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Quei fanatici cristiani che uccisero Ipazia

Nel mese di marzo del 415 d.C., ad Alessandria, una donna viene brutalmente assassinata. Non era un delitto “passionale”, nel senso che siamo abituati ad attribuire a questo termine pur improprio. L’autore del crimine non era un marito tradito, un amante respinto e abbandonato. L’unica cosa che sappiamo di lui era che odiava selvaggiamente quella donna: a provarlo, infatti, è l’incredibile, disumana crudeltà dell’uccisione.

Dopo averla seviziata e uccisa con dei cocci appuntiti, l’assassino aveva fatto la sua carne a brandelli, aveva cavato gli occhi dalle orbite e aveva dato alle fiamme i poveri resti. Uno scempio inaudito che peraltro svelava almeno parte del mistero: ad ucciderla non era stata una sola persona, era stata una folla inferocita.

Ma per quale ragione? Chi poteva essere, chi era la donna che aveva suscitato un simile odio? Si chiamava Ipazia, quella donna, e…

L’articolo di Eva Cantarella prosegue su Left in edicola dal 6 settembre 2019

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Un Paese a mezza pensione

Un Paese a mezza pensione dove la fuga dal lavoro – quando non è il lavoro ad andare in fuga – prende le dimensioni di un’emorragia nel pubblico impiego grazie ai meccanismi di Quota 100 che, al di là degli effetti benefici su chi riesce a raggiungere il traguardo, prefigura un ricambio generazionale, una staffetta che avrà l’aspetto di una cura dimagrante dei diritti. A prendere il posto di chi va in pensione saranno lavoratori sempre più atipici.

Sono state 10.336 le domande di pensione Quota 100 presentate dai dipendenti pubblici con decorrenza agosto 2019: 5.694, come emerge dai dati Inps, dagli enti locali, 2.023 da paramedici, amministrativi e tecnici. La Cgil, preoccupata dalle incognite del turn over fa sapere che otto su dieci usciranno dalla pubblica amministrazione. Il 55,1% da Regioni, Comuni e Province, il 22,7% dal comparto sanità. Ma Quota 100, come aveva previsto la Cgil, coinvolgerà una platea molto più ristretta rispetto alle previsioni, con un ingente risparmio di risorse per il prossimo triennio, 325mila persone anziché 970mila, con un risparmio di 7miliardi e 200milioni con cui, secondo Corso Italia, si potrebbero mettere in atto «altre misure che permettano di superare la legge Fornero».

Con buona pace delle sparate propagandistiche di Salvini nella sua campagna elettorale perpetua: «Il ricambio generazionale arriverà almeno al 50% se non la cancelleranno». Invece la misura-bandiera sembra essere uno dei punti negoziabili nelle trattative tra M5s e Pd. «Uno dei possibili settori di intervento della nuova maggioranza, se ci sarà, potrebbe proprio essere quello relativo al sistema pensionistico». Discorrendone con Left, David Natali invita a «procedere con i piedi di piombo, nessuno sa ancora quali saranno gli accordi tra le forze politiche». Natali, che insegna Politica europea e Politica comparata alla Scuola di studi superiori Sant’Anna di Pisa, spiega che «in base agli ultimi dati si prevede un numero sensibilmente inferiore, all’incirca 200mila invece che 290mila, di domande entro la fine dell’anno, 7-8 miliardi di spesa aggiuntiva secondo previsioni confermate dagli organi tecnici del Parlamento, 22 miliardi nel triennio».

Più che ad un’abolizione, al tavolo tematico del Nazareno si starebbe pensando al taglio di un anno della sperimentazione triennale della misura anche per evitare disparità tra lavoratori e disastri sociali come gli esodati di Fornero. Anche nel sindacato si ritiene che sarebbe un errore interromperla prima del tempo. «Anche perché nelle fabbriche è stata percepita come un’inversione di tendenza positiva dopo tanti anni», avverte Augustin Breda, delegato Fiom all’Electrolux di Susegana (Treviso), spiegando che nel Nordest Quota 100 è stata uno «degli elementi di maggior consenso per il governo Lega-M5s, insieme al blocco delle clausole della Fornero che innalzano l’età pensionabile. Molti di noi sono entrati precocemente in fabbrica e sono arrivati alla soglia di 42 anni di contributi prima dei 62 anni previsti da Quota 100, ecco perché nell’industria c’è stata meno richiesta».
Natali, riprendendo un parere largamente condiviso tra gli esperti, ricorda che «l’aumento di spesa per un numero così ridotto di aventi diritto è comunque un salasso per la spesa pubblica. Ed è il punto di attacco della Cgil. Da qui il dibattito degli ultimi mesi e le proposte alternative che potrebbero essere la base per una forma di concertazione eventuale con il nuovo governo».

Corso Italia chiede una flessibilità in uscita per tutti dopo i 62 anni e interventi a favore delle donne, dei lavoratori discontinui e precoci, dei lavoratori gravosi o usuranti e l’introduzione di una pensione contributiva di garanzia per i giovani. Anche Landini ha appena rammentato che Quota 100 «è un provvedimento che introduce discriminazioni per le donne. Ci vuole una riforma strutturale. Quando si parla di pensioni non ci possono essere regole uguali per tutti. Chi fa lavori pesanti ed ha un’aspettativa di vita inferiore deve andare in pensione prima. Punto. Inoltre, serve flessibilità: chi arriva a 62 anni deve poter andare in pensione a prescindere da quanti contributi ha, ricevendo in base a quanto ha versato». «In generale la Cgil punta a un sistema con soglie alte ma anche con assegni cospicui, non meno di mille euro dell’assegno previdenziale», riprende Natali.

