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E se il killer degli ulivi non fosse la Xylella?

La geografia del Salento rischia di essere stravolta dalle misure di lotta al batterio Xylella fastidiosa, Xf: abbattimento delle piante infette e, nella zona cuscinetto, delle piante ospiti nel raggio di 100 metri; uso di ingenti quantità di fitofarmaci su larga scala e divieto di reimpianto delle piante ospiti – associate alla deroga concessa per il reimpianto di sole due cultivar di olivo ritenute “resistenti” che ben si prestano agli impianti superintensivi, ovvero il Leccino (non autoctono) e la Favolosa (brevettata). Il combinato disposto delle misure di lotta e delle “soluzioni” produrrebbe effetti devastanti e irreversibili sul paesaggio, impatti significativi sull’ecosistema, sul clima e l’economia locale, nonché danni alla salute. Ma l’aspetto incredibile è che tali scenari possano realizzarsi su una sostanziale divergenza fra i fatti e la rappresentazione dei fatti, aspetto che apre a numerose domande.

“Il batterio killer fa strage di ulivi” è fra gli slogan più ricorrenti delle associazioni di categoria e di una parte di politici, assunto come mantra quotidiano da alcuni media. Eppure, il fenomeno che si osserva a occhio nudo è il disseccamento (diffuso a macchia di leopardo nelle province di Lecce e Brindisi) non la Xylella (per il cui rilevamento è indispensabile il test molecolare). Del resto, non tutti gli ulivi con sintomi del disseccamento sono positivi al batterio, così come in alcuni casi, dati due oliveti contigui, con stesse varietà, uno presenta piante disseccate e l’altro no, oppure è possibile osservare oasi di ulivi verdi in mezzo a campi disseccati. Dunque, perché gli alberi si disseccano?

La letteratura scientifica indica chiaramente il legame fra povertà dei suoli trattati con prodotti chimici e la maggiore vulnerabilità delle piante ai patogeni e alle malattie, compreso gli erbicidi (Yamada e altri, 2009) anche con riferimento specifico alla Xf che infetta gli alberi di limone (Johal e Huber, 2009). Del resto, già nel 1974, in agro di Gallipoli furono osservati alberi di olivo disseccati a causa degli erbicidi. In quel caso, la dose utilizzata era 4,5 kg per ettaro (Luisi e De Cicco, 1975). Quantitativi analoghi sono stati riscontrati anche nelle province di Lecce e Brindisi con punte rispettive, nel 2007, di 5,36 kg per ettaro e 4,04 kg per ettaro. I dati Istat indicano per queste due province, fra il 2003 e il 2010, una distribuzione di erbicidi per ettaro ai primi posti a livello regionale, con un distacco significativo anche dalle province di Bari e Foggia con superficie agraria di gran lunga superiore e caratterizzate, rispettivamente, da pratiche intensive e sistemi monoculturali che, per definizione, richiedono una quantità più ingente di fitofarmaci. Perché questa anomalia?

La divergenza è anche fra numeri e dati. Nel 2015, mentre il commissario per l’emergenza Silletti dichiarava un milione di ulivi infetti (trasmettendo tale cifra, a quanto si apprende dalla stampa, alla Prefettura), il ministero pubblicava i dati dei monitoraggi: su 26.755 campionamenti solo 612 casi positivi alla presenza del batterio. Nel 2018, mentre alcune associazioni di categoria dichiaravano 10 milioni di piante infette, a Melendugno, in piena zona infetta (dove i monitoraggi risultano sospesi), la società Tap chiedeva alla Regione Puglia l’autorizzazione a spostare 450 piante. L’autorizzazione fu negata a causa di tre piante perché positive al batterio, ovvero lo 0,7%. Del resto, nello stesso periodo, la Regione Puglia, rendendo noti i monitoraggi delle fasce di contenimento (in zona infetta) e cuscinetto (in zona indenne), dichiarava «Nessun boom di piante infette», con percentuali che si attestano intorno all’1,8%. Quindi, perché creare l’equivalenza “disseccamento uguale Xylella” e continuare a riproporla contrariamente alla stessa evidenza?

Assunto, dunque, che il disseccamento non è sempre attribuibile alla presenza del batterio e che questo, del resto, fosse già noto nella delibera n.2023 del 2013 che lo attribuiva a un insieme di concause patogene (funghi, rodilegno giallo, Xf) e agronomiche (mancanza di potatura, eliminazione delle erbe infestanti), perché la stessa delibera si concentra sulla lotta al batterio Xf attraverso le misure su citate, successivamente fatte proprie dai decreti ministeriali e dalle decisioni dell’Unione europea? Perché il ruolo degli altri patogeni, come dei fattori agronomici e ambientali, è trascurato?

Del resto, nessuna ricerca indica gli abbattimenti e i trattamenti come soluzioni…

L’articolo di Margherita Ciervo prosegue sul numero di Left in edicola dal 30 agosto


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Senza laicità non c’è vero cambiamento

Abbiamo rivolto alcune domande al poeta siriano Adonis che in opposizione ad Assad lasciò la Siria per andare in Libano dove ha insegnato e fondato riviste. Prima di trasferirsi a Parigi dove vive in esilio volontario da oltre vent’anni.

Sono passati quasi 10 anni. La primavera araba fu all’inizio un bel risveglio ma poi – lei scrive nel saggio pubblicato da Guanda, Violenza e islam – non è riuscita a liberarsi dell’oppressione e dell’oscurantismo religioso.
Inizialmente abbiamo sperato. Io stesso ho scritto un libro sulla Primavera araba. Purtroppo si è trasformata in una guerra e in un conflitto mosso da interessi. Tutti gli arabi, tutti i musulmani oggi non sono altro che un mezzo per realizzare quello che l’Occidente americano ed europeo vogliono. E il risultato è catastrofico sotto ogni riguardo.

