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L’autunno freddo dell’Ilva

TARANTO, ITALY - DECEMBER 8: The port of Taranto on December 8, 2017 in Taranto, Italy. The Ilva steel plant of Taranto is the largest in Europe. For years they have been discussing on the environmental impact produced on the city of Taranto, the nearby inhabited areas and in particular the Tamburi district, an area inhabited in the seventies by steel workers, today sadly known for the very high percentage of deaths due to tumors and lung diseases. The recent crisis and the procedures for the sale of the plant, today puts at risk the future of the workers and of the induced, the Italian Government has started a series of consultations to guarantee the work of about 14,000 workers and the health of the residents, announcing the desire to keep the factory open, despite the long-standing environmental issue. (Photo by Ivan Romano/Getty Images)

ArcelorMittal annuncia di andarsene dall’ex Ilva proprio mentre andiamo in stampa. Una mossa che viene subito definita «una bomba sociale» e che complica un autunno già incredibilmente difficile per la tenuta di salari, contratti e posti di lavoro.

Spiega Sergio Bellavita di Usb che il colosso indiano potrebbe volere «un nuovo scudo penale, la disdetta degli impegni occupazionali, ottenere un’ulteriore, scandalosa proroga dei termini di adeguamento alle prescrizioni e uno sconto sostanzioso sul canone di affitto. La seconda ipotesi è che effettivamente abbia deciso di revocare l’investimento in Italia. In questo caso comunque la multinazionale avrebbe tratto un grande profitto dall’aver impedito che il gruppo siderurgico andasse a un’impresa con reali volontà industriali».

Per il 91% dei lavoratori di Taranto, che hanno risposto a un questionario di Usb, è il governo che avrebbe dovuto annullare il contratto con ArcelorMittal. Per 1211 lavoratori (96,6% dei 1524 questionari) non è giusto «garantire ad ArcelorMittal o ad altri lo scudo o l’immunità penale». E solo 17 di loro, ad un anno dall’ingresso del colosso, ritiengono che lo stabilimento sia migliorato dal punto di vista della sicurezza degli impianti e dell’ambiente.

Il 97,6% denuncia l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone perché non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente. Invece, nella debolezza della politica, si ripropone con violenza il conflitto tra lavoro e ambiente, una delle peggiori varianti della guerra tra poveri.
Un’altra variante di quella guerra è…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola da venerdì 8 novembre

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Da Berlino a Ramallah

RAMALLAH, WEST BANK - AUGUST 6. A graffiti titled "Art Attack" made by the British, guerrilla, graffiti artist Banksy is seen on Israel's highly controversial West Bank barrier in Ramallah on August 6, 2005. Banksy has made a name for himself with provocative images stencilled around the streets of London. On his recent trip to the Palestinian territories he has created nine of his images on Israel's highly controversial West Bank barrier. (Photo by Marco Di Lauro/Getty Images)

«Nella vita precedente ero il muro di Berlino. Lì la birra era più buona». La scritta, con la vernice nera, prende un paio di blocchi di cemento della barriera israeliana sulla strada palestinese che da Ramallah porta a Nablus. Il muro che Tel Aviv ha iniziato a costruire nel 2002, in piena seconda Intifada, è lungo 712 chilometri, quasi il triplo della lunghezza della Linea verde dell’armistizio del 1948 tra il neonato Stato di Israele e i Paesi arabi.

Un serpente che corre dentro la Cisgiordania e ne mangia ulteriori terre: secondo l’Onu, una volta terminato, avrà inglobato in Israele 52.600 ettari di terra palestinese, separando circa 150 comunità dai propri appezzamenti. Perché il muro, presentato 17 anni fa come indispensabile a garantire la sicurezza dei cittadini israeliani, non è mai stato terminato: della barriera (in alcuni tratti blocchi di cemento alti otto metri, il doppio di quella che divideva in due Berlino, in altri rete elettrificata e trincee) è stato realizzato meno del 70 per cento.

Interi pezzi di muro mancano, non ci sono, e diventano la via di accesso dalla Cisgiordania in Israele di decine di migliaia di lavoratori illegali palestinesi che cercano impieghi senza contratto né diritti nelle imprese agricole e i cantieri israeliani. La ragione sta nell’effettivo obiettivo del muro: non la sicurezza, ma l’ulteriore annessione di terre della Cisgiordania occupata allo Stato di Israele. Il serpente non è lineare, non corre lungo la Linea Verde, ma entra all’interno, circonda le colonie e – di fatto – le annette al territorio israeliano.

Di quei 712 km, 202 ruotano intorno a Gerusalemme. La città santa, internazionale secondo le Nazioni Unite, è sbarrata. Una colata di cemento ha separato, per la prima volta nella storia, Betlemme da Gerusalemme e provocato un crollo dell’economia palestinese: Gerusalemme Est ha visto chiudere migliaia di negozi, i clienti non ci sono più, impossibilitati a oltrepassare quell’innaturale barriera. E 90mila palestinesi residenti a Gerusalemme si sono ritrovati in Cisgiordania, con blocchi di cemento che li hanno divisi dai vicini di casa pochi metri più in là.

Tutto in nome della sicurezza. Quel muro, in tal senso, non è l’eccezione in Medio Oriente. È la regola. Il solo Israele ne ha costruiti altri quattro: uno a Gaza (“arricchito” negli ultimi mesi dall’ennesima barriera che entra in mare, un muro sottomarino e uno in superficie che parte dalla costa ed entra per 200 metri nel Mediterraneo); uno con il Sud del Libano, 11 km completati nel 2018 lungo la Linea Blu, l’armistizio tracciato nel 2000; uno con l’Egitto, 245 km in mezzo al deserto che dal 2013 impediscono l’ingresso dei richiedenti asilo africani.

E uno addirittura dentro una delle sue città: Led (in arabo, Lod in ebraico), a pochi chilometri da Tel Aviv, dovrebbe essere una città mista, abitata sia da palestinesi che da ebrei, ma a dividere i quartieri e i cittadini c’è una barriera interna che impedisce ai primi di muoversi liberamente.

Talmente tante barriere che i palestinesi ci scherzano su: «A forza di costruire muri, Israele si è chiuso dentro». Ma dietro c’è un’ideologia radicata, quella della separazione tra “noi” e “loro” che l’Europa sta facendo sua. Se non ti vedo, non esisti. E l’ha fatta sua da tempo il mondo arabo dove per un muro che cade, altri ne spuntano. Perché un muro è caduto: è quello che per 15 anni ha separato la Green Zone dal resto di Baghdad. Costruito nel cuore della capitale irachena subito dopo l’invasione americana del 2003, è stato abbattuto a fine 2018, restituendo alla città il quartiere dei ministeri, le istituzioni, le ambasciate.

A Baghdad si è festeggiato per giorni: caroselli di auto, sventolio di bandiere irachene, ragazzini curiosi di vedere cosa c’era al di là della barriera che ne ha segnato la vita e adulti felici di veder portare via il simbolo dell’occupazione statunitense.

Ma altri muri, in Iraq, esistono e resistono. Anche al tempo: quello che separa il Paese dal Kuwait, costruito dagli Stati Uniti dopo la prima guerra del Golfo, è ancora lì. E appena quattro anni fa ne è apparso un altro: tirato su dall’Arabia Saudita per impedire l’ingresso ai miliziani dell’Isis (che di finanziamenti dalle petromonarchie del Golfo ne han ricevuti). Quasi mille chilometri che corrono dalla città di Tureif, a ovest, a Hafar al-Batin a est, corredati di sistemi radar, trincee, 40 torrette militari. Un muro i sauditi lo hanno costruito anche lungo il confine con lo Yemen, nel 2003, facilmente superato dai caccia che dal marzo 2015 bombardano il Paese più povero del Golfo.

Risalendo verso Nord il panorama non cambia. Cambiano i nemici. La Turchia del presidente Erdogan, che ha fatto per anni transitare senza ansie di sorta i miliziani dello Stato Islamico, chiude la porta ai siriani in fuga. Nel 2015 a Diyarbakir, “capitale” del Kurdistan, cuore del Sud-est turco a maggioranza curda, ci indicavano i noti ritrovi di adepti del califfo al-Baghdadi pronti a trasferirsi nella vicina Siria: «Se lo sappiamo noi – ci diceva una giovane attivista – dovrebbe saperlo anche il governo». Lo sapeva. E usava la stessa tratta: l’ex direttore del quotidiano di opposizione Cumhiriyet, Can Dundar, si è fatto tre mesi di prigione (prima di un breve rilascio che gli ha permesso di fuggire in Germania) per aver documentato il trasferimento di armi dai servizi segreti turchi a gruppi islamisti nel nord della Siria.

