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Contro razzismo ed esclusione sociale, tornano a Roma gli Indivisibili

Un anno fa, in questi giorni, il Parlamento italiano si apprestava a discutere il primo decreto sicurezza dell’era Salvini. Il testo sarebbe divenuto legge dello Stato ad inizio dicembre ma già in quelle ore era chiaro che il suo impianto ideologico non avrebbe incontrato grossi ostacoli in aula. Già allora, come redazione di Left, aderimmo alla manifestazione Indivisibili, “Uniti e solidali contro il governo, il razzismo e il decreto Salvini”, consapevoli che il decreto, in gran parte malscritto e inapplicabile, conteneva però la pericolosa capacità di fondere in un unico impianto ideologico quanto i precedenti provvedimenti simili sotto il governo Gentiloni, i decreti Minniti Orlando, avevano mantenuto separato. Le modalità di affrontare le difficoltà (non le emergenze) connesse all’immigrazione e quelle derivanti dalla povertà, dal disagio sociale, dalle anche se limitate forme di opposizione che si esprimevano contro l’allora governo giallonero trovarono con il decreto una loro coesione ideologica. La soluzione era “affrontare tutto come problema di ordine pubblico”.

La manifestazione, peraltro non sostenuta da molte grandi organizzazioni e che ancora risentiva delle tante frammentazioni della sinistra in Italia, fu comunque enorme. Alla fine a Piazza San Giovanni, le parole di Mimmo Lucano sindaco deposto di Riace e simbolo dell’accoglienza, come quelle di Silvana Cesani, portavoce del Comitato che a Lodi impedì che gli alunni di genitori provenienti da paesi extraeuropei subissero discriminazione anche nell’accesso alla mensa, risuonarono come parole di speranza e di capacità di ricostruire uno spazio comune di lotta al razzismo e alle diseguaglianze.

In un anno è accaduto di tutto, dopo la conversione in legge del primo decreto Salvini, l’ex ministro dell’Interno ha trovato il tempo di produrne un altro prima della crisi di governo che ha portato ad una nuova maggioranza parlamentare. Ma i decreti, pardon, le leggi, non sono state ancora intaccate. I danni prodotti dalle politiche leghiste si sono sommati a quelli derivanti dall’azione dei governi precedenti, da ultimo il Memorandum antimigranti fra Italia e Libia del 2017, appena tacitamente rinnovato – lo scorso 2 novembre – con vaghe promesse di modifiche e miglioramenti.

Si continua a morire nel Mediterraneo Centrale, a sparire nei lager libici, a erogare fondi a Paesi utili per esternalizzare le frontiere. Gli stessi accordi di Malta e poi di Lussemburgo di cui abbiamo a lungo scritto sul nostro giornale, se da una parte garantiscono migliori possibilità di ripartizione dei richiedenti asilo che vengono salvati nel Canale di Sicilia, dall’altra rafforzano i poteri della cosiddetta Guardia costiera libica la cui zona Sar (Search and rescue) risulterà ancor più priva di possibilità di soccorso. E nulla sembra poter cambiare, nella fragilità degli equilibri politici, per le altre centinaia di migliaia di persone “irregolarmente” presenti in Italia non per loro volontà ma a causa di una legge fallimentare da abrogare come la Bossi Fini.

Sembra impossibile parlare di regolarizzazione a regime per chi vive e lavora in questo Paese, di canali di ingresso regolari e di percorsi di accoglienza radicalmente diversi da quelli messi in piedi in passato dalle prefetture. Lo stesso sistema d’accoglienza che nei suoi punti di eccellenza è stato posto sotto attacco risulta oggi distrutto e depotenziato, col risultato di aver sbattuto per strada migliaia di persone che erano avviate verso percorsi di inclusione. Altro che aumentare la sicurezza. Che dire poi del “reato di solidarietà”? Certo almeno le Ong sono state ricevute al Viminale, il 25 ottobre, e questo è un primo passo per ristabilire relazioni, ma ci sono imbarcazioni ancora sotto sequestro, sono inalterate le multe previste dal “Salvini bis” ed è ancora in vigore, potenziato con gli accordi europei, il Codice di condotta di Minniti che limita l’azione delle navi di soccorso.

Anche per questo invitiamo le nostre lettrici e i nostri lettori a partecipare alla manifestazione che sabato 9 novembre a Roma, con partenza dal Colosseo e arrivo a Piazza della Repubblica (un percorso insolito), porterà nelle strade della Capitale chi, da tutta Italia – raccogliendo la proposta di “Indivisibili e Solidali” che si è unita a quella del percorso di “Energie in Movimento”, una aggregazione legata soprattutto a chi si occupa di diritto all’abitare – chiede con forza, come noi di Left abbiamo fatto per primi (poi seguiti da altri giornali), che vengano abrogati i decreti sicurezza e le norme sue “gemelle”, razziste e liberticide. Una proposta che qui potete leggere e di cui la manifestazione di sabato è un momento di ripartenza, nella certezza che o si riesce a coinvolgere quella parte ampia della società ancora silente o si perde tutti.