Quando Quota 100 è stata adottata, «i decisori e gli esperti avevano in mente due profili», spiega il docente che nel 2018 ha curato The New Pension Mix, nell’ambito di un progetto della federazione sindacale europea. «I lavoratori dell’industria del Nord, quella che a volte si definisce come aristocrazia operaia – continua – e che ora è parte della base elettorale della Lega, che hanno avuto contratti tipici con tutte le tutele, carriere continue senza periodi di disoccupazione. L’altra categoria è quella del pubblico impiego, lavoratori che sono stati in grado di entrare nel mercato del lavoro e non uscirne mai».

Profili entrambi minoritari e in via di estinzione come spiega anche il 13mo Rapporto sullo Stato sociale 2019 – welfare pubblico e welfare occupazionale, redatto dal Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza Università di Roma, mentre gli scenari da qui al 2050, quando l’Ocse prevede che il rapporto occupati-pensionati sarà di uno a uno, prevedono l’inasprirsi degli effetti delle controriforme del lavoro e di quelle previdenziali. L’inadeguatezza dei salari si tramuterà per quote crescenti di lavoratrici e lavoratori nell’inadeguatezza ancora più drammatica dell’assegno pensionistico.

Il “toccasana” della pensione complementare, dei fondi pensione, è una cura rischiosa e costosa (2.630 euro l’anno di media) – che possono permettersi in pochi (solo il 30% degli occupati). Inaccessibile per coloro che soffriranno maggiormente di pensioni più basse, i più giovani o le donne che hanno avuto accesso e carriere più difficili o periodi di disoccupazione involontaria per via della maternità. «Categorie a cui si rivolgeva l’Ape sociale introdotta da un accordo tra le parti all’epoca del governo Gentiloni», sottolinea Natali. E proprio a un anticipo pensionistico di quel tipo starebbe pensando il Pd per l’eventuale Conte-bis, forte anche delle riflessioni di Espanet, associazione di analisti europei di politica sociale (di cui Natali presiede la sezione italiana) sulla necessità di ricalibrare e diversificare i diritti previdenziali a seconda del tipo di contratto, di carriera, e di chi è a maggiore rischio di povertà nella terza età.

Nel Libro bianco sulle pensioni, (White Paper – An Agenda for Adequate, Safe and Sustainable Pensions) presentato a Bruxelles prima delle elezioni europee, la Commissione di Bruxelles ha raccomandato ai Paesi membri di «sviluppare sistemi pensionistici privati complementari», «potenziare la sicurezza dei sistemi pensionistici integrativi», «incoraggiare gli Stati membri a promuovere vite lavorative più lunghe» e «sostenere le riforme pensionistiche negli Stati membri». Tuttavia, specifica la nostra guida, «non esiste una linea di tendenza così evidente in Europa. In realtà oggi c’è molta perplessità rispetto a una privatizzazione più o meno marcata del sistema previdenziale perché la Grande Recessione del 2008 ha dimostrato che i lavoratori iscritti ai fondi pensione hanno pagato un prezzo altissimo all’andamento sfavorevole dei mercati finanziari. Questo ha determinato una riflessione ad ampio raggio sia dei sindacati, sia dei decisori. Oggi mi sembra di poter dire che se si ragiona ancora di mix pensionistico, si riconosce che la previdenza pubblica sarà ancora la parte fondamentale del sistema», dice Natali.

Una cosa è certa, per Natali, il dibattito sulla “riforma” del sistema pensionistico «ci ha accompagnato per 30 anni e ci accompagnerà per molto tempo. Questo perché si allunga la vita, la popolazione invecchia e la spesa pensionistica è una delle voci più significative, in Italia tra il 15 e il 16% del Pil. E, in condizioni di alto deficit e alto debito pubblico, come gran parte dei Paesi europei, sei costretto a fare i conti sulla corsia previdenziale».
Sulle pensioni (molto più magre per i lavoratori della Germania Est), infatti, si sono giocate le regionali di Sassonia e Brandeburgo e sulle pensioni è arrivata la nuova dichiarazione di guerra di Macron all’indomani del G7.

Pressato da Medef, la sua Confindustria, l’Eliseo punta alle pensioni “a punti”, ossia a spingere sul contributivo, e a mantenere stabile l’incidenza del monte pensioni sul Pil mentre cresce la platea di pensionati. Già l’annuncio ha ritoccato all’ingiù la popolarità del presidente: scettici e preoccupati. Quattro intervistati su dieci (41%) dall’istituto di sondaggi Cisop ritengono che non sia necessario riformare il sistema, solo il 36% è favorevole a un prolungamento del periodo contributivo per i lavoratori (67% dei quali sono pensionati), mentre solo il 16% vuole un aumento dei contributi. La riduzione delle pensioni per i futuri pensionati è respinta quasi all’unanimità (93%). Mentre in Italia sindacati e sinistra confidano nella discontinuità del prossimo governo, al di là delle Alpi sarà il conflitto sociale a scandire i tempi dell’autunno.

