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Generazione Neet, quei giovani tra rinuncia e realizzazione

Un momento della "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell'attivista 16enne svedese Greta Thunberg, Roma 15 marzo 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Si trovano a dover fronteggiare un mondo più caldo, instabile e dagli esiti molto incerti. E non solo perché devono fare i conti con sedici delle diciannove annate più bollenti dal 1800 a oggi ma, soprattutto, perché hanno subìto i contraccolpi, dal governo Berlusconi a quello attuale, di un decennio politico all’insegna di mancati finanziamenti ai servizi sociali e per l’infanzia e incapace, persino, di varare una norma per riconoscere la cittadinanza ai bambini stranieri di seconda generazione.

I minori di questa generazione, descritti nel X Atlante dell’infanzia a rischio, redatto da Save the children, sono la fascia di popolazione su cui hanno impattato maggiormente le due gravi crisi economiche del 2000 e i sette governi che hanno compromesso le loro aspettative di crescita, producendo uno squilibrio generazionale senza precedenti. Si sono acuite le disuguaglianze fra bambini del Nord e bambini del Sud, fra bambini stranieri e bambini italiani, fra quelli delle zone centrali e quelli delle zone periferiche, fra gli studenti delle scuole elitarie e quelli delle classi ghetto.

A metterlo nero su bianco, il rapporto Il tempo dei bambini che, a dieci anni dalla prima pubblicazione, tira le somme sulla condizione dei minori in Italia: da dieci anni a questa parte, quasi un milione di loro si è aggiunto al bacino della povertà assoluta, più di un milione è confluito in quello della povertà relativa, sono cresciuti i Neet e tutto ciò ha contribuito a un crollo della natalità, con un calo di 136mila nascite rispetto al 2008.

In un Paese che, già prima delle crisi, mostrava profondi squilibri territoriali in termini di servizi all’infanzia, non solo non è mai stato implementato alcun intervento strutturale e le uniche azioni sono state sporadiche e selettive ma, con la riforma del Titolo V della Costituzione e la Legge quadro, le disuguaglianze si sono estremizzate: se nel 2008, appena un minore su venticinque versava in condizioni di povertà assoluta, nel 2018 si trova in questa situazione un minore su otto. Il disinvestimento dalle politiche per l’infanzia ha, anche, inciso sui progetti familiari e sul crollo demografico che, in Italia, ha un’intensità e una rapidità eccezionali rispetto agli altri Paesi europei. A invertire il trend, i minori stranieri che vivono (e nascono) nel Belpaese: se nel 2008 erano poco meno di settecentomila e rappresentavano il 7 per cento del totale dei giovani residenti, oggi sono più di un milione, rappresentando il 10 per cento della popolazione minorile italiana.

Nonostante costituiscano una risorsa demografica, sociale e culturale poiché la loro presenza massiccia nelle scuole è l’antidoto alla chiusura e all’accorpamento di tanti istituti, oltre che alla riduzione degli insegnanti, i minori stranieri sono rimasti esclusi dall’agenda politica e hanno pagato il conto più salato delle crisi economiche. E sebbene la marginalizzazione abbia riguardato tutti i bambini e gli adolescenti, la loro reazione è un forte desiderio di essere protagonisti nei cambiamenti sociali: basti pensare alle manifestazioni oceaniche dei coetanei di Greta Thunberg che, nonostante i programmi scolastici continuino a contemplare poco o niente i temi per i quali scendono in piazza, sono riusciti a riportare in prima pagina il monito della scienza sulle implicazioni del riscaldamento globale e sulle conseguenze sociali dell’emergenza ambientale.

«Crescere ai limiti delle risorse non significa, però, fare i conti solo con la temperatura che aumenta e i ghiacci che si sciolgono, ma vuol dire essere testimoni di un sistema che, pur producendo benessere, continua ad alimentare squilibri e sprechi», si legge nel Rapporto. Davanti a un paesaggio in continuo cambiamento, e non solo per effetto delle intemperanze climatiche, anche la scuola appare completamente impreparata e produttrice di iniquità: nei dieci anni precedenti si è scelto di disinvestire sull’istruzione e la spesa è crollata dal 4,6 per cento del 2009 al 4 per cento del 2011 fino all’attuale minimo storico del 3,6 per cento del Pil. I tagli alle risorse destinate alla scuola pubblica si traducono in «centinaia di migliaia di bambini persi alla scuola». Che, verosimilmente, saranno i giovani in bilico tra rinuncia e desiderio, secondo la ricerca Il silenzio dei Neet condotta da Unicef.

Stando agli ultimi dati Istat, riportati nell’indagine, i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 29 anni che sono rimasti indietro, non impegnati in percorsi di studio, di lavoro e di formazione sono 2 milioni e 116 mila, posizionando l’Italia al primo posto nella graduatoria europea. Dietro ai numeri, si nasconde «l’aumento di sentimenti di disagio e di sofferenza e la diffusione di stati di insicurezza e di ansia, a causa della crisi economica, della mancanza di lavoro e, oggi, perfino dei cambiamenti climatici», rileva l’indagine.

Al di là delle ragioni note e immediatamente visibili che determinano la condizione di Neet e le invisibili risposte delle istituzioni, la ricerca di Unicef aggiunge elementi nuovi: la considerazione dello stato di Neet come rifiuto, spesso inconsapevole, di una società che lascia sempre meno spazio a fragilità e debolezze, caratterizzata da rapporti di prevaricazione in cui i giovani si sentono perdenti. E, invece, aggiunge l’indagine, «molti di questi, formalmente classificati tra i Neet, nella realtà hanno talenti e passioni che coltivano nella loro intimità, senza riuscire a esprimerli all’esterno». D’altronde, continua la ricerca, considerando le evidenze emerse, «la velocità imposta dalla nostra epoca determina l’ansia di non riuscire a camminare a quel ritmo e ne consegue immobilità».

Poi scappano

Giorgia Meloni ospite della trasmissione 'Maurizio Costanzo show', Roma 5 novembre 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Due episodi significativi per misurare la temperatura morale di una destra che vorrebbe essere autorevole (se non addirittura autoritaria) e invece è una barzelletta che andrebbe rimessa nel cassetto delle ridicolaggini. Sono quelli che usano il verbo “frignare” per ridicolizzare gli avversari (e i disperati) e poi frignano vittimismo in ogni occasione.

Bologna. Due “politici” di Fratelli d’Italia decidono di fare un giro per le case popolari («costruite dai nostri padri e dai nostri nonni», dicono con la loro patetica passione per il feticcio della nostalgia nonostante la loro ignoranza per la storia) leggendo ad alta voce i nomi degli inquilini. Attenzione: inquilini che stanno in quelle case perché ne hanno tutto il diritto, sia chiaro. Però con il loro “giochetto” vogliono dimostrare l’invasione degli stranieri e così mandano in onda la loro “ronda” etnica. Fa niente che i dati ufficiali (ma per loro esistono solo i sentimenti social, ovviamente) dicano che solo il 7% delle abitazioni è abitato, regolarmente, da cittadini stranieri). A Marco Lisei e Galeazzo Bignami interessa versare per bene tutto il liquido seminale della loro propaganda. Peccato che il loro patetico show violi la legge e così quando l’avvocata Cathy La Torre presenta un esposto al garante della privacy i due energumeni diventano pecorelle, cominciano a dire di non avere paura, poi hanno paura, cancellano il video e scompaiono. Ovviamente si lamentano dei “poteri forti”, ovvero la legge italiana. Studiate.