Perché la rivolta, alla fine, è andata incontro al fallimento?
Una Primavera, vale a dire una rivoluzione reale, deve essere realizzata e concepita da un intero popolo. Mentre qui non ha partecipato profondamente, l’iniziativa è stata di piccoli gruppi. Inoltre una rivoluzione, per essere tale, deve essere capace di svolgere un certo discorso che qui non è stato fatto. Il nostro problema è la mancanza di libertà della donna. Nessuno l’ha tematizzato. Il primo obiettivo non è stato liberare la donna dalla legge islamica, dall’oppressione religiosa, dalla sharia. Non ci può essere vera rivoluzione senza laicità. Nessuno ne ha parlato.

Come mai?

Hanno paura perfino di pronunciare la parola! Un punto dirimente è la separazione tra Stato e religione, fra politica e fede. E di nuovo nessuno ne ha parlato. Una rivoluzione deve essere indipendente, invece c’è stata una chiara ingerenza straniera. Così in alcuni Paesi arabi alla fine siamo approdati ad una situazione peggiore di quella passata. La tirannia precedente era di natura militare, quella attuale pretende di essere di natura divina. Il tiranno militare uccide chi si oppone e ha un’opinione diversa dalla sua. L’Isis uccide nel nome di Dio! Oggi si viene fatti fuori per volontà di Dio. La tirannia imprigiona e ammazza le persone perché ne ha paura. Ma la tirannia teocratica uccide le persone perché le detesta, non pensa che siano esseri umani, li considera animali selvaggi a cui sparare. È davvero terribile.

L’egittologo e studioso di ebraismo Jan Assmann sostiene che il monoteismo sia intrinsecamente violento, perché pretende di imporre una verità assoluta, condannando come infedele chi non l’accetta. Ci sono assonanze con la sua riflessione?
Il monoteismo è certamente basato sulla violenza. Pensiamo alla Bibbia: ci sono due fratelli, uno uccide l’altro. Tutto questo viene accettato, addirittura difeso, con una spiegazione molto bizzarra, assurda: il male ha ucciso il bene. La violenza è fondatrice del monoteismo e tutta la storia del rapporto con l’altro da sé nella Bibbia è una storia di violenza. Analogamente l’Islam in quanto religione di Stato, già prima della morte del profeta appare fondato sulla violenza. I primi tre califfi sono stati assassinati. La guerra tra i successori di Maometto è durata cinquant’anni. Dunque tutta la prima età dell’Islam si basa sulla distruttività. Per non parlare dei versetti contenuti nel testo sacro, che sono innervati di violenza. Per approfondire il nesso tra violenza e religione nei monoteismi consiglio di leggere i libri di René Girard.

Lei accennava alla sharia e alla negazione dei diritti delle donne nelle Paesi musulmani. E negli altri monoteismi?
Accade lo stesso, se non peggio. Basta pensare a come la donna viene considerata nella Bibbia e dalla Chiesa. Ancora oggi c’è una setta ebraica che vieta all’uomo di vedere la propria donna nuda. Anche quando fa l’amore con lei. C’è un abito speciale con un buco. Io non ci potevo credere. Ho chiesto ad un amico ebreo e mi ha confermato che è proprio così. La visone presente nella Bibbia è analoga a quella espressa nell’Islam. Nel testo biblico si dice che la donna non è stata creata da Dio, come l’uomo. Egli è stato fatto a immagine di Dio. Ma la donna è creata da una costola maschile quindi è essenzialmente inferiore. Questa è una visione totalmente anti umana ed io sono radicalmente contro. Diversamente dalle altre letture del Corano (sunnita, sciita, wahabita) i mistici sufi esprimono una visione che dà alla donna grande importanza, la femminilità è in primo piano. Il mondo è fondato sulla femminilità non sulla mascolinità. In un certo senso è anti monoteista.

In Violenza e Islam citando poeti della tradizione classica come Al-Mutannabbi e Abu Nuwas, ricorda che la poesia araba più antica è piena di immagini, è soggettiva. Poi tutto questo si è perso nell’astrazione religiosa e nella rigidità del dogma. Che cosa rappresenta per lei la poesia oggi?
Che cosa è l’amore per te? Quale è il ruolo dell’amore? Cambiare il mondo? Cambiare l’interiorità, forse. Per diventare più liberi, più umani, più in rapporto con il resto del mondo. Dunque la poesia è come l’amore, non può cambiare la realtà materialmente. Al contrario è possibile che se un criminale uccide qualcuno, quest’azione possa cambiare un intero Paese. Quello della poesia è un altro livello, un altro mondo. È l’ideologia che ha generato rigidità perché pretende di utilizzare la creatività dell’essere umano in modo strumentale. No, la poesia come l’amore non ha niente a che fare con l’ideologia. Una donna può amare un uomo che non conosce, di un altro Paese, con un’altra cultura, che parla un’altra lingua. Questo è la poesia, è centrata sull’essere umano e sul fatto che l’essere umano è il centro del mondo. L’uomo non è mai un mezzo, tutto deve essere fatto per l’essere umano. In questo senso io ho sempre scritto poesie per vedere più a fondo in me stesso, per comprendere meglio gli altri e il mondo.

Traduzione di Paola Traverso

La polizia di Hong Kong alza il tiro, gli attivisti decidono di annullare la manifestazione

HONG KONG, CHINA - AUGUST 30: Protesters cover their left eye and stand in silence during the 74th Liberation Anniversary Assembly on August 30, 2019 in Hong Kong, China. Pro-democracy protesters have continued rallies on the streets of Hong Kong against a controversial extradition bill since 9 June as the city plunged into crisis after waves of demonstrations and several violent clashes. Hong Kong's Chief Executive Carrie Lam apologized for introducing the bill and declared it "dead", however protesters have continued to draw large crowds with demands for Lam's resignation and completely withdraw the bill. (Photo by Anthony Kwan/Getty Images)

Le autorità stanno cercando in ogni modo di disperdere le proteste di massa a Hong Kong, giunte ormai al 13esimo weekend consecutivo. Il Fronte civile per i diritti umani (Civil human rights front) ha annullato la manifestazione di protesta in programma domani 31 agosto, dopo che la polizia di Hong Kong ha deciso per la prima volta di vietare un loro evento, incrementando il già altissimo livello dello scontro con i manifestanti per la democrazia. Bonnie Leung, vice coordinatrice del Fronte, ha annunciato che la decisione di annullare la marcia è arrivata ore dopo l’arresto di tre attivisti, tra i quali il leader del movimento degli ombrelli del 2014, il giovanissimo Joshua Wong (22 anni). La polizia aveva vietato la manifestazione e si era rifiutata di rivedere la sua decisione, dopo la richiesta degli organizzatori, che hanno quindi deciso di annullare l’evento per «proteggere i manifestanti e assicurare che non ci fossero conseguenze legali per loro», ha spiegato Leung.

