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Il rigore mai dato

Inter's Romelu Lukaku jubilates after scoring the goal during the Italian Serie A soccer match FC Inter vs US Lecce at the Giuseppe Meazza stadium in Milan, Italy, 26 August 2019. ANSA/MATTEO BAZZI

A Cagliari il calciatore dell’Inter Lukaku, mentre si apprestava a tirare un calcio di rigore, è stato sommerso da cori razzisti e scimmieschi, di chi ha voluto attaccarlo sul colore della pelle. Le immagini sono state riprese da un tifoso, lì sugli spalti, e hanno (per fortuna) indignato parecchia gente in giro trasformando l’evento in una notizia. Non stupisce il razzismo negli stadi da calcio, figurarsi se in un Paese in cui il razzismo cola dalle bocche dei dirigenti politici non si ritrovi anche in porti franchi come sono considerate le curve dei tifosi.

Stupisce però il comunicato degli ultrà interisti che ieri ci hanno dato lezioni di etica con un pessimo comunicato urlato sui social che inizia così:

«LETTERA APERTA A ROMELU LUKAKU, GLI ITALIANI NON SONO RAZZISTI !!!

DOPO L’ENNESIMO TEATRINO MEDIATICO DI LUOGHI COMUNI SUL PRESUNTO RAZZISMO DEGLI ULTRAS ORCHESTRATO DA CHI VUOLE RACCOGLIERE I SOLITI E FACILI CONSENSI POPOLARI FRUTTO DELL’IGNORANZA, LA CURVA NORD MILANO ANCORA UNA VOLTA HA SCELTO DI RIPETERE I DISTINGUO TRA IL RAZZISMO VERO E QUELLO “STRUMENTALE” CHE NON RIGUARDA IL MONDO ULTRAS COME INVECE I SOLITI FALSI MORALISTI AMANO FAR CREDERE PER ACCRESCERE INUTILI ALLARMISMI E CONDANNARE GRATUITAMENTE IL NOSTRO MONDO…».

Non sono razzisti, è lui che è nero, insomma. Ma anche qui siamo alle solite. Valerio Moggia su Vice scrive un interessante articolo in cui elenca solo alcuni dei fatti recenti italiani: il giocatore del Napoli Koulibaly definito «un bugiardo e piccolo uomo» dalla curva interista per avere denunciato gli ululati nei suoi confronti, il presidente del Cagliari (sempre loro) che definiva la discussione sugli urlati contro il giocatore della Juventus Kean degli «inutili moralismi», Bonucci che sempre sul suo compagno di squadra disse che le colpe erano «50 e 50», l’Udinese che nell’89 non comprò Rosenthal per delle scritte antisemite, l’olandese Maickel Ferrier che non si trasferì a Verona dopo che due tifosi si travestirono incappucciati da Ku Klux Klan e altro.

Lo stadio sembra che non debba sottostare alle leggi, come se fosse un’enclave in cui non esistono le regole dello Stato. E così il rigore viene vissuto come un inutile fardello in carico ai tifosi. E poi ci si stupisce che quei modi e quei gesti escano dallo stadio e si riversino nelle strade. Come la gente alla fine della partita, del resto. Chissà che ne pensa la Figc.

Buon giovedì.

«Troppo poco, troppo tardi». Il ritiro della legge sulle estradizioni non placa la protesta ad Hong Kong

HONG KONG, CHINA - SEPTEMBER 02: Protesters take part in a school boycott rally at Tamer Park in Central district on September 2, 2019 in Hong Kong, on September 02, 2019 in Hong Kong, China. Pro-democracy protesters have continued demonstrations across Hong Kong since 9 June against a controversial bill which allows extraditions to mainland China as the ongoing protests surpassed the Umbrella Movement five years ago, becoming the biggest political crisis since Britain handed its onetime colony back to China in 1997. Hong Kong's embattled leader Carrie Lam apologized for introducing the bill and declared it "dead", however the campaign continues to draw large crowds to voice their discontent while many end up in violent clashes with the police as protesters show no signs of stopping. (Photo by Chris McGrath/Getty Images)

La governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha finalmente annunciato il ritiro ufficiale della contestata legge sull’estradizione, che ha causato l’inizio delle proteste di massa a giugno. Inoltre, aprirà un’indagine per studiare le cause della rivolta sociale e suggerire delle soluzioni per il futuro, oltreché per esaminare il comportamento delle forze di polizia durante le manifestazioni (senza ricorrere però ad una commissione di inchiesta indipendente, come richiesto dai cittadini).