L’articolo di Checchino Antonini è tratto da Left in edicola fino al 12 settembre 2019

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Brexit, la corsa in Parlamento per fermare il no deal e Boris Johnson

epa07817238 A handout photo made available by the UK Parliament shows British Prime Minister Boris Johnson gesturing during Prime Ministers Questions (PMQS) in the House of Commons in London, Britain, 04 September 2019. EPA/JESSICA TAYLOR/UK PARLIAMENT / HANDOUT MANDATORY CREDIT: UK PARLIAMENT / JESSICA TAYLOR HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Dopo una sessione terminata all’una e mezza di giovedì notte, i Lord britannici hanno approvato e emendato la proposta di legge che dovrebbe prevenire un’uscita dura dall’Unione europea del Regno Unito, quella che viene chiamata una hard Brexit con un no deal.
Quando il 24 luglio scorso Boris Johnson (BoJo) ha preso il posto di Theresa May il destino sospeso della Brexit, decisa con un discusso referendum nel 2016, è apparso subito chiaro. Ma la scelta di procedere con il pugno di ferro dell’inquilino del numero dieci di Downing Street non ha convinto tutti i parlamentari, primo tra tutti Jeremy Corbyn, leader del partito Laburista.

Così, alla riapertura delle Camere dopo le vacanze estive, è stata subito presentata una proposta di legge, il Benn bill (da Hilary Benn, il laburista che l’ha firmata), che impedisce l’uscita dall’Unione europea con un no deal e costringe il premier a chiedere una proroga della scadenza dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona a Bruxelles. Con un rivolgimento che ha visto ben ventuno parlamentari conservatori cambiare schieramento (espulsi subito dopo dal partito) e spostare così l’ago della bilancia della maggioranza alla Camera dei Comuni, Johnson si è trovato alle strette.

A nulla è servito il tentativo di proporre una mozione in cui venivano richiesti lo scioglimento della Camera e nuove elezioni il 15 ottobre: non solo non è stata approvata, ma il Benn bill è passato con 327 voti favorevoli e 299 contrari. Dei 434 deputati necessari a far passare la mozione, cioè due terzi dei Comuni, solo in 298 hanno appoggiato la proposta di Johnson.

Lunedì 9 settembre il Benn bill sarà di nuovo sul tavolo dei Comuni, in attesa di una definitiva approvazione. L’ultimo passaggio, quello della ratifica da parte della Regina Elisabetta II, verrà saltato in nome del principio del royal assent. Sia che la legge venga approvata o no, per Boris Johnson le cose si fanno difficili. Attualmente, infatti, il governo non ha la maggioranza, per cui non può esercitare appieno le sue funzioni. Nel caso in cui il Benn bill non dovesse passare, l’opposizione sta già pensando a un voto di sfiducia. Quanto alla data di possibili nuove elezioni, il leader dell’opposizione John McDonnell, il cosiddetto shadow chanchellor, ha dichiarato che i laburisti si stanno consultando con gli altri partiti del loro schieramento «per definire una data».

Dal canto suo, Johnson vorrebbe tornare alle urne con l’ardita speranza di formare un Parlamento meno ostile nei confronti suoi e della sua visione della Brexit. Ma la mossa di aver programmato la sospensione dell’attività delle Camere rende i tempi molto stretti, giocando a suo sfavore nella ricerca della maggioranza di due terzi necessaria. Corbyn ha dichiarato che appoggerà la mozione per il voto anticipato solo dopo che una legge anti no deal sarà stata approvata, suscitando malcontento nel suo partito, che invece vorrebbe aspettare la decisione dell’Ue di posticipare la data della Brexit per aprire nuovamente le urne. Questo consentirebbe di dare tempo a tutti e ventisette i Paesi dell’Unione di accettare il prolungamento dei termini previsti dall’articolo 50, che sposterebbe la data di uscita al 31 gennaio 2020, rendendolo inattaccabile. In ogni caso, Johnson ha già dichiarato che proporrà una nuova mozione per il voto anticipato già lunedì prossimo, sfidando apertamente il Parlamento a rifiutarsi di votarla nel caso in cui la legge venisse approvata.

E mentre anche Jo Johnson, fratello del premier, abbandona la nave dimettendosi dal suo seggio tra i Tories e dalla carica di ministro per non dover votare contro il suo familiare (già nel 2016 aveva votato remain), i mercati dichiarano che preferirebbero vedere Corbyn a trattare a Bruxelles invece di BoJo. Oltre il fronte economico, se il no deal dovesse verificarsi si teme una nuova accensione delle tensioni tra Irlanda e Irlanda del Nord, il cui confine diventerebbe quello tra Unione europea e la fuoriuscita Gran Bretagna.