«Non abbiamo avuto altra scelta che annullare la marcia. Chiediamo scusa, ma continueremo a chiedere alle autorità di autorizzare nuove manifestazioni», ha aggiunto. «È significativo che le autorità abbiano vietato un evento di un’organizzazione come la nostra. Si tratta di una violazione assoluta dei diritti umani più elementari della popolazione di Hong Kong. Non è possibile fidarsi di questo sistema». Per questo «non abbiamo altra scelta che continuare con il nostro movimento. È nella natura umana che se le richieste non vengono ascoltate, il popolo di Hong Kong diventerà più radicale, e questo è qualcosa che il Fronte non vuole vedere. Ecco perché continueremo a chiedere che ci facciano manifestare modo pacifico», ha concluso.

Nella retata contro gli attivisti, oltre al più famoso Joshua Wong Chi-fun, sono stati arrestati anche Agnes Chow, tra i leader di Demosistō (partito democratico di cui Wong è segretario e fondatore) e Andy Chan, capo di un partito politico a favore dell’indipendenza (l’Hong Kong national party). Wong e Chow sono stati poi rilasciati su cauzione, ma a entrambi è stato disposto il divieto di circolazione tra le 23 e le 7, nonché il divieto di ingresso nell’area dell’Admiralty, il centro dell’ex colonia dove si sono già tenute le più grandi mobilitazioni contro la legge sulle estradizioni in Cina. A proposito dell’arresto di Wong, Demosistō ha twittato: «È stato arrestato questa mattina, intorno alle 7:30. È stato con forza spinto in un mini van privato sulla strada, in piena luce. I nostri avvocati stanno seguendo il caso». Wong era stato rilasciato solo lo scorso giugno, dopo aver scontato due mesi per i disordini durante il movimento degli ombrelli del 2014.

Andy Chan, invece, è stato fermato all’aeroporto internazionale di Hong Kong mentre tentava di salire a bordo di un volo per il Giappone, accusato di rivolta e aggressione di un ufficiale di polizia. Agnes Chow era stata prelevata nella sua casa a Tai Po questa mattina. Da quando sono iniziate le proteste all’inizio di giugno, sono finite in carcere oltre 800 persone. In questo clima di crescente tensione, molti dei dimostranti che avrebbero dovuto scendere per strada durante la marcia di domani sfogano il loro malcontento sui social network: «Non ci spaventano. Più la rabbia collettiva aumenta più persone si ribelleranno», «Anche se utilizzeranno i carri armati, io ci sarò ancora». Gwong fuhk, alla lettera “tornare a brillare”, è lo slogan ufficiale della rivolta.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, Beijing avrebbe ordinato a Lam di non cedere a nessuna delle richieste dei manifestanti, tra cui le sue stesse dimissioni, il ritiro della legge sull’estradizione, il lancio di un’investigazione indipendente sul comportamento deplorevole della polizia e l’accettazione di elezioni democratiche a suffragio universale, oltreché il ritiro delle accuse contro i dimostranti e della definizione di “rivoltosi” nei loro confronti. Secondo il direttore di Amnesty International Hong Kong, Man-kei Tam, «nelle scorse settimane, abbiamo assistito a tattiche spaventose che provengono direttamente dal sistema cinese: gli organizzatori delle proteste pro-democrazia attaccati da delinquenti, attivisti arrestati dopo essere stati pedinati nelle proprie case e in strada, e un’enorme marcia vietata».

«Questo weekend ho partecipato agli scontri più violenti mai visti a Hong Kong tra i dimostranti e la polizia – scrive Alessandra Bocchi, giornalista freelance che sta seguendo le proteste da vicino -. La polizia ha utilizzato cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e proiettili di gomma; un poliziotto ha puntato la pistola contro un protestante e la stampa. I dissidenti tiravano mattoni raccolti per strada (…) e bombe a benzina fatte in casa, oltreché bombe molotov. Utilizzavano laser per evitare il riconoscimento del volto da parte delle telecamere». Il risentimento nei confronti della polizia sarebbe cresciuto dalla scorsa settimana, quando una giovane donna ha perso un occhio dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma. «Molti protestanti marciano con cartelli che chiedono a Trump di approvare l’Hong Kong Human rights and democracy act», un atto per sostenere la libertà e la democrazia ad Hong Kong in un momento in cui la sua autonomia è sotto assalto, e stabilire misure punitive contro il governo cinese, responsabile della soppressione delle libertà fondamentali nell’ex colonia.

I media cinesi continuano a propagandare l’idea che le proteste siano state coadiuvate dagli Stati Uniti, e che gli americani stiano pianificando di portare instabilità nella zona. «È ridicolo» ha detto un dimostrante a Bocchi, sventolando una bandiera americana – che per gli hongkonghesi è semplicemente sinonimo di democrazia e libertà. «Vorrei chiedere a quelli che continuano a diffondere queste notizie come pensano che due milioni di persone possano essere pagate per scendere in strada?», un altro asserisce: «Questo è ciò che la propaganda cinese vuole farti credere».

Per un pugno di rubli

Una foto del 18 novembre 2016 tratta dal profilo Facebook di Claudio D'Amico con Matteo Salvini e Paolo Savoini dove dice: Siamo arrivati Mosca! Oggi avremo diversi incontri alla Duma e poi la tappa del'IO VOTO NO' tour all'hotel Golden Ring alle 16,30! FACEBOOK CLAUDIO D'AMICO +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Nelle comunicazioni al Senato con cui Giuseppe Conte ha messo la parola fine al governo gialloverde e in cui ha voluto togliersi qualche sassolino dalle scarpe dopo un anno di convivenza con Matteo Salvini, non è mancata un’accusa particolarmente sferzante: «Se tu avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa, una vicenda che oggettivamente merita di essere chiarita anche per i riflessi sul piano internazionale, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso». Appunto, cosa sa Salvini? Quali sono stati i rapporti della Lega con il Cremlino? Qual è il ruolo di Gianluca Savoini, da sempre l’uomo del Carroccio a Mosca? Se non prendiamo sul serio le voci che da anni circolano sui contanti ricevuti da fonti russe nel 2014, quando il partito ex-padano era al 4% dei suffragi e tutto sembrava crollare, possiamo supporre che i rapporti intrattenuti in Russia dalla Lega e dagli imprenditori del Nord accompagnati a far affari nella Federazione da uomini vicini al Carroccio siano stati assolutamente legali. Ma legali, in ogni caso, non significa cristallini dal punto di vista politico.

