne sono seguiti hanno allungato ancora di più il termine ultimo di consegna dei lavori, che ora sembra slittato in avanti anche se i pareri rimangono discordanti sul quando. Alcune dichiarazioni parlano di 2020, c’è chi dice che è fantascienza, chi più realisticamente azzarda un 2021 o un 2023. Il tutto per un’opera la cui costruzione è iniziata nel 2003, e che, alle stime attuali, risulta costata complessivamente tra i 5 e i 7 miliardi di euro.

E qui uno dice, almeno funzionasse, invece il problema sta anche nella parte già completata finora del progetto. Il 4 novembre scorso, data simbolica della tragedia del 1966, la barriera della bocca di porto di Malamocco avrebbe dovuto essere sollevata in prova. La cerimonia è stata annullata a pochi giorni dall’evento. Il 21 e 24 ottobre gli operatori riscontrano delle vibrazioni anomale in alcuni tratti delle tubazioni di scarico. Nella bocca di porto del Lido al primo test di sollevamento nel 2016 le paratoie non sono più riuscite a rientrare nei loro alloggiamenti. Troppi sedimenti accumulati alla base delle barriere. Ad agosto le paratoie di Chioggia sono state sollevate senza problemi ma alcuni deputati del Movimento 5 Stelle delle commissioni Ambiente e Lavori pubblici hanno denunciato l’assenza di un collaudo delle enormi cerniere. Imbarazzo generale.

Esiste una misura tutta italiana di arrivare quando la situazione è ormai tragica, le tragedie non sembrano bastarci mai. L’anno scorso, il 29 ottobre 2018, fu un altro disastro sfiorato, si parlò di “clemenza” perché il vento in senso contrario allo Scirocco aveva fermato la drastica avanzata delle acque a quota +156cm, questa volta la stessa clemenza non c’è stata. Dopo la risonanza iniziale, i problemi cadono rapidamente nel dimenticatoio, se ne va l’eco mediatico, cala l’interesse politico per la questione. Rimangono i problemi, poco discussi fino a che esplodono, è così per Ilva, e così per il Mose, è così per tante cose.

Al contrario di molte polemiche che asseriscono «ma di cosa ci stupiamo, San Marco va sempre sotto appena si alza un po’ l’acqua», rispondiamo sì, la Piazza, la Basilica in 1.200 anni sott’acqua c’è andata 6 volte, e il dato più inquietante è che 3 di queste sono tutte concentrate negli ultimi vent’anni. Il cambiamento climatico non è più uno scherzo non è più una bufala, come quando la maggioranza dell’opinione pubblica ridicolizzava apertamente Al Gore, che come un pazzo tentava di difendere le sue tesi nei primi anni 2000. Non è una “hoax”, una farsa, come sostiene di fatto il presidente americano Donald Trump. Questa mattina, mentre tutti – residenti, autorità, perfino turisti – si davano una mano l’un l’altro nel tentare di ripulire, salvare il salvabile, fare una prima, dolorosa, conta dei danni, un gruppo di giovani ragazzi del movimento Fridays for future in piazzetta San Marco ha esposto uno striscione: Tide is rising, and so are we (La marea si sta alzando, e noi pure).

Perché non si può restare inerti di fronte al razzismo e all’antisemitismo

Partecipanti alla manifestazione "Milano non odia. Insieme per Liliana", davanti al Memoriale della Shoah, in solidariet‡ con la senatrice a vita Liliana Segre, Milano, 11 Novembre 2019. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, testimone della Shoah e senatrice a vita, a ottantanove anni è stata posta sotto scorta per le continue minacce ricevute. «La senatrice Segre viene presa di mira perché ha scelto di essere donna del presente, legando il suo ruolo di testimone alla contemporaneità», dice lo storico Luca Bravi, ricercatore presso l’Università di Firenze e collaboratore della Fondazione Museo della deportazione di Prato e dell’Istituto storico di Grosseto (Isgrec).

Liliana Segre sotto scorta. Cosa rappresenta questa vergognosa vicenda?
La scorta a Liliana Segre è lo specchio di ciò che sta accadendo intorno a noi. È particolarmente significativa perché tocca quella che è una testimone della Shoah, tuttavia credo che la senatrice Segre venga attaccata perché non si è limitata a raccontare la sua memoria del passato, ma ha deciso di essere donna del presente. E va ringraziata perché, di fatto, in tutta questa vicenda, fra i grandi assenti ci sono proprio le istituzioni. E il silenzio è smorzato dalla sua voce. Non è un caso se, per l’ingresso al binario 21 della stazione di Milano Centrale, dov’è situato il memoriale della Shoah, lei abbia scelto la parola “indifferenza”, che è la prima incontrata da chi entra in quel luogo, un tempo luogo di deportazione.