Uno dei nodi cruciali che rende pericoloso l’approssimarsi del 31 ottobre è la confusione politica che si è creata intorno alla Brexit. Se è vero, infatti, che la maggior parte degli elettori che hanno votato leave al referendum appartiene al partito Conservatore di Johnson, i contrari ad uscire dall’Ue sono divisi tra il Labour Party e il più piccolo Liberal Democratic Party. Questa frammentazione potrebbe essere sufficiente ad assicurare all’attuale premier la maggioranza in possibili elezioni future, sia essa assoluta o relativa. In ogni caso, però, se dovesse realizzarsi la rottura con un no deal, le conseguenze economiche e politiche per Londra sarebbero molto più pesanti di quanto porta avanti BoJo con la sua ostinazione.

 

Sconfiggere Salvini, non legarsi a Conte: la terza via

All’inizio di agosto Salvini ha aperto la crisi di governo. La sua decisione è stata motivata dalla volontà di avere “pieni poteri” al fine di poter realizzare il progetto politico reazionario della Lega. Un progetto nazionalista, razzista, nazistoide nella costruzione del capro espiatorio e dell’uomo della provvidenza. Un progetto anticostituzionale e plebiscitario, che occorre fermare, ed a cui occorre costruire una alternativa che risponda da sinistra alla crisi sociale e morale di cui Salvini è frutto ed interprete in senso fascistoide.

Di fronte a questa offensiva è assolutamente fondamentale, prima di arrivare a qualunque consultazione elettorale, modificare la legge elettorale in senso proporzionale. Occorre evitare che la “minoranza più grossa” possa produrre irreversibili scardinamenti Costituzionali favoriti dalla torsione maggioritaria della legge elettorale oggi in essere. Noi comunisti ci siamo battuti contro la legge truffa e il maggioritario non spianeremo la strada a Salvini!

In questo quadro Pd e M5s hanno aperto un dialogo al fine di dar vita ad un nuovo governo. Non è il nostro governo ma si tratta di una scelta totalmente legittima sul piano Costituzionale e democratico. Il governo tra M5s e Lega è stato il frutto di una convergenza parlamentare tra la Lega Nord che si era presentata alle elezioni con Berlusconi e il M5s. La via maestra sul piano costituzionale per affrontare la crisi di un governo nato in parlamento è la verifica se in parlamento esiste un’altra maggioranza. Gli starnazzi di Lega e Fratelli d’Italia contro questa prospettiva non hanno alcuna ragione democratica e Costituzionale. Nessuna.

A questo governo va quindi chiesto di dar vita ad una legge proporzionale pura e di affrontare le principali emergenze sociali: lo smantellamento integrale delle riforme negative poste in essere negli anni passati (Fornero, Jobs Act, Buona scuola, etc), delle leggi liberticide in materia di immigrazione e di repressione delle mobilitazioni popolari, il ripristino di una tassazione fortemente progressiva che prenda i soldi dai ricchi per finanziare il welfare e un piano per il lavoro che dia vita ad una riconversione ambientale dell’economia e delle produzioni.

Per ottenere questo è necessario costruire un movimento di massa che, nel caso – assai probabile – in cui il governo proceda in tutt’altre direzioni, dovrà diventare un movimento di opposizione.

Ritengo infatti assolutamente necessario sconfiggere la destra fascistoide di Salvini e penso che questo risultato non sia raggiungibile attraverso il sostegno ad un governo che non rompe con il liberismo. Sono infatti le politiche liberiste fatte dal centro sinistra che hanno aperto la strada alla disperazione e all’impotenza di massa in cui sguazza la destra fascistoide. Fermare Salvini e costruire l’alternativa alle politiche liberiste sono le due facce della stessa medaglia. Nessuna equiparazione tra fascisti e liberali, tra fascisti e centro sinistra ma costruzione dell’alternativa di sinistra a partire dalla piena autonomia dei comunisti e della sinistra.

Non dobbiamo quindi perdere il tempo che il probabile governo PD/5S ci fornirà. Non dobbiamo stare a guardare come tifosi o a difendere presunte ultime spiagge ma – proprio al fine di costruire l’alternativa – operare per dar vita ad un movimento sociale che superi il senso di impotenza che caratterizza la situazione sociale attuale.

Da un lato la costruzione di una narrazione popolare che individui la soluzione dei nostri problemi nell’azione di un sano conflitto del basso contro l’alto. Dall’altra la costruzione di un lavoro finalizzato all’attivazione di movimenti sulle principali emergenze sociali ed alla loro unificazione in una prospettiva di trasformazione egualitaria, libertaria, ambientalista, femminista, pacifista. L’alternativa non è tra Salvini e Conte ma la terza via: questo mi pare il progetto politico attorno a cui aggregare la sinistra oggi in Italia.

Paolo Ferrero è vicepresidente del Partito della Sinistra Europea

Caro Di Maio, che dici su Giulio?

No, no, no, Giulio non sono io. Ma Di Maio agli Esteri pone in modo centrale un argomento sparito dai radar dell’ultimo governo che è Giulio Regeni (del resto i sindaci della Lega ne rimuovono gli striscioni). Quel Giulio Regeni che molti esponenti del Movimento 5 Stelle (con il presidente della Camera Fico in testa) da mesi dicono di volere difendere ricercando la verità e che invece rimane nel cassetto delle storie che in molti si augurano che si dimentichino in fretta.