I trafficanti libici ringraziano

Amnesty e Oxfam-Borderline Sicilia stigmatizzano l'accordo con la Libia sui migranti, ad un anno dalla firma, e ne chiedono lo stop, 1 febbraio 2018. Questa collaborazione scrive Oxfam in una nota, "contribuisce a fermare le persone che cercano di fuggire dalla Libia e a rinviarle sul posto, in situazioni di serio pericolo". Il Memorandum siglato dall'Italia a Tripoli il 2 febbraio, e avvallato dai capi di stato e di governo dell'Ue "manca di sufficienti salvaguardie per i diritti umani e la legge internazionale" per la protezione dei profughi, avverte Oxfam. Secondo l'ong il sostegno dell'Ue ai guardacoste libici "aggiunge sofferenza a quanti sono intrappolati in Libia". Amnesty ricorda che "il governo italiano e l'Ue hanno fornito ai Guardacoste libici imbarcazioni, addestramento ed altra assistenza per sorvegliare il mare e rimandare indietro profughi e migranti". In tutto, nel 2017, sono state circa 20mila le persone intercettate e riportate nei centri libici", scrive l'ong. "Far uscire le persone da questi terribili centri deve rappresentare la priorit‡" si sottolinea. ANSA/ UFFICIO STAMPA OXFAM ITALIA +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

«Il governo libico non può essere nostro interlocutore. Non voglio discutere con Tripoli di come una banda di trafficanti che si fa chiamare Guardia costiera possa comportarsi diversamente, oppure di come chi gestisce i lager libici possa farlo in modo meno disumano».

Così il deputato ed ex presidente del Pd, Matteo Orfini, commenta il rinnovo del Memorandum Italia-Libia sui migranti, arrivando a definirlo «una sconfitta personale». L’accordo, sottoscritto il 2 febbraio 2017 all’epoca dell’esecutivo Gentiloni, è composto di otto articoli.

Al di là di alcuni buoni propositi contenuti nel patto (rimasti lettera morta), è servito soprattutto ad addestrare e fornire mezzi alla sedicente Guardia costiera libica, formata da milizie contigue ai trafficanti di esseri umani, e a finanziare i cosiddetti «centri di accoglienza» nel Paese nordafricano. Quelli in cui torture e omicidi, come dimostrato da molte inchieste giornalistiche, rappresentano una spaventosa routine.

Ciò nonostante, elogiando gli effetti del Memorandum, nel 2017 l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti aveva potuto rivendicare il suo “successo”: una drastica riduzione delle partenze di migranti dalla Libia. Migranti condannati, grazie anche agli accordi stretti da Minniti coi sindaci libici e al suo Codice per le Ong, a vivere in condizioni disumane oppure ad affrontare una rischiosissima traversata del Mediterraneo che somiglia più a una roulette russa con in palio la propria sopravvivenza…

L’inchiesta di Alessia Gasparini e Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dall’8 novembre

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Quanto ci costa Matteo Salvini

MYTILENE, GREECE - MAY 22: A NATO (North Atlantic Treaty Organization) ship patrols the Aegean Sea passage between Greece and Turkey (seen on the right) off the coast of the island of Lesbos on May 22, 2018 near Efthalou, Greece. The Greek island is home to over 9,000 asylum seekers who crossed the Aegean Sea from Turkey's nearby shore by boat, usually at night to avoid interception. Although the numbers of arrivals on Lesbos are lower than at the beginning of the crisis in 2015, when Syrians and Iraqis fled ISIS-controlled strongholds, boatloads of refugees from those countries and other troubled areas continue to land there, and critics say the local governments have yet to manage the situation, as refugees continue to wait for transfer to the mainland and less temporary legal status while living in overcrowded camps suffering from major infrastructure problems and difficulty in meeting their residents' basic needs. (Photo by Adam Berry/Getty Images)

I figli di immigrati che nascono, crescono e studiano in Italia rimangono stranieri fino alla maggiore età. Dopo di che possono avviare l’iter per ottenere la cittadinanza. Fino ad allora, come tutti gli stranieri, devono avere un permesso di soggiorno. In questi giorni si è molto parlato di Mario Balotelli bersaglio di cori razzisti da parte di ultrà veronesi che non hanno mai fatto mistero di essere nazifascisti. Anzi. Lo ostentano senza alcun problema allo stadio da un paio di decenni almeno. Non ci risulta che un solo ministro dell’Interno in tutti questi anni si sia mai preoccupato di mettere fine a quell’infame spettacolo fatto di braccia tese, stendardi lugubri e cori nostalgici identificando gli autori e dando il via alle doverose indagini della magistratura.