La senatrice Segre, come tanti altri testimoni della memoria, è bravissima a parlare ai ragazzi…
Sì, il suo dono più grande è la non retorica, la volontà d’azione. Si avvicina così a quelle figure che hanno risvegliato le coscienze su temi importanti. Solo che, a differenza sua, sono tutte figure private, non pubbliche. Penso a Simone, il quindicenne di Torre Maura che affronta il picchetto di Casapound contro una famiglia rom, “rea” di essere assegnataria di una casa popolare. E penso a Lorenzo Orsetti, il partigiano fiorentino che è morto in Rojava, combattendo al fianco dei curdi, per difendere un’idea diversa e più giusta di società.

Con Liliana Segre abbiamo l’esempio di una testimone che traccia un forte legame fra storia e presente, così da rendere vivo quel “mai più” che si usa sempre riferito alla Shoah. Quale dovrebbe essere il ruolo del testimone?
Il testimone..

L’intervista di Sara Ligutti a Luca Bravi prosegue su Left in edicola dal 15 novembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

Che Paese è un Paese che nega Auschwitz?

La senatrice a vita Liliana Segre all'università Statale di Milano per partecipare all'incontro su "Guardare al futuro senza dimenticare: medici e impegno civile ieri e oggi", sull'impatto delle leggi razziali nella comunità medica ebraica, Milano, 4 novembre 2019. ANSA / MATTEO BAZZI

In questa Italia dell’odio mi tornano in mente le parole di una nota canzone di Giorgio Gaber: «Io non mi sento italiano». È da alcuni anni che un pericolo grave si aggira per l’Italia: il razzismo. Questo cancro misto a ignoranza, decadenza culturale e mala politica sta toccando livelli inaccettabili. La cronaca del nostro declino appare quotidianamente sui media. In Lombardia, durante una partita di calcio tra bambini, un genitore urla dagli spalti «negro di merda» a un ragazzino di colore di dieci anni che ha commesso fallo verso suo figlio “di pelle bianca”. A Verona, Balotelli è paragonato a una scimmia, il giorno dopo un capo ultrà dichiara che l’attaccante del Brescia, pur avendo la cittadinanza italiana, non sarà mai un vero italiano, mentre Salvini accusa lo stesso Balotelli di voler fare il fenomeno. Ad Alessandria, su un bus, una “signora” dice a una bambina africana di sette anni «tu qui non ti siedi», impedendole di occupare il posto libero accanto a lei. Fortunatamente interviene veementemente un’altra donna e aiuta la bambina a sedersi, nel disinteresse generale. A Roma una libreria antifascista, La Pecora elettrica, è stata data alle fiamme dolosamente per ben due volte.

Da pochi giorni la senatrice Liliana Segre è costretta a vivere sotto scorta. Dopo le minacce e gli insulti, anche online, dopo lo striscione indicibile di Forza nuova di fronte al teatro dove stava parlando agli studenti, arriva l’ennesima vergogna che testimonia la mostruosità in cui questo Paese si è trasformato: Liliana Segre a cui andrebbe fatto un monumento è invece sotto scorta. Siamo di fronte a una persona che ha vissuto parte della sua infanzia tra gli orrori dell’odio e della discriminazione, tra i tanfi del lager e l’abominio nazista.

Oggi questo Paese che si professa democratico, a ottantanove anni, dopo la campagna “aizza belve” seguita alla sua proposta di una commissione contro l’odio, la costringe a vivere sotto scorta umiliandola ancora una volta. Sua unica colpa essere una vittima degli orrori nazisti. A tanto arriva la sconcezza in cui l’Italia si è trasformata. Una donna, una senatrice della Repubblica («non eletta» ha rilevato il capitano dell’odio) il cui incarico è stato conferito dalla più alta carica dello Stato, è costretta a causa delle menzogne altrui, del loro volere salvaguardare il proprio diritto a scatenare l’odio, a vivere con la paura dopo aver subito per anni, da bambina qual era all’epoca dei fatti, le peggiori umiliazioni e i peggiori incubi inimmaginabili dalla mente umana. La nostra civiltà contemporanea ancor oggi non riesce a scrollarsi di dosso un certo concetto di diversità intesa sotto vari aspetti: religioso, etnico, sociale, sessuale per cui i diversi sono, sempre e comunque, gli altri. Ecco il valore della centralità della persona. Il diritto, la libertà di pensiero, la libertà politica, quella di essere se stessi, ancora oggi nel terzo millennio sono sottratte all’uomo da parte di un altro uomo. E ciò può accedere ancora perché, non dimentichiamocelo, spesso, la storia si ripete.