Di Maio da vicepremier si era esposto affrontando il caso direttamente con il presidente egiziano Al Sisi, e fece assicurazioni che non hanno mai avuto seguito. Lo scorso novembre annunciò conseguenze se dal Cairo non fossero arrivate risposte concrete entro la fine del 2018: conseguenze mai viste, risposte concrete dall’Egitto nemmeno.

«Ora che ha il potere e la responsabilità di porre in essere quelle conseguenze minacciate nei confronti del governo egiziano, confidiamo che il ministro vorrà come prima cosa richiamare il nostro ambasciatore e pretendere la verità fino ad oggi nascosta e negata» hanno scritto ieri i genitori di Giulio.

Quando Di Maio era ancora all’opposizione, nel 2016, disse: «Il governo dovrebbe minacciare ed eventualmente avviare ritorsioni economiche verso l’Egitto. Giulio era ed è uno dei nostri orgogli nel mondo. Il governo deve andare fino in fondo, lo faccia una volta tanto».

Ora è nel posto più ideale per prendere in mano la situazione e dimostrarci che le parole valgono, hanno un peso, sono politica. Se davvero Di Maio vuole rilanciarsi c come uomo forte (non voleva per questo il Viminale?) allora su Regeni (così come su Silvia Romano) ha l’opportunità di fare la voce grossa.

Aspettiamo.

Buon venerdì.

Chi ha davvero paura della sovranità popolare

Anti-fascist people take part in the demonstration against the Security Decree wanted by Italian Interior Minister Matteo Salvini and the evictions scheduled in the coming months, on June 22, 2019, in Rome, Italy (Photo by Andrea Ronchini/NurPhoto via Getty Images)

Quelli a cui è sfumato il blitz, che prevedeva mozione di sfiducia e voto in autunno in rapida successione, urlavano: «Chi ha paura del popolo?», «È il momento di dare voce al popolo!». Il popolo, quello reale, fatto di persone in carne ed ossa, sa esprimersi con la propria voce, ma spesso non viene ascoltato. Quello di cui parlano loro, invece, è un popolo “italiano”, indistinto, informe, quasi un corpo mistico, ma in vacanza, quindi smobilitato. Pur con grande copertura mediatica, durante questa crisi di governo estiva non si è parlato d’altro.

Nella prima mano della partita, chi ha dato le carte ben conosceva i regolamenti parlamentari. Non a caso è stato un ex presidente del Senato a fornire la prima indicazione tecnico-politica su come comportarsi per far fallire la sfiducia a Conte. Nel Palazzo, in effetti, c’era e c’è effettivamente paura delle elezioni anticipate e ravvicinate. Tuttavia, se le mosse saranno dettate solo dalla paura della vittoria di un movimento ai bordi della democrazia, ma anche del proprio destino personale, è difficile immaginare la costruzione di un esecutivo lungimirante, all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.

Nel frattempo, per le forze politiche italiane i reali risultati elettorali delle europee e quelli virtuali di sondaggi e proiezioni restano un monito costante. Quale sarà l’esito finale è presto per prevederlo. Sulla scena gli attori politici devono seguire il loro copione, e più smarriscono i contatti col proprio retroterra politico-sociale, più i loro gesti contengono fatti simbolici, gli unici che garantiscono un immediato, ma effimero, ritorno d’immagine.

Tuttavia, in questa situazione si pone l’opportunità concreta di mettere al centro del dibattito politico una riforma decisiva: quella della legge elettorale. Altro che voce, le forze politiche devono ridare ai cittadini il diritto di votare secondo Costituzione, facoltà che ci è stata rubata nel…

L’articolo di Felice Besostri prosegue su Left in edicola dal 30 agosto 2019


SOMMARIO ACQUISTA

È stato il vento

 

SOMMARIO

Introduzione di Mimmo Rizzuti

Mimmo Lucano: «Rifarei tutto» di Stefano Galieni

 

IL MODELLO RIACE

Storia di una rivolta gentile di Stefania Limiti

Riace, la rinascita dell’Italia di Soumaila Diawara

Casa vecchia, vita nuova di Stefano Galieni

 

ATTACCO ALL’ACCOGLIENZA

Sull’immigrazione il governo punta a creare il caos di Leonardo Filippi e Federico Tulli

Uno schiaffo al volto disumano dell’Europa di Roberto Musacchio

La distruzione della solidarietà di Stefano Galieni

Lettera aperta a Salvini da una lavoratrice dell’accoglienza di Camilla Donzelli

L’OASI CONTRO LE MAFIE

Riace dà fastidio alla mafia e ai razzisti di Stefano Galieni

La lotta di Peppino Lavorato nella Rosarno delle cosche di Stefano Galieni

Rocco e i suoi fratelli nello slum di San Ferdinando di Angelo Ferracuti

 

SIAMO TUTTI RIACESI

Il governo della solitudine di Matteo Fago

Noi stiamo con Riace di Rossella Carnevali e Valentina Mancini

Da tutta Europa in difesa di Lucano di Giacomo Russo Spena

L’alternativa di Riace fa paura ai potenti di Enrico Calamai

Europa, una fanciulla venuta dal mare di Simona Maggiorelli

Nel vento di Riace soffiano le idee di Ventotene di Mimmo Rizzuti

 