Il Russiagate all’italiana scoppia il 10 luglio quando il portale americano Buzzfeed annuncia: «Rivelazione: l’esplosiva registrazione segreta che dimostra come la Russia abbia cercato di far ottenere milioni di dollari per il “Trump europeo”, alias Matteo Salvini». Si tratta di un colloquio del 18 ottobre 2018 tenutosi all’Hotel Metropol di Mosca all’indomani della venuta nella Capitale del capo della Lega, tra due faccendieri russi e tre italiani sull’ipotesi di acquisto di idrocarburi della Federazione da parte italiana, da cui la Lega otterrebbe una “stecca” di 3 milioni di euro. La vicenda apparterrebbe solo al folklore di un certo business all’amatriciana sul suolo russo – con tutte le sue venature picaresche di cui chi ha vissuto in Russia dopo il 1989 potrebbe trarne un libro – se non fosse che a far da grande cerimoniere all’incontro e a dargli spessore politico era presente Gianluca Savoini, il quale parla apertamente dell’utilizzo di questi soldi per l’imminente campagna elettorale europea in chiave sovranista e “contro Bruxelles”. La magistratura italiana ha aperto un fascicolo sulla vicenda e ne trarrà le sue conclusioni ma evidentemente resta irrisolto il problema del rapporto tra Savoini, tesserato alla Lega sin dagli esordi, e Salvini. Il quale potrebbe trarsi d’impaccio se fosse così adamantino come vorrebbe far credere, querelando Savoini e rispondendo alle interrogazioni parlamentari che iniziano a fioccare.

Ma il capitano non fa né l’uno né l’altro. Lascia che il premier vada a pelare la sua gatta in aula ed evita accuratamente di dar seguito alla preannunciata denuncia contro Savoini. I motivi sono evidenti: se Savoini vuotasse il sacco metterebbe nei guai il suo capo. Savoini ha un certo curriculum a Mosca. Pur non sapendo sillabare una parola nell’alfabeto cirillico, gestisce da molti anni l’Associazione Lombardia-Russia, che mentre aiuta gli imprenditori italiani a fare business in Russia tesse legami con gli ambienti fascistoidi e euroasiatisti dell’ormai ex professore Alexander Dugin. Business in Russia che indirettamente, e per mezzo di intermediazioni, permetterebbe di far finire qualcosa anche nelle casse della Lega, in uno schema simile formalmente legale, pur in un contesto storico diverso, a quello del Pci ai tempi dell’Urss. Del resto è stato Savoini a introdurre Salvini, a caccia di relazioni dirette con il suo venerato Putin, negli ambienti della Duma di Mosca. E non a caso i viaggi a Mosca del leader della Lega, in varie vesti, si moltiplicano a partire dal 2014 quando il Carroccio svolta verso le forze dell’estrema destra europea. Savoini avrebbe quindi….

L’articolo di Yurii Colombo prosegue su Left in edicola dal 30 agosto 2019


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Vietati i castelli di sabbia

Accade a Cavallino-Treporti, un comune della città metropolitana di Venezia, dove la Capitaneria di porto si è prodigata a riprendere dei bambini “colpevoli” di giocare con palette e secchielli sulla sabbia. «Meglio cambiare località balneare se non posso lasciare i miei nipoti giocare a fare i castelli di sabbia sulla battigia» ha scritto Franco Beccari, un bagnante lì in vacanza con i nipotini con una lettera pubblicata dalla testata on line La Voce di Venezia. Racconta: «È intervenuta la Capitaneria per sottolineare con forza il rispetto dell’ordinanza comunale che vieta sulla spiaggia l’attività ludica, soprattutto dei bambini, di scavare buchette, costruire castelli di sabbia e giochi simili sul bagnasciuga».

E poi, giustamente scrive: «Siamo stati tutti bambini e il gioco che non vedevamo l’ora di fare era quello di costruire qualche cosa con la sabbia, canali, castelli tutto quello che ci divertiva e se non lo fai sul bagnasciuga dove lo puoi fare. Ho provato a spiegare ai miei nipoti che non possono praticare queste attività sapete la risposta: ma se non facciamo i castelli e le buchette cosa possiamo fare? Difficile rispondere quando non c’è una spiegazione logica, ma la risposta in testa io la avevo: andare da un’altra parte».

La sindaca del comune, Roberta Nesto, si difende dicendo che quell’ordinanza andrebbe «applicata con buonsenso». Fantastico. Come se le leggi vengano scritte solo per essere un’occasione di rompere le scatole quando ci torna utile, mica qualcosa che vada rispettato così come è scritto.

La vicenda però sottolinea anche l’assurdità di questa continua nevrosi di decoro e sicurezza che negli ultimi anni ha preso un gran piede senza rendersi conto che i diritti degli altri sono anche i nostri e quando si toccano poi toccano a tutti. Toccano perfino a Salvini e a Giorgia Meloni che vogliono andare in piazza a manifestare e si troveranno di fronte alle restrizioni assurde del decreto Sicurezza bis. Un capolavoro di castroneria.

Intanto, al di là della spiaggia, più a sud, la Mare Jonio di Mediterranea continua a portare il suo carico di donne incinta e di bambini sotto onde alte due metri. A proposito di sicurezza.

Buon venerdì.