Giorgia Meloni è la segretaria di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni fa politica da sempre, ha votato la legge Fornero, il governo Monti, Ruby nipote di Mubarak e altri colpi da fuoriclasse del genere. La trasmissione Report manda in onda un servizio in cui si mostra il meccanismo di propaganda social anche di Fratelli d’Italia, supportato da numeri e analisi. Giorgia Meloni dice che non è vero. La redazione di Report risponde: benissimo, se non è vero allora ci denunci così facciamo decidere a un giudice la credibilità del nostro servizio. Giorgia Meloni dice che denuncia, poi ci ripensa, no non denuncia. Scappa. Per giustificarsi aggiunge che non denuncia Report perché altrimenti perderebbe e dovrebbe pagare la Rai, quindi lo fa per non pesare sui cittadini. Che buon cuore. Peccato che la responsabilità penale sia personale e in caso di (molto dubbia) condanna in tribunale sarebbero gli autori del servizio a dover pagare. Ma Giorgia Meloni finge di non saperlo. Studiate.

La conclusione è sempre la stessa: poi scappano. Perché per loro le idee sono semplicemente dei vessilli da issare al massimo per un paio di giorni per sostenere un po’ di retorica. Tutto qui. La consistenza delle loro idee scade come lo yogurt. Per questo si stupiscono quando qualcuno gliene chiede conto.

Intanto in Val di Susa una 73enne decide di farsi il carcere, rinunciando alle pene alternative, per difendere le proprie idee.

Scova le differenze.

Buon mercoledì.

 

Sánchez e Iglesias firmano l’accordo: governo di coalizione di sinistra in Spagna

epa07990897 Spanish acting Prime Minister and leader of Socialist Party, Pedro Sanchez (L) greets leader of Podemos left party, Pablo Iglesias (R) during the signing of a pre-agreement to form a coalition government following the 10 November 2019 general elections, at the Congress of Deputies in Madrid, Spain, 12 November 2019. Spanish Socialist Party and Podemos announced a pre-agreement to form Government two days after elections. The Socialist Party, that won the elections with 120 seats, will need more support than the 35 seats of Podemos to be invested. EPA/PACO CAMPOS

I risultati elettorali del 10 novembre  non lasciavano aperte molte alternative. Già il giorno dopo la chiusura delle urne le principali associazioni imprenditoriali sollecitavano la formazione di un governo “stabile e moderato”. In una dichiarazione congiunta rilasciata lunedì la Confederazione spagnola delle organizzazioni imprenditoriali (Ceoe) e la Confederazione spagnola delle piccole e medie imprese (Cepyme) chiedevano “la massima responsabilità e visione trasversale” ai partiti chiamati a governare.

Va riconosciuto a Pedro Sánchez di aver scelto con grande rapidità, contraddicendo in poche ore la posizione tenuta fino alle elezioni di domenica scorsa, in cui sperava di ottenere un risultato molto migliore per il Psoe e un ridimensionamento per Unidas Podemos.

Oggi, il leader del Psoe ha assicurato che «non ci sono ragioni per ulteriori impedimenti», così Pedro Sánchez e Pablo Iglesias hanno raggiunto un accordo per un governo di coalizione, prima volta nella storia spagnola, che potrebbe ottenere una maggioranza parlamentare e governare per tutta la legislatura. Di fronte al Congresso dei deputati hanno firmato per «un governo di coalizione progressiva che pone la Spagna come Paese di riferimento per la protezione dei diritti sociali in Europa, come hanno deciso i cittadini alle urne».

Sebbene i dettagli dell’accordo saranno resi pubblici nei prossimi giorni, Sánchez e Iglesias hanno annunciato che stanno «andando avanti congiuntamente» in un negoziato volto a completare la struttura e il funzionamento del nuovo governo, dell’importanza di «assumere l’impegno nella difesa della libertà, della tolleranza e del rispetto dei valori democratici come guida per l’azione del governo secondo ciò che rappresenta la migliore tradizione europea». Sánchez si sbilancia: «Il progetto è così emozionante da superare qualsiasi disaccordo». Iglesias afferma che il leader del Psoe «può contare su tutta la nostra lealtà».

Oltre alla diretta della firma c’è l’abbraccio tra i due leader, forse un bacio sul collo di Pedro da parte di Pablo.
Certo il cambio di strategia di Sánchez richiederebbe una autocritica esplicita da parte del segretario socialista, ma l’accordo c’è ed è di sinistra. Iglesias potrebbe essere vice presidente e tra i nomi che circolano quelli di Pablo Echenique e Irene Montero come ministri, per Unidas Podemos. Si prospetta anche un’altra vicepresidenza per la socialista Nadia Calviño, attuale ministra di economia.

«L’unica cosa che non si adatta allo spirito del futuro governo progressista sarà l’odio e il conflitto tra spagnoli», ha ammonito Sánchez. Questo governo progressista, pertanto, sarà una diga di contenimento dell’estrema destra in Spagna. Lo stesso Iglesias ha ammesso che questo esecutivo sarà «il miglior vaccino contro l’estrema destra».
Ora arriva il difficile, non solo per la durezza dell’opposizione delle destre già dalle prime dichiarazioni, destre che utilizzeranno la radicalizzazione in Catalogna come terreno prioritario di sfida, ma perché contro le politiche di questo governo continueranno ad operare quei poteri forti che hanno condizionato le politiche socialiste in questi ultimi mesi.

Secondo il testo divulgato del pre-accordo, gli assi d’azione prioritari si concentreranno sulla risposta alle principali sfide che la società spagnola nel suo insieme deve affrontare.
Si parla di consolidare la crescita e la creazione di posti di lavoro e di combattere la precarietà. Combattere la corruzione. Proteggere i servizi pubblici, in particolare l’istruzione e l’assistenza sanitaria. Garantire la sostenibilità del sistema pensionistico pubblico e la sua rivalutazione in base al costo della vita. L’alloggio come un diritto e non come semplice merce. La lotta ai cambiamenti climatici con la giusta transizione ecologica. L’approvazione di nuovi diritti come il diritto a una morte dignitosa, all’eutanasia, alla salvaguardia delle diversità.

Non mancano le politiche femministe: garantire la sicurezza, l’indipendenza e la libertà delle donne attraverso la lotta risoluta contro la violenza sessista, la parità di retribuzione, l’istituzione di un congedo di paternità e maternità equo e non trasferibile, la fine della tratta degli esseri umani ai fini dello sfruttamento sessuale e dell’elaborazione di una legge sull’uguaglianza del lavoro. La giustizia fiscale e l’equilibrio di bilancio, essenziali per il mantenimento di uno stato sociale solido e duraturo, una riforma fiscale in cui vengono eliminati i privilegi.