Credo che Auschwitz, tra le tante cose, a me abbia insegnato soprattutto il rispetto verso l’altro. Ecco un’altra conferma del valore dell’individuo, e della sua unicità e centralità. Il dovere di testimoniare la civiltà della democrazia e della pace. Oggi la scorta alla senatrice Segre segna un ritorno al passato, una regressione culturale. La memoria, quindi, diventa fattore operante che riguarda tutti. Rispetto a essa chi fa pratica di libertà e di democrazia ha sempre un dovere. E quello di oggi diviene testimonianza per il dovere di domani. La libertà non è un concetto astratto, ma vive solo se si realizza concretamente. I nostri giovani hanno quindi bisogno della memoria storica poiché l’oblio (o peggio la mistificazione) avvelena la realtà. Mettere sullo stesso piano l’Italia fascista con quella che non lo era e che, anzi, la combatteva, vuol dire manipolare la realtà storica. L’Italia della dittatura e delle leggi razziali non può essere paragonata all’Italia della Resistenza e della Costituzione repubblicana. La nostra democrazia ha radici ben precise e luoghi storici di riferimento che nessuno può e deve dimenticare. Non dimenticare vuol dire, infine, schierarsi con decisione contro ogni razzismo e ogni fascismo. Indicativa è la lettera che Liliana Segre ha scritto per la nostra Scuola di legalità Peppe Diana di Roma e del Molise che noi porteremo in tutte le scuole d’Italia. Da queste brevi riflessioni c’è da imparare e da ricordare affinché queste orrende tragedie non debbano ripetersi mai più. Una stortura mi preoccupa maggiormente: è che s’iniziano a colpire bambini innocenti e anziani, indice di sub-cultura che vigliaccamente colpisce i più deboli.

Vincenzo Musacchio è giurista e docente di diritto penale

L’editoriale di Vincenzo Musacchio è tratto da Left in edicola dal 15 novembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

Vi si è bucato il luna park

Quello che avviene a Venezia ha dei responsabili, nomi e cognomi. No, non è l’acqua, no. L’acqua fa l’acqua come avviene da sempre e come continuerà ad avvenire. Dare la colpa all’acqua per l’allagamento di una città che galleggia sul mare significa voler giocare al dito e la luna. Un gioco penoso, irresponsabile, pericoloso e che erode Venezia. E mica solo Venezia. Venezia sott’acqua porta la firma del Mose. Di tutti quelli che l’hanno usato come cuscino per nascondere tangenti che poi hanno esportato in giro. Galan (sì, sì,  Galan e i suoi amici leghisti) le sue mazzette le ha esportate allegramente in Montenegro. C’è una sentenza. Ma a Venezia le sentenze non galleggiano, vanno in fondo alla memoria.

Il Mose è costato 7 miliardi di euro. 7 miliardi di euro per costruire un’opera che il cambiamento climatico renderà ogni mese più inutile. 7 miliardi di euro che sarebbero serviti per occuparsi di una manutenzione ordinaria che continua a mancare. Nomi e cognomi: sul Mose non è difficile, basta tornare al governo Berlusconi che lo pensò e basta vedere chi oggi ancora lo invoca (sindaco e presidente di Regione in testa). Venezia sott’acqua porta la firma di tutti quelli che l’hanno abusata come luna park. Sono quelli che pensano a canali più grandi per permettere il passaggio di navi ancora più grandi. Sono quelli che la trattano come se fosse un parco divertimenti che hanno trovato già pronto: per loro non è una città, bellissima e fragile, no, Venezia è una slot machine da fare ingrassare. Nomi e cognomi.

Venezia sott’acqua porta la firma di tutti quelli che negano i cambiamenti climatici. Sono gli stessi che deridono Greta e che pensano che il clima sia un problema sempre degli altri. Sono quelli che adorano la produttività a tutti i costi e se ne fottono se la produttività erode le fondamenta e la vivibilità dei posti in cui vivono. Quelli, di solito, pensano comunque di potersi comprare i posti più alti se si allaga o si asciuga tutta là in basso. Venezia sott’acqua porta la firma di chi considera il patrimonio artistico qualcosa di eterno e si illude di non doversene prendere cura. Sono gli stessi che in piazza San Marco ci vedono i ristoranti o gi hotel che si potrebbero aprire, dove si potrebbe investire. Una generazione che ha ricevuto in eredità un inestimabile valore in arte e cultura e che non sente il dovere di preservarlo e prendersene cura. Cari, vi si è bucato il luna park. Ma scommetto che già ci vedete il sequel di Atlantide, nevvero?