Il muro è arrivato dopo: la guerra che Ankara ha infiammato ha costretto alla fuga dodici milioni di siriani, la metà della popolazione totale. Sette sono sfollati interni, cinque rifugiati all’estero. Di questi almeno tre milioni hanno trovato rifugio in Turchia prima che le autorità turche chiudessero le frontiere (in concomitanza con i sei miliardi di euro che la Ue ha deciso di accordare a Erdogan in cambio dello stop alle partenze verso la rotta balcanica).

I lavori per il muro con la Siria del Nord sono iniziati nel 2015, un anno prima dell’invasione turca del Nord-ovest siriano. I 764 km di barriera sono stati completati un anno fa e dividono oggi il Bakur (il Kurdistan turco) da Rojava e il suo confederalismo democratico. L’Isis può passare, la rivoluzione democratica no. Né i rifugiati: chi passa muore. Decine di persone sono state uccise dalla gendarmeria turca e chi è stato catturato vivo ha raccontato di pestaggi e torture prima di essere rispedito indietro.

Muri di cemento, di filo spinato, trincee. Chilometri in mezzo al deserto, tra le case o a fendere il mare. Barriere che dividono persone, separano culture, privano della terra. È quello che da quasi 40 anni fa il secondo muro più lungo del mondo, dopo la Muraglia cinese: è la barriera di pietre e sabbia eretta dal Marocco nel Sahara Occidentale. I lavori iniziarono nel 1980, 2.700 chilometri nel deserto a dividere i Territori occupati dai Territori liberati saharawi.

Un luogo di morte: disseminate lungo tutto il percorso ci sono milioni di mine, impossibili da individuare ed eliminare. Squadre di sminatori saharawi lo fanno ogni giorno, le individuano, le segnalano, poi le dune si muovono e chissà se l’ordigno è ancora dove sventola la bandierina bianca o la busta di plastica messa là apposta. Gli sminatori sono tra i pochi esseri umani che si avvicinano, gli altri sono i militari dell’esercito marocchino che pattugliano il “confine”.

Quel muro “invisibile” divide i Territori liberati con la lotta armata dal Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi, dal resto del Sahara occidentale, illegittimamente occupato dal Marocco.
Nei Territori liberati non vive pressoché nessuno: la gran parte del popolo saharawi, 250mila persone, è da quattro decenni profugo nei campi nella vicina Algeria, gli altri vivono – repressi e controllati dalle autorità di Rabat e 250mila marocchini tra coloni e militari – nei Territori occupati. E nel silenzio del mondo, negoziati che non avanzano, referendum di indipendenza promessi e mai realizzati, il Sahara occidentale rimane l’ultima colonia d’Africa.
(da Left del 12 aprile 2019)

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Il Muro crollò… e nacque Tangentopoli

epa07137157 People take pictures of a mural 'My God, Help Me to Survive This Deadly Love' or 'Fraternal Kiss' by Russian painter Dmitri Vrubel depicting a kiss between General Secretary of the Communist Party of the Soviet Union Leonid Brezhnev and General Secretary of the Socialist Unity Party of Germany Erich Honecker at the East Side Gallery, in Berlin, Germany, 02 November 2018. The East Side Gallery, the open-air memorial stretches for more than one kilometer and features more than 100 murals on the longest remaining part of the former Berlin Wall. EPA/FELIPE TRUEBA

Alle origini di Tangentopoli c’è la fine della Guerra fredda. Nel discorso pubblico, la grande inchiesta che pretese di spianare corrotti e corruttori con il passo delle armate del generale Bava Beccaris è un fenomeno autonomo, vive di luce propria, innescato dalla caparbietà di un gruppo di magistrati, in particolare dalla testardaggine di una toga molisana ruspante e cruda come può essere la saggezza popolare. Certo, l’impatto dell’azione giudiziaria è tale che si impone nelle cronache del tempo: le scalinate del palazzo di giustizia di Milano, i cronisti sfiniti dopo ore di attesa per conoscere i nomi dei nuovi indagati, sospettati che si autodenunciavano al citofono appena un appuntato suonava, una collettiva eccitazione allo scoccare delle manette che portò, ad esempio, un procuratore della Repubblica, Marcello Maddalena, a dire pubblicamente che «il momento più bello era quando si riusciva a incarcerare qualcuno». Le cifre, del resto, così imponenti da influenzare la ricostruzione successiva: circa 5mila persone coinvolte, centinaia di esponenti istituzionali, 1.233 sentenze, un quadro che giustizia quell’idea di un evento in grado di disintegrare il sistema dei partiti. Ma non è così.

Mani pulite, come venne chiamata la maxi inchiesta giudiziaria, fu possibile, al contrario, perché il sistema dei partiti, fondamentale impalcatura dello Stato repubblicano italiano, era stato letteralmente “bombardato” dalla caduta del muro di Berlino. Non occorre evocare manovre complottistiche (o i pur strani incontri tra un magistrato di punta del pool di Milano e la super-spia statunitense Michael Ledeen). Nelle crisi di sistema, come fu quella che colpì l’Italia in quel particolare passaggio della storia mondiale, i punti nevralgici del “crollo” sono molteplici, impossibile indicare un luogo o un nome che possa comodamente fungere da principio ordinatore. Sarebbe affascinante, magari tirando un solo filo, far crollare tutto e guardare in faccia l’unico responsabile. Nel nostro caso, invece, è più efficiente la visione “gaddiana” delle cose: per il commissario Francesco Ingravallo le catastrofi impreviste non hanno mai un’unica causa, come sostengono alcuni filosofi, ma sono generate da svariati motivi.

Nel caso dei cicloni, quelli che riservano a tutti una fase di profondo e generale sconvolgimento, quelli che cambiano la vita delle persone e di un intero Paese, cercare un’unica causa è…

L’articolo di Stefania Limiti prosegue su Left in edicola da venerdì 8 novembre

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Quelli che odiano i bambini

MATTEO SALVINI GIORGIA MELONI GIOVANNI TOTI PRESIDENTE REGIONE LIGURIA

embra quasi un copione studiato a tavolino. Quando si parla di «ius soli», quando si ricordano le decine di migliaia di giovani nati e cresciuti in Italia, ma a cui vengono negati i diritti di cittadinanza, ecco che arriva la risposta pronta. La senti ripetere come un ritornello da Matteo Salvini, da Giorgia Meloni, nonché da tutti i loro seguaci, accoliti e ammiratori variamente assortiti. È una risposta che più o meno suona così: «I diritti dei minori devono essere garantiti, ci mancherebbe, ma la cittadinanza è un’altra cosa». Chiaro no? Loro mica vogliono allontanare i minori nati in Italia. Loro hanno a cuore la vita e il benessere dei bambini e delle bambine. Solo che, ecco, un conto è tutelare i diritti, quello è sacrosanto, un altro conto è riconoscere la cittadinanza. Sono due cose diverse. Sembrerebbe un discorso logico: ma i discorsi logici, a volte, scivolano lungo insidiosissimi piani inclinati, e finiscono per andare in un’altra direzione rispetto a quella annunciata. Ed è proprio ciò che è successo in questi mesi, quando il Viminale, asseritamente così attento ai diritti dei minori, ha partorito una circolare che precarizza lo status dei bambini, soprattutto di quelli nati in Italia. Per capire cosa è successo, bisogna però fare un piccolo passo indietro.

I diritti dei minori nati in Italia… Quando un bambino nasce nel nostro Paese, come noto, non acquisisce la nazionalità italiana, ma «eredita», per così dire, la cittadinanza dai genitori: se è figlio di immigrati, rimane straniero, e come tutti gli stranieri deve avere un permesso di soggiorno. Secondo la legge, il minore «segue la condizione giuridica del genitore», il che vuol dire – in sostanza – che prende un permesso di soggiorno uguale (o analogo) a quello di mamma e papà. Così, se mamma e papà hanno un permesso a tempo indeterminato, senza scadenza, anche il bambino prende un permesso a tempo indeterminato: in questo caso, il fortunato bebè non dovrà – in futuro – richiedere periodicamente il rinnovo dei suoi documenti, e non rischierà di diventare irregolare per mancanza dei requisiti necessari a restare in Italia. Insomma, il figlio di genitori «lungosoggiornanti» (così si chiamano i titolari dei permessi a tempo indeterminato) gode di un diritto pieno e incondizionato alla permanenza in Italia. Certo, non ha la cittadinanza, ma almeno nessuno potrà mai cacciarlo dal Paese in cui è nato e cresciuto.