La decisione di ritirare la legge testimonia l’apertura del governo rispetto ad almeno uno dei cinque punti dei manifestanti, che chiedono anche la destituzione dell’attuale governo e maggiore rispetto per la democrazia, l’amnistia per coloro che sono stati arrestati, l’eliminazione della definizione di “rivoltosi” per i protestanti.

La governatrice Lam aveva già sospeso in precedenza il provvedimento che avrebbe permesso l’estradizione di alcuni cittadini in Cina, verso Macao, e Taiwan per essere sottoposti a processo. Un provvedimento che avrebbe potuto trasformarsi in uno strumento nelle mani di Pechino per estradare gli avversari politici e rafforzare il controllo cinese sugli hongkonghesi. La semplice sospensione della norma non scongiurava la possibilità che potesse poi essere reintrodotta in qualsiasi momento dal governo filocinese.

Solo martedì 3 settembre il governo cinese aveva ribadito di avere il potere di dichiarare unilateralmente lo stato di emergenza per placare i disordini, dopo la circolazione di immagini che mostravano uno studente adolescente esanime trascinato dagli agenti, che, secondo alcune testimonianze, sarebbe in coma in seguito a lesioni alla colonna vertebrale o a una rottura del cranio.

Una portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Hong Kong e Macao del Consiglio di Stato, ha citato la Basic law, la legge che regola le relazioni tra Pechino e l’ex colonia britannica. In base all’articolo 18, l’organo di vertice del Parlamento cinese, il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, può dichiarare lo stato di emergenza «a causa di turbolenze» che «mettono in pericolo l’unità o la sicurezza sicurezza nazionale e che vanno al di là del controllo della Regione» amministrativa speciale. Il governo «non rimarrà a guardare», ha poi commentato la portavoce, e «non permetterà che la situazione a Hong Kong continui senza sosta».

Il 4 settembre la portavoce ha confermato il sostegno al governo locale, ma la priorità è sempre quella di ristabilire l’ordine. Intanto nelle ultime ore, la Reuters ha fatto circolare un video ripreso durante una riunione a porte chiuse, in cui Lam ha ammesso che se potesse si dimetterebbe, e ha chiesto a Pechino di accettare alcune tra le richieste degli hongkonghesi. La leader ha, in seguito, smentito di avere mai avuto l’intenzione di discutere le proprie dimissioni con il governo centrale e ha etichettato il video come fake news.

«Troppo poco, troppo tardi», ha scritto su Twitter Joshua Wong, già leader del movimento degli ombrelli del 2014, arrestato e poi rilasciato la scorsa settimana, a proposito del ritiro della legge sull’estradizione. «La risposta di Carrie Lam è arrivata dopo il sacrificio di 7 vite, l’arresto di oltre 1.200 dimostranti, con molti maltrattati nelle stazioni di polizia».

https://twitter.com/joshuawongcf/status/1167417920122585090

«Sollecitiamo anche il mondo a essere vigile – ha poi aggiunto Wong – e a non farsi ingannare dai governi di Hong Kong e di Pechino. Infatti, non hanno ingannato nessuno e una stretta su larga scala è in arrivo».

https://twitter.com/joshuawongcf/status/1169167621826048001

Ora fatti, senza parole

Il capo politico del M5s Luigi Di Maio durante la conferenza stampa al termine del voto sulla piattaforma Rousseau, Roma, 03 settembre 2019. ANSA/ANGELO CARCONI

Passa l’accordo tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico sulla piattaforma Rousseau: il 79% dei votanti ha detto sì, su 73mila persone. C’è stato un grande can can sull’uso della tecnologia nella democrazia e sulla sicurezza del voto. C’è da dire che la demonizzazione del voto elettronico però è di per sé una manfrina piuttosto conservatrice. Se c’è un problema nella piattaforma (ma soprattutto nel Movimento) è l’ingerenza di una società privata e di un imprenditore: questo è il conflitto di interessi. Ma sentire i leghisti (tutti al guinzaglio di Salvini) o i berlusconiani (al soldo di Berlusconi) dare lezioni di libertà fa piuttosto ridere.