Ma la priorità del governo sarà garantire la coesistenza in Catalogna e la normalizzazione della vita politica. A tal fine, il dialogo in Catalogna sarà incoraggiato, alla ricerca di formule di comprensione e incontro, sempre all’interno della Costituzione. È almeno un inizio, anche se ancora vago e condizionato dalla pesante sentenza che tiene in carcere i dirigenti indipendentisti.
Contro questo governo il blocco di destra e l’ultradestra di Vox voteranno contro, il miglior modo per rispondere è trasformare in misure concrete le buone intenzioni dell’accordo.

A proposito di legalità a Riace

Il sindaco di Riace Domenico Lucano in una foto di archivio. ANSA / IGOR PETYX

Essere Mimmo Lucano, oggi, in Italia, in un Paese mangiato dalla bile e dalla guerra del “tutti contro tutti” solo per mangiarsi l’avversario significa scegliere la strada più difficile che possa venire a mente di inforcare: quella della solidarietà, dell’inclusione, dei toni bassi, dell’aspetto cordiale (nel senso letterale, “di cuore”) delle cose.

Mimmo Lucano da sindaco di Riace può avere fatto cose che vi piacciono o meno, per carità, è il gioco della politica. Però Mimmo Lucano ci hanno detto che era uno che non rispettava le regole e invece le regole vanno rispettate. E perfino Salvini è sceso a Riace per dire che bisognava ripristinare la legalità. Così hanno eletto il leghista Antonio Trifoli.

Il Tribunale di Locri ha dichiarato decaduto il sindaco di Riace, Antonio Trifoli, eletto lo scorso 26 maggio a capo di una lista civica di ispirazione leghista. Trifoli – ha sostenuto il collegio – non poteva essere candidato perché assunto al Comune come vigile urbano, a tempo determinato e non aveva quindi diritto ad accedere all’aspettativa non retribuita per motivi elettorali. Non era quindi né candidabile, né eleggibile. Il ricorso per la sua incandidabilità era stato presentato subito dopo la sua elezione da Maria Spanò, candidata a sindaco della lista sostenuta dall’ex primo cittadino di Riace, Mimmo Lucano.

Ora qualcuno si aspetterebbe un po’ di senso di vendetta. Mimmo Lucano invece ha dichiarato che non gli interessano gli aspetti legali e che bisogna costruire un’alternativa.

Appunto. L’alternativa sta tutta nel puntare sui valori e sui contenuti. Perché altrimenti finisce che quello che doveva ripristinare la legalità si scopre essere il primo illegale. Intanto a pagare è la città di Riace. Ed è una storia piccola che ha valenza nazionale.

Buon martedì.

Riace, decaduto il sindaco leghista. Non poteva candidarsi

Antonio Trifoli, il sindaco leghista del comune di Riace, non poteva candidarsi e di conseguenza essere eletto: non aveva diritto all’aspettativa e non poteva candidarsi nel Comune in cui era vigile urbano. I giudici del tribunale di Locri hanno dunque accolto il ricorso presentato da Maria Spanò sulla base dell’art. 60 della D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, Testo Unico degli Enti Locali, in cui si stabilisce tra l’altro che: “Non sono eleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale:

i dipendenti del comune e della provincia per i rispettivi consigli…

[Leggi la sentenza] Nel caso di Riace, il sindaco Trifoli – che è stato eletto dopo la decadenza dalla carica di Mimmo Lucano alla guida del comune di Riace – al momento dell’elezione stando anche agli organi di stampa locale risultava dipendente dell’amministrazione di Riace a tempo determinato, con la qualifica di istruttore di vigilanza (vigile urbano). Inoltre la giunta comunale, con delibera n. 28 del 26 aprile 2019 aveva concesso a Trifoli l’aspettativa, non retribuita, per il periodo 27 aprile – 31 maggio 2019, al fine di consentirgli la candidatura a Sindaco della città.

Info qui > https://bit.ly/2IGzc5C

Ma Trifoli poteva avere l’aspettativa? Pare di no. E oggi anche il tribunale di Locri lo ha confermato

Del resto anche l’Aran (Agenzia per la rappresentenza negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) ha stabilito che: «L’ente può concedere ai lavoratori, che ne fanno richiesta, periodi di aspettativa per esigenze personali o di famiglia. Sulla base della precisa formulazione della clausola contrattuale possono avvalersi dell’istituto solo i lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente esclusione dei dipendenti in servizio ma assunti:
– con contratto di lavoro a tempo determinato… 

Stando alle norme citate, il dipendente a tempo determinato del Comune di Riace, Antonio Trifoli era dunque ineleggibile alla carica di sindaco. E dunque è decaduto.

Tuttavia l’ordinanza non è immediatamente esecutiva, rimane infatti sospesa fino all’eventuale appello. Il ricorso era stato presentato da Maria Spanò, ex candidata sindaco della lista “Il cielo sopra Riace”, e da un gruppo di cittadini sulla base di quanto raccontato da Left per primo e poi anche da altre testate giornalistiche nazionali. In seguito a un parere del Viminale che definiva Trifoli incandidabile anche la Prefettura si è costituita in giudizio e potrebbe anche decidere di commissariare Riace senza attendere la conclusione dell’iter giudiziario.

Alle comunali, Trifoli guidava la lista civica “Riace Rinasce” che ha preso il 41% dei voti e nella quale figurano diversi esponenti leghisti, incluso Claudio Falchi il segretario della locale sezione di “Noi con Salvini”. Anche Flachi di recente è stato dichiarato ineleggibile a causa di una condanna per bancarotta rimediata nel 2003 e si è dimesso dalla carica, ufficialmente «per motivi familiari».

Dopo la revoca del divieto di dimora e il ritorno di Mimmo Lucano a Riace tra la sua gente, un’altra buona notizia.

Sánchez al bivio: o il modello neoliberista o la svolta a sinistra

epa07987147 Spanish acting Prime Minister, Pedro Sanchez (C), addresses his supporters following the general elections at the headquarters of the political formation in Madrid, Spain, 10 November 2019. With 99.99 per cent of the votes counted, PSOE won 120 seats, PP 88, Vox 52, Unidas Podemos 35 and Ciudadanos 10. EPA/Juanjo Martin

Le urne hanno confermato che la scelta di Sánchez e dei socialisti di riportare la Spagna al voto, per la quarta volta in quattro anni, è stato un errore che era meglio evitare. Il Psoe perde tre seggi e rimane con 120 deputati, Unidas Podemos scende da 42 a 35, il PP sale da 66 a 88 seggi, Vox diventa terza forza con 52 deputati e Ciudadanos sparisce con solo 10 deputati. Nessuna forza ottiene la maggioranza assoluta per poter governare da sola. Vox, il partito di Santiago Abascal, si configura come la principale minaccia del bipartitismo.

Si è sciolta l’incognita Más País, la nuova formazione a sinistra del Psoe, che avrà solo tre deputati, contro i 15 che si aspettava, ma Íñigo Errejón ha insistito sull’idea che i numeri rendono possibile un governo progressista e la responsabilità è raggiungere un accordo dopo le elezioni. E, sebbene Más País abbia sostenuto di non voler sottrarre i voti a Unidas Podemos, i numeri sono chiari: la somma di Unidas Podemos -3.090.540- e Más País -553.009 – supera la somma dei voti di Vox, 3.632.410.