… e la circolare del Viminale Proprio su questo punto interviene la circolare del ministero dell’Interno, uscita il 6 settembre di quest’anno, ma divulgata sui siti specializzati solo nelle ultime settimane. Sarà bene fare attenzione alle date, perché ci forniscono un indizio prezioso: la circolare risponde a un quesito della Questura di Firenze inviato nel mese di aprile 2019; si deve quindi supporre che i tecnici del Viminale abbiano elaborato il testo tra la primavera e l’estate, nel periodo in cui al ministero c’era ancora Salvini. La circolare è uscita però solo a settembre, quando agli Interni era già arrivata Luciana Lamorgese. Siamo di fronte – almeno così sembra – a un provvedimento «bipartisan», serenamente condiviso dai due governi Conte. E veniamo al testo della circolare. Il ministero stabilisce che i figli di…

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola da venerdì 8 novembre

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Io e Internet. Breve storia della rete, da Arpanet ai nostri giorni [2/4]

[Segue da qui]

4. Dio-Google

Verso la fine di agosto del 2001 ero di nuovo a Carnegie-Mellon ed un amico mi dice. “Ehi lo sai che esiste Google?” Prima Google non c’era! O meglio pochi ancora lo conoscevano anche se era nato nel 1998. Naturalmente in rete esistevano già dei motori di ricerca, ma erano poco pratici, farraginosi e soprattutto davano spesso risultati inattendibili. Google invece funzionava e ci indovinava quasi sempre. Ma non era solo questo. Google era veramente la cosa più vicina a un “dio” che l’umanità avesse sino allora inventato!. Vado avanti con questa idea da più di dieci anni. E ogni anno, incredibilmente, con gli studenti scopriamo una nuova caratteristica. Dio-Google è tendenzialmente onnisciente (chi può negarlo?), è infinito (l’informazione si espande ad ogni secondo) è onnipotente (i due fondatori sono tra i più ricchi al mondo), è onnipresente. Ultimamente abbiamo scoperto che “Dio-Google” ci ascolta (ci sono film a proposito) e che un’altra interessante caratteristica divina è che “Dio è semplice”. E come si può negare che Google abbia fatto della semplicità la sua arma principale? Sperando di avervi convinto, passiamo ad altro.

Google crea continuamente sotto-mondi: per esempio Google Art, Google Scholar, Google Books. Ricordo ancora quando un mio ex-studente da qualche parte d’Europa mi scrisse: “Prof, ma ha visto questo?” Era Google Earth, una rivoluzione epocale per me e per il mio insegnamento. Google Earth consentiva non solo di navigare le mappe fornite dal sistema, ma di creare mappe fatte da ciascuno di noi. Precedentemente – come gran parte dei professori di Progettazione architettonica e urbana – sceglievo un’area libera e stilavo un programma specifico per l’edificio da progettare (una biblioteca, una scuola, un’asilo). Tutti gli studenti facevano il progetto per lo stesso tipo di edificio sulla stessa area. Ma ora con Google Earth mappavo cinquanta aree o vuoti urbani in un determinato settore della città e chiedevo agli studenti di scegliere ciascuno un’area e di ipotizzare un programma adatto per quella area. Così avevo cinquanta progetti diversi su cinquanta aree diverse. Una rivoluzione con ricadute importanti nella condivisione del progetto, nella possibilità di interloquire con la realtà sociale, con la liberazione delle forze e delle energie propositive di ciascuno studente.

5. Arrivano i Blog e i podcast

I progetti erano pubblicati nel blog di ciascuno studente. Tutti i blog collegati tra loro venivano a costituire una rete interna al corso, ma soprattutto esterna. Le proposte infatti erano messe a confronto con associazioni e con possibili clienti o promoter che si muovevano nel territorio. Con queste persone gli studenti intessevano relazioni e avevano incontri per trovare soluzioni comuni. Questo sistema va avanti dal 2009 in una serie di progetti urbani che durano dai tre ai cinque anni. Il 14 dicembre al Museo Macro presentiamo nella sala Roma l’esito dell’ultimo progetto redatto con questa modalità. Si chiama “UnLost Territories, ricostruire la periferia a Roma”, segue il progetto Tevere cavo di cui Left si è già interessato.

Dal punto di vista dell’uso di Internet, un progetto urbano come Unlost Territories da una parte fa tesoro della rivoluzione della “mappatura informatica” innestata da Google Earth dall’altra partecipa della rivoluzione dei Blog. Si tratta di un ambiente che rende ancora più facile ed interattivo l’uso al web a molte persone. Fu chiamato web 2.0.

In particolare i blog sono efficaci ambienti di collegamento per notizie, musica ed audio attraverso dei “feed” che prendono il contenuto da una parte e lo inseriscono automaticamente in un’altra. Nel mio caso iniziai ad avere un blog per partecipare della grande rivoluzione dell’iTunes Store quando nell’ottobre del 2005 la Apple aprì la pubblicazione del Podcast. Di nuovo, l’aspetto più interessante dell’iTunes Store non era tanto quello di poter acquistare la musica, ma quello di poter pubblicare – “nello stesso negozio virtuale di Madonna” – il proprio Podcast. E cioè un prodotto audio o video che poteva essere scaricato in qualunque computer oppure lettore mp3 e successivamente telefonino. Ci misi i Podcast di miei interi corsi universitari e qualche volta mi è capitato di essere fermato da studenti di altre sedi, aficionados di queste mie lezioni on line. Il mio Podcast esiste ancora e tiene gli ultimi sette prodotti caricati.

 

6. Libri on demand

Attorno alla metà degli anni Duemila, arrivarono anche in Italia gli editori on demand. Era una fantastica novità tutta consentita dalla rete internet. Se un editore tradizionale era obbligato a stampare almeno trecento copie di un libro, con tutti i rischi legati all’invenduto e all’immagazzinamento, un editore internet stampava solo “on demand”. Stampava cioè quando il libro gli veniva effettivamente ordinato. L’autore caricava un pdf già impaginato (o comprava il servizio di impaginazione e redazione), l’editore internet rendeva il libro disponibile nella sua libreria virtuale e anche nelle principali librerie sul web (per esempio in Amazon). L’editore tratteneva una percentuale sul prezzo di acquisto che decideva l’autore. Chi voleva, comprava il libro su internet e se lo faceva arrivare a casa, oppure comprava la versione elettronica e lo aveva istantaneamente! Che idea meravigliosa. Mi misi subito al lavoro e attraverso questo sistema risolsi due grandi crisi. Innanzitutto la versione inglese della collana “The IT Revolution in Architecture” che era arrivata al 26 volume si era arrestata con l’editore in Inglese. Scoprii che il nuovo editore italiano poteva farne anche una versione in inglese, ma non poteva distribuirla. Allora la misi on demand con l’editore internet e facemmo così altri sette volumi. La seconda grande crisi che risolse i’editore on line fu per i libri ideati e prodotti nel dottorato di ricerca ai tempi del mio coordinamento. Uscirono in questo modo cinque libri on demand, senza gravare su soldi pubblici e con una distribuzione ebook gratis che un editore tradizionale non ci avrebbe concesso. Ve ne accludo uno per il free download dedicato ad Alessandro Anselmi, un grande architetto italiano scomparso nel 2013. Contiene saggi di colleghi e prestigiosi amici e approfondimenti dei dottorandi, Ve lo raccomando.

Anche in questo caso si trattava dell’applicazione delle stesso principio. Bisognava essere “trasmettitori di informazioni, non semplici utenti “ era questa la promessa di Internet che bisognava sempre perseguire. Poco prima di questi avvenimenti era nato YouTube che permetteva la condivisione dei contenuti video. Era responsabilità di ciascuno di noi decidere cosa rendere disponibile in questo canale televisivo personalizzabile. Ho molte decine di video, e sono legato a quello sulla morte di Pasolini in relazione alla P2. Un amico mi raccontava di che cambiamento antropologico c’è oggi non solo nei giovani, ma anche negli adolescenti e quasi nei bambini. Che idea del sesso possono avere dei dodici o tredicenni attraverso YouPorn?. Per rispondergli ho elaborato una formula: “È sempre responsabilità dei grandi” gli ho detto. E per grandi intendo non solo per età, ma per cultura, per sensibilità, per intelligenza. Sono “i più grandi” che hanno l’obbligo di creare un orizzonte di senso. Se questo orizzonte di senso non viene creato c’è l’abisso della violenza, della pornografia, della droga e dello sballo. Tutto amplificato da Internet. Che non è né buono né cattivo, è solo un incredibile acceleratore.

L’uso dei social, che nel frattempo sono diventati onnipresenti, è un bel campo di battaglia a questo proposito. Ricordo che un altro amico (meno male che ne ho!) una volta mi disse: «C’e un modo intelligente anche di girare una maniglia».