Questo ovviamente vale anche per tante altre curve italiane notoriamente frequentate da squadracce di ultras neri: da quella della Roma a quella della Lazio, del Milan, dell’Inter e così via. Tornando a Balotelli, a proposito di ministri dell’Interno e di liaison con certi ultras, abbiamo tutti letto il commento di Salvini non proprio intriso di solidarietà nei confronti del calciatore del Brescia: «Un operaio dell’Ilva vale 10 Balotelli».

Ancora una volta Salvini si è schierato adottando il metodo del coniglio: svicolando, a parole, altrove. E qui la migliore risposta viene da uno dei nostri lettori: «Salvini spieghi la flat-tax agli operai dell’Ilva». Ma non è tanto e solo di questo che vogliamo parlare nel numero che state per leggere. Già il solo fatto di aver dovuto aspettare la maggiore età per acquisire la cittadinanza, pur essendo Mario Balotelli nato a Palermo (ed essendo cresciuto e avendo studiato a Brescia), implica tutta una serie di disagi e discriminazioni odiose che lo rendono identico a tutti i 2G meno dotati di lui dal punto di vista calcistico. Come è noto, infatti, grazie (si fa per dire) alla pavidità della maggioranza che sosteneva il governo Gentiloni la legge sullo Ius soli si è vergognosamente incagliata in Parlamento.

E lì giace, privando quasi un milione di giovani di un diritto innegabile. Impensabile che con il Conte Uno e Salvini vice primo ministro le cose potessero evolvere e che una legge di civiltà venisse approvata, più lecito invece aspettarsi qualcosa in più dal Conte Due. Se non altro nel segno della tanto declamata discontinuità. E invece? Invece con questo governo le cose per i figli di genitori stranieri nati in Italia sono destinate a peggiorare. Ce lo racconta in queste pagine Sergio Bontempelli che ha scoperto una circolare del Viminale, elaborata quando era in carica Salvini ed entrata in vigore nel settembre scorso quando agli Interni era già arrivata Luciana Lamorgese.

Tutto è avvenuto lontano dai riflettori mediatici, per non dire in gran segreto. E cosa dice questa circolare? Dice in estrema sintesi che quel milione circa di neonati, bambini e adolescenti non potranno più avere automaticamente il permesso di soggiorno a tempo indeterminato, come accadeva finora. «Per ottenere il prezioso documento, dovranno avere gli stessi requisiti richiesti agli adulti che ne fanno domanda: un reddito sufficiente (ovviamente si fa riferimento al reddito dei genitori), e una “anzianità di soggiorno” di almeno cinque anni».

Sì, avete capito bene, scrive Bontempelli e noi con lui. «Anche il bambino appena nato dovrà dimostrare di vivere in Italia da almeno cinque anni». Non è uno scherzo. «Significa che il bebè non potrà avere un permesso a tempo indeterminato, ma solo un documento con scadenza biennale: ogni due anni, dovrà chiedere (tramite i genitori) il rinnovo alla Questura». E se mancheranno i requisiti per il rinnovo, il bimbo rischierà l’espulsione. Questa storia ci porta a chiedere al ministro Lamorgese di correre presto ai ripari abbattendo il muro innalzato in faccia a quel milione di ragazzi dal suo predecessore che voleva «pieni poteri».

Già, i muri. Evidentemente la caduta di quello di Berlino, come leggerete nello speciale per il trentennale e nello sfoglio di copertina, non ha dissuaso dal costruirne altri. Non ultimo quello, d’acqua, rappresentato dal Mediterraneo per i migranti in fuga da carestie, persecuzioni, povertà, guerre e desertificazioni. E qui siamo di nuovo a Salvini e a ciò che le sue sciagurate “politiche” stanno producendo sulla qualità della vita di tutti, non solo dei migranti e degli immigrati.

Basti citare l’incipit di uno studio di Openpolis (consultabile su openpolis.it) che ha analizzato le conseguenze dei decreti “sicurezza” a un anno dall’entrata in vigore del primo: «Due, in particolare, gli effetti potenzialmente esplosivi. Da una parte l’aumento consistente del numero di irregolari, collegato all’abolizione della protezione umanitaria, diventa una vera e propria emergenza di cui occorrerà farsi carico. Dall’altra il taglio dei costi per la gestione dei centri di accoglienza crea non poche difficoltà nell’assegnare i nuovi bandi e favorisce il ritorno alla prassi disastrosa della concentrazione dei richiedenti asilo abbandonati nei grandi centri, ora senza più i servizi per l’integrazione nelle comunità locali.