Buon giovedì.

Chi è davvero Luis Fernando Camacho, leader dei golpisti boliviani

LA PAZ, BOLIVIA - NOVEMBER 10: Luis Fernando Camacho, right wing opposition leader and president of the Civic Committee Pro Santa Cruz goes to the former government house Palacio Quemado to hand a pre-written document where he requests the resignation of Evo Morales Ayma on November 10, 2019 in La Paz, Bolivia. Minutes later, Morales announced his resignation in Chimore, Cochabamba, following three weeks of protests over his re-election attempt after the army and police withdrew their support. (Photo by Javier Mamani/Getty Images)

In questi giorni in Bolivia è emersa una nuova figura pubblica, protagonista di un’ascesa fulminante com’era stata quella di Juan Guaidò in Venezuela. È Luis Fernando Camacho, 40 anni, avvocato, proveniente dalle regioni e dai settori tradizionalmente ostili a Evo Morales e alla popolazione indigena: l’oligarchia cruceña (di Santa Cruz). Pur non essendosi candidato alle elezioni del 20 ottobre, si è fatto strada tra i leader dell’opposizione a Evo Morales, ignorando qualsiasi appello al rispetto delle regole istituzionali ed emergendo rapidamente come leader dei settori più violenti e fascisti e mettendo lo stesso Carlos Mesa in secondo piano, ex capo di Stato della Bolivia tra il 2003 ed il 2005 arrivato secondo alla recente tornata elettorale e pronto per esseere recuperato come figura di “moderato”.

Da quale cappello è venuto fuori Camacho? Il suo profilo Twitter è stato creato il 27 maggio 2019. Fino alle elezioni è rimasto di fatto inutilizzato. Un suo appello del 9 luglio, in cui invocava uno sciopero per rivendicare le dimissioni del Tribunale supremo elettorale, ha ricevuto solo 20 visualizzazioni. Allo stesso modo, prima di quest’autunno non esisteva una sua voce su Wikipedia. Improvvisamente, grazie a media internazionali del calibro di Unitel, Telemundo e Cnn diventa una celebrità. I suoi tweet rimbalzano e vengono condivisi da migliaia di utenti. Il New York Times e la Reuters lo definiscono il “leader” dell’opposizione boliviana. Ma chi è davvero Luis Fernando Camacho? Analizziamolo, punto per punto.

1. Un fondamentalista religioso: «Dio ritorna al palazzo»
Già il 4 ottobre, a due settimane dalle presidenziali, Camacho aveva convocato i suoi sostenitori «ai piedi di Cristo redentore» a Santa Cruz. È chiaro, dunque, il tentativo di legittimare il suo autoritarismo sulla base del discorso religioso, presentandosi come una copia minore del vicino Bolsonaro. Dopo il 20 ottobre, il suo discorso fondamentalista ha conosciuto una nuova verve. Domenica 10 novembre ha fatto ingresso nel Palacio Quemado, il vecchio palazzo presidenziale, inginocchiandosi dinanzi a una Bibbia che lui stesso aveva portato. Più e più volte, tra social e comizi in piazza, ha affermato che «Dio ritorna al Palazzo». Intanto a Santa Cruz i suoi sostenitori festeggiavano le dimissioni di Morales con una sfilza di crocifissi, richiami a Dio e interrompendo il comizio per una santa messa.

2. Un razzista: «La Pachamama non farà più ritorno nel Palazzo di Governo»
Camacho non si vanta solo di riportare Dio nel palazzo, ma promette pure che «la Pachamama non [vi] farà mai più ritorno». La Pachamama è la madre terra, fonte di vita, risorsa simbolica ed economica per i popoli originari. Scacciarla dal palazzo significa – metaforicamente – scacciare la maggioranza della popolazione boliviana, quegli indios invisi da sempre all’oligarchia boliviana. E così i poliziotti tagliano la wiphala, la bandiera dei popoli originari andini, dal distintivo e i manifestanti la bruciano per le strade.

3. Un ammiratore di Pablo Escobar
L’autoritarismo di Camacho ha tra i suoi riferimenti espliciti niente poco di meno che Pablo Escobar. Sì, proprio lui: il più famoso narcotrafficante di tutti i tempi. In un meeting nella zona meridionale della regione di Santa Cruz, Camacho se ne uscì con «Dobbiamo preparare – facendo salve le differenze – e usare un’agenda come faceva Pablo Escobar, però solo per annotare i nomi dei traditori di questo popolo». Quelli che dovevano essere “solo” appunti sono diventati informazioni utili per perseguitare i nemici e i militanti del Mas (Movimento per il socialismo), alle cui case tutt’ora viene appiccato il fuoco, come dimostrano video e testimonianze diffuse online.