[Seconda puntata – SEGUE]

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Antonino Saggio, insegna dal 1985 Informatica e Architettura prima alla Carnegie-Mellon di Pittsburgh, poi all’ETH di Zurigo e dal 1999 alla “Sapienza” di Roma. Ha fondato la collana internazionale “La rivoluzione informatica in Architettura” (Birkhauser, Edilstampa) che dal 1998 ha prodotto 38 volumi ognuno incentrato su una personalità o su un tema rivelante per comprendere il grande cambiamento di orizzonte teorico e culturale di cui l’Informatica è portatrice anche per l’architettura.

Il coraggio della verità

Una visione epica dell’esistenza e della letteratura. Una lingua ricca di aromi, carnale, nitida. Con grande spessore letterario e umano, Maryse Condé, premio Nobel alternativo 2018, ha raccontato la sua terra madre, l’isola caraibica di Guadalupe e le ferite del colonialismo. Grande viaggiatrice, dalla Francia, scelse di andare a vivere e a insegnare in Africa, rifiutando ogni mitologia delle radici, per conoscere quella immensa e variegata realtà con i propri occhi. A 82 anni ora lo racconta nell’autobiografia La vita senza fard (La Tartaruga), coraggiosa testimonianza di scrittrice e donna che si presenta senza infingimenti.

Maryse, la verità chiede coraggio, identità, assunzione di responsabilità, cosa significa per lei la parola «verità» e quanto le è costato cercarla sempre?

C’è un’immagine che caratterizza ognuno di noi, che uno lo voglia o meno. Un’ immagine fatta da propositi a volte concepiti senza troppe riflessioni, da reazioni momentanee, immediate. Questa immagine a volte ne nasconde una più profonda, più adeguata alla propria personalità più intima. Quello che io chiamo verità è la ricerca costante dell’espressione di sé più autentica, al di là delle idealizzazioni e dei malintesi. Non è un’impresa facile, è un lavoro di demistificazione, è il rifiuto di ciò che è comodo e facile ricordare. Questa ricerca è dolorosa e costa a coloro che vi si dedicano seriamente.

Nel dittico Le muraglie di terra e La terra in briciole lei riporta alla luce la storia di Segou e della sua islamizzazione, dall’arrivo del primo bianco sul Niger fino alla conquista coloniale francese. La verità storica ha una grande importanza collettiva, ma troppo spesso viene negata?

Non ho inventato nulla. Tutto il mondo sa che Mungo Park era stato inviato dalla Società di geografia inglese per scoprire in quale senso scorresse il fiume Niger, chiamato “Joliba” dagli africani. Sono partita da questo aneddoto per raccontare la vita dei primi abitanti dell’impero Bambara. Ho voluto mostrare lo iato profondo tra il racconto costruito dagli europei e quello autoctono degli africani su se stessi.

Le responsabilità coloniali dell’Occidente vengono ancora occultate da quegli stessi Paesi occidentali che oggi chiudono le porte ai migranti…

Rispetto al tema migranti non mi sono occupata nello specifico di come vengono accolti in Europa. Beninteso, è giusto che vengano soccorsi e ospitati da persone sensibili e attente. La mia analisi, i miei interessi sulla questione sono di altro ordine, però. Io vorrei scandagliare a fondo le origini delle migrazioni. Perché ci sono tanti conflitti nei Paesi in via di sviluppo? Chi ne è la causa? È una questione di sfruttamento (schiavitù) a spingere le persone a auto esiliarsi, ad affrontare la morte su imbarcazioni di fortuna? Cerco di capire dove siano le responsabilità e di immaginare i rimedi possibili a questa situazione così drammatica e dolorosa.

Nel libro Io, Tituba, strega nera di Salem (Giunti)racconta una terribile strage di accusati di stregoneria, avvenuta nel XVII secolo. Il mandante era anche l’ideologia puritana. Perché nella storia le grandi religioni monoteiste si sono sempre accanite contro le donne?

Non lo so. Tituba è un libro in cui esploravo l’imposizione della perdita dell’identità della donna nera. Lo spiega bene la prefazione che Angela Davis ha scritto per nell’edizione americana del libro.

Con il suo lavoro lei ha contribuito a dare voce alle donne e agli uomini dei Caraibi. Il premio Nobel alternativo per la letteratura che le è stato assegnato nel 2018 è un riconoscimento particolarmente importante perché nasce dal rifiuto della violenza sulle donne.

Sono stata molto felice di ricevere il premio Nobel per i motivi che ho spiegato nel mio lungo discorso di Stoccolma. Nella società in cui sono cresciuta non c’era posto per la voce di una donna, per giunta nera.

Anche il Nobel Derek Walcott è stato voce poetica e civile dei Caraibi, che significato ha avuto per lei il suo lavoro?

Proprio in quel discorso ho ricordato come sia stata felice di far conoscere un altro aspetto insondato della realtà delle Antille, di lavorare sulle tracce di Aime Cesaire, Frantz Fanon e Derek Walcott. Una grande parte del mondo è stata ridotta al silenzio ed è stato difficile proprio per i miti e le menzogne che si sono accumulati durante gli anni della colonizzazione. Questo compito è lungi dall’essere colmato, restano ancora molti sforzi da compiere come dice la canzone “Un giorno la Terra sarà rotonda”.

Per oltre vent’anni lei ha insegnato a Berkeley, Harvard e alla Columbia University e conosce profondamente la realtà americana. Gli Stati Uniti sono diventati un simbolo di libertà nel mondo, ma sono anche una nazione nata sul genocidio. Perché ancora oggi non se ne parla abbastanza?

Parecchie nazioni hanno conosciuto lo stesso destino. Certamente i genocidi degli Indiani sono un fatto per cui ci sentiamo in colpa, come è giusto che sia. La memoria è importante, ma credo anche che la storia moderna necessiti una epoché delle realtà del passato per arrivare all’armonia dello scambio e della vita in comune che oggi è indispensabile.

Ricongiungiamo il lavoro alla conoscenza

Il mutamento del lavoro nella società globale impone nuove sfide e problemi, la disoccupazione tecnologica è uno di questi. Disoccupazione di massa, precarizzazione, lavori a chiamata (che rendono impossibile ogni progetto di vita) sono alcuni dei molti problemi sul tavolo dei governi di diverso colore. Ma nella storia umana, ovviamente, il lavoro è stato visto e vissuto in modi molto diversi fra loro e di questo da sempre si occupano oltre ai politici anche storici, sociologi, politologi e filosofi. Se nell’antichità l’otium letterario era l’aspirazione del cittadino sulla pelle degli schiavi e delle donne, nel medioevo cattolico il lavoro era castigo divino, condanna biblica. Sono stati i protestanti poi a creare l’etica del lavoro e del razionalismo ascetico a tutto vantaggio del capitalismo. Se per molti secoli il lavoro è stato per i più una necessità per la soddisfazione dei bisogni oggi potrebbe essere mezzo per una realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Paradossalmente però proprio ora che la rivoluzione tecnologica ci potrebbe permettere di affrancarci dai lavori di fatica il turbo capitalismo produce disoccupazione e nuovi schiavi. Abbiamo chiesto al filosofo Remo Bodei di ripercorrere con noi alcune tappe di questa storia millenaria del lavoro per arrivare ai problemi che si aprono oggi.
Professor Bodei, come era considerato il lavoro nella Grecia antica, dove a lavorare erano soprattutto schiavi e meteci?
Non bisogna pensare che i cittadini liberi non lavorassero, che stessero sempre in assemblea con la pelle del leone politico. Ciò che era condannato era il lavoro alle dipendenze di qualcun altro.
Gli schiavi non erano visti come pienamente umani, a differenza del cittadino greco libero e maschio?
Accadeva loro ciò che è successo anche alle donne. Non si dava il diritto di voto alle donne perché si pensava che dovessero essere i mariti, padri, i fidanzati a guidarne le scelte. Nel mondo antico si procuravano gli schiavi con le guerre. C’è un grande mito fondativo di tutta la società occidentale basato in realtà sulla necessità economica. La parola «servus», per esempio viene da servare, avere salva la vita, più che da servire. Invece di essere uccisi in quanto nemici si aveva salva la vita in cambio del lavoro coatto. Nell’antichità gli schiavi venivano considerati come individui a cui manca la pienezza del Logos, si negava la loro capacità di guidarsi da soli, la loro capacità di decidere. Hanno bisogno di qualcuno che li comanda, di una mente di cui loro siano il braccio, dicevano i Greci antichi.
Una negazione dell’identità umana degli schiavi che è durata millenni?
Per un lunghissimo periodo la schiavitù non è stata messa in discussione da nessuno. Persino gli schiavi che diventavano liberti volevano avere schiavi. Il Cristianesimo considerava gli uomini uguali davanti a Dio ma non su questa terra. Tutto cambia quando la schiavitù diventa meno conveniente, quando per la prima volta le macchine non era più solo delle specie di giocattoli che creavano meraviglia, perché non si capiva come una semplice leva riuscisse a sollevare grandi pesi con piccolo sforzo. Tutte le macchine antiche erano macchine pneumatiche ad aria calda, ma l’unica che serviva a qualcosa era quella inventata da Ctesibio, un ingegnere meccanico di Alessandria d’Egitto del III sec. che aveva il padre barbiere e inventò le sedie che si alzano e si abbassano come quelle de Il grande dittatore di Chaplin. Poi un’invenzione importante è stato il molino ad acqua romano nel I sec d.C. Le macchine erano considerate un’astuzia, un inganno alla natura. Le arti meccaniche erano considerate degne di operai manuali ed erano ben distinte da quelle liberali considerate arti nobili.