Una politica che in nome della sicurezza e del taglio agli sprechi rischia di produrre più illegalità e più emarginazione sociale, più sfruttamento e esclusione. I cui costi sono disseminati come tante bombe sociali innescate nei territori e nelle periferie delle città». Più chiaro di così.

Due mesi fa, su Left del 6 settembre, auspicavamo che il nuovo governo come primo atto abolisse le due leggi “sicurezza”. In seguito, altri giornali hanno rilanciato il nostro appello. Noi oggi, con forza, torniamo a pretenderlo. Se accadesse nel trentennale dello sbriciolamento del Muro sarebbe un gesto più che simbolico, umano.

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola dall’8 novembre

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Cenere e libri

Brucia una libreria. Mica una libreria qualunque. Brucia la stessa libreria di Centocelle che la mattina del 25 aprile, nel giorno che doveva avere il sapore di una Liberazione, era già bruciata. E ora brucia di nuovo. “La pecora elettrica” è una libreria che ha coraggio, come bisogna avere coraggio oggi a occuparsi di libri e di librerie, in un quartiere come quello dove ogni luce accesa è un fastidio per gli affari loschi dello spaccio e dei criminali che si ritengono proprietari del quartiere.

Dice in un’intervista un dipendente della libreria, visibilmente provato, che la cosa che più l’ha colpito è lo stesso odore di cenere che erano libri che aveva annusato il 25 aprile. E la sensazione delle periferie che diventano discariche di oppressioni e di disperazioni è proprio quella cenere di qualcosa che diventa difficile ricomporre, fare ritornare all’idea originaria.

C’è tutto lo sgomento per l’incendio dei libri: i libri bruciati, un’immagine che riaffiora dolorosa da tempi nerissimi. Ma lì di fronte c’è anche la pizzeria di un giovane ragazzo, anche quella gestita con il coraggio di chi decide di essere luce nel quartiere che i prepotenti vorrebbero buio, che qualche giorno fa ha subito lo stesso trattamento: fuoco, danni, fatica, e quelle disperazione che sta tutta nella fatica di svegliarsi ancora capaci di fabbricare speranza.

Sdegno di tutti i politici. Ci mancherebbe. Molto sulla libreria, molto meno sul coraggio di raccontare un quartiere che è sfuggito di mano come sfuggono di mano porzioni intere di un Paese che si sgretola, perdendo quartieri fisici e quartieri sentimentali, dove il buio diventa fin troppo facile da cavalcare in senso fisico e in senso trasfigurato. Notizie da parte dei campioni della sicurezza che passano tutto il giorno a leccare le forze dell’ordine non ne sono arrivate: in un attentato senza negri e per di più con i libri non sanno proprio cosa dire, gli sanguina il cervello.

Però c’è una buona notizia: questi vigliacchi sono talmente vigliacchi che si spaventano per un libro e per una pizza, si squagliano di fronte a una luce. Fare luce: se ci pensate sarebbe il comandamento della politica e della comunità. Non dovrebbe essere così difficile.

Buon giovedì.

Portogallo e Spagna: esiste una sinistra iberica?

TO GO WITH A AFP STORY BY OLIVIER DEVOS - Portuguese radical left-wing party Bloco de Esquerda's candidate for the general elections and member of the Portuguese parliament, Marina Mortagua (C) walks during a campaign rally in the Bairro Alto neighborhood of Lisbon on September 18, 2015. Her gaze is frank, her tone direct, Mariana Mortagua, rising star of the Portuguese radical left struggling to take off in the polls, wants to embody in the parliamentary elections of October 4, "the voice of those who do not recognize themselves" in the traditional parties. AFP PHOTO / PATRICIA DE MELO MOREIRA (Photo credit should read PATRICIA DE MELO MOREIRA/AFP via Getty Images)

Lo scorso 6 ottobre, 5.092.424 elettori portoghesi hanno eletto i 230 membri, di cui 4 dall’estero, della Assembleia da República, il Parlamento monocamerale del Portogallo. Una partecipazione bassa pari al 48,5% degli aventi diritto, ma di grande impatto politico. In controtendenza con il resto d’Europa una chiara vittoria della sinistra (147 seggi e 54,49%) e al suo interno, in ruolo egemone, un partito socialista (108 seggi e 36,34 %). La sinistra portoghese è una sinistra plurale, articolata, in ordine su 5 liste: Partido Socialista (PS), Bloco de Esquerda (BE), Coligação Democrática Unitária (CDU), costituita da PCP e Os Verdes, Pessoas – Animais – Natureza (PAN) e Livre (L), una nuova formazione rosso-verde. Altra anormalità portoghese, che la differenzia nettamente dalla Spagna, è la debolezza della estrema destra, che entra in Parlamento con un seggio e 1,29% di Chega (CH).