Quindi il governo Conte bis è pronto a partire e per chiunque abbia avuto i conati per il salvinismo che ci ha inondato negli ultimi tempi può essere una buona opportunità. Ieri parlando con un senatore del Movimento 5 Stelle, Emanuele Dessì, si diceva degli ideali socialisti e progressisti che erano un po’ i punti cardine del Movimento alla sua nascita: possiamo credere che siano stati divorati da Salvini negli ultimi mesi solo se assistiamo a una netta inversione di marcia.

Nei 26 punti di governo (che sono più una lista di buoni propositi) ce n’è uno che salta all’occhio:

«Occorre promuovere una più efficace protezione dei diritti della persona e rimuovere tutte le forme di diseguaglianze (sociali, territoriali, di genere), che impediscono il pieno sviluppo della persona e il suo partecipe coinvolgimento nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. Occorre intervenire con più efficaci misure di sostegno alle famiglie con persone con disabilità e alle famiglie numerose».

Ora, al di là del fatto che il verbo occorre fa piuttosto sorridere visto che devono farlo loro e dovrebbero anche dirci come, sarebbe interessante capire come si intendono i diritti dopo l’usura a cui sono stati sottoposti negli ultimi mesi. La discontinuità, se discontinuità deve essere, si vede tutta lì.

A proposito: non ci hanno ancora detto dove trovano i soldi per evitare l’aumento dell’Iva.

Insomma: fatti, basta parole.

Buon mercoledì. E buona fortuna a noi.

Il giro del mondo in 15 reportage – introduzione

«Questo non è un mestiere per cinici», diceva un grande reporter come Ryszard Kapuściński. «I cattivi, i furbetti, i cinici non possono essere buoni giornalisti». Manca loro quella umanità profonda che è essenziale per entrare in risonanza con le persone, qualunque sia la loro lingua e cultura, per guadagnarsi la loro fiducia e saperne poi davvero raccontare le storie. Per questo il grande giornalista polacco, autore di libri reportage come Shah-in-shah (1982) sulla rivoluzione iraniana, come Ebano (1998) in cui aveva raccolto trent’anni di viaggi in Africa, l’uomo che da ragazzino aveva patito il socialismo reale e che tuttavia non aveva perso la speranza e credeva nella spinta rivoluzionaria dei movimenti anticolonialisti, aveva scelto di vivere scomodo, di andare sul campo, rifiutandosi di scrivere pezzi da una stanza di albergo come facevano molti suoi colleghi in territori di crisi e di guerra. «È sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita», diceva Kapuściński che aveva rischiato la pelle per stare al fianco di chi non aveva voce. «Lo scrivere non è più un’arte, anzi non è neanche una professione: ormai – denunciò da ultimo – è diventato un mezzo universalmente accessibile per reclamizzarsi, far quattrini o procacciarsi ammiratori. L’inflazione, ecco che cosa minaccia l’arte. Il diluvio, l’alluvione, l’inondazione di dilettantismo, di faciloneria, di qualunquismo». Ma non tutti si sono adeguati al mainstream dell’infotainment, della spettacolarizzazione, dell’omologazione, non tutti si sono arresi al giornalismo da desk imposto dal mercato.

Per fortuna c’è ancora una sceltissima schiera di giornalisti che, gambe in spalla, rischiano in proprio pur di poter raccontare con sguardo vivo realtà lontane e raccontate in modo inadeguato, per conoscerle stando in rapporto vero con gli abitanti, studiandone la lingua, la cultura, cercando di comprenderne in profondità le lotte, le aspirazioni, i sogni. In nome di una difesa non astratta dei diritti umani e sociali, scegliendo di fare questo mestiere per motivazioni ideali, etiche e umane. Questo filo rosso di passione professionale e civile percorre i quindici reportage che abbiamo qui raccolto, in rappresentanza dei molti e autorevoli servizi giornalistici pubblicati nel corso di tredici anni da Left, erede dello storico settimanale Avvenimenti.