Una svolta ci fu con la cosiddetta civiltà delle macchine?
Un punto di svolta ci fu quando Galileo dimostrò matematicamente che non c’era nessuna astuzia, che l’uomo non gioca tiri mancini alla natura, non è come un astuto Odisseo che uccide la natura stupida e grossa, come Polifemo. L’unica astuzia che c’è nelle macchine è quella economica, la forza del vento, costa meno della forza degli animali e dell’uomo. Così nasce la civiltà delle macchine. Con la rivoluzione industriale per la prima volta si vede che la schiavitù non è conveniente. Si avviò in questo modo un grande processo per cui dallo schiavo antico si passò marxianamente allo schiavo salariato delle grandi fabbriche. Per cui gli schiavisti nel Sud degli Stati Uniti ebbero buon gioco a dire: in fondo allo schiavo diamo vitto e alloggio e il suo lavoro è sicuro, mentre in fabbrica non vedono la luce del sole, c’è un clima pessimo, acidi, rumore ecc. Inoltre possono essere licenziati, tanto il padrone della fabbrica troverà sempre chi li sostituisce.
Discorsi che sentiamo fare ancora oggi, purtroppo. E qui veniamo al tema della sua lectio per Con-vivere, quest’anno dedicato a tema del lavoro: il passaggio dal modello taylorista all’intelligenza artificiale.
C’è un punto da considerare: le macchine ausiliatrici, quelle della catena di montaggio taylorista, impegnano solo il corpo mentre la mente è libera di vagare. Non così le macchine calcolatrici su cui riflette già Leibniz. Per la prima volta permettono all’uomo di sottrarsi a quegli automatismi che le macchine possono espletare lasciando libero il pensiero creativo. L’invenzione del primo computer, lo sviluppo delle macchine di Touring, sono passaggi chiave. Con la cosiddetta intelligenza artificiale noi abbiamo questo miracolo, in apparenza: per la prima volta il Logos, la decisione non abita in corpi viventi ma è trasferita nell’inorganico, nelle macchine, nei robot in tutti i dispositivi di intelligenza artificiale. E questo provoca grandi cambiamenti che hanno ripercussioni enormi. C’è chi dice – ma l’ipotesi è dubbia – che le macchine possano diventare talmente intelligenti da poter a un certo punto emanciparsi dall’intelligenza umana. Quel che vediamo oggi sono i risvolti che riguardano il lavoro.
Come affrontare la disoccupazione tecnologica?
La disoccupazione tecnologica è un problema che c’è da due secoli ma che oggi è molto più ampio. La difficoltà è anche tenere il passo con le macchine. Certamente per quanto riguarda il calcolo sono più efficienti di noi.
Già Marx parlava di tempo liberato. Le macchine potrebbero liberare dalla fatica e in questo modo indirettamente favorire così la piena realizzazione umana?
Non c’è dubbio. Altrimenti si cade nel vittimismo e si prospetta questa gigantomachia, macchina – uomo, come due entità contrapposte che chiedono soluzioni unilaterali. In realtà le macchine sono un grande vantaggio. Ma va detto anche che si calcola che il 40 per cento della produzione umana sarà frutto di robot di ultima generazione, si parla di robotica cloud, capace di collegarsi momento per momento all’archivio di dati.
Lei insegna all’Università della California, qual è l’ultima frontiera della robotica oltreoceano e quale impatto ha sul mercato del lavoro?
A San Francisco alcuni robot non vengono messi in produzione perché sarebbero un disastro dal punto di vista sindacale e umano. Ci sono robot capaci di fare 400 panini con hamburger all’ora. È facile immaginare che impatto abbiano sul lavoro nelle catene di fast food: disoccupazione di massa. A Las Vegas ci sono automi che preparano cocktail al posto dei barman. Nella contea delle arance in California stanno per essere messi in commercio raccoglitori velocissimi che lasceranno senza lavoro i poveri messicani. In prospettiva il numero dei posti di lavoro potrebbe riequilibrarsi, ma il problema è anche quanto tempo ci metteremo ad adeguarci e che tipo di formazione serve. Le macchine hanno un deep learning o un machine learning che le rende molto veloci dal punto di vista produttivo. Ciò che ci salva sono la nostra unicità e imperfezione. Non ci possono copiare completamente. Un calciatore che tira in porta un pallone è inimitabile per intuizione, velocità della palla, eleganza del tiro, l’angolazione ecc. Non è vero che il nostro cervello sia l’hardware e il pensiero sia il software.
Quanto alla disoccupazione tecnologica?
Si calcola che 820 mestieri saranno cancellati. Alcuni studiosi di Oxford sostengono che il 47 per cento dei lavori spariranno. In Paesi tecnologicamente avanzati anche dal punto di vista della robotica come la Germania la disoccupazione è al 4 per cento. Questa innovazione tecnologica colpirà soprattutto i Paesi più arretrati che potrebbero soffrire di danni irreversibili. Lo scenario rischia di essere un mondo spaccato in due come nel romanzo di Huxley.
Come evitare che le persone più anziane, gli adulti analogici siano esclusi da questa rivoluzione tecnologica per mancanza di know how?
Questo è il problema più importante. Provo a dirlo con una battuta: dovremo curare la formazione continua, fare come l’esercito svizzero: c’è un periodo di ferma ed è quello degli studi che ciascuno fa, poi ci dovrebbe essere un richiamo continuo, non solo per i singoli mestieri, ma per la conoscenza generale, altrimenti saremo una società di idioti nel senso greco della parola, di gente che capisce solo il suo mondo piccolo, il suo mestiere.
È una questione politica, dunque?
Non si può ignorare, per esempio, che gli algoritmi segreti di Facebook e altri social possono essere usati dai militari, dall’industria, ecc. (il caso di Cambridge analytica insegna). Assistiamo al ritorno dei poteri occulti, c’è un lavaggio (soft) del cervello. Facebook, Google, sembrano gratis in realtà li paghiamo alimentando le loro banche di dati. I Big data sono fattori che ormai condizionano. Una serie di nodi vanno sciolti. Ma ripeto, al centro c’è l’educazione del cittadino. Nella catena di montaggio l’operaio compie movimenti standardizzati, ma il sapere riguardo a ciò che fa ce l’hanno solo ai vertici amministrativi della fabbrica. Bruno Trentin diceva che il problema era ricongiungere il lavoro alla conoscenza. Nuovi tipi di lavoro catturano l’intelligenza, non solo il corpo delle persone, solo che questa intelligenza è spesso catturata dal general intellect che è quello del capitalismo algoritmico, come vien chiamato. E dei rischi ci sono. Faccio un esempio: le auto senza pilota sono un sistema innocuo, ma i sistemi missilistici che sparano senza che ci sia un immediato controllo umano. Oppure pensiamo gli algoritmi finanziari di Wall street che avendo un linguaggio segreto sfuggono alla democrazia conosciuta che vive di linguaggi naturali e confronti fra persone.
La democrazia rappresentativa attraversa un momento di crisi ma sovranismo e nazionalismo sono gli strumenti per affrontare le sfide di cui stiamo parlando?
Stiamo assistendo ad un ritorno agli anni Trenta: nazionalismo e protezionismo economico. È una involuzione. Certo, tanti si sono fatti della globalizzazione un’idea tout court emancipatoria. Ma i processi globali non possono essere affrontati con referendum: globalizzazione sì, globalizzazione no. Bisogna cercare di capire leggendo il quadro mondiale. Non con l’ottica sovranista ristretta. Quanto al ministro Salvini, che si mette con Orban chiedendo la solidarietà in certo modo dell’Europa, mi sembra faccia un atto del tutto contraddittorio. Non sarà certo Orban o il gruppo di Visegrad ad accettare la redistribuzione dei migranti.
Servono anticorpi?
Il problema grosso è il mantenimento dei nostri valori di uguaglianza, libertà ecc. Come dice la sociologa Saskia Sassen i super ricchi si sono tirati fuori dagli eventi dell’umanità e hanno creato un loro Aventino escludendo il resto dell’umanità. Ogni elemento di contrasto alla povertà è stato abbandonato. Il darwinismo sociale è diventato darwinismo mondiale: si arrangi chi può. Come in certi posti in Brasile dove le case dei ricchi hanno il filo spinato, poliziotti, guardie armate. Si va verso un neo feudalesimo. Chi può si arrocca, gli altri rischiano di diventare clienti o servi della gleba. Non è che non esistano anticorpi, serve una sinistra che abbia la capacità di reagire, non semplicemente ricordando il passato, ma con una nuova visione, lavorando per cambiare la percezione distorta che la gente ha della migrazione.