Donald Sassoon: Quei sintomi morbosi alimentati dai nemici dell’Europa

Nazionalismo, xenofobia, populismo, autoritarismo. Sono i sintomi morbosi della nostra epoca che lo storico Donald Sassoon denuncia in un suo appassionato e documentatissimo pamphlet edito da Garzanti, che Left aveva presentato in anteprima. Ora in vista del Festivaletteratura di Mantova, torniamo ad approfondire, chiedendo all’allievo di Hobsbawn e oggi professore emerito di Storia europea alla Queen Mary University di Londra di aiutarci a leggere più in profondità gli ultimi convulsi e preoccupanti eventi politici che riguardano l’Unione europea – dopo anni di fallimentari politiche di austerity – minacciata dalla Brexit e dalle mire di leader suprematisti che disprezzano le regole democratiche, da Trump a Putin, da Orbán a Salvini. L’ultima volta che l’avevamo interpellato la grande manifestazione londinese per il Remain apriva orizzonti di speranza, ma ora il premier Boris Johnson vuole sbarazzarsi del backstop sull’Irlanda e chiudere gli accordi per uscire dall’Europa.

Professor Sassoon pur di portare a casa la Brexit il 31 ottobre Johnson è disposto a tutto, anche a chiudere il Parlamento fino a quella data. Lo può fare?
Si è aperta una disputa sul fatto che lui possa fare una tale mossa. Io penso che sia improbabile che passi una decisione antidemocratica come bloccare il Parlamento. Va detto anche che la linea dura di Boris Johnson è contrastata all’interno del suo partito, i Tories.

Sta dicendo che sia ancora possibile evitare la Brexit?
C’è una piccola probabilità che non si faccia: occorrerebbe che tutti i partiti di opposizione più una trentina di deputati conservatori (poiché alcuni deputati del Labour sono a favore del Brexit) si accordassero per un voto di sfiducia verso il governo. In questo caso si aprirebbe una crisi non consueta per la Gran Bretagna e forse allora ci potrebbero essere le elezioni, con Corbyn temporaneamente premier, e forse un secondo referendum: si potrebbero aprire così molte possibilità… ma io non ci scommetterei.

Nel frattempo anche la posizione di Jeremy Corbyn è cambiata, il leader del Labour è diventato più filo-europeista?
I media lo hanno sempre descritto come antieuropeista, il che era vero trent’anni fa, ma non era vero durante la campagna per il referendum. Corbyn è stato fra i pochi ad aver parlato dei vantaggi e non solo dei problemi portati dalla Ue. Cercava di non perdere l’appoggio di quella parte dell’elettorato a favore dell’uscita (soprattutto nei seggi laburisti del Nord) ma nelle ultime settimane la posizione del Labour è diventata molto più chiara a favore del Remain e in questo senso il partito appare meno disunito rispetto a qualche mese fa.

In Sintomi morbosi scrive che l’Europa, sotto molti punti di vista, è ormai periferia del mondo, intanto aumentano le disuguaglianze, le sinistre sono in crisi e il welfare è in declino. Ma c’è ancora secondo lei la possibilità di invertire la rotta per realizzare il sogno che balenava nel Manifesto di Ventotene, creando un’Europa dei diritti non solo dei mercati?
Quel progetto è stato interrotto una decina di anni fa. Certo, l’Europa è ancora oggi l’area geografica dove ci sono più diritti sociali. Senza dubbio ce ne sono più che in Cina o negli Usa. Ma l’Europa sta attraversando un periodo di grande difficoltà non solo per via del Brexit, ma anche per il fatto che l’euroscetticismo è dilagante. Lo sapete bene voi, mentre dieci o quindici anni fa l’Italia era uno dei Paesi più filoeuropeisti, di recente si è ritrovata con un governo euroscettico. Anche in Francia dove Macron è entusiasta della Ue, Marine Le Pen ha ottenuto il 40 per cento dei consensi. Dunque le cose stanno andando molto male in Europa. Ma a dire il vero accade un po’ dappertutto. Non vanno certo bene le cose in India con il fanatico Modi, non vanno bene in Brasile con Bolsonaro, per non parlare di Donald Trump perché se ne parla anche troppo! Insomma, per dirla con understatement inglese, oggi il sol dell’avvenire non sta esattamente splendendo.

Tra i nemici dell’Europa o almeno tra coloro che mirano a cambiarne il segno politico c’è anche il presidente russo Putin: «Il liberalismo è finito, bisogna guardare da un’altra parte», ha affermato. Detto da lui mi sembra un segnale preoccupante…
È certamente un sintomo morboso. Non l’ha detto solo Putin, ma lo dice anche Orbán e l’Ungheria fa parte dell’Unione europea. Difendere il liberalismo diventa sempre più difficile, intanto i partiti della sinistra sono in grandissima difficoltà. Stanno addirittura peggio oggi che nel dopoguerra.

Matteo Salvini ha detto «datemi pieni poteri», citando Mussolini. Come si può contrastare questo populismo autoritario che vorrebbe togliere di mezzo i contrappesi democratici previsti dalla Costituzione e non tollera la stampa libera?
Lei mi sta facendo la domanda più difficile che si possa fare a uno di sinistra oggi. Risuona la vecchia domanda che anche Lenin si poneva: “Che fare?” Francamente non lo so. Come dico sempre, faccio lo storico ed è già abbastanza difficile capire ciò che è successo. Ciò che appare evidente è che la sinistra – tutta la sinistra in tutta Europa – si è dimostrata incapace nel fronteggiare i nuovi fenomeni. Parlo della sinistra tradizionale, i laburisti in Inghilterra, il Pd in Italia, i socialisti in Francia che durante le ultime presidenziali apparivano ridotti ormai al 6 per cento. L’Spd in Germania era fortissimo, oggi è al 20 per cento, è al livello più basso della sua storia. Quello che lei poneva è il problema più serio che hanno e non trovano risposta, se non ripetere ciò che dicevano in passato. Ma non si può continuare con le vecchie ricette, bisogna avere il coraggio della novità, il che non è assolutamente semplice. Guardiamo al caso di Syriza: era un nuovo partito, ha anche proposto cose innovative, ha anche vinto le elezioni, ma una volta vinte le elezioni, non ha saputo cosa fare e ora ha perso… Mi dispiace non avere la soluzione di tutti i nostri problemi.