A chi ci incontrasse ora per la prima volta con questo volume diciamo che è solo un assaggio della nostra lunga storia, ma che ben ci rappresenta, perché qui troverete il racconto dal Brasile di un grande scrittore come Angelo Ferracuti, autore di libri inchiesta che sono già dei classici come Il costo della vita (2013), e troverete – senza gerarchie di sorta – l’appassionato racconto di una giovane reporter come Martina Di Pirro che è andata in Rwanda, a venticinque anni dal genocidio scovando le tracce di una possibile rinascita del Paese nella resistenza quotidiana delle donne. Troverete la denuncia della drammatica condizione in cui vivono i bambini reclusi in centri per migranti a Lesbo firmata dall’inviato del Tg3 (e presidente della Carta di Roma) Valerio Cataldi e il racconto dal Sahel dell’operatore sociale e giornalista Giacomo Zandonini che negli ultimi anni è diventato uno dei testimoni più attenti nel raccogliere voci di migranti, in fuga da situazioni di guerra e di povertà, che si avventurano nel deserto e per mare in cerca di un futuro migliore, nonostante i soprusi, i ricatti e le torture inferte loro dagli scafisti, nonostante i muri opposti da quella stessa Europa che ha depredato le loro risorse prima di chiudere loro le porte.

In queste pagine troverete la coraggiosa cronaca di Antonella Napoli dal Sudan in rivolta, scritta in giorni infuocati in cui è stata fermata, le è stata sequestrata la macchina fotografica, e si è temuto per la sua incolumità. E poi il reportage dalle Filippine di Matteo Miavaldi che ha fatto arrivare fino a noi il dramma degli sfollati di Marawi. Sono narrazioni con accenti diversi, ognuna con un proprio stile, ma tutte percorse da fili d’oro di impegno personale, documentando tragedie come quella dei desaparecidos in Libano ricostruita dall’esperto di Medio Oriente e redattore di Nena News Roberto Prinzi, ma anche scovando scintille di riscatto, come quelle che Chiara Cruciati, giornalista de Il Manifesto, ha messo in luce in Palestina dove giovani musicisti combattono l’occupazione israeliana con la musica.

Piccoli e importanti segnali di speranza sono stati raccolti in Yemen da Laura Silvia Battaglia, profonda conoscitrice della storia di questo Paese bellissimo, ferito dall’aggressione saudita e dalla guerra. Nel suo reportage racconta, da Sana’ a, storie di giovani che cercano di costruirsi un futuro diverso con la produzione di caffè. Attraverso le parole di un’altra voce di Radio3 mondo, Marina Lalovic, arriva fino a noi la lotta delle donne in Pakistan. Ma straordinarie sono anche le due storie, diverse e parallele, dei pescatori antirazzisti di Zarzis, in Tunisia, ripercorsa da Giulia Bertoluzzi e dei pescatori incontrati da Lorenzo Giroffi e Giuseppe Borello a Dakar, in Senegal. Fra i racconti più sconvolgenti e inaspettati c’è quello dello scrittore ed editore di Infinito Luca Leone che rivela la storia della città ultra nazionalista fondata da Emir Kusturica, in Occidente acclamato regista e musicista. Bruciante e viva è la memoria dello scrittore cinese Mah Sileih nell’anniversario della strage di Tienanmen; per non chiudere gli occhi davanti alle pagine più buie, per reagire e opporsi alla violenza.

Quella violenza visibile e invisibile che il Nobel Josè Saramago aveva sempre rifiutato con la forza della sua narrazione, come ci ricorda con il suo toccante reportage da Lanzarote lo scrittore Shady Hamadi, anche questo, come altri reportage contenuti in questo volume, illustrato poeticamente dal giornalista, disegnatore e scrittore Vittorio Giacopini.

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L’Amazzonia continua a bruciare e Bolsonaro fa finta di niente

View of a burnt area of forest in Altamira, Para state, Brazil, in the Amazon basin, on August 27, 2019. - Brazil will accept foreign aid to help fight fires in the Amazon rainforest on the condition the Latin American country controls the money, the president's spokesman said Tuesday. (Photo by Joao Laet / AFP) (Photo credit should read JOAO LAET/AFP/Getty Images)

Gli ultimi dati raccolti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) brasiliano sono spaventosi tanto quanto chiari: gli incendi nel bioma amazzonico sono aumentati del 196% ad agosto di quest’anno, raggiungendo 30.901 focolai attivi rispetto ai 10.421 dello stesso mese del 2018. I roghi sono cresciuti anche considerando l’intero territorio brasiliano, e non solo l’Amazzonia: 51.936 focolai ad agosto, con un incremento del 128% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, quando sono stati identificati 22.774 focolai. Da gennaio ci sono stati 90.501 focolai in tutto il Paese, rispetto ai 52.926 dello stesso periodo dell’anno scorso (+71%). Il numero è il più alto osservato dal 2010.