Non l’avevamo mica salvata, Liliana Segre

Holocaust survivor and Italian Senator for Life, Liliana Segre, gestures upon her arrival at Milan' Shoah Memorial while waiting the arrival of the Italian President Sergio Mattarella, 21 May 2019. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Forse ci eravamo illusi che bastasse questo: avere visto la sconfitta dei tedeschi, avere rimosso Mussolini, avere aperto i cancelli dei lager, essersi seduti per scrivere una Costituzione con le migliori menti del Paese per evitare la rinascita di qualsiasi dittatura, avere letto le parole di Primo Levi, avere portato i partigiani a scuola per raccontare cosa fu il fascismo, avere organizzato incontri con i deportati perché i loro tatuaggi fossero i nostri tatuaggi. Abbiamo pensato che dopo un orrore del genere, dopo avere tollerato che le persone diventassero fumo sarebbe stato impossibile ricaderci.

E abbiamo pensato di averla salvata, Liliana Segre, lei e i sopravvissuti alla sventura, abbiamo pensato di averli onorati del nostro dolore e della compassione e abbiamo pensato che ora Liliana Segre fosse al sicuro. Ci sbagliavamo. Eccome. E non ci sbagliavamo solo perché ora abbiamo in giro una grande donna, anziana gentile, nobile solo per come non abbia mai ceduto al giogo della rabbia e della vendetta che deve essere protetta dallo Stato per l’odio che scorre contro tutto quello che rappresenta ma ci sbagliavamo anche perché ci eravamo convinti di dovere proteggere Liliana Segre dal passato e invece abbiamo costruito un presente che la mette in pericolo, ancora.

In pericolo da una vita, Liliana Segre: significa che non ne siamo mica usciti da quel rancido periodo di violenza. È cambiato il fascismo, sotto traccia e dissimulato in sovranismi vari all’amatriciana, ma questo Paese è ancora un pericolo per la Segre. Ecco, scusate, a me fa scoppiare il cervello sapere che non l’abbiamo mica salvata Liliana Segre, non è tanto la questione della scorta, mica solo questo, è la consapevolezza che questo Paese sia ancora “pericoloso” per lei a non andarmi giù, che in tutti questi anni non abbiamo voluto vedere la brace che sotto bruciava ancora.

«Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea», scriveva Primo Levi. Noi pensavamo che fosse un capitolo di Storia. Invece è una diagnosi dell’oggi.

Buon venerdì.

Sulla facciata spuntano i volti del Duce: così a Zenson di Piave si vorrebbe sdoganare il fascismo

Zenson di Piave è un piccolo comune in provincia di Treviso, ci vivono circa milleottocento anime, ed è il paese in cui sono cresciuto. Da luogo al centro della storia, qui è successo di tutto: paesi interi rasi al suolo dalle bombe, campagne martoriate, campanili abbattuti. Si è fatta la Grande guerra, ed è stata una di quelle terre “ad di là del Piave” a non capitolare mai. A pochi minuti di bici da qui c’è il punto esatto in cui fu ferito Hemingway mentre volontario si muoveva sul nostro fronte assieme alla Croce rossa americana, proprio quelle stesse campagne che racconterà in Addio alle armi e a cui fa riferimento esplicito il titolo del meno conosciuto Al di là dal fiume e tra gli alberi.

Dopo anni, nella piazza principale del paese appaiono in bella mostra due effigi del volto di Benito Mussolini. Un Palazzo restaurato, in pieno centro, sulla cui facciata riemergono due ritratti del Mascellone, diventa notizia. I volti sarebbero ricomparsi grazie ai proprietari del palazzo che avrebbero voluto riportare alla luce quelle immagini, risalenti, a loro dire, al Ventennio fascista.

Sentir dire che «non c’è alcuna apologia di fascismo», come sostiene il sindaco di Zenson Daniele Dalla Nese, lascia a dir poco sconcertati. Nel frattempo, mentre vari siti di “informazione alternativa” della destra italiana hanno parlato di “bufala” tentando di smontare o quantomeno ridimensionare la portata della notizia, alcuni si appellano al fatto che le immagini del mezzobusto del duce fossero già storicamente presenti sulla facciata e di come i proprietari, in un recente restauro, abbiano solo deciso di “riportare alla luce” quelle decorazioni, nella cornice di un’operazione che, sempre il sindaco, ha definito «una semplice ricostruzione storica».

Ma in questa narrazione emergono numerose inesattezze, che vanno precisate. Innanzitutto le facce del Duce sono tre, non due, un paio sulla facciata rivolta alla piazza, più una aggiuntiva, per non farsi mancare nulla, rivolta verso la piazzetta tra il comune e la farmacia, (che peraltro si chiama Piazza 2 giugno, proprio la Festa della Repubblica). Secondo, quello che sanno tutti in paese è che la famiglia Berto, proprietaria dell’immobile ha forti simpatie di destra. Terzo: siti come Il Primato nazionale e altri sostengono che il restauro sarebbe vecchio di un anno o più e che quindi la sinistra stia usando solo il pretesto in un momento in cui le tensioni razziali sembrano riemergere con forza – si vedano le vicende Balotelli e Segre -, cercando quindi di “cavalcare l’onda”. E questo è falso per almeno due motivi: il primo è che non si “cavalca” un’onda delle tensioni razziali, se emergono ritorni nostalgici al passato si sottolineano e si condannano, in qualunque momento essi accadano o vengano alla luce dell’opinione pubblica, anche se fossero scoperti solo tardivamente. Il secondo è che il caso vuole che se sì, il restauro è stato affrontato da più di un anno, le pitture invece risalgono a questo ottobre 2019, quindi a pochi giorni fa.

A sorprendere è l’ipocrisia di chi afferma, come fanno i proprietari, che i volti del duce ci sono sempre stati, e restaurando la facciata sono solo stati riportati ai colori del tempo. «Lo stampo era stato conservato per mezzo secolo nella soffitta», hanno dichiarato tentando di rimarcare per l’ennesima volta come l’intento non fosse propagandistico, bensì storico.

Tra chi commenta l’episodio in paese, molti dichiarano di non comprendere “tutto questo scandalo intorno alla vicenda”, aggiungendo che in fondo esistono tante opere simboliche di quel periodo, e che la damnatio memoriae non serve a nulla. Ma in questo caso, peraltro, non si tratta di conservare o meno interi edifici eretti nel Ventennio – si pensi ad esempio alle polemiche attorno al mantenimento dei palazzi costruiti nel periodo fascista all’Eur a Roma. Qui siamo di fronte ad un fenomeno diverso, qui in maniera gratuita si è deciso di riportare marcatamente alla vista delle pitture che i segni del tempo avevano giustamente occultato, e che non aggiungevano nulla alla completezza del manufatto, che avrebbe continuato a sopravvivere anche senza simili effigi. Pertanto nascondersi dietro il “riportare il palazzo a come era prima”, fregiandosi del “solo intento storico” è nascondersi dietro un alibi, peraltro piuttosto debole.

Il sindaco Dalla Nese, dal canto suo, ha ricordato che al Comune spetta solo di vagliare e far rispettare la regolarità urbanistica ed edilizia e che «sotto quei frangenti il restauro si è svolto secondo le regole», per poi aggiungere che nell’eventuale rimozione di quelle immagini «il comune non ha alcun potere, non è compito nostro. Se qualcuno segnalerà la cosa, nei modi e nei luoghi idonei, valuteremo il da farsi».

Dopo la segnalazione arrivata dal Segretario provinciale del Pd Giovanni Zorzi, l’onorevole dem Chiara Braga presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedere l’intercessione del prefetto affinché provveda a far eliminare quelle immagini. «Da molti anni, ormai – ha dichiarato Braga – assistiamo a una sempre più insistente riscrittura della storia d’Italia e a ogni tipo di giustificazionismo nei confronti dell’ideologia fascista, della dittatura mussoliniana e delle innumerevoli malefatte risalenti a quel periodo storico come, ad esempio, gli omicidi e le incarcerazioni degli oppositori politici che si permettevano di contrastare il regimi, anche molti veneti tra cui Giacomo Matteotti. Si tratta di una politica di rimozione inaccettabile».