Nel suo libro dice che Gramsci in carcere ha avuto anche il merito di riflettere sulle cause della sconfitta. La sinistra, in particolare quella italiana non ha riflettuto abbastanza sui motivi della propria crisi? Il centrosinistra italiano è stato apertamente neoliberista, ha inseguito la via blairiana, anche quando nessuno lo era più…
Pensando anche alla sinistra americana, da Clinton a Obama, direi che l’errore che la sinistra ha fatto è stato quello di accettare una parte dell’agenda politica della destra, offrendo una versione moderata delle posizioni neoliberiste e questo chiaramente non ha funzionato. Si sono comportati così perché non hanno idee nuove, ed è difficile averne. La frase di Gramsci che ho ripreso come titolo del mio libro ci parla di una situazione da cui non si sa come uscire. Altrimenti non sarebbe crisi, altrimenti avremmo un programma, si intraprenderebbero le lotte da fare. La crisi è quando il vecchio è finito e il nuovo non si sa cos’è. E per risolvere tutto questo bisogna studiare, vedere in profondità, insomma bisogna fare politica.

Un sintomo morboso dei nostri tempi è la crescente xenofobia, il razzismo. Lei documenta, dati alla mano, che l’islamofobia per esempio è inversamente proporzionale alla presenza di musulmani nelle varie aree d’Europa. Come si combatte il pregiudizio: studiando, viaggiando?
Si combatte cercando di spiegare che i Paesi dove c’è immigrazione ne sono stati avvantaggiati. Se tutti gli immigrati se ne andassero dalla Gran Bretagna crollerebbe il servizio sanitario, crollerebbe tutto. Bisogna ripeterlo, dobbiamo cercare di convincere la gente. Vorrei segnalare anche un altro aspetto: quei sondaggi che ci dicono che la Francia e la Germania sono meno xenofobe dell’Ungheria e della Polonia, ci dicono anche che in certi Paesi le persone hanno anche un po’ paura a dichiararsi xenofobe, perché la xenofobia non fa ancora parte del loro modo di pensare, non è ancora legittimata dai loro dirigenti nazionali. In Italia dove c’è Salvini che dice e fa certe cose, la gente si sente incoraggiata a fare altrettanto e la xenofobia è sdoganata.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Donald Sassoon è tratta da Left in edicola fino al 5 settembre 2019

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Amazzonia in fiamme, un crimine contro l’umanità

epa07530714 Indigenous people from different tribes protest against the policies of the Government of Jair Bolsonaro, at the central Esplanade of the Ministries of Brasilia, Brazil, 26 April 2019. The Tierra Libre camp, which is held annually in Brasilia since 2004, is called by the Articulation of the Indigenous Peoples of Brazil (APIB), which this year has announced its decision to protest against the 'threat' to its territories that embody the Bolsonaro policies for the environment and the Amazon. EPA/Joedson Alves

«All’inizio pensai che stavo combattendo per salvare gli alberi della gomma, poi ho pensato che stavo combattendo per salvare la foresta pluviale dell’Amazzonia. Ora capisco che sto lottando per l’umanità» diceva Chico Mendes, il sindacalista che si batté contro il disboscamento della foresta amazzonica e per questo fu assassinato nel 1988. Ancora oggi la sua visione e la sua lotta politica restano fondamentali.

Non si tratta “solo” di difendere il grande polmone verde dell’Amazzonia, i suoi ricchissimi fiumi e la biodiversità di un panorama straordinario dalla deforestazione selvaggia e dagli incendi.

La lotta per salvare l’Amazzonia è innanzitutto lotta per i diritti delle popolazioni indigene che quell’ecosistema hanno contribuito a preservare e trasmettere di generazione in generazione, insieme al loro sapere e alle loro lingue. Una straordinaria ricchezza culturale che il presidente del Brasile Bolsonaro vorrebbe cancellare dalla storia, completando l’opera di conquistadores, dittatori e multinazionali affamate di profitto ad ogni costo.

Ne abbiamo già scritto a più riprese denunciando lo sfruttamento intensivo dell’ambiente, la deforestazione compiuta ad hoc, l’accerchiamento e la deportazione degli Indios rilanciata con violenza dall’attuale presidente sceriffo, sodale di Salvini e di tutti i leader nazionalisti che stanno scrivendo le pagine più buie dei nostri anni.

In Amazzonia oggi sopravvivono 500 popoli indigeni: circa un milione di persone. Fra loro, ci raccontano antropologi ed esperti, ci sono Karipuna, Guarani, Yanomani, Kichwa, Shuar, Wajãpi ma anche tribù meno conosciute che vivono in isolamento, senza contatti dal mondo esterno.

Fondamentale è stato, ed è, il loro contributo nel plasmare e proteggere quei grandi ecosistemi forestali. Con coraggio, nonostante il dolore per la perdita e le minacce, nonostante gli scarsi mezzi, sono loro oggi i partigiani del futuro dell’Amazzonia e del nostro futuro.

Le donne indios in modo particolare – come racconta in questo sfoglio l’antropologo e ricercatore Yurij Castelfranchi – sono state protagoniste di pacifiche manifestazione di protesta. Nelle prime settimane di agosto varie organizzazioni di donne indigene si sono mobilitate a Brasilia per protestare contro la repressione dei loro diritti fondamentali e collettivi. Hanno preso vita così la prima marcia delle donne indigene e il primo forum nazionale. E a loro abbiamo voluto rendere omaggio con questa storia di copertina in cui denunciamo le responsabilità del capitalismo selvaggio, nazionalista e violento di Bolsonaro, delle multinazionali della carne bovina, dalla soia e dei mangimi animali ma anche dei piccoli proprietari, dei cercatori d’oro che uccidono e depredano gli Indios. Con l’aiuto di esperti abbiamo cercato di capire anche chi siano i complici internazionali che traggono vantaggi da questo crimine che si sta compiendo davanti ai nostri occhi, senza che nessuno dei grandi attori internazionali intervenga in modo adeguato. Le grandi potenze radunate al G7 di Biarritz hanno stanziato 20 milioni di euro, quando l’organizzazione del vertice ne è costata perfino di più. Un’elemosina che Bolsonaro ha rifiutato intimando di stare alla larga, di farsi gli affari propri e, in precedenza, inventando fake news, incolpando le Ong, come va di moda fare anche in casa nostra.