La nuova opportunità elettorale è stato un regalo inaspettato per le destre spagnole che erano state fermate, ma che ora tornano alla ribalta, in qualche modo determinanti. La crescita a destra riconcentra i suoi voti sul PP di Casado, penalizzando di conseguenza Ciudadanos, fino a renderlo non significativo, ma soprattutto sdogana definitivamente il partito di ultradestra Vox con le sue politiche sessiste e razziste.

Ripetere più o meno lo stesso risultato elettorale del 28 aprile scorso per le sinistre è stato il migliore scenario possibile. Il Psoe vince numericamente le elezioni, ma senza migliorare il suo ultimo risultato elettorale e per governare è comunque vincolato al voto degli indipendentisti. Queste elezioni non hanno cancellato Unidas Podemos, come auspicava qualcuno tra i socialisti, che rimane una forza essenziale per un governo di sinistra.

Se c’è qualcosa di positivo in questo voto, è che teoricamente lascia ai socialisti la stessa possibilità che avevano dopo le precedenti elezioni di dare vita a un governo di coalizione e progressista. Possibilità solo teorica perché richiederebbe una nuova svolta a sinistra del Psoe, difficile dopo il netto spostamento a destra che ha portato al rifiuto di qualsiasi accordo con Podemos.

Si sono di fatto abbandonati i punti qualificanti del patto di bilancio concordato fra Iglesias e Sánchez, fra cui la possibilità di mettere regole precise al mercato dell’affitto sconvolto da una bolla speculativa che ha messo in discussione in tutte le città spagnole il diritto costituzionale ad avere una abitazione, per consegnarsi a un turismo distruttore e demolitore di ogni identità urbana. In più è stata accantonata la deroga delle due leggi simbolo dei governi della destra: quella sul lavoro e quella sulla sicurezza cittadina, detta legge bavaglio, la repressiva Ley Mordaza.

Ma la conferma di questa svolta a destra è l’avere derubricato i gravi problemi sociali che colpiscono la Spagna, per concentrare tutto lo scontro elettorale sulla Catalogna.
Dopo l’iniqua sentenza che ha condannato a più di 100 anni di detenzione i dirigenti indipendentisti catalani si è accettato di mettere al centro dello scontro elettorale ciò che le destre volevano e cioè la questione territoriale. Il dialogo ha lasciato il posto a una progressiva accentuazione della scelta repressiva che ha significato per i socialisti abbandonare il terreno della plurinazionalità.

Il risultato elettorale lascia ora ai socialisti due possibilità o continuare a piegarsi ai poteri forti delle banche, alle grandi corporazioni energetiche e ai grandi patrimoni, con un indurimento delle misure sociali ed ambientali e della repressione in Catalogna, o tornare a quel progetto con cui Sánchez si riprese la segreteria del Psoe, basato su una svolta nelle politiche sociali ed economiche e sulla volontà di trovare una soluzione politica alla questione catalana.

La prima scelta passa per un accordo con le destre, isolando la parte estrema di Vox, e cercando l’intesa con il PP, un ritorno al passato, alle larghe intese in nome della governabilità e della stabilità. La seconda per la coalizione con Unidas Podemos con l’appoggio dei nazionalisti baschi del PNV e di ERC, la forza indipendentista catalana. Quindi o Sánchez fa un’offerta al PP di Pablo Casado, dando di nuovo spazio al modello neoliberista europeo, o dovrà ricercare quei partner che ha disprezzato in giugno e luglio.

Se per una volta si guardasse a ciò che la vicenda catalana sta oscurando e cioè l’enorme crisi sociale e ambientale che sta lentamente colpendo l’Europa, Spagna compresa, forse i socialisti capirebbero che il prezzo da pagare per una soluzione della crisi puntando alle larghe intese è troppo alto. La situazione obiettiva spingerà il PP e quel poco che resta di Ciudadanos verso scelte sempre più autoritarie, sotto forma di nazionalismo e razzismo, e sempre più verso la destra estrema di Vox.

Ada Colau, sindaca di Barcellona, verso mezzanotte ha twittato: “Nessuna persona democratica e progressista può essere contenta oggi. L’estrema destra avanza per l’incapacità della sinistra. Pedro (Sánchez) le tue elezioni sono state un fallimento. E in generale, o la sinistra fa un fronte ampio, o andiamo todas a la mierda”.

Treinta pesos, treinta años de abusos

ROME, ITALY - NOVEMBER 9: Demonstrators hold the flag of Chile in the national demonstration against the racism and the Security Decree wanted by former Interior Minister Matteo Salvini, on November 9, 2019, in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/ Getty Images)

En Chile, a las 22.00 del 20 de octubre de 2019, los relojes, lanzados en un neurótico viaje hacia atrás en el tiempo, volvieron a marcar la misma hora ilegal que en 1973: la del toque de queda. El más grande poeta chileno de nuestros días, Raúl Zurita, de raíces italianas, una voz indómita y esencial para comprender las sociedades de hispanoamérica desde las dictaduras hasta hoy, define a su propio país como «arribista, egoísta, insolidario, sumiso culturalmente». ¿Por qué Italia no sabe nada y no dice nada de este Chile, el que estamos viendo en pantallas, la tierra en la que vive casi un millón de descendientes italianos de nuestros emigrantes de finales del siglo XIX? ¿Por qué el Parlamento Europeo rechaza la propuesta de debate sobre lo que está pasando en Santiago?

Posiblemente porque en ese arribismo, en ese egoísmo, en esa insolidaridad y sumisión cultural nos reconocemos, y cuando nuestra imagen se queda reflejada en la incontenible exasperación del otro es mejor apartar la mirada, por temor al contagio. De esta forma, de la mutación frenética de los escenarios en Santiago y en el resto del país desde principios de octubre, llega a Europa solo el eco débil de la matraca de tópicos sobre la violencia, y nos limitamos a hacer de caja de resonancia de los medios alineados con el gobierno de derecha del presidente Sebastián Piñera: «Estamos en guerra».

Una guerra inexistente. Una guerra del ejecutivo contra sí mismo, a lo sumo, contra su propia, absoluta incapacidad de comprender y de gestionar las protestas: «Piñera no reconoce, no comprende el alcance de lo que ha pasado en este país, se cree que han tomado el control Cambridge Analytica o un enemigo oscuro y poderoso», dice el escritor y director de cine Diego del Pozo. Es más: la mujer del presidente, Cecilia Morel, en un audio privado a una amiga y que se coló en las redes sociales, achaca la responsabilidad de las protestas a la intervención de fuerzas extraterrestres: «Estamos absolutamente sobrepasados, es como una invasión extranjera, alienígena, no sé cómo se dice, y no tenemos las herramientas para combatirlas. Vamos a tener que disminuir nuestros privilegios y compartir con los demás». «Evadir, no pagar, otra forma de luchar» responden por primera vez, al unísono, los habitantes de un país que hasta ahora se nos pintaba próspero y estable en los indicadores internacionales de ese capitalismo que, en realidad, lo tiene avasallado.