Senza fare un processo alle intenzioni, la questione è semplice e lineare, se vogliamo essere uno Stato credibile, (ri)nato da una Costituzione sorta dai valori della Resistenza, occorre far rispettare alcune basilari regole: quel volto, lì sopra, non ci deve stare.

L’enigma B. Traven

Sul tavolo dove scrivo, accanto a una pila di vecchi libri che non ristampa nessuno da una vita (La nave morta, Il tesoro della Sierra Madre, I ribelli e Il ponte nella giungla, I racconti della giungla messicana…), c’è una serie di foto in bianco in nero. È il mio mazzo di carte truccate, un rompicapo. Cinque fototessere con le didascalie ingarbugliate. Il primo volto, l’unico di profilo, è quello di un ragazzo sui vent’anni. Indossa una giacca pesante, il farfallino, il colletto rigido dei giorni di festa o dei funerali. Hermann Otto Albert Maximilian Feige (oppure Faige) viene ritratto a Schwiebus, Magdeburgo, in una foto d’inizio secolo nell’allora Germania (oggi Polonia).

Nella seconda immagine gli stessi occhi (ma tiro a indovinare, è un’illazione) guardano in macchina con una certa arroganza, intensamente, agli angoli della bocca una piega ironica e beffarda. La cravatta stavolta ha un grosso nodo allentato da bohémien; la giacca gli casca sulle spalle senza più marchingegni, imbottiture. Saranno passati una decina d’anni. La foto dice Ret Marut: è un nome d’arte, s’intende, uno pseudonimo; l’attore Ret Marut, Marut l’agitatore anarchico, il ribelle. Le altre tre foto sono di un individuo sulla cinquantina.

Traven Torsvan ha le stesse labbra sottili di Marut ma il ghigno s’è fatto amaro e spiove in giù. Veste ancora in modo formale, senza pose. Dove sia stato scattato questo ritratto non è chiaro. E poi due tremolanti e sfocate figure di sogno. Hal Croves si porta una sigaretta alle labbra, lentamente, con gli occhi che scrutano di sbieco, inafferrabili. L’ultima immagine – l’unica virata in seppia, con la cornice bianca e i contorni slabbrati, un angolo mangiucchiato dalle tarme – è quella di un esploratore o di un turista. Torsvan adesso indossa un pesante casco coloniale e sembra quasi smarrito, fuori posto.

In nessuna fotografia compare l’uomo che ha firmato quei libri dimenticati. La Seconda guerra mondiale è terminata solo da qualche mese – John Huston inizia a lavorare a Il tesoro della Sierra Madre nel ’46 – quando B. Traven diventa una cause célèbre. L’autore però la definisce una truffa. La notorietà improvvisa ma sfuggente del gringo misterioso (nessuno sa veramente chi sia, dove si trovi) la sfrutta per scrivere il suo ultimo articolo politico, un’invettiva feroce e allucinata. «La terza guerra mondiale» (l’articolo esce su Estudios Sociales, una piccola rivista messicana) è un catacombale congedo e una profezia. Hollywood lo corteggia e lui risponde facendo la faccia feroce, spaventando.

L’orrore che non finisce di finire, il futuro come incubo, disgrazia. Un devastato paesaggio di sopraffazione, odio, sfruttamento. Mentre il «caso Traven» diventa un gioco di società o un passatempo, lo scrittore fantasma si inoltra nel ventre della balena e svanisce ancora una volta, all’improvviso. La sua identità resta una vaga ipotesi barocca; il suo indirizzo è una casella postale di Acapulco. «Traven» è soltanto una sigla, la fioca astrazione di un nome oppure un marchio che la celebrità aveva finito per trasformare in enigma.

Però del principe degli «scrittori proletari» non si conosceva neanche il colore dei capelli. Col mondo – editori e registi, ammiratori, critici, studiosi – trattava attraverso emissari reticenti e lettere allusive, mai sincere. Attorno a lui un’evanescente e inflessibile coppia di guardiani: la sua traduttrice, Esperanza, e quel suo agente cautissimo e un po’ equivoco, Hal Croves, «un uomo piccolo e magro, con un grande naso… tutto in lui faceva pensare a uno nato e cresciuto in campagna, non avvezzo ai modi di città…», come avrebbe ricordato John Huston.

Era una ragnatela impenetrabile, la barriera di una fortezza senza mura. Lo cercavano davvero tutti, ma era inutile, non si presentava mai agli appuntamenti, e non appena stava per comparire si dileguava, alla resa dei conti si dava immancabilmente malato, oppure in viaggio. Il film l’aveva trasformato in un mito inafferrabile e a nulla sembrava portare l’inseguimento affannoso e indiscreto dei mass media. Eppure per Hollywood era una manna, una strategia di marketing geniale, anche se resta da capire chi fosse il burattinaio.

Per James Agee Il tesoro «è una delle cose migliori realizzate dall’avvento del sonoro», e molto dipende dai suggerimenti – «intelligenti, acuti, puntuali» del «misterioso Traven, uno scrittore molto quotato in Europa ma di cui nulla si sa, tranne che vive da qualche parte in Messico, invisibile». Nell’agosto del ’47 Time lancia il film con un articolo dal titolo ammiccante e démodé – “Il segreto del Gringo”, ma aggiunge solo nebbia alla nebbia, altre domande. A lungo circolò la voce di una taglia spiccata da Life per stanarlo (3000 o 5000 dollari, anche le nude cifre sono ambigue). Solo anni dopo il suo editore messicano rivelò che era una diceria messa in giro da lui stesso per fare più soldi.

In Italia, Traven cominciano a tradurlo proprio a quei tempi, ma già a metà degli anni Cinquanta si parla di questa sua morte misteriosa in un alberghetto per marinai svedesi al Pier 21 del porto di New York (Longanesi infila la notizia sulla quarta di uno dei suoi romanzi, senza altri dettagli o spiegazioni). Per oltre vent’anni viene pubblicato quasi soltanto in America e in Germania (mistero nel mistero, neppure si sapeva se scrivesse in tedesco o in inglese), ma con il tempo i suoi libri li stampano un po’ ovunque, e vanno a ruba. 32 lingue, 25 milioni di copie: una slavina.

Nei titoli dei suoi romanzi solo indizi cifrati, false piste: Il ponte nella giungla, La nave morta, Speroni nella polvere, La rosa bianca, I raccoglitori di cotone, La ribellione degli impiccati (e Il tesoro della Sierra Madre, naturalmente). Nei titoli dei racconti – Il grande industriale, Storia di una bomba, Diplomatici, Una visita notturna nella giungla, e il profetico, spiazzante La mia visita allo scrittore Pguwlkschrj Rnfajbzxlquy – altri messaggi in codice, e ambigui specchi. Poteva esser stato tutto o proprio niente, non ci sono fermi appigli, confessioni.

Sono storie di mare, reportage e racconti sugli indiani del Chiapas, violente invettive contro il capitalismo e i petrolieri, storie on the road di hoboes senza arte né parte, di sbandati. E le voci generano voci e ancora voci: striduli, starnazzanti cori greci. Fantasiose ipotesi, arrischiate illazioni, amenità: c’è chi dice che Traven non sia altri che Jack London redivivo, oppure il fantasma di Ambrose Bierce – che da qualche parte è sparito, chissà dove – o ancora Arthur Cravan, il pugile – scrittore nonché sedicente nipote di Oscar Wilde. Sino ai primi anni Cinquanta non smentirà neppure una parola e già questo silenzio è disinformazione, sabotaggio.

Traven è stato il maestro segreto di tutta una generazione di reclusi. Scrittori latitanti, avventurieri da scrivania, improvvisati prestigiatori smarriti dentro un gioco di specchi tutto loro. Il mito novecentesco dell’autore fantasma è quasi una sua creazione involontaria. Al confronto, gli altri improvvisano o posano, scimmiottano.

La scomparsa di Salinger, la ritrosia di Pynchon, Jane Somers e la Lessing, Pessoa con tutti i suoi pseudonimi leziosi, Paulhan nascosto dietro le minigonne di Pauline Réage, lo sfuggente Marek van der Jagt o il recluso di Hackney, Roland Camberton, lo stesso von Arcimboldi di Bolaño, la Ferrante, incespicano a fatica correndo dietro alla coda della cometa. Imitatissimo e in fondo inimitabile, Traven più che un esempio è un monito beffardo.