Degli incendi in Amazzonia se ne è parlato parecchio nelle ultime settimane, ma nessuna soluzione sembra essere stata trovata per il momento dai leader sudamericani e la situazione è in peggioramento. Peggiorerà ancora nei prossimi mesi con l’intensificarsi della stagione secca. Sono almeno 7mila i metri quadri di foresta già stati persi tra le fiamme, un’area più grande della Liguria (quasi 6mila km quad.) e i danni provocati non sono ancora valutabili poiché si conosce il numero dei focolai attivi ma non la loro dimensione.

Si registra perfino un aumento degli omicidi tra gli indigeni delle popolazioni native dell’Amazzonia che tentano di difendere il territorio dalle aziende che ne sfruttano le risorse radendo al suolo la foresta. Il tutto in nome dello sfruttamento economico. Senza modifiche nel quadro legislativo , Bolsonaro è riuscito a imprimere un accelerazione al disboscamento.

Nonostante tutti i dati raccolti, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro continua a considerare “allarmistici” i toni dei media che affrontano l’argomento – a inizio agosto ha cacciato il direttore dell’Inpe stesso accusandolo di mentire sul disboscamento – e polemizza ancora nei confronti di Emmanuel Macron, che aveva definito la situazione una “crisi internazionale” e proposto l’argomento al G7 di Biarritz.

Mercoledì 28 agosto Bolsonaro ha ricevuto il suo omologo cileno Sebastian Piñera a Brasilia e i due hanno deciso di raccogliere i leader dei paesi sudamericani implicati per analizzare la situazione, il prossimo 6 settembre a Letizia, città colombiana al confine tra Brasile e Perù. Piñera, intervistato dalla Bbc a margine del G7, ha dichiarato che Bolsonaro non è responsabile degli incendi e che con il suo comportamento sta «difendendo la sovranità del Brasile». «L’Amazzonia e’ una vasta area di 7 milioni di chilometri quadrati. Ogni anno ci sono incendi. Quest’anno è stato peggio dell’anno scorso, ma restiamo nella media degli ultimi 20 o 30 anni. Non credo che il presidente Bolsonaro sia responsabile, penso che stia facendo tutto il possibile per combattere questi incendi», ha sottolineato. Bolsonaro ha reiterato che accetterà i 20 milioni di dollari offerti dal G7 solamente se Macron «smentirà quello che ha detto sulla nostra sovranità in Amazzonia».

 

Per approfondire: Left in edicola fino al 5 settembre 2019


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Pasquale, che era solo le sue braccia

20060614 - CRO - NAPOLI - ALIMENTARE: DA DOMANI SU TAVOLE PASSATA POMODORO DOC COLDIRETTI, CON TRASPARENZA IN ETICHETTA AUMENTO CONSUMI 6% - Un momento della raccolta dei pomodori nelle campagne campane. Da domani entra in vigore l'obbligo di indicare in etichetta la provenienza del pomodoro utilizzato per la passata e gli altri derivati. Secondo le stime di Coldiretti la certezza di acquistare passata Made in Italy dovrebbe portare a una spinta dei consumi del 6% e questo anche se i prodotti etichettati prima del 15 giugno potranno essere venduti fino al 31 dicembre 2007. CIRO FUSCO / ANSA / KLD

Merito del capitalismo spinto e di questi tempi di legalità professata ma mai praticata: anche nel 2019, ancora nel 2019, molte persone sono solo la parte del loro corpo che torna utile alla catena di montaggio produttiva, come se non ci fosse nient’altro intorno, come se il cuore, la testa, la sua vita, la sua famiglia, i suoi dolori, le sue speranze siano solo inutili facezie da sbolognare il prima possibile, da non prendere in considerazione.