Il presidente del Brasile ora promette l’intervento dell’esercito per combattere gli incendi, ma la grande foresta pluviale ha tutto da temere da questo leader di estrema destra, fondamentalista evangelico o cristiano a seconda della convenienza, che si è lanciato in una crociata contro gli indios, contro l’università e il mondo della ricerca che offre loro protezione, e contro gli ambientalisti. «Il capo di Stato più pericoloso al mondo per l’ambiente», lo ha definito The Economist in un’inchiesta in cui il settimanale documenta come dal suo arrivo al potere, lo scorso gennaio, la desertificazione dell’Amazzonia abbia subito una forte accelerazione.

L’incremento ha avuto un balzo tra aprile e giugno poi è cresciuta in modo esponenziale a luglio (+278%) determinando in un solo mese la scomparsa di 2.255 km quadrati di foresta vergine, l’equivalente del Lussemburgo. Una tragedia immane che ci riguarda tutti da vicino, come chiariscono militanti, esperti e politici in questo sfoglio nessuno si salva da solo. Questioni come quelle ambientali o vengono affrontate in modo multilaterale oppure diventano irrisolvibili. In questo pianeta sempre più interconnesso, che si tratti di cultura, conflitti militari, negoziazioni commerciali o questioni climatiche, servono risposte collettive.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 30 agosto 2019


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L’urlo della grande foresta

CANDEIRAS DO JAMARI, RONDÔNIA, BRAZIL: Aerial view of a large burned area in the city of Candeiras do Jamari in the state of Rondônia. (Photo: Victor Moriyama / Greenpeace), Amazon Burning Overflight CANDEIRAS DO JAMARI, RONDÔNIA, BRASIL: Imagem aérea de uma grande área queimada na cidade de Candeiras do Jamari no Estado de Rondônia. (Foto: Victor Moriyama / Greenpeace)

Un «universo monumentale». Con queste parole l’antropologo Claude Lévi-Strauss definì l’Amazzonia dopo il suo viaggio in Brasile, nel quale tratteggiò il ritratto di tribù mai venute in contatto con la civiltà. Oggi, quell’universo e quelle tribù, sono sotto attacco. Legittimati dalle sciagurate politiche ambientali di Bolsonaro – che ad aprile si soprannominava da sé «capitan motosega» – gli agricoltori brasiliani, e in particolare i grandi latifondisti, hanno preso ad innescare incendi per abbattere la foresta pluviale e ottenere così terre da coltivare e pascoli. Ma anche per mettere in fuga le popolazioni indigene che la abitano, considerate un ostacolo per i loro affari, oppure ancora per cancellare le prove delle proprie attività di disboscamento illegale. Pratiche, queste, che si ripetono in effetti ogni anno, durante la stagione secca che inizia a giugno e termina a novembre. Ma che stavolta hanno visto un vero e proprio boom. Come testimoniano le molte immagini satellitari, drammatiche, in cui miriadi di chiazze fumanti di terra bruciata annebbiano il groviglio verde scuro della foresta. Foto che hanno fatto il giro del mondo, provocando un moto globale di indignazione. Così, dopo i presidi davanti i consolati brasiliani del movimento Fridays for future, il fascicolo è arrivato anche ai tavoli del G7 di Biarritz, in Francia, durante il quale i Paesi membri hanno deciso di stanziare 17,9 milioni di euro per il Brasile e gli altri Stati sudamericani colpiti dai fuochi in Amazzonia. Finanziamento presto respinto.

«Apprezziamo, ma forse queste risorse sono più utili per il rimboschimento dell’Europa» ha dichiarato Onyx Lorenzoni, capo dello staff di Bolsonaro, mentre quest’ultimo via Twitter colpiva il suo omologo francese Macron, accusandolo di trattare il Brasile come una colonia. I dati comunicati dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano, l’Inpe, indicano un aumento dell’80 per cento degli incendi nel Paese rispetto all’anno precedente (e pure un +103% in Bolivia e un +143 in Guyana). I roghi censiti dall’Istituto in tutto il Brasile dall’inizio dell’anno sono 82.285, il 51,9% dei quali si è sviluppato nel bioma amazzonico. E secondo le informazioni della Nasa, raccolte dal progetto Global fire atlas, i fuochi divampati da gennaio negli Stati di Amazonas (12.577) e Rondônia (12.955), nella zona nord-ovest del Paese, superano le cifre dei tre anni precedenti. «Ma anche il restante 30% degli incendi in Brasile, quelli innescati nel bioma Cerrado, la savana tropicale, sono gravissimi, perché colpiscono un’area ad altissima biodiversità, di straordinaria importanza ecologica», racconta a Left Yurij Castelfranchi, professore associato di Sociologia dell’Università federale di Minas Gerais.

«Poi, un altro indicatore da tenere in considerazione, sono le emissioni di Co2, anche quelle in spaventoso aumento», ricorda il professore. Nei nove Stati brasiliani del bacino amazzonico il volume di anidride carbonica sprigionata in atmosfera è il più alto dal 2010 (considerando le intere annate), stando ai grafici del programma Ue di monitoraggio ambientale Copernicus. E siamo solo ad agosto. Ma come nascono questi incendi? «Bisogna fare una premessa: pressoché ogni incendio che si sviluppa in Amazzonia è provocato direttamente dall’essere umano – chiarisce Castelfranchi -. Perché per dare fuoco alla foresta, in una zona con un tasso di umidità così alto, è necessario prima abbatterla, poi lasciare che il sole secchi le foglie e i tronchi disposti a terra, un processo…

L’intervista di Leonardo Filippi a Yurij Castelfranchi prosegue su Left in edicola dal 30 agosto 2019


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Raggi e Atac contro Lucha y siesta: vogliono sgomberare la casa rifugio per le donne vittime di violenza

«Comune, Atac e Tribunale hanno deciso: la Casa delle donne Lucha y Siesta va chiusa tra pochi giorni. La gravissima decisione ci è stata comunicata ieri (28 agosto) con una lettera che annuncia l’interruzione delle utenze per il 15 settembre e l’immediato sgombero dello stabile. È così che Comune, Atac e Tribunale vogliono decretare la fine di una delle esperienze socio-culturali più preziose in città, e la soppressione del Centro e della Casa rifugio per donne che vogliono uscire dalla violenza più grande di Roma e della Regione Lazio».