Los privilegios de pocas, poquísimas personas, son el punto exacto desde el que hay que empezar el recorrido: nos llevan a ese salto masivo de los torniquetes del metro por parte de los estudiantes, después de que el 4 de octubre el ministro de Transportes anunciara la subida del precio de los billetes, invitando al mismo tiempo a la ciudadanía a «levantarse antes de la cama, para gozar de una tarifa reducida». Galo Ghigliotto, escritor, editor y guionista, escribe que «el 33% del ingreso que genera la economía chilena lo capta el 1% más rico de la población y, a su vez, el 19,5% del ingreso lo capta el 0,1% más rico». La cosa lleva treinta años funcionando así. «Heredamos de la dictadura iniquidad y violencia, y estas han encontrado un terreno fértil en el trato que el gobierno de derecha de Piñera dispensa a los ciudadanos.

La Constitución de 1980 se hizo para arraigar el modelo neoliberal y protegerlo, para favorecer y tutelar, empleando la fuerza, los privilegios de la clase política y empresarial», añade Ghigliotto. En Chile, todo lo que se podía privatizar se ha privatizado: la educación, la sanidad, las pensiones, el sector minero (el país es el mayor productor de cobre en el mundo, y tiene también grandes yacimientos de litio; son solo dos de los minerales fundamentales para el desarrollo tecnológico e industrial del planeta); alquilar un piso de dos habitaciones en Santiago cuesta de media 495 euros, sin embargo el salario mínimo es de 373 euros; un 30% de lo que ganan los menos pudientes se va en gastos de transporte: Santiago es una ciudad enorme; este año, además, ya subió el precio de la corriente eléctrica, del agua y del gas; la semana laboral es de 44 horas; Wallmapu, el territorio Mapuche, ha sido militarizado por completo y cualquier excusa es buena para criminalizar a los nativos; la ley del aborto sigue negando libertades a las mujeres, que sufren el yugo de muchísimas otras constricciones; el índice de suicidios entre adolescentes y ancianos es muy elevado: se hace imposible resistir a tanta y tan espantosa precariedad, a tamaña violencia.

Fue este el empujón social que hizo saltar los torniquetes y provocó «una explosión inorgánica y completamente ciudadana, sin ningún tipo de dirección política: nadie ha organizado todo esto», cuenta Nona Fernández, escritora muy valorada en Italia y autora de La dimensón oscura, una obra maestra del siglo XXI, donde analiza y reconstruye la dictadura a través de los gestos y de los pensamientos de un torturador confeso. Si nos limitamos a mirar las imágenes de la violencia en las calles «generada en gran parte por los militares y atribuida al lumpen – continúa Fernández – significa no darse cuenta de que el lumpen ha brotado de años y años de liberalismo. No se trata de absolver al lumpen de sus responsabilidades, pero es una víctima más de este asqueroso sistema que nos ahoga y nos obliga a querer siempre algo, y luego algo más, y más todavía». Bajo la tensión social sangra la memoria histórica: no siempre es verdad que las heridas se curan dejándolas abiertas. «No ha habido suficiente reparación de la dictadura; Pinochet murió como senador vitalicio y su féretro fue velado en la Escuela Militar de Chile, como ex comandante en jefe. Millares de familias, sin embargo, a día de hoy no saben todavía nada sobre el paradero de los restos de sus seres queridos, o se los ven entregar a plazos y en cachos, como en el caso del periodista Carlos Berger», añade Ghigliotto.

La fragmentación de la izquierda favoreció la vuelta de Piñera a la dirección del país; los medios de comunicación chilenos, además, están controlados, en su mayoría, por grupos económicos cercanos al gobierno, y en lugar de ilustrar de forma limpia las causas de la excerbación social, han señalado con el dedo y los focos de sus cámaras los saqueos en los supermercados, las farmacias, los cajeros de los bancos, cuando la protesta se ha expandido; nadie sin embargo ha dicho que, mientras tanto, la policía se entretenía en la protección de los barrios altos de la ciudad.

La presencia de los milicos en las calles, el toque de queda, la declaración del estado de emergencia son los símbolo del error garrafal cometido por Piñera; son el resorte que ha atrasado de treinta años las agujas del reloj de la memoria de Chile, enconando los ánimos de la gente. Por otra parte este es un gobierno de parentesco y de sólidos lazos con la dictadura de 1973: parientes son el presidente Piñera y el ministro del Interior Chadwick (este último y otros miembros del ejecutivo fueron colaboradores de Pinochet) y a su vez tienen parientes que banquetean gracias a la suculenta tarta de las privatizaciones. Un 49% de los ciudadanos no votó a la derecha en las últimas elecciones; Piñera consiguió captar el voto de las franjas más despolitizadas de la ciudadanía agitando el fantasma de “Chilezuela”.

«Todo es transparente, ahora, en Chile», dice la escritora María José Ferrada, autora de Kramp, una historia de rebelión a los esquemas, que se tiñe de renovada fuerza a la luz de las protestas de estos días. «La imagen de Chile como país estable que se proyectaba hacia fuera, saltó por los aires. Es complejo, pero la aceptación de las cosas tal y como estaban, nos estaba haciendo tan mal como el gas lacrimógeno». El web y las redes sociales han sido clave para lijar ese halo de perfección; el motor de lo que en Italia llamamos “la maquina de embarrar”, aludiendo a las fakes news que a menudo la red genera, en este caso se ha puesto en marcha dentro de los periódicos, de las televisiones y las radios cercanos al poder del Estado.

En un último, pindárico y extremadamente ridículo intento de adjudicarse y manipular la protesta que consiguió reunie en la calle a más de un millón y medio de personas solamente en Santiago, Piñera ha declarado «Todos queremos un cambio», anunciando una tardía remodelación del equipo de gobierno y un bloqueo de las subidas, compensado por una redistribución de los recursos. Esto significa que no rozará siquiera a los empresarios; dejará tranquilas a las élites y, por consiguiente, en las calles no cambiará nada, añade Nona Fernández: «Nadie quiere que esto pare ni que se recupere ningún tipo de normalidad, porque ahora tenemos en nuestras manos una oportunidad histórica: cambiar la Constitución, conseguir una que garantice los derechos de todos los ciudadanos y ciudadanas, no solo de las empresas y de sus dueños. Queremos cambiar por completo el tablero sobre el que llevan treinta años jugando».

No podemos olvidar a los muertos causados por la brutalidad de la represión de la protesta; las estimas oficiales hablan, en este momento (el domingo 27 de octubre, n.d.r.), de 19 personas; sin embargo otros datos elevan la cifra a más de 200. Además van estallando incendios incontrolados y entre los escombros humeantes aparecen cadáveres: existe la sospecha de que los militares tiren allí a los asesinados, para deshacerse de sus cuerpos. Según el informe del Instituto Nacional de Derechos Humanos, el 25 de octubre los detenidos eran 3.162, entre los cuales había 545 mujeres y 343 niños, niñas y adolescentes. Quince las denuncias presentadas por violencia sexual. Parece que la represión fue mucho más feroz en las provincias que en Santiago.

¿Qué hay que hacer, qué podemos hacer, entre todos, ahora? «La protesta representa la vuelta a la conciencia de lo importante que es el sentimiento de comunidad», explica Paolo Primavera de Edicola Ediciones, una editorial que tiene raíces tanto en Italia como en Chile. «Para muchas sociedades, esto es una lección de vida: cancelando el egoísmo podemos ser el motor de todo cambio deseable», añade. «Lo que pasa allí fuera, en Hong Kong, en Beirut, en Siria, en Caracas, nos concierne y nos toca de cerca, porque todos estamos conectados. La fragilidad y la vulnerabilidad nos han vuelto más fuertes, nos han despertado», termina la escritora Lola Larra. Es sin duda el momento de darle la vuelta a la tortilla, como cantaban los Quilapayun en los años 60: «que la tortilla se vuelva que los pobres coman pan y los ricos mierda, mierda»; e incluso, si se tercia, de desmentir al gran Zurita, luchando contra la desinformación y haciendo que ni Italia ni Europa aparten la mirada de Chile y de sí mismas.

Traducción de Monica R. Bedana

La versione in italiano dell’articolo di Monica R. Bedana è stato pubblicato su Left
dell’1 novembre 2019

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La pacchia finita del vicesindaco leghista

Dice che è stata “un’odissea”, ha detto proprio così, il vicesindaco di Sarzana Costantino Eretta, leghista duro e puro di quelli che i clandestini li caccerebbe a calci perché dice che è giusto così. E invece si è ritrovato clandestino e ora viene a farci la lezioncina ripetendo quello che da mesi si prova a dire. I fatti: lo scorso 6 novembre Eretta parte per la Cina con il vicesindaco di Mulazzo, Claudio Novoa, e un giornalista della Gazzetta della Spezia. Devono pubblicizzare i propri prodotti, missione “commerciale”, si direbbe. Eretta perde il passaporto e da lì in poi è lui stesso a raccontare l’accaduto:

«Salito sul volo della China Airlines all’aeroporto romano di Fiumicino ho tenuto il mio passaporto nella tasca interna della giacca che ho riposto nel stipetto sopra il mio posto. All’arrivo però il documento era sparito e non so dire se sia andato perduto o mi sia stato rubato. Ho subito fatto presente la cosa alle autorità locali e mentre la nostra delegazione partiva con tutti gli altri membri per rispettare il programma, ero convinto di risolvere la cosa denunciando lo smarrimento del passaporto», ha spiegato il vicesindaco del Carroccio.

«Ho mostrato la lettera di invito dal governo cinese, pensavo di raggiungere il gruppo in un secondo momento. Ma sono stato trattato come un clandestino, nessuno che parlasse un inglese accettabile o mi spiegasse perché non si volesse risolvere il problema. Sono stato 15 ore confinato in dogana, osservato dalle guardie, costretto a chiedere il permesso per recuperare da bere, mangiare o andare in bagno».

E poi:

«Sono stato trattato da immigrato clandestinoSono stato bloccato al mio ingresso in Cina e forzatamente rimpatriato, con la polizia italiana che mi attendeva a Malpensa e dopo essere stato trattenuto nell’area dogana dell’aeroporto di Pechino con le guardie a custodirmi quasi 15 ore, davvero un’odissea».

Immaginate i cinesi cosa avranno pensato: questo italiano che vuole danneggiare le nostre aziende e che finge di avere perso i documenti, troppo elegante per avere bisogno di venire in Cina, potrebbe vendere le sue cose a casa sua e se nasconde la propria identità è perché sicuramente non vorrà che si sappia tutto di lui. A casa. La pacchia è finita.

Buon lunedì.

Le mani dei falsari su Modì

Subito dopo la morte di Modigliani cominciarono le truffe, la produzione di falsi dei suoi quadri si è particolarmente intensificata negli ultimi anni. Un libro inchiesta di Mondini e Loiodice ne ricostruisce le vicende, alcune – non solo quella delle teste ritrovate a Livorno – davvero clamorose

*

Povero Modì, lui che era elegante anche nella miseria più nera, che non pensava ai soldi se non per quel che servivano alla sopravvivenza, preferendo dedicare tutta la propria energia all’arte, alla ricerca, al rapporto con la donna, è diventato dopo la sua morte oggetto di speculazione milionaria, di traffici e di truffe, che non conoscono sosta, oggi più che mai. A scommettere sulla sua immagine e sulla sua storia di giovane artista di talento, colto, affascinante, déraciné furono per primi alcuni mercanti che alimentarono la leggenda dell’artista maudit, spingendolo verso l’abisso. L’alcol e le droghe accelerarono la sua fine precoce, a soli 36 anni, per tubercolosi. Malattia del secolo allora, che pesava anche come stigma, di cui Modigliani cercava di coprire i sintomi ricorrendo a sostanze. All’indomani della sua scomparsa, il suicidio della sua compagna – la giovane pittrice Jeanne Hébuterne, incinta di 9 mesi – accese il cinismo predatorio di commercianti, falsari e sedicenti esperti.

Già a partire dalla prima metà del Novecento all’opera di Modì si era dedicato il falsario Elmyr de Hory e in tanti poi fiutarono l’affare. La storia è lunghissima e dolorosa, come ricostruiscono Dania Mondini e Claudio Loiodice, (giornalista di Rai Uno ed ex poliziotto, entrambi della Fondazione Caponnetto) nel L’affare Modigliani edito da Chiarelettere, libro inchiesta ricchissimo di documenti che mette alla sbarra gli avvoltoi di ieri e di oggi. Quasi impossibile ripercorrere in breve questo volume che scorre come un giallo per 300 pagine. Ci limitiamo a citare quegli episodi che ci aiutano a capire anche ciò che sta avvenendo oggi, con le quotazioni delle opere di Modì schizzate a livelli vertiginosi (Nu couché è stato venduto per 170milioni di dollari nel 2015 e Nu couché (sur le coté gauche) per 157 nel 2018), mentre fioccano esposizioni blockbuster che promettono esperienze immersive nell’opera di questo straordinario artista ridotto a fumetto in 3d (in queste settimane accade a Otranto) ma, fatto ben più grave, spuntano mostre di Modigliani che spacciano per originali delle copie o addirittura dei falsi. Nel 2010 al Castello Ursino di Catania furono esposti disegni annunciati come autografi, con critici come Claudio Strinati che ne lodavano la «qualità estrema, introversa e introspettiva», quando si trattava in realtà di fotocopie in alta definizione di disegni, a loro volta falsi. Qualcosa di simile è accaduto a Palestrina, ma l’episodio più clamoroso è occorso nel 2017 con la mostra di Modigliani in Palazzo Ducale a Genova: 21 delle 40 opere esposte sono state additate come falsi dal collezionista Carlo Pepi e dal critico Marc Restellini, ex direttore della Pinacoteca di Parigi, curatore della mostra appena aperta a Livorno e autore del catalogo ragionato delle opere di Modì annunciato per il 2020.

Il problema è proprio questo: non esiste un catalogo critico dell’opera di Modigliani, la sua vita nomade, i continui traslochi, l’impeto che lo portava a distruggere disegni, quadri e sculture ne hanno reso incerti i confini. Al momento sono 337 i quadri registrati nell’ancora oggi accreditato catalogo di Ambrogio Ceroni ma circolano 1.200 opere attribuite all’artista. Che pare aver prodotto più da morto che da vivo, chiosano con amara ironia i due autori. Figura chiave in questa lievitazione del catalogo è lo storico dell’arte Christian Parisot, «condannato nel 2008 in Francia per falso e truffa, arrestato nel 2012 in Italia per falso e ricettazione e poi assolto nel 2019», come riportano Mondini e Loiodice. Conobbe la figlia di Modigliani, Jeanne, a Parigi negli anni 70 quando lei insegnava italiano alla Sorbona, diventandone l’uomo di fiducia, al punto da arrivare a gestire gli Archivi legali Modigliani, utilizzati poi nei riconoscimenti. Grottesca, per usare un eufemismo, è anche la vicenda dell’Istituto Archivi legali Amedeo Modigliani Parigi-Roma, fondato da Christian Parisot e Luciano Renzi. L’obiettivo, oltre la produzione di mostre, era la creazione di una casa Modigliani nella Capitale. «Parisot e Renzi impiegarono circa due anni per avviare il progetto. Nel frattempo tessono la loro fitta rete di relazioni, incontrano l’allora sindaco Veltroni e suscitano un’entusiastica quanto improvvida disponibilità anche nell’allora ministro dei Beni culturali Rutelli. Peccato che a Parigi la polizia avesse indagato l’archivista per falso e truffa». I materiali dell’Archivio dovevano, come da accordi, essere trasferiti all’Archivio di Stato, ma non ve n’è traccia, come hanno verificato i due autori, con il direttore Buonora. Approdarono a Palazzo Taverna ma anni dopo furono ritrovati, venduti a privati, Oltreoceano. «Il processo per i fatti di Palazzo Taverna, le cui indagini erano partire nel 2010, si è concluso il 28 febbraio 2019 con una inesorabile prescrizione», riporta L’affare Modigliani.

Faremmo torto a questo libro, però, se ci soffermassimo solo sul lavoro d’inchiesta, che pure riserva molte sorprese, in particolare nel capitolo dedicato alle teste di Modì rinvenute a Livorno in occasione del centenario della nascita, nel 1984. Non entriamo qui nei dettagli per non togliere il gusto della lettura di pagine abitate da un’intera folla di personaggi e trame che si diramano dalla mitica Casina rossa livornese, ritrovo di intellettuali, militanti e perditempo. Diciamo solo che il quadro che ne esce non è affatto quello di una burla, ma di una molteplice truffa orchestrata su più piani, di cui i ragazzotti dell’Ardenza furono, forse, inconsapevoli comprimari. Mentre autorevoli storici dell’arte (da Brandi, ad Argan) cadevano nella trappola di quelle teste abbozzate con il trapano, la voce di Jeanne Modigliani si levò con chiarezza per dire che non erano originali. Di lì a poco sarebbe morta in circostanze ancora non del tutto chiare, per quanto i suoi ultimi anni fossero stati instabili e molto difficili. Insofferente verso il cliché romantico che aveva inchiodato Modì al trito e falso binomio genio e pazzia, Jeanne aveva messo minuziosamente insieme l’Archivio per documentare l’arte e la vita di questo artista poliglotta, che recitava a memoria Dante, che amava Nietzche, Dostoevkij e Lautremont, che giudicava Picasso troppo razionale e cercava ispirazione nei primitivi. Il fratello di Modì, l’avvocato e senatore socialista, Giuseppe Emanuele, era riuscito ad assicurare i diritti dell’opera garantendo l’erede. «Si era battuto affinché a Jeanne nata illegittima fosse attribuita la paternità di Amedeo e la sua eredità morale». Cosa che poi fu allargata al fratellastro, il sacerdote Gerald Thiroux Villette, che Modì non aveva mai voluto riconoscere. Parigina (anche se cresciuta a Livorno dalla nonna Eugenia) docente universitaria, donna indipendente, Jeanne non voleva solo ricostruire filologicamente l’opera di Modì ma voleva restituire alla storia la complessità della sua personalità. Ci provò anche con un libro Amedeo Modigliani, mio padre (Abscondita) cercando di nascondere, dietro un approccio che provava ad essere distaccato, le proprie ferite.

Se Dedo torna a Livorno

L’originalità di Modigliani sempre in bilico fra classico e avanguardia. La sua straordinaria ricerca è raccontata in una mostra nella città labronica, che ospita opere delle collezioni Netter e Alexandre, nel centenario della scomparsa dell’artista

di Simona Maggiorelli

Dal  1917 è uno degli artisti più in vista. Il lavoro sulle cariatidi, le sculture, il rifiuto del cubismo, la diffidenza verso le premesse di un’avanguardia che giudica superficiale e che qualche anno più tardi sfocerà nel surrealismo (anche se il suo libro preferito è Les Chants de Maldoror), i suoi scandali a ripetizione, il più celebre dei quali fu quello dei nudi che la polizia portò via dalla galleria di Berthe Weill, avevano rafforzato l’idea che ha di sé stesso», così scrive lo storico dell’arte e curatore Marc Restellini nell’introduzione al catalogo (edito da Sillabe) della mostra Modigliani e l’avventura di Montparnasse che, nel centenario della morte dell’artista lo riporta a Livorno.

All’epoca «i suoi amici sono Apollinaire, Chaïm Soutine, Paul Guillaume, Blaise Cendrars, le sue amanti, Anna Achmatova e Béatrice Hastings, entrambe poetesse. Poi – aggiunge l’ex direttore della Pinacoteca di Parigi – dal 1917, il suo unico amore è una giovane artista, fragile e talentuosa, Jeanne Hébuterne, da cui ha già avuto una figlia e che al momento della sua morte era di nuovo incinta». La notizia della morte di Modì il 24 gennaio 1920 «fu uno shock incredibile – sottolinea Restellini -. Aveva affascinato tutti a Parigi. Era conosciuto per il talento brillante e l’intransigenza verso tutto ciò che riguardava l’arte».

E ancora oggi Modì continua a incantare con quei suoi ritratti di donne dal collo lungo, dalle orbite vuote come le maschere africane e dallo sguardo sognante perso nella lontananza e nella malinconia. Continua a sedurre con un’arte originalissima, insieme moderna e arcaica: forme essenziali, primarie, sintesi poetica in bilico fra figurazione e astrazione, segno potente. Ricreando in tinte calde, la forma colore di Cézanne, nella rappresentazione viva e vibrante della presenza femminile.