UN COMUNE DA NOBEL

Riace Premio Nobel per la pace 2019 a cura del Comitato promotore

Candidiamo Mimmo al Nobel per la pace di Natascia Di Vito e David Armando

Perché Left candida Riace al premio Nobel per la pace di Simona Maggiorelli

Una battaglia globale che supera i confini italiani di Tasia Christodoulopoulou

Da Riace a Bruxelles, resistere è un dovere di Eleonora Forenza

Storia di un eroe in trincea di Nicola Zingaretti

Riace, un’idea collettiva di Mimmo Rizzuti

Riace è un modello per tutta l’Europa di Pier Virgilio Dastoli

Riace non si arresta di Mimmo Lucano

La solidarietà è un tratto umano. E laico di Simona Maggiorelli

La forza dell’Ubuntu contro razzismo e oppressione di Pierre Kabeza

L’onda nera se ne andrà di Mimmo Lucano

Taglio della spesa militare, più welfare e integrazione: il terzo settore chiede a Conte una svolta

Se non proprio con l’ambizione di integrare le linee programmatiche che il presidente del Consiglio ha abbozzato in queste ore, quantomeno con l’intenzione di fornire un indirizzo orientativo ai partiti che hanno trovato una maggioranza, affinché (ri)trovino anche un’umanità indispensabile per il futuro del Paese. Diverse associazioni della società civile, movimenti e organismi professionali, trasversalmente uniti verso la solidarietà, l’integrazione e la non violenza si sono per questo attivati, per offrire un contributo alla stesura dell’agenda del governo Conte Bis

Con una lettera, indirizzata a Giuseppe Conte, a Luigi Di Maio, a Nicola Zingaretti, a Pietro Grasso e a Sergio Mattarella, dal palco del Flumen – Festival dell’ecologia della non violenza e delle migrazioni, il Movimento Nonviolento lancia tre punti programmatici prioritari nella discussione “per la definizione del programma e la conseguente formazione del nuovo governo che accolga la fiducia delle Camere per la prosecuzione della legislatura”, si legge nella missiva.

Primo punto, uscire dal programma F-35: entro fine anno, il nostro Paese avrebbe l’opportunità di recedere, senza ulteriori penali, dagli impegni presi per l’acquisto dei cacciabombardieri, risparmiando dieci miliardi di euro. Secondo, la riduzione delle spese militari – più democratica e utile di quella dei parlamentari – con un taglio del 10 per cento e la cifra risparmiata, pari a due miliardi e mezzo di euro, sia utilizzata per alleggerire la manovra economica. Tre, no al 2 per cento del Pil per la Nato che chiede di aumentare il budget militare. «Questi tre obiettivi – conclude la lettera – sono un richiamo a impegni realistici che voi stessi avete condiviso in campagna elettorale: ora avete l’occasione di fare in modo che l’Italia possa contribuire a trasformare l’Europa in una potenza di pace».

Partendo da un Paese unito, multiculturale e multietnico, che sia mosso secondo «un approccio politico diverso da quello che pretende di separare realtà inseparabili e che fa sembrare la logica “Prima gli italiani”, un’operazione sensata»: è questa la premessa del manifesto Uniti per unire la nostra Italia, diffuso dal Movimento internazionale, transnazionale e interprofessionale “Uniti per unire” di cui fanno parte oltre mille associazioni italiane e straniere.

Nel manifesto vengono segnalati dieci punti per proporre un cambio di linea nella politica verso la crescita culturale, economica e sociale dell’Italia di tutti. Tra questi, offrire reali ruoli operativi ai nuovi cittadini di origine immigrata, evitando la strumentalizzazione in sola chiave elettorale e tendente a creare disinformazione e conseguente odio rivolto all’origine etnica; promuovere il coinvolgimento produttivo dei cittadini immigrati attraverso una strategia a due binari che garantisca, da un lato l’eliminazione degli ostacoli, anche normativi, a processi di integrazione e dall’altro, la stessa sicurezza per tutti; ridurre la carenza dei professionisti della sanità attingendo al bacino dei medici di origine straniera, senza l’obbligo della cittadinanza italiana per chi lavora da cinque anni nel Belpaese; promuovere l’emersione dei saperi dei professionisti stranieri in quanto utili allo sviluppo dell’intero sistema italiano; incentivare l’approvazione di una legislazione europea che garantisca la solidarietà tra tutti i Paesi dell’Unione contro il traffico di esseri umani e la violenza di donne e bambini; individuare meccanismi di soluzione dei conflitti in Yemen, Siria, Iraq e Libia.

Questione, quest’ultima, sulla quale Medici per i diritti umani (Medu) rivolge a Conte due domande: «Quali politiche migratorie intende sviluppare il governo che si accinge a formare e a quali ministri intende affidarle?». E poi: «Quali relazioni con la Libia, snodo centrale del feroce sistema criminale che sfrutta i flussi migratori dall’Africa Sub-sahariana all’Europa?» Perché «tali fondamentali questioni sono state affrontate in modo disastroso dal suo precedente governo, in cui ha prevalso l’impostazione leghista tanto che il suo ex ministro dell’Interno, poco più di un anno fa, parlava, senza essere smentito dal governo, di «centri per immigrati all’avanguardia in Libia», chiedendo di «smontare la retorica della Libia che tortura i migranti e non rispetta i diritti umani».