L’enigma dell’identità – questo rovello infinito, interminabile – è altra cosa dal culto borghese, molto mediocre e prudente, della privacy. Nel ’68, in occasione della sua prima e ultima intervista, lo scrittore che si faceva chiamare B. Traven aveva stilato una personalissima «Dichiarazione di indipendenza dalla pubblicità personale» che è anche un manifesto politico e un proclama al ribasso, di maniera: «La mia vita appartiene soltanto a me, l’opera al pubblico».

E poi, col suo antico sarcasmo, ecco l’invettiva sprezzante, la protesta, un’arrabbiata e ferma presa di distanze: «Proprio non lo capisco cosa diavolo ci sia tanto da stare a interrogarsi su uno scrittore. Io sono un artigiano, come tanti. Che gliene frega alla gente di quando cazzo mi sveglio, di cosa mangio per colazione, se bevo, fumo, mangio la carne, se gioco a poker o se sono sposato o sono single». Non era questo il punto, lo sapeva. Non essere scocciato, non essere disturbato, non farsi assillare da troppe pressioni deficienti.

Traven cercava una libertà più radicale, il disperato diritto a essere uno e molti, o centomila, l’elusiva inafferrabilità di un mito antico. «Forget the man», ripeteva nei suoi rari messaggi nella bottiglia, ma il suo più grande capolavoro è proprio il mistero di questa sua identità multipla, da Proteo, la resistenza di quel riserbo impenetrabile. Se non si lasciava afferrare, se non si era lasciato afferrare, c’era un motivo. Restava qualcosa che era meglio tenere sotto silenzio, da nascondere con ostinazione. E poi non aveva mai cercato il successo e la fama. Solo gloria. La gloria ridicola e perfetta dell’anonimato. Ironico. L’unica cosa certa che sappiamo di lui (se poi era lui davvero, si capisce) è come e perché sia morto e dove e quando.

Una data, un orario, l’azzardo di una diagnosi medica, un banale indirizzo stradale. Ore 18 del 26 marzo del ’69. Polmonite. Rio Mississippi 61, Mexico City. Tutto questo zelo cronachistico è sospetto. Ma adesso era Rosa che teneva i fili, era lei che manovrava i burattini. La compagna di questo uomo dell’ombra è una grande pettegola: inaffidabile, querula, raramente distratta, astutissima. Parlava troppo ma non parlava mai a caso, tanto per fare. Per anni, Rosa Elena Luján, vedova Croves, doserà con parsimonia tattica e pazienza indiscrezioni e notizie, futili aneddoti e rivelazioni clamorose.

Già il giorno dopo aveva la situazione in pugno, e i nervi saldi. Ai giornalisti convocati nel patio della casa di via Mississippi, Rosa rivela per ora che l’uomo che si faceva chiamare Hal Croves era il celebre scrittore B. Traven. Non aggiunge molto altro, per adesso, salvo anticipare che le sue ceneri verranno disperse nei cieli immensi del Chiapas, sulla giungla, lungo il corso sinuoso dell’Usumacinta. Seguiranno, centellinati con calma esasperante, mille altri dettagli e nuovi particolari clamorosi.

È una contraddittoria sequenza di indizi scombinati e divergenti. Traven-Croves, secondo una prima versione semiufficiale, sarebbe stato un americano di Chicago. Ma a Judith Stone (la critica del San Francisco Chronicle che aveva visitato Hal Croves, qualche anno prima), Rosa confida cose molto più impegnative, assai diverse. Nel suo studio Traven teneva sempre un ritratto del Kaiser e a quanto pare lo scrittore aveva raccontato alla moglie – intimandole il silenzio più assoluto, pena l’ennesima fuga, la rottura – di essere il figlio illegittimo dell’erede dell’ultimo imperatore tedesco e di una sua amante attrice finlandese.

Finita qui? No, vent’anni dopo ancora un colpo di scena, il terremoto. Nel presunto centenario della nascita di Traven Rosa concede una famosa intervista al New York Times. Adesso ammette quello che in troppi sostengono da tempo e che lei aveva sempre negato, recisamente. Prima di essere stato Traven, Torsvan, Croves, lo scrittore fantasma era un pubblicista e attore anarchico tedesco, direttore e redattore unico della rivista Der Ziegelbrenner. Di Ret Marut si era parlato spesso a mezza bocca.

L’amico di Landauer e di Erich Mühsam, l’individualista irridente e iconoclasta, l’unico esponente di rilievo della Repubblica bavarese dei consigli scampato alla repressione delle guardie bianche, aveva mutato pelle per trasformarsi nell’oscuro scrittore proletario. (Nell’incastro di scatole cinesi, un dettaglio a confermare o a scombinare questo quadro sfuggente. Parlando con Judith Stone, Hal Croves era stato per una volta molto chiaro: Ret Marut, aveva sentenziato, era stato soltanto un «ciarlatano politico». Lapidario, insomma, ma è curioso che sapesse chi era, che lo avesse anche soltanto sentito nominare.)

Ma restava un mistero nel mistero, l’impiccio di un enigma irriducibile. Anche Marut, va da sé, era soltanto un semplice pseudonimo e chi mai diavolo fosse stato prima non è chiaro. Chi fosse suo padre – dirà Rosa ancora in un’altra occasione, forse l’ultima – non lo sapeva davvero neanche lui: «Adorava spiattellare bugie, inventare storie, ma la realtà è che neppure lui conosceva dove e quando fosse nato di preciso. Non ha mai posseduto un certificato di nascita».

Questa ignoranza totale, la più estrema, era anche il suo arduo privilegio. «Sono più libero di chiunque altro», avrebbe detto una volta alla moglie, «posso scegliere i genitori che preferisco, il paese di nascita che voglio, l’età che ho». «Io non sono un contemporaneo» aveva scritto una volta Marut il bavarese, la «mia epoca» è un’altra: più selvaggia e più autentica, più vera. Il presente, lo diceva già nei primi anni 20, è un paesaggio di ottusa violenza, asfissiante conformismo, ipocrisia. Un’idiota stagione di stanca che prelude al terrore, domani. Senza parenti e senza età, senza un passaporto, documenti; senza «tempo», in ultima analisi, senza una Storia sua, e anche di tutti.

«Non ho niente in comune con quest’epoca immemore e abbietta. Io non sono un contemporaneo.» Così si era nascosto nell’imbroglio di quei paraventi, dietro nomi posticci, dietro altri volti. Marut, Traven, Torsvan, Hal Croves è anche un elenco di anagrammi, un caleidoscopio di significati divergenti. Nella mitologia indù, Marut è l’imprevedibile dio dei venti, il custode delle correnti. Ma se scambi le lettere, se inverti le sillabe e pasticci un po’, Marut diventa Traum – sogno – o Arnut, ovvero povertà, inedia, privazione. Traum suggerisce trauen: osare, avventurarsi, inoltrarsi ma dentro l’ignoto, e anche Traven suona come un indizio criptato, un vago segnale. Betreuen come autorizzare, affidare, forse confidare. Torsvan, poi, può diventare Torswahn: una pia «illusione da sciocco», fantasia.

Croves infine, come cover: copertura, fantoccio di paglia, personaggio di pura facciata. Ma non è un gioco di enigmistica, o una cabala astrusa, un indovinello. Inventarsi e crearsi da zero: non sapendo chi sei è anche normale. Questa assoluta ma triste libertà, questo sterminato campo di occasioni che non hanno un percorso già segnato. Non poteva del resto fare altrimenti: quello era il suo destino, era il suo karma. Poi, d’accordo, era tutto un imbroglio, un trucco da baraccone come tanti. Sei questo e sei quello e altro ancora, e sei sempre una cosa diversa.

Forse aveva ragione Rosa Luján. Neanche lui sapeva chi era, cosa diavolo fosse realmente. «La parola “Io” era assente dal suo vocabolario», ricorda Rosa. È un’indiscrezione – un ricordo domestico – che può diventare un referto clinico. Una personalità scissa, sdoppiata, un’immagine rifratta in un prisma. Un Io moltiplicato e scomposto: (blanda) forma di schizofrenia. Ma davvero, non è questo che conta. Nel suo gioco di scacchi con la Storia, B. ha avuto un genio speciale. Il virtuosismo di una presenza in contumacia, un esserci che esclude il mondo mentre lo racconta o lo aggredisce. «Non sono un contemporaneo»: era il suo programma di vita, un credo disperato e un manifesto di arte e politica. In qualche modo aveva detto tutto. Senza tradirsi, senza confessare proprio un accidente.

Il libro “Coriandoli il giorno dei morti” (Racconti edizioni) curato e illustrato da Vittorio Giacopini viene presentato il 7 novembre (ore 19) alla Libreria Tomo, a Roma. Vittorio Giacopini e Luca Ricci dialogano sulla figura dello scrittore B. Traven.

L’articolo di Vittorio Giacopini è stato pubblicato su Left del 18 ottobre 2019

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