Pasquale, ad esempio, era solo braccia, solo le sue braccia. E ora che il suo cuore si è fermato non è già niente, vale solo per quelle due braccia in meno che raccolgono meloni nell’azienda agricola dell’estrema periferia di Giugliano, Napoli. Le sue braccia si alzavano tutti i giorni alle 4 del mattino, con il resto del corpo attaccato intorno, per sperare di guadagnarsi una giornata di lavoro, ovviamente in nero, che gli avrebbe fruttato dieci o dodici euro al giorno. Nella disperazione il lavoro non paga, il lavoro si deve guadagnare elemosinando sempre più in basso, in una discesa agli inferi in cui ci guadagna solo il padrone.

Le due braccia raccoglievano meloni sotto il sole cocente, qualche volta avevano anche sete, bussavano al cervello, chiedevano alla bocca di avere dell’acqua ma l’acqua lì nel campo di Pasquale costava due euro alla bottiglietta, meglio farne a meno. I disperati del resto vanno strizzati fino all’ultimo respiro. E le braccia di Pasquale erano le tipiche braccia dei reietti, quelle che ciondolano fino a staccarsi per sopravvivere fino al letto, crollare, e ricominciare il giorno dopo quando fuori è ancora buio.

Le braccia di Pasquale sono morte qualche giorno fa ma se n’è parlato poco o niente. Perché quelle braccia sono le braccia che ci portano in tavola meloni, pomodori e tutto il resto. E che schifo parlare di morte e di cibo. Non si fa. È maleducazione.

Ora le braccia di Pasquale stanno incrociate, morte con il resto del corpo. Hanno raccolto più meloni che monete. Quelle poche, sudate fino a consumarsi il cuore.

Ma Pasquale è morto prima, quando l’hanno cancellato, tutto, tranne le sue braccia.

Buon martedì.

Si chiama Eleonore il no al divieto di Salvini, Trenta e Toninelli

Lo sbarco dei migranti salvati dalla nave Eleonore a Pozzallo in una foto postata su Twitter da J. Filous, 2 settembre 2019. La procura di Ragusa ha aperto un'inchiesta sull'arrivo della nave della ong Mission Lifeline. TWITTER/J. Filous/@SEACOVERAGE Seegezwitscher +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

L’ennesimo divieto di sbarco a uso e consumo della campagna elettorale permanente di Salvini – controfirmato dai ministri Trenta e Toninelli – ha fatto la fine che tutti auspicavamo: la nave Elenore della ong tedesca Lifeline è finalmente arrivata nel porto siciliano di Pozzallo. Il capitano Klaus Peter Reisch ha preso la decisione di andare contro l’espresso divieto di attraccare in Italia dopo che il violento temporale della notte scorsa ha incrementato i disagi già ingenti che i 101 migranti a bordo stavano vivendo da otto giorni. La Eleonore era stata la prima nave tra quelle delle tre ong attualmente attive nel Mediterraneo a vedersi chiudere i porti italiani. Il capitano si è mantenuto fino a domenica sera nei dintorni di Malta, in attesa di comunicazioni dalla Germania, di cui batte bandiera. Ma il peggioramento delle condizioni meteorologiche ha costretto Reisch a dichiarare lo stato di emergenza e infrangere il divieto di entrare nelle acque territoriali italiane. A causa delle piccole dimensioni dell’imbarcazione, i migranti ospitati a bordo erano stati costretti a dormire all’aperto, legandosi con delle imbracature per non finire in mare durante il temporale.

A circa quattro miglia dal porto di Pozzallo, la Guardia di Finanza ha fermato la nave per notificare il divieto di entrare in Italia, già comunicato via radio. Dopo di che ha proceduto al sequestro amministrativo cautelare, diventato effettivo dopo lo sbarco. Dalla ong Lifeline fanno sapere che hanno già provveduto a contattare dei legali per gestire la questione.

L’attracco della Eleonore sembra aver sbloccato anche l’impasse in cui si trova la nave Mare Jonio della ong Mediterranea, costretta da cinque giorni a rimanere al largo con 31 naufraghi a bordo e ad affrontare lo stesso temporale che ha seminato il terrore sulla Eleonore. Secondo fonti d’agenzia delle ultime, la Mare Jonio potrebbe attraccare a breve a Lampedusa “per motivi sanitari”. Oltre alle due imbarcazioni già nominate, è attualmente in missione anche la nave Alan Kurdi della ong tedesca Sea Eye. Le ultime notizie la vorrebbero in rotta verso l’isola di Malta.