4. Il vicepresidente dell’Organizzazione giovanile cruceñista (detto «Macho Camacho»)
In gioventù «Macho Camacho» – sì, è conosciuto anche così – nel 2002 è stato vicepresidente dell’Organizzazione giovanile cruceñista (Ujc per il suo acronimo in castigliano), che la Federazione internazionale dei diritti umani (Fihd) ha definito come «una specie di gruppo paramilitare» che, tra l’altro, si è fatta conoscere per il suo simbolo – una croce verde – tristemente simile a simboli del fascismo occidentale e per il saluto dei suoi membri, che ricorda molto da vicino il «Sieg heil» dei nazisti. L’organizzazione si è fatta conoscere per le tante violenze e alcuni dei suoi membri sono stati arrestati in relazione ad aggressioni a sfondo razzista. La stessa ambasciata Usa ha definito la Ujc «razzista», confermando che «ha frequentemente attaccato persone e strutture pro «Mas-governo». Sempre secondo la Fihd, l’organizzazione è promossa dal Comité cívico pro Santa Cruz, presieduto proprio da Camacho (dal febbraio 2019, nda). Prima di lui, a dirigere il Comité fu il padre, tra 1981 e 1983.

5. Un massone
Camacho è parte di una delle grandi logge massoniche boliviane: Los caballeros de Oriente.

6. Un ricco imprenditore, perno dell’oligarchia cruceña
Luis Fernando è, insieme alla famiglia Camacho, socio del Grupo empresarial de inversiones nacional vida S.a., un gruppo imprenditoriale attivo nel settore delle assicurazioni, del gas e dei servizi. Il gruppo ha investimenti diretti o indiretti in società come Conecta, Tecorp, Xperience, Fenix seguros, Nacional seguros vida. Il padre di Luis Fernando, José Luis, era proprietario dell’azienda Sergas che distribuiva gas a Santa Cruz; lo zio, Enrique, controllava la Socre, società che gestiva le strutture per la produzione del gas locale; infine, un cugino, Cristian, controlla un’altra azienda che opera la distribuzione del gas, la Controgas. Nel suo ruolo di presidente del Comité cívico pro Santa Cruz, Camacho rappresenta un complesso di entità della zona, società imprenditoriali e sindacali di una delle zone più ricche del Paese. La regione di Santa Cruz, infatti – che già anni fa aveva provato a raggiungere una secessione per sottrarsi allo sgradito “socialismo evista” – produce il 70% degli alimenti della Bolivia, ha un enorme potenziale energetico, un’enorme ricchezza in idrocarburi che, però, dopo i governi di Morales, sono ora nelle mani dello Stato. Santa Cruz da sola apporta il 28,9% del Pil del Paese (dato del 2016).

7. Un evasore, coinvolto nello scandalo Panama Papers
Nel 2017, quando fu reso pubblico lo scandalo de Panama Papers, il nome di Camacho appare accanto a quelli di tre società: Medis overseas corp., Navi international holding e Positive real estates. Dalle indagini emerse che Camacho aveva operato come intermediario per coadiuvare persone e imprese a nascondere le proprie fortune in entità offshore, riciclare denaro e trovare modi per evadere le imposte.

8. Un amico dei golpisti, come Branko Marinkovic
Tra le amicizie Camacho vanta quella di Branko Marinkovic, un grande proprietario terriero di origini croate che si è scagliato violentemente contro il governo di Evo Morales quando questo nazionalizzò parte delle sue terre. All’epoca portavoce del Comité cívico pro Santa Cruz, fu tra i protagonisti del tentativo secessionista dell’elite cruceña, che mirava a una balcanizzazione del Paese attraverso la violenza, l’invito al golpe militare e l’immancabile razzismo (come denunciò la Fidh nel 2008). Lo stesso New York Times all’epoca non poté fare a meno di notare che la regione di Santa Cruz appariva come «un bastione di gruppi apertamente xenofobi, come la Falange socialista boliviana, il cui saluto a braccio teso tra ispirazione dalla Falange fascista del dittatore spagnolo Franco». Il gruppo citato dal Nyt , che fu espressione del dittatore Hugo Banzer, garantì la sicurezza del criminale di guerra nazista Klaus Barbie (utilizzato dalla Cia nell’Operazione Condor contro il “comunismo” in America Latina).