Se vuole essere davvero di svolta, per il presidente del Cnca, Riccardo De Facci, «il nuovo governo deve mettere al centro della sua azione politiche di welfare innovative e non assistenziali: tra le prime misure che ci attendiamo ci sono il corposo finanziamento del Fondo nazionale per le politiche sociali e per le politiche Giovanili, il rilancio di culture ecologiche e di economia circolare, una seria lotta alla povertà, una reale applicazione dei Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr) in tutta Italia». Dando uno sguardo alla bozza dei lavori, sintetizzata in ventisei punti dal M5s, qualcuna di queste istanze sembrerebbe soddisfatta. Ma non basta. «Vorremmo definitivamente superare – continua De Facci – l’ondata di odio che, in questi ultimi anni, si è accanita contro il mondo della solidarietà, del mutualismo, dei poveri e della diversità».

Cinque cose da fare per non farlo tornare

Interior Minister Matteo Salvini, right, checks his phone as he walks in downtown Rome after leaving Palazzo Chigi government office, Monday, Sept. 24, 2018. Salvini, who’s cracking down on migrants, told reporters that the government at a Cabinet meeting Monday approved a decree setting tighter criteria for such protection, a status less than full asylum. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Non ci si illuda di essersene liberati. Per carità, che non ci sia nessuno a sinistra e nel centrosinistra che pensi che Matteo Salvini e soprattutto il suo salvinismo possano essere sconfitti da un aperitivo andato di traverso questa estate che ha provocato la crisi di governo più suicida che si sia vista nella nostra storia parlamentare. Matteo Salvini incasserà il colpo e ricomincerà ad urlare più forte di prima, per farsi notare sarà ancora più velenoso e poi feroce mentre se ne sta comodo nel posto dell’opposizione che gli torna utile per mancanza di responsabilità.

C’è un mondo da rovesciare perché la sinistra provi a tornare credibile nei temi, nei modi, nelle persone e soprattutto nella connessione con i problemi reali. Con gli sforzi dei lavoratori che ogni giorno si trascinano fino alla fine del mese, con la solitudine di anziani abbandonati e mal curati, con le speranze piallate dei giovani studenti che crescono in un Paese in cui la cultura è considerata un inutile fardello, con i servizi che mancano alle famiglie. Forse sarebbe il caso di tenere bene a mente alcuni punti, darsi degli obiettivi e provare a cominciare a fare sul serio.

Primo. Salvini va superato, non va solo sconfitto.
Non basta mettere fuori gioco il leader leghista per sperare che la sua narrazione fatta di penultimi contro gli ultimi, di nemici immaginari dipinti come nostri persecutori, di sicurezza intesta come restringimento dei diritti e di popolo come entità fantasiosa da usare come manganello venga disinnescata. Per cancellare il finto tema della finta emergenza dell’immigrazione occorre essere capaci di superarla con priorità più sentite, più importanti e facilmente riconoscibili dagli elettori: ci era riuscito (per poco) Renzi parlando di asili, di scuole, di diritti e sembra che quel campo sia stato completamente abbandonato. Superare Salvini significa presentare al Paese una lista di priorità che sia condivisibile, che cambi veramente la vita delle persone e che non sia vista come una confusa declamazione di buoni propositi.

Secondo. Affrontare i cambiamenti climatici. In politica vince chi riesce a prevedere la direzione che sta prendendo il mondo…

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola dal 6 settembre 2019

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L’unico confine è tra umanità e disumanità

A young refugee (R) shakes hands with a member of a team of former professional footballers prior to the start of their friendly organised by the United Nation's UNHCR in Rome on June 23, 2018. - EU states that refuse to accept migrants should face financial penalities, the French President said on June 23, 2018, on the eve of an emergency mini-summit in Brussels about the escalating crisis dividing Europe. It came after Italy's new populist government defiantly declared that its ports were closed to foreign-flagged rescue ships, after accusing fellow EU members of failing to share the burden of migrant arrivals. (Photo by TIZIANA FABI / AFP) (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

Lo sguardo serio di Alessandra Sciurba e di Carola Rackete, la loro forza, il loro coraggio, la fermezza del capitano della nave Eleonore, Klaus Peter Reisch, le gambe tremanti dei profughi scesi a terra dopo giorni in balia delle onde, delle politiche criminali del governo giallonero e dell’indifferenza glaciale di Bruxelles, le coperte termiche luccicanti, la concentrazione dei volontari impegnati nelle operazioni di salvataggio e cura dei naufraghi, le manifestazioni per l’accoglienza nei porti d’approdo e nei centri di tante città, le lenzuola alle finestre e sui balconi di tutta Italia, la voce pacata e la dignità di Domenico Lucano. Fotogrammi di incessante resistenza durante i 14 mesi di incivile disumanità, di illegalità istituzionalizzata, di violazione della Costituzione, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dei trattati internazionali sul diritto d’asilo, delle leggi sul soccorso in mare.