L’esposizione aperta fino al 16 febbraio nel Museo della città di Livorno lo racconta attraverso un percorso di 120 opere, fra le quali tele e disegni di Dedo (così lo chiamavano in famiglia) provenienti dalle collezioni Netter e Alexandre confrontate con quelle di artisti coevi e amici, con i paesaggi vibranti di Utrillo, con le Grandes baigneuses di Derain omaggio a Cézanne con i nudi possenti di Suzanne Valadon e i paesaggi sghembi, quasi terremotati, di Soutine, con i ritratti di Moïse Kisling che riuscì a ritrarre lo schivo Netter. Il percorso promette di ripercorrere tutta la vicenda di Modì fin dal suo arrivo a Parigi, dopo aver esordito nell’attardato solco dei macchiaioli ed aver studiato senza entusiasmo all’Accademia di Venezia. Nella bohème di Montmartre si tuffò cercando stimoli nuovi, forte di una solida cultura classica nutrita dalla passione per Simone Martini, l’Orcagna, Carpaccio, Filippo Lippi, Botticelli e di altri maestri della linea. Una passione che a Parigi trasse nuova linfa dall’arte egizia, dalla scoperta dell’arte negra, da suggestioni ricavate dalla cabala ebraica (era nato in una famiglia di cultura ebraica, ma era ateo), dalla scultura khmer ma anche e soprattutto dalla grande retrospettiva dedicata a Cézanne che era da poco scomparso, mentre Picasso si accingeva a rivoluzionare la scena dell’arte con le Demoiselles d’Avignon (1907). Di lì a poco Modigliani iniziò a schizzare cariatidi modellate su quelle egizie, greche, medievali. All’epoca sognava ancora di diventare scultore. L’incontro con Brancusi lo aveva spinto sulla strada dell’arte «a levare», ma l’impresa era difficile, anche sul piano fisico. Intanto disegnava. La mostra di Livorno (che in altra forma ha già fatto tappa a Milano e a Roma) presenta 12 disegni provenienti dalla collezione Alexandre in aggiunta alle 14 provenienti dalla collezione Netter (che arrivò a possedere 40 opere di Modì). Ci sono i celebri ritratti di Jeanne e di Zborowsky, l’ultimo mercante. A quadri più noti sono affiancati i disegni che Modì regalò o vendette al collezionista e amico Paul Alexandre,  un medico suo coetaneo che fra i primi  ne vide il talento offrendogli di vivere al 7 di Rue Delta dove soggiornavano altri artisti (Modì vi portò solo colori e tele, preferendo dormire in una stanza d’albergo). Dal 1906 al 1914 i due si videro quasi tutti i giorni per parlare di arte, filosofia e letteratura. Fu Alexandre a iscriverlo al Salon des Indépendents ma poi la guerra li separò. La mostra livornese racconta anche la seconda parte della storia di Modigliani: dal 1915 fu il primo pittore a legarsi a Zborowski che intercettava giovani esordienti per il collezionista Netter, il quale pagava loro stipendi in cambio di opere. Modì gli affidò la propria produzione per 15 franchi al giorno, più la fornitura dei materiali (colori, tele e modelle) e il rimborso spese dell’albergo. Fu Zborowski, con il sostegno finanziario di Netter, a organizzare la personale allestita nella galleria di Berthe Weill con i nudi di Modigliani che si vedevano dalla finestra. La polizia minacciò di sequestrare le opere se non fossero state immediatamente ritirate. Ma Zborowski non si scoraggiò e nel 1919 espose alla Hill Gallery di Londra dieci tele di Modigliani, riuscendo a riscuotere un certo successo. Netter non ascoltò le critiche e le voci avverse che gli arrivarono dal proprio ambiente. Un discorso a parte meriterebbe Berthe Weill, la prima gallerista donna, in quegli anni, che amava l’arte ben più dei soldi al punto da finire quasi in miseria. A lei solo di recente è stata dedicata una monografia. Onore alla storica dell’arte Marianne Le Morvan che ne ha ricostruito la storia nel volume Berthe Weil 1865-1951. La petite galeriste des grands artistes (L’Ecarlate, 2011), rendendole giustizia e sottraendola all’oblio. 

Gli articoli di Simona Maggiorelli sono stati pubblicati su Left dell’8 novembre 2019

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MedFilm festival, quando il cinema guarda al reale e si fa impegno sociale

«La cultura del Mediterraneo guarda all’Europa, l’Europa guarda alla cultura del Mediterraneo», è il senso del 25esimo MedFilm, festival internazionale che si tiene fino al 21 novembre a Roma presso il Cinema Savoy, il Macro Asilo, il Nuovo Cinema Aquila e lo Spazio Apollo Undici.

Al centro del MedFilm festival ci sono la tutela dei diritti umani e il dialogo interculturale.
Ne abbiamo parlato con la presidente e fondatrice del festival, Ginella Vocca.

– Qual è il filo conduttore tra le opere presentate al festival?
Il filo conduttore consiste nell’andare a cercare nel contemporaneo, attraverso la cultura del bello,  il giusto, il reciproco, l’equo, il diverso, l’accolto. Questa edizione ha il focus su quattro Paesi: Tunisia, Libano, Spagna e Slovenia, quasi a immaginare un enorme spazio racchiuso tra questi quattro punti. Quest’anno inoltre c’è un “programma nel programma”, quello del Walk with women. Il 25° anniversario del festival coincide infatti con il 40° anniversario della Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne. Sarà conferito il Premio Amnesty International per i diritti umani sul tema della prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne. Parallelamente si tiene la mostra fotografica WWW: Walk With Women presso il mercato rionale di Piazza Alessandria per tutta la durata del MedFilm. Già l’anno scorso avevamo dedicato il festival alle donne, non solo al tema delle donne violate ma anche alla loro forza creativa e produttiva.

– Parli di “corridoi umanistici”. Da una parte quindi l’idea di un corridoio, qualcosa che unisca e metta in contatto, dall’altra l’umanistico, l’arte, il bello. Come il cinema, l’arte, il bello possono cambiare o aprire la nostra visione sul contemporaneo, che potere ha il cinema?
La forza dirompente delle immagini sapientemente messe in sequenza è uno strumento potentissimo di messa in relazione con le culture degli altri, è un linguaggio diretto e non mediato, una finestra potentemente aperta sul mondo. Solo se vedi capisci di più quello che ti circonda, quello che succede intorno.

– Il tema dello sguardo tra Europa e Mediterraneo è il simbolo del vostro manifesto. In 25 anni di festival questo sguardo è cambiato? L’Europa guarda al Mediterraneo con indifferenza?

Quest’anno abbiamo realizzato una raccolta curata da Roberto Silvestri di due blocchi da 13 film recuperati dal nostro archivio e che verranno proiettati all’Apollo 11 dal 20 novembre. Sono opere che possono raccontare il mutamento a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. Da parte mia risento assolutamente di questo cambiamento e di questa indifferenza, sia come organizzatore del festival ma anche come cittadina. Penso a Liliana Segre che ha urlato il tema dell’indifferenza che ci impoverisce e nel corso di questi 25 anni mi rendo conto che l’attenzione al proprio sé e alle nostre sole necessità ci ha resi ciechi. E c’è poi la cecità delle istituzioni culturali che non interpretano più la realtà. Se il cittadino comune è indifferente all’ennesimo naufragio, all’ennesima morte sul fondo del mare è perché le istituzioni culturali hanno smesso di essere un avamposto della nostra umanità. Non lo sono.
Nell’illustrazione simbolo del festival, di Marino Amodio e Vincenzo Del Vecchio, c’è l’idea e l’auspicio di uno sguardo che vuole incrociare le migliori volontà dei paesi europei, affinché vivano il Mediterraneo come il loro mare, allo stesso modo di tutti quei paesi che si bagnano nello stesso mare, perché ognuno possa dire: questo è “il mare nostrum”.

– Il cinema, l’arte, il bello possono quindi essere impegno sociale?
Sì, il nostro è un festival militante e militiamo affinché i giovani possano prendere coscienza, lavoriamo moltissimo nelle scuole o negli istituti di pena e siamo qui ogni anno, con grande forza e resilienza, a mostrare la bellezza delle diversità e delle culture molteplici. L’augurio è di poter ricostruire un’egemonia culturale non fatta di slogan ma di lavoro sul campo, del parlare con le persone, nelle scuole, senza avere paura della diversità.

-> Qui il programma <-