In Spagna le previsioni sulle intenzioni di voto sono diverse e non concordanti, per esempio in data 28 ottobre 2019 il sito https://electocracia.com/ riportava la seguente previsione: PSOE 27,0% (-0,1), PP 21,6% (-0,2), UNIDAS PODEMOS 12,5% (+0,1), CIUDADANOS 9,5% (-0,6), VOX 12,0% (+1,0), MÁS PAÍS 4,0% (-0,2). In tale schema la sinistra PSOE, UP e MP, la nuova formazione di Íñigo Errejón, già leader della minoranza di Podemos in opposizione a Pablo Iglesias, arriva al 43,5%. Tale risultato conforterebbe il detto popolare portoghese “Dalla Spagna né buon vento, né buon matrimonio”. Tuttavia sempre nello stesso sito l’aggiornamento al 4/11 mostra un miglioramento per SIGMA DOS per il giornale El Mundo al 45,4%, derivante da un 27,9% del PSOE e da un 13,5% di UP. Nella stessa data IPSOS da la sinistra al 43,7% prevedendo un’esplosione di MP al 4,7% e una regressione del PSOE al 26% e UP al 13%. Alle elezioni del 28 aprile 2019 il PSOE era il 28,7% e UP al 14,3%, cioè al 43%, ma con ERC (3,9%)al 46,9%. ERC Esquerra Republicana de Catalunya-Sobiranistes è una componente di sinistra catalana indispensabile, perché senza il PNV basco e un partito catalano non si forma una maggioranza stabile e non si sana la ferita dell’indip Iendentismo catalano. La questione catalana non ha sbocco politico perché anche la sinistra è divisa con il PSOE che ha abbandonato la proposta federalista del suo membro catalano il PSC e Podemos paralizzato e comunisti non hanno più una presenza specifica come il PSUC, Partito Socialista Unificato di Cattalogna. Nelle elezioni del dicembre 2015 il PSOE perse l’8% e con il suo 20,8% era contendibile la sua indiscussa leadership, in quanto la variegata sinistra intorno a P Podemos più IU, Izquierda Unida aveva raggiunto il 24,64%. La campagna elettorale del giugno 2016 fu all’insegna del sorpasso ( in italiano), come se fosse replicabile la Grecia di Syriza sul PASOK, invece di costruzione di una piattaforma di sinistra, alternativa alla politica di austerità. Il sorpasso fallì per il recupero socialista e la perdita di voto della coalizione della sinistra.

La vittoria di Sanchez nel PSOE mise fine ad ipotesi di Grande coalizione alla spagnola con socialisti, popolari e Ciudadanos, una formazione di centro-sinistra prodotta al pari di Podemos, da movimento degli indignados- Movimiento 15-M, derivato dalla data 15 maggio 2011 delle elezioni amministrative perse dai socialisti, come le successive politiche dello stesso anno e alle europee del 2014, frutto della scelta come leader di Alfredo Pérez Rubalcaba invece della socialista catalana Carmen Cachòn. Soltanto un sondaggio di fine ottobre dava il PSOE sopra il il 30% e precisamente al 32,2% che con il 14,6% di UP faceva un 46,8%, che unito al 2,9% di MP, la avvicinava al 50%. Allo stato un risultato portoghese appare escluso e, quindi, come in Portogallo un monocolore socialista, conquistato con una proposta unitaria, mentre Sanchez governa ora in solitaria minoranza. Si rischia un nuovo 2016 con la destra, anche estrema, più forte nei sondaggi VOX supera sempre Ciudadanos e il PPO cresce.

Non infrangerete il sogno della Pecora Elettrica

Accade di nuovo. Un incendio ha distrutto i locale de La Pecora Elettrica. Nella notte tra il 5 e il 6 novembre rogo molto probabilmente di origine dolosa (è stato trovato del liquido infiammabile) ha devastato la libreria antifascista di Centocelle a Roma distruggendone buona parte e circa metà dei libri che si trovavano all’interno. Era già successo lo scorso 25 aprile (Left se ne era occupato anche allora) e dopo mesi di lavori e impegno per riaprire quello che è molto più di un esercizio commerciale, piuttosto un punto di ritrovo del quartiere, la Pecora era pronta per l’inaugurazione, fissata per il 7 novembre. Ora la vetrina infranta dal fuoco è un po’ la metafora delle speranze di chi attendeva con trepidazione di poter tornare in quei locali che, grazie a un’impegno di tutta la comunità di sinistra che si era riunita intorno ai gestori della libreria, si apprestava a riaprire le porte a chi si sentiva a casa tra l’odore dei suoi libri.