Così le donne, attiviste e femministe della Casa hanno sottolineato in un comunicato. La struttura è un vero e proprio rifugio per chi ha subito abusi, un punto di riferimento per le donne attivo dal 2008. Fornisce informazione, orientamento, ascolto e accoglienza ed ospita numerose  attività culturali. La decisione riguardo lo sgombero è giunta all’improvviso, non tenendo conto delle 15 donne e dei 7 bambini che vi alloggiano attualmente. Roma conta ben tre milioni di abitanti, e secondo la Convenzione di Istanbul dovrebbe avere una casa rifugio ogni 10mila residenti. I posti in tutto nella capitale sono, invece, 25. Lucha y Siesta ne garantiva 13 in più, arrivando così a 39.

«La brutale accelerazione delle procedure di sgombero nonostante le inconsistenti rassicurazioni dell’ultimo anno, oltre a causare sconcerto e apprensione per il futuro tra chi vive nella struttura, fa supporre che esista già un acquirente – continuano le attiviste -. Da una parte quindi, il Comune di Roma, che fa della violenza sulle donne una vetrina politica, sceglie la precarietà dei bandi e lo svuotamento dell’approccio femminista al contrasto di questo fenomeno senza tutelare la prevenzione, la sostenibilità dei percorsi di fuoriuscita e la cultura che lo alimenta. Dall’altra l’Atac, affogato dai debiti per una storica cattiva gestione, svende il patrimonio a favore dei soliti noti speculatori».

«Dobbiamo pertanto – concludono nel comunicato – mettere in conto che non solo le interlocuzioni avute si sono rivelate, alla prova dei fatti, solo bugie e manipolazioni, ma che questa città allo sbando è in mano a liquidatrici e a tribunali fallimentari. La politica ha abdicato alla sua funzione pubblica per nascondersi dietro procedure giudiziarie e burocratiche, preoccupandosi come sempre degli interessi di pochi piuttosto che del benessere di milioni di persone che ci vivono».

«Questa accelerazione ci ha colto di sorpresa proprio per le tempistiche» dice a Left Mara, un’attivista di Lucha y siesta. «Sono anni – prosegue – che cerchiamo di avere un dialogo con Atac e il Comune e non c’è mai stata da parte loro una risposta costruttiva. Fino a pochi giorni fa ci erano state date altre tempistiche, ma ora spostare le donne che abitano nella casa insieme ai loro figli non è cosa facile. Si tratta di un bene pubblico, perché Atac é una partecipata del Comune, ma anche perché noi l’abbiamo reso tale negli ultimi 11 anni. Le istituzioni pubbliche non si stanno occupando di politica e cittadini ma di interessi privati e fino a questo momento è mancata la volontà politica di risolvere la questione».

Anche l’occupazione di viale del Caravaggio 105/107 è in cima alla lista degli sgomberi. «La nostra battaglia va avanti e continuerà finché non ci sarà un epilogo felice per la nostra occupazione e per tutte le occupazioni. Gli abitanti del Caravaggio non sono dei parassiti ma sono dei lavoratori e delle lavoratrici, sono sfruttati, nonostante i loro sforzi non riescono a pagarsi l’affitto», ha raccontato Anna, occupante dal 2013 dello stabile a Tor Marancia, composto di due palazzi di proprietà della famiglia Armellini. Della lista che la prefettura di Roma ha stilato a luglio, contenente 25 immobili da sgomberare a partire dalla primavera del 2020, in via prioritaria (entro la fine dell’estate) troviamo tra gli altri lo stabile di via Antonio Tempesta 262, nel quartiere di Torpignattara, e proprio quello in viale del Caravaggio. In quest’ultimo abitano 380 persone e almeno 80 minori. La decisione è stata approvata dal Prefetto di Roma in seguito all’attuazione del decreto Sicurezza, anche se con il nuovo governo la situazione potrebbe cambiare.

Chiuda la porta, quando esce, Capitano

Fa tenerezza il ministro dell’Interno che si arrabatta prima di inscatolare le sue cose al Viminale. Fa tenerezza nella sua fragorosa profusione di bugie che racconta come se ci credesse davvero: lui che ha fatto tutta la campagna elettorale a braccetto con Berlusconi (e con la Meloni in scia) e li ha abbandonati per trovare l’accordicchio con il Movimento 5 stelle ora guaisce contro gli accordi degli altri, convinto davvero di essere uno stratega. È riuscito a infilarsi da solo nel sacco e ora si inventa poteri forti in giro che sono i suoi stessi compagni di strada fino a qualche giorno fa, gli stessi che ha eroso a forza di fare propaganda e che ha gettato convinto di avere abbastanza voti.

Fa tenerezza il ministro Salvini che prima ci insegnava come si doveva fare il ministro dell’Interno, ci ripeteva che stava in mezzo al popolo perché si doveva fare così, fingendo di fare attività istituzionale quando era solo bieca campagna elettorale. E ora è incollato alla sedia contravvenendo a se stesso, fingendo di fare il bravo impiegato con le foto dei figli usati come scenografia del solito set delle sue bugie raccontate per avere un buon sfondo.

Fa tenerezza Salvini che si ingegna per firmare divieti alle navi Ong, l’ultima la Mare Jonio piena di donne incinte e di bambini, cercando di convincerci che siano un problema per la sicurezza nazionale e poi basta una foto, una foto qualsiasi, perché si sbricioli in tutta la sua vigliacca ipocrisia.

Ora ricomincerà con la sua solfa, pregherà il Sacro cuore di Maria perché qualche immigrato compia un reato qualsiasi. E intanto il suo gradimento cala. Intanto i suoi fidi spalatori di fango che gli curano i social non glieli pagheremo più noi. E probabilmente arriveranno anche i processi.

Chiuda la porta, quando esce, Capitano.

Buon giovedì.