Dal canto suo, come afferma la portavoce della Commissione europea, Natasha Berald, Bruxelles si sta già mobilitando per trovare una sistemazione alle 101 persone della Eleonore. E nel frattempo, sempre a Pozzallo, sono sbarcati 29 migranti dalla nave della Marina militare italiana Cassiopea, mentre a Lampedusa sono arrivati un centinaio di tunisini a bordo di un barchino di legno.

 

In fondo sogna di essere Salvini

Dice Di Maio ai suoi che la sua nomina a vicepresidente del consiglio non è una questione personale ma è una questione politica. Usando proprio queste parole. Quale sia la questione politica lo spiega lui stesso: “Se non sono vicepremier perdo la guida del Movimento”, ha detto Di Maio. In pratica vorrebbe convincerci che il suo posizionamento all’interno del Movimento 5 Stelle sia un problema nostro, di tutti noi, del Paese, degli elettori e di tutti quelli che si aspettano dalla politica (di qualsiasi parte siano) sensibili miglioramenti per la propria vita. Il problema politico è il suo peso all’interno del Movimento.

Basterebbe questo se non ci fosse addirittura Beppe Grillo a dirlo chiaro e tondo. Chiaro e tondo proprio no, in verità: giocando molto di sponda, proprio quel Grillo che si vantava di dire le cose come stanno. Ma vabbè. E come se non bastasse perfino Marco Travaglio ha deciso di bastonare Di Maio. Non manca proprio nessuno, solo due liocorni.

Ma la sensazione vera è che il gioco di Di Maio sia proprio questo: prendere nel governo giallorosso il posto che fu di Salvini fino a qualche giorno fa. Vorrebbe essere colui che si fa notare suonando le note più alte e più forti e invece è solo una stonatura in giacca e cravatta. Anche perché, e dovremmo avere il coraggio di dirlo, se il problema politico è il suo posizionamento all’interno del Movimento 5 Stelle allora non si vede perché non accettare la presidenza del consiglio offerta da Salvini.

O forse, se ci pensate, con questa informazione è tutto terribilmente più chiaro. Terribilmente più chiaro. Interessante la politica secondo Di Maio, non c’è che dire.

Buon lunedì.

Vanno riformati i partiti non la Costituzione

Professor Luigi Ferrajoli, secondo lei – giurista e allievo di Bobbio – esiste un sistema elettorale più democratico degli altri?

Ho sempre pensato che il sistema elettorale più democratico, quello che meglio garantisce la rappresentanza politica, è il sistema proporzionale. Questo è tanto più vero nelle condizioni attuali: l’Italia, come gran parte degli altri Paesi europei, soffre di una crisi radicale della rappresentanza. Il nostro ceto politico non rappresenta quasi più nulla: il 50 per cento dell’elettorato non vota e l’altra metà è costretta a scegliere tra partiti che, nel loro insieme, come dicono i sondaggi di Ilvo Diamanti, non raggiungono il 4 per cento di gradimento. È perciò crollata non solo la quantità, ma anche la qualità del voto: si vota prevalentemente il partito meno penoso, per paura o disprezzo di tutti gli altri.

Chi ci rimette di più con il crollo della rappresentanza?

Questo crollo della rappresentanza, mentre non danneggia la destra e le forze di governo, essendo perfettamente funzionale alle politiche liberiste – dato che consente la massima e indisturbata onnipotenza del ceto di governo nei confronti della società, in ossequio alle direttive dei mercati – a sinistra è letteralmente distruttivo, dato che equivale all’emarginazione di qualunque politica anti-liberista in difesa dei diritti sociali e del lavoro. Per questo, i sistemi maggioritari sono funzionali all’attuale crisi della rappresentanza: perché sono fondati sulla personalizzazione e sulla verticalizzazione dei sistemi politici e sulla passivizzazione dell’elettorato.

I sistemi maggioritari allontanano dalla politica?