Si riapre la questione che già aveva sollevato dubbi il 25 aprile: perché qualcuno odia tanto La Pecora Elettrica? La risposta sembra trovarsi nell’intolleranza di chi non vuole uno spazio aggregativo antifascista in un quartiere di periferia, le zone preferite dai movimenti neofascisti per cercare di cementare la loro base elettorale e di consenso. Che Centocelle si aggreghi in un luogo fortemente identitario come una libreria dichiaratamente di sinistra evidentemente dà fastidio, e molto. Che la sinistra dia una risposta alle esigenze della “pancia del Paese”, pure. D’altronde risale solo a pochi mesi fa l’episodio del giovane Simone, quindicenne di Torre Maura che ha risposto ai fascisti che il suo quartiere non appartiene a loro. I quartieri che dovrebbero essere sinonimo di razzismo e insofferenza, in realtà, sono ancora sacche di resistenza a chi li vorrebbe talmente disperati da ridursi a fare il saluto romano a chi promette di risolvere i loro problemi. La Pecora Elettrica non ci sta, e nemmeno i suoi frequentatori e tutti coloro che in questi mesi le hanno dimostrato concreta solidarietà. Bisognerà fare luce sulla questione e puntare il dito sui colpevoli, chiamandoli con il loro nome, per non rischiare di finire nella distopia da cui prende il nome.

Più prevenzione e meno repressione: ecco cosa serve alla riforma della giustizia

Un momento del vertice di governo sulla giustizia a palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte, il ministro della Giustizia M5s Alfonso Bonafede e l'ex guardasigilli e vice segretario del Pd Andrea Orlando, Roma, 27 settembre 2019. ANSA/ UFFICIO STAMPA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO/ FILIPPO ATTILI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Cambiano i governi, mutano i pesi delle forze parlamentari, vengono approvate nuove leggi ma vi è un – delicato – punto intorno al quale l’agenda politica del Paese da anni rimane ferma, la riforma della giustizia.

Eppure, l’esigenza di una rilevante modifica delle norme strutturali che regolano il sistema giudiziario italiano è da anni sentita come una priorità da chiunque abbia avuto l’occasione di approcciarsi, anche in maniera occasionale, ad un palazzo di Giustizia.

Ed infatti, sia nell’ambito civile che in quello penale, i problemi sono numerosi e – nella maggior parte dei casi – i medesimi: i tempi dei processi, la carenza del personale, la mancanza di strumenti idonei ed all’avanguardia e la commistione della politica nelle scelte dell’organo di autogoverno della magistratura, solo per dirne alcuni.

Sembrerebbe che ora, finalmente, qualcosa si muova in questo senso: e, infatti, parrebbe che il governo Conte bis si sia determinato nell’approvare in tempi brevi, addirittura entro fine anno, un’organica riforma della giustizia.

Tuttavia, occorre assolutamente rilevare – vista la delicatezza dell’argomento – che una riforma in tal senso dovrà necessariamente tener conto di tutti i fattori di criticità ed allarme ed approntare degli strumenti correttivi adatti che possano migliorare veramente il sistema, in un’ottica di lungo termine.

In questo senso, un esempio di provvedimento che presenta una serie di preoccupanti elementi di allarme e lacune è rinvenibile nella c.d. legge Spazzacorrotti, che, certamente da un lato ha il pregio di aver innalzato le pene per i corruttori, senza tuttavia, dall’altro lato, risolvere nulla sul lungo periodo, anzi.

Il punto maggiormente criticato di questa Legge è senza dubbio quello concernente la sospensione della prescrizione: in particolare, l’art. 1, lett. d), e), f) prescrive sul punto che il corso della prescrizione rimanga sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado (non solo di condanna ma addirittura di assoluzione) o del decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna.

È evidente come una soluzione del genere – che dispiegherà i propri effetti dal gennaio 2020 – sia assolutamente inadeguata ed inadatta a diminuire i tempi dei processi e, anzi, pregiudichi irrimediabilmente la posizione giuridica della persona sottoposta a processo penale.

Non è, in altre parole, colpendo un istituto quale la prescrizione, prerogativa necessaria all’interno di uno Stato democratico e di diritto, che va trovata la soluzione in relazione ai tempi della Giustizia. Peraltro, in che modo un’impostazione del genere ridurrebbe la durata dei processi?

Un’ulteriore mancanza presente nella Legge 3 del 2019, che ben può essere assunta a spunto di riflessione in ottica dell’approvazione di una migliore riforma della giustizia, risiede nella assoluta carenza di predisposizione di strumenti preventivi. L’assunto logico è semplice: la diminuzione della durata dei processi passa necessariamente attraverso la riduzione del numero degli stessi.

E allora, risulta chiaro come una soluzione in questo senso possa essere identificata – in ambito penale – nell’anticipazione della lotta dei fenomeni criminali, soprattutto quelli relativi ai reati societari, nel terreno della prevenzione, al posto di quello della repressione.

In questo senso, pare opportuno consigliare la possibilità – ad esempio – di inserire nella riforma organica della giustizia anche l’obbligatorietà dell’adozione del Modello organizzativo gestionale, così come ipotizzata dal Disegno di Legge n. 726.

Con una soluzione del genere, come detto, si eviterebbe di pervenire ad un processo penale proprio perché l’eventuale illecito verrebbe fermato attraverso l’applicazione di una delle procedure adottate.

Un’eventuale riforma della giustizia, su cui si sta ragionando in questo periodo, deve, dunque, necessariamente coinvolgere in maniera organica tutti i settori del sistema giudiziario italiano e non può essere approvata su singoli settori.

Un dato è certo: la riforma non è più rimandabile. L’esigenza è sentita, come detto, non solo dai professionisti di settore che si devono confrontare con mezzi assolutamente antiquati ma anche dai cittadini che, coinvolti in un procedimento civile o penale, si devono confrontare con carenza del personale e con rilevanti ritardi.

Alessandro Parrotta è avvocato e direttore Ispeg

Fischi e fiaschi. A Verona

Verona's supporters the Italian Serie A soccer match Hellas Verona vs Brescia Calcio at Bentegodi stadium in Verona, Italy 3 november 2019. ANSA/ FILIPPO VENEZIA

Sembra una barzelletta. E invece no. A Verona il consigliere della lista comunale “Battiti per Verona” Andrea Bacciga (famoso per avere fatto il saluto romano alle componenti del movimento Non una di meno in Consiglio comunale, tanto per chiarire l’evidente spessore del soggetto) insieme a altri tre consiglieri della Lega (Alberto Zelger, Paolo Rossi e Anna Grassi) ha presentato una mozione che definire una barzelletta è troppo poco. Scrive Bacciga (trattenete il respiro):

«Premesso che:

  • domenica 3 novembre, durante la partita Hellas Verona-Brescia, improvvisamente il giocatore del Brescia Mario Balotelli calciando il pallone verso la tifoseria avversaria usciva dal campo, accusando di avere ricevuto cori razzisti;
  • nessuno presente allo stadio udiva tali ululati né il pubblico presente né la panchina del Brescia né  i giornalisti né i professionisti della piattaforma Sky a bordo campo;
  • iniziava subito una campagna mediatica contro la città di Verona sia da alcuni politici, come risulta dal comunicato del PD, sia da alcuni giornalisti che, seppur non presenti allo stadio, non hanno perso l’occasione di gettare fango sulla nostra città.

Considerato che:

  • non sia più accettabile che Verona venga messa sul banco degli imputati, pur quando, come in questo caso, non è accaduto nulla.

Con la presente mozione il Consiglio comunale impegna:

  • il sindaco, l’assessore e gli uffici legali del comune a diffidare legalmente e/o adire le vie giudiziali nei confronti del calciatore e di tutti coloro che attaccano Verona diffamandola ingiustamente».

In pratica questi valorosi consiglieri comunali vogliono querelare Balotelli e tutti quelli che ne parlano o ne scrivono. Quindi anche noi, probabilmente. E anche voi che leggete, chissà.

Peccato che il Giudice sportivo invece abbia punito il Verona con la chiusura per un turno del settore poltrone est, da dove sono arrivati gli insulti all’attaccante del Brescia (niente condizionale visto che si parla di recidiva dopo il caso Kessie).

Un gran figurone per Bacciga e i suoi camerati. Davvero. Però è riuscito a chiarire una cosa importante: di solito chi ha le polveri bagnate per difendersi finge di difendere un patria (che sia una città o una nazione). E ancora una volta, volendo ben vedere, possiamo notare che quelli del “prima gli italiani” hanno evidenti difficoltà con la lingua italiana.

Bacioni, cari consiglieri.

Buon mercoledì.

Africa: quando i media raccontano lo stereotipo

Cosa sappiamo davvero dell’Africa? Quale Africa ci viene raccontata dai media e dalla fiction? Di quale Africa parliamo sui social? L’immagine prevalente che ci arriva del continente africano è quella allarmistica di guerre, tragedie umanitarie, quella mediata dalla nostra lente, “l’Africa vista da qui” che spesso è intrisa di pregiudizi e cliché.

Amref, in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, ha realizzato il dossier L’Africa MEDIAta. Come fiction, tv, stampa e social raccontano il continente in Italia, uno studio che analizza 30 episodi di serie televisive, 65 programmi di informazione, 800 notizie di prima pagina analizzate su alcuni quotidiani nazionali, 21,6 mila post Facebook e 54mila tweet di 8 testate giornalistiche, nel primo semestre del 2019.

Massimo Bernardini, giornalista e conduttore tv che ha curato la nota di introduzione, ha così sintetizzato i risultati del dossier: «In Italia il racconto pubblico sull’Africa si basa soprattutto su stereotipi. I mass media, normalmente, se ne occupano in termini solo problematici[…]Il positivo africano è sempre solo natura selvaggia, animali, deserti, foreste, al massimo bambini sorridenti».

Sui quotidiani e sui social l’Africa è raccontata solo in riferimento ai flussi migratori, ai fatti di cronaca e alle vicende libiche. Lontana dal tema immigrazione, l’Africa pare essere quasi invisibile, manca il racconto del quotidiano nelle sue dinamiche politiche e sociali.

Raccontare l’Africa diventa il riportare come “noi” vediamo “loro”, le nostre paure dell’invasione, il nostro senso di insicurezza; le notizie hanno un’ambientazione italiana, uno scenario in cui esiste una sola Africa, quella dei migranti, un corpo unico che si muove all’unisono verso di noi senza incontrarci veramente, senza che noi consideriamo le individualità, le complessità, le caratteristiche di un continente tanto variegato.

A parlare di Africa sono sempre i rappresentanti politici e le istituzioni italiane, raramente le organizzazioni e le associazioni umanitarie che lavorano in quel continente, quasi mai si ascolta la voce degli africani.

Anche nelle fiction a parlare di Africa non sono i suoi abitanti: nel dossier Amref si è visto che quando si racconta di Africa gli africani non sono tra i protagonisti, sono a margine e sono raccontati con scarso approfondimento psicologico. Inoltre i personaggi occidentali sono spesso gli unici ad essere rappresentati come appartenenti a professioni intellettuali di prestigio.

Secondo la scrittrice nigeriana Chimamanda NgoziAdichie «La storia unica crea gli stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che non siano veritieri, ma che sono incompleti. Fanno diventare una storia, la sola storia». Allora per rappresentare le tante “Afriche” e scampare allo stereotipo della storia unica si deve «raccontare le opportunità che l’Africa può offrire. Bisogna restituire un’immagine dell’Africa che non sia solo migrazione, solo dramma», dice Guglielmo Micucci, Direttore di Amref Health Africa in Italia.

 

Innescare guerre. Anche tra operai e calciatori

Brescia's Mario Balotelli looks on during the Italian Serie A soccer match Genoa CFC vs Brescia Calcio at the Luigi Ferraris stadium in Genoa, Italy, 26 October 2019. ANSA/SIMONE ARVEDA

Ora, riassumendo, si potrebbe dire che la giornata politica di ieri propone due macroargomenti. In un quotidiano si direbbe che sono i due argomenti di apertura: c’è la reazione di Mario Balotelli (professionista delle reazioni) ai buu razzisti della tifoseria del Verona (che sul razzismo è sempre riuscita a farsi notare, diciamo) e dall’altra parte c’è l’ex Ilva che viene “lasciata” da AncelorMittal perché non è riuscita, tra le altre cose, ad avere garanzia di impunità.

In un Paese normale, un Paese che rispetta la cronaca e decide di dibatterne con onestà intellettuale ci sarebbero i due fronti che adducono le proprie ragioni. Sul razzismo ci sarebbero (e ci sono) quelli che minimizzano (e nascosti tra loro anche i razzisti) e quelli che chiedono pene severe. Magari ci sarebbe anche qualche politico che riflette sul fatto che chiedere la carta d’identità per i social quando gente ci mette la faccia per insultare un calciatore nero sembri davvero una cosa minima. Sull’ex Ilva ci sarebbe chi dice che il lavoro merita anche qualche calata di braghe del governo e dall’altra chi proverebbe a fare notare che chiedere uno “scudo” legale per garantire posti di lavoro potrebbe sembrare un ricatto.

In un Paese normale chi è al governo studierebbe subito delle soluzioni, tutti insieme, poi uscirebbero dalla porta del Consiglio dei ministri e ci spiegherebbero cosa hanno intenzione di fare.

Invece qui accade che una componente del governo se la prenda con il governo di cui fa parte. In pratica un autodafé. E accade che un presunto valoroso politico ex ministro dell’Interno riesca addirittura a dire che Balotelli (perché non ha il coraggio di dire “il razzismo”) è l’ultimo dei suoi problemi e che un operaio dell’Ilva vale dieci volte lui, che fa “il fenomeno”. Ovvero nel nostro Paese c’è qualcuno, dalla politica codarda e demagogica e razzista, che riesce addirittura a innescare una guerra tra operai e calciatori. Uno schifo immondo.

Buon martedì.