Pretendiamo che tutto questo non accada più. E che con un nuovo governo vengano abrogati per ignominia i due decreti sicurezza di Salvini, per iniziare. Già perché, per evitare che accada di nuovo, devono fare la stessa fine tutte le precedenti sciagurate norme sull’immigrazione, a partire dal codice anti-Ong di Minniti, passando per la legge Minniti-Orlando (che solo per dirne una ha eliminato un grado di giudizio per i richiedenti asilo), per i decreti Maroni e così via, fino alla legge Bossi-Fini del 2002, la madre delle norme di inciviltà. Non vogliamo con questo dimenticare che la Turco-Napolitano del 1998 “introdusse” i lager per immigrati, i Centri di permanenza temporanea, dando per prima risposte controproducenti a una questione complessa. Ma è indubbio che attraverso la legge simbolo della destra che da un ventennio opprime l’Italia siano state gettate le basi dell’odio, della paura e della lacerazione sociale che Salvini ha cavalcato dal ponte di comando del ministero dell’Interno (si fa per dire, poiché in 14 mesi è stato più volte in spiaggia che al Viminale) allo scopo di raccogliere consenso e prendere il potere in solitudine. Anzi, per meglio dire, «pieni poteri».

È bene ricordare che introducendo il reato di “clandestinità”, la scellerata Bossi-Fini oltre ad aver favorito il proliferare di trafficanti di esseri umani, da un lato ha creato a tavolino un esercito di lavoratori senza permesso di soggiorno quindi ricattabili e a bassissimo costo, facendo fare in questo modo affari d’oro non solo alle organizzazioni criminali che per esempio controllano la filiera agroalimentare del centro-sud ma anche a tanti “onesti” imprenditori del nord. Dall’altro, la Bossi-Fini ha istituzionalizzato e “socializzato” il razzismo insinuando nell’opinione pubblica una falsa percezione dello straniero, della sua identità, dei suoi bisogni, delle sue esigenze, tramite l’equazione xenofoba “immigrato=delinquente”. E questo in parte aiuta a capire come sia stato possibile che gli ultimi due governi abbiano potuto fare in tutta tranquillità accordi con i libici rendendo di fatto gli italiani complici di deportazioni e torture su donne, bambini e uomini nei lager del grande Paese nordafricano. In tutto questo un ruolo determinante, in negativo, è stato giocato dall’Europa e dal tristemente noto Regolamento “Dublino”.

Come scrive Galieni in questo numero, dopo anni di discussione, l’Ue non è stata capace di riformare questo sistema che impedisce l’equa ripartizione delle responsabilità nell’accoglienza dei profughi. E per come è stato concepito non solo non garantisce pari tutele per tutti i migranti che entrano in territorio europeo ma scarica soprattutto sui Paesi di frontiera l’onere della gestione della prima accoglienza. Così è stato un gioco da ragazzi per dei sadici cercatori di potere spacciare per vera un’inesistente invasione e creare il nemico da respingere, per poi apparire come salvatori della “Patria” emanando leggi e firmando ordini che chiudono i porti a bambini e donne incinte in fuga dai loro aguzzini. Forti con i deboli. E deboli con i forti, se pensiamo che nei suoi 14 mesi al Viminale, Salvini, che da Roma denunciava Bruxelles di lasciare sola l’Italia ad affrontare “l’invasione”, non ha mai partecipato a un incontro per la riforma del Regolamento “Dublino”.

C’è poi la questione sociale. In Italia, oltre a Riace, ci sono numerosi esempi di realtà locali rivitalizzate dagli immigrati e da politiche di accoglienza basate sull’idea di uguaglianza degli esseri umani. Ma, come ha denunciato su queste pagine il sociologo Stefano Allievi, c’è un problema tutto culturale che – anche a sinistra – porta a credere che le risorse siano come una torta e che se arriva qualcun altro se ne prende una fetta. «In realtà – dice Allievi – la torta lievita continuamente. È il numero di “nuove” persone che la fa lievitare». Quando nel 2015 in Germania sono entrati oltre un milione di stranieri tutti insieme, ai sindaci delle cittadine che li avrebbero accolti è stato fatto un discorso molto semplice: da te vengono mille persone, questo vuol dire 400 appartamenti in più da costruire, mille clienti in più per i negozi, 300 bambini in più a scuola. Cioè nuove classi da costruire e nuovi insegnanti da assumere.

Ecco, dice Allievi, è questo che in Italia ancora non abbiamo capito: «I Paesi che hanno meno popolazione attiva finiscono in recessione. Chi vuole aprire un’azienda, se non c’è manodopera la apre altrove. E la manodopera in Italia cala di 300mila persone l’anno, in Europa di 3mln. Significa che, dal 2015 al 2050, 100mln di persone che erano popolazione attiva diventeranno pensionati senza essere sostituiti da popolazione attiva. Perché non vogliamo immigrati». E i giovani se ne vanno all’estero, i disoccupati e i lavoratori senza tutele aumentano, i pensionati si rassegnano a una vita da fame.

«L’unico confine che conosco è quello tra umanità e disumanità», ci ha detto di recente Domenico Lucano in un’intervista. Si parta da questa idea, da questa mentalità, da questa cultura per dare all’Italia un futuro nuovo, diverso da quello auspicato da populisti e neoliberisti fondato sull’oppressione, la repressione e lo sfruttamento. Si parta dai principi fondamentali della Costituzione.

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola dal 6 settembre 2019

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