Naturalmente sono solo uno dei fattori della distanza tra sistema politico e società. Sicuramente, grazie anche allo sradicamento sociale dei partiti, tali sistemi favoriscono la trasformazione delle elezioni in concorsi di bellezza e in gare di demagogia tra i diversi capi che litigano in televisione. Solo il sistema proporzionale garantisce invece, con l’uguaglianza del voto, la rappresentanza di tutti gli interessi, di tutte le forze politiche, di tutte le opzioni, di tutti i diversi progetti nella società. Solo il sistema proporzionale rende possibile la rifondazione dei partiti quali portatori di interessi e politiche diverse.

Perché?

Perché, paradossalmente, i sistemi maggioritari costringono le forze politiche ad assomigliarsi per catturare il voto cosiddetto centrista, che poi è il voto dell’elettorato più spoliticizzato, più disinformato e più disinteressato. Inoltre, solo il sistema proporzionale garantisce la centralità del Parlamento, dato che in base ad esso il partito di maggioranza relativa, supponiamo del 30 per cento, per formare il governo è costretto al compromesso parlamentare che, non dimentichiamolo, è la forma propria delle decisioni nelle democrazie parlamentari. Quindi, solo una legge elettorale proporzionale è in grado di promuovere lo sviluppo di un effettivo pluralismo politico e perciò la massima rappresentatività del Parlamento.

Da anni lei chiede una riforma dei partiti. 

Sì, lo sostengo da sempre: occorre una legge che imponga la democrazia interna, a tutela dei diritti politici degli elettori, e che introduca quello che è un presupposto elementare della rappresentanza: l’alterità tra partiti quali organi della società e istituzioni pubbliche rappresentative. Occorre cioè la separazione e l’incompatibilità tra cariche di partito e funzioni pubbliche anche elettive. I gruppi dirigenti dei partiti che vanno in Parlamento e anche al governo dovrebbero lasciare il posto ad altri, che siano in grado di orientarli, di controllarli, di chiamarli a rispondere. Questa è la condizione minima della rappresentanza, senza la quale i partiti – come vediamo – si sono di fatto trasformati in organi parastatali. Ma c’è di più.

Vale a dire?

Senza partiti radicati nella società e autonomi dalle istituzioni, la selezione del ceto politico avviene sulla base della cooptazione dei più fedeli al capo di turno. Di qui il crollo della qualità della classe dirigente. Siamo al livello più basso rispetto al passato, non parliamo della Costituente, ma anche dei Parlamenti degli anni 50, 60 e 70, quando i politici, di governo e di opposizione, erano persone più colte, più capaci, più disinteressate.

Solo il proporzionale garantisce la democrazia

Intrecciato con la crisi di governo, in questa estate di fuoco, prova a fare irruzione nel dibattito pubblico il sistema proporzionale. «Sistema elettorale – recita la Treccani – per il quale l’assegnazione dei seggi avviene in modo da assicurare alle diverse liste un numero di posti proporzionale ai voti avuti». È l’antidoto a quei «pieni poteri» invocati da Salvini aprendo la crisi dopo aver incassato il secondo decreto sicurezza e il Tav.

Una testa un voto, insomma, quel principio che – legato all’idea per cui a parità di lavoro debba essere corrisposto lo stesso salario – è stato a lungo il cardine della democrazia parlamentare e della coesione sociale. Un lusso che il neoliberismo non può permettersi. «Lo spiegò bene nel 1975 la Trilateral Commission quando ha scritto dell’insostenibilità dello stato sociale nel suo manifesto: The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies», ricorda a Left Gianni Ferrara, classe 1929, costituzionalista ed ex deputato eletto nelle liste del Pci. Tuttavia, se il proporzionale si riaffaccia nel vocabolario politico di fine estate, è per ragioni contingenti: la combinazione fra il taglio dei parlamentari (v. Left del 9 agosto) della “riforma” Fraccaro (il cui ultimo voto è in calendario il 9 settembre e per la quale il Pd ha sempre votato contro ndr) e il Rosatellum, il sistema elettorale in voga, potrebbe far schizzare alle stelle il bottino di seggi di un’alleanza sovranista tra Salvini, Meloni e i suoi fratelli.

Il Pd, poi, è nato da una “vocazione maggioritaria” e le ragioni di “una testa un voto” non albergano nel Pantheon di valori di Zingaretti e Renzi. Tantomeno in quello del M5s che…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left
in edicola dal 30 agosto 2019


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