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Bye bye democrazia: Johnson chiude il Parlamento, per forzare una Brexit senza accordo

epa07799381 A protester depicting British Prime Minister Boris Johnson demonstrates during a protest outside the gates of Number 10 Downing Street in Westminster, London, Britain, 28 August 2019. The UK government is to suspend Parliament after the summer break, a move that might block MPs from voting against a possible no-deal Brexit. In a letter to legislators, British PM Boris Johnson said he had asked Queen Elizabeth II to suspend the current parliamentary session in the second week of September until 14 October. EPA/WILL OLIVER .

La “soluzione nucleare” – così chiamata per il suo carattere “estremo” – è stata adottata: il premier britannico Boris Johnson ha chiesto e ottenuto dalla regina Elisabetta di sospendere i lavori del Parlamento pochi giorni dopo il rientro dei parlamentari dalla pausa estiva e solo qualche settimana prima della data fissata per il divorzio definitivo del Regno Unito dall’Ue, il 31 ottobre.

Johnson ha intenzione di lasciare a casa i deputati dal 9 settembre al 14 ottobre, giorno in cui è fissato il discorso della Regina sulle politiche del nuovo governo. Si ridurrebbe, così, drasticamente il tempo a disposizione del fronte trasversale dei deputati contrari al No deal per cercare di neutralizzare con una legge i piani del governo per una hard Brexit – senza accordo. Il premier ha, tuttavia, negato subito che si tratti di una mossa per impedire il dibattito con la Camera dei Comuni, sostenendo che Westminster avrà tempo a sufficienza per discutere dei termini della Brexit: «Serve ad andare avanti con i piani per far progredire il Paese. È falso, stiamo presentando nuove leggi su crimine, ospedali, istruzione. Ci sarà tutto il tempo dopo il vertice del 17 ottobre (Ue sulla Brexit, ndr) per dibattere la Brexit».

Immediata la reazione delle opposizioni: in base alla “Costituzione” del Regno Unito, infatti, la Regina può opporsi a quello che formalmente è un “consiglio” del premier, ma per convenzione questo non avviene. Il leader del partito laburista, Jeremy Corbyn, aveva addirittura scritto una lettera alla Regina per esprimerle le sue preoccupazioni chiedendole un incontro urgente. «Sono inorridito dalla sconsideratezza del governo Johnson, che parla di sovranità e che tuttavia sta cercando di sospendere il Parlamento per evitare l’esame dei suoi piani per una spericolata Brexit senza accordo. Questo è un oltraggio e una minaccia per la nostra democrazia», ha sottolineato Corbyn indignato.

Anche lo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha commentato in modo perentorio la mossa: «Si tratta di un oltraggio costituzionale. Non importa come la si presenta, è ovvio che il fine sarebbe quello di impedire al parlamento di dibattere la Brexit e fare il proprio dovere nel modellare la strada per il Paese… chiudere il Parlamento sarebbe un’offesa al processo democratico e ai diritti dei deputati». Il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, ha espresso il suo disaccordo twittando: «Sembra che Boris Johnson stia per chiudere il Parlamento ed imporre una Brexit senza accordo. A meno che i parlamentari si uniscano per fermarlo, la prossima settimana, oggi verrà ricordato come un giorno nero per la democrazia britannica». Chiude il responsabile per la Brexit dei Liberaldemocratici Tom Brake, sostenendo con durezza che «Johnson ha appena lanciato il guanto di sfida alla democrazia parlamentare. La madre di tutti i parlamenti non gli permetterà di escludere il Parlamento dalla più importante decisione per il nostro Paese. Risponderemo alla sua dichiarazione di guerra con un pugno di ferro».

Intanto, la petizione che chiede di bloccare la sospensione del Parlamento ha già superato le 300mila firme in sole tre ore. Bruxelles reagisce con cautela: la Commissione europea non ha commentato, limitandosi a ricordare che per raggiungere un accordo, ci vogliono in tempi brevi «proposte che funzionino». A seguito degli ultimi sviluppi è possibile che la prossima settimana, al rientro dei deputati dalla pausa estiva, il partito di opposizione laburista presenti una proposta di legge per bloccare la sospensione del Parlamento, seguita da una mozione di sfiducia al governo. In questo caso, Johnson potrebbe scegliere di non dimettersi, convocare elezioni anticipate e sciogliere addirittura la Camera dei Comuni. In questo modo, una Brexit senza accordo avverrebbe praticamente in automatico.

Il patrimonio culturale spina dorsale della vita civile

La risposta al dramma delle migrazioni, e alle pantomime ripugnanti di chi vuole respingerle abolendo il senso di umanità, deve essere prima di tutto una risposta culturale: e ciò vale sia per i cittadini sia per i loro rappresentanti. Perché un tema così immane si affronta con una visione del mondo e delle persone che si articola in una prospettiva storica – oltre che geopolitica – senza la quale non è possibile intervenire perché non si può comprendere che cosa sta accadendo. E questa visione comprende un minimo di sensibilità e di interesse per le storie e le culture che ogni migrante si porta dietro. Un governo che finora si è manifestato quasi soltanto per bocca di un ministro che ha elevato il disprezzo per chi pensa e chi emigra a spina dorsale non solo del suo stile di comunicazione, ma della sua stessa attività politica, esibisce soltanto risposte incolte, ispirate da una paura del diverso e da un malinteso senso di identità che stanno agli antipodi di un’idea dinamica di cultura e di patrimonio, fatta soprattutto di connessioni e di aperture. Non ce lo possiamo permettere.

Per affrontare le migrazioni come qualsiasi altro grande processo storico c’è bisogno di un’idea forte di patrimonio culturale, inteso come spina dorsale della vita civile. Ma quanto forte è davvero l’idea che questa Italia ha del suo patrimonio? E quanto siamo convinti che il patrimonio è una straordinaria risorsa non solo perché alimenta il turismo, ma soprattutto perché alimenta il nostro essere cittadini e il nostro restare umani? E c’è una coscienza – storica e civile – nelle nostre azioni di difesa del patrimonio?   

Proviamo a ragionarci partendo da tre citazioni, non dichiarandone subito l’autore.

A) «Grazie alle nuove tecnologie e all’alfabetizzazione di massa, la cultura è diventata uno strumento democratico con costi d’accesso estremamente bassi e che può essere offerto ad una vastissima tipologia di persone. Il dialogo interculturale, inoltre, è un mezzo per la costruzione della pace».

B) «Un euro in cultura per un euro in sicurezza. Aprire i musei, altro che chiudere i porti. Investire sui teatri e sulla scuola, specie nelle periferie, non solo sulla repressione».

C) «Senza retorica, sono convinto che i contatti fra culture e lingue diverse servano ad abbattere i confini».

In fondo, sembrano tre momenti di uno stesso discorso, tale è la sintonia di questi punti di vista: la cultura è fondamentale e senza cultura non c’è futuro. Dunque, deve stare al centro dell’azione politica. La citazione A) è tratta da un intervento del ministro Alberto Bonisoli a Fabriano, al cospetto del presidente Sergio Mattarella, il 12 giugno scorso. L’idea di una «vastissima tipologia di persone» non brilla per eleganza né per chiarezza semantica, ma quella di una cultura come strumento democratico, e dunque inclusivo, è fisiologicamente necessaria. Da credere è che questa sia la linea politica non solo del Mibac, ma di tutto il governo attuale. Più riconoscibile B), tratta dalla lettera autoapologetica inviata fuori tempo massimo da Matteo Renzi a Repubblica: la linea del suo governo, certo. Ma quanto seguita nei fatti? Certo che sicurezza e inclusione si costruiscono con istruzione e cultura, ma in quale modello culturale aveva investito il governo Renzi (e a cascata quello Gentiloni), se l’azione più significativa in questo senso è stata una riforma dell’amministrazione dei beni culturali che dietro la vetrina internazionalista e valorizzativa ha smantellato un sistema di tutela che ancora poteva fare scuola nel mondo, negando di fatto il suo vero punto di forza, e cioè il rapporto tra musei e territorio? Coltivare il patrimonio culturale significa soprattutto recuperare questo rapporto, rilanciando la salvaguardia e la piena messa in valore del patrimonio diffuso, ed è questo il compito politico che sembrava essersi preso in carico il nuovo ministro, annunciando una riforma del settore che era anche e soprattutto una verifica critica di efficacia e debolezze della riforma legata al nome di Dario Franceschini. Cosa non facile in un governo dove il presidente non ha parlato di cultura nel suo discorso di insediamento, uno dei vice ha lamentato che a Taranto non c’è un museo della Magna Grecia e l’altro, milanese, ha ammesso ridacchiando di non aver mai visto il Cenacolo di Leonardo.

Il decreto di riorganizzazione del Mibac deve essere ancora pubblicato e soprattutto corredato di un regolamento che spieghi alcuni meccanismi di funzionamento al momento difficili, se non impossibili, da valutare: ne ha parlato con acutezza Rita Paris nello scorso numero di Left, per cui non posso che aggiungere qui alcune glosse ispirate in buona parte dalle parole C). Che si devono, incredibile a dirsi, a Matteo Salvini. Le ha pronunciate a Bologna nell’aprile 2016, durante la campagna elettorale pro Lucia Borgonzoni (attuale sottosegretario al Mibac), e lasciano intravedere una prospettiva che non trova riscontro nella successiva sua azione di propaganda e di governo. O forse sì, se proviamo a contestualizzarle alla luce di quel che ha detto poco prima: «Bisogna puntare sulla cultura. Sono stufo che sia occupata militarmente dagli ignoranti di sinistra, dagli amici degli amici, dall’Arci, dal partito dei furbetti» (da La Stampa del 14 aprile 2016).

La cultura, insomma, è uno spazio da occupare manu militari per non lasciarlo agli avversari, e non un pilastro su cui costruire un progetto di futuro. Qualcosa di strumentale, che non produce né cittadinanza né civiltà. Magari reddito e potere. Ma è, soprattutto, qualcosa che ha fatto del male al Paese soprattutto perché lasciata in certe mani. Tra le mani più sciagurate, e dunque degne di un bel taglio secondo la sharia salviniana, ci sarebbero gli uffici periferici del Mibac, le soprintendenze tanto vituperate anche dall’altro Matteo, e da questi non abolite ma fortemente ridimensionate. Nel programma della Lega sul sito ufficiale del partito si trova infatti la proposta «di abolire le soprintendenze, che hanno causato una ormai provata incapacità di movimento e di crescita del nostro sistema culturale. È necessario dunque attribuire alle Regioni ogni potestà decisionale in materia di beni culturali, trasferendo le competenze ai territori secondo le diversificate esigenze dei settori culturali. Affidare la cultura alle istituzioni locali è l’unico modo di proteggerla dall’immobilismo cronico, dal clientelismo e dal malaffare».

Sono gli estremi di una denuncia per diffamazione: vi si dice infatti, né più né meno, che funzionari e dirigenti di comprovata esperienza, arrivati al posto che occupano dopo anni di studi, concorsi e gavette in cambio di uno stipendio miserrimo, sono in netta maggioranza incapaci e/o corrotti. Mentre ciò non accadrebbe, come per incanto, se quegli stessi ruoli fossero affidati alle regioni o ai comuni. Non possiamo limitarci a liquidare simili scemenze con una scrollata di spalle: da un lato, si tratta di posizioni che vantano un minimo di sostegno, diciamo così, intellettuale: per esempio nelle posizioni di Luca Nannipieri, che da anni va sostenendo, tra articoli e pamphlets, che le soprintendenze vanno abolite e le loro funzioni devolute ai comuni. 

La riforma lanciata da Bonisoli parla di «maggiore attenzione ai territori, cancellazione di inutili sovrapposizioni attraverso l’eliminazione di duplicati e funzioni doppie per una migliore azione amministrativa, ottimizzazione e razionalizzazione della spesa, superando i confini amministrativi e legando tra di loro situazioni e siti secondo una logica tematica». Tradotto in linguaggio operativo, significa tra l’altro una nuova direzione generale per i contratti, l’accorpamento di alcuni poli museali e segretariati regionali, con la creazione di ircocervi interregionali che non si capisce come possano funzionare vista l’eterogeneità dei loro oggetti di interesse, la perdita di autonomia di alcuni musei, scelti non si capisce in base a quali criteri (il caso più clamoroso è quello della Galleria dell’Accademia di Firenze), e comunque una limitazione di autonomia per tutti, anche sulla questione dei prestiti. L’impianto delle soprintendenze uniche, talvolta deformato da accorpamenti territoriali assurdi (come la soprintendenza di Alessandria-Asti-Cuneo) non viene intaccato, ma si propone anzi di abolire gli attuali uffici esportazione e di sostituirli con pochi grandi uffici dirigenziali – si parla di quattro in tutta Italia – che gestiranno il traffico delle opere in uscita dal Paese: funzione delicatissima, e centrale nella logica del modello italiano di tutela.

Questa novità è stata salutata come uno strumento per rafforzare la tutela, ma mi permetto di dubitarne. Intanto perché gli uffici esportazione non dipendono dalle soprintendenze, che pure ne forniscono il personale: sono già uffici autonomi dove chi decide è il direttore dell’ufficio, non il soprintendente. Accorpare in sole quattro sedi tutto il notevole movimento di opere che attualmente l’esportazione governa rischia di determinare una forte congestione: sembra che possano rimanere in piedi gli attuali uffici esportazione declassati in quanto succursali degli uffici principali, ma allora non si capisce come possa essere organizzato il lavoro. Per esempio: se si crea un grande ufficio esportazione a Milano, un antiquario di Genova che cosa fa? Presenta l’opera lì e i funzionari di Genova poi mandano tutto a Milano? Forse converrebbe lavorare su una maggiore uniformità di protocolli condivisi: è importante che gli uffici esportazione seguano criteri omogenei, ma non è il caso che la periferia venga di fatto così penalizzata ancora una volta sostanzialmente a favore del centro, laddove lo Stato dovrebbe essere forte dovunque e non abbandonare le periferie. Gli uffici ministeriali stanno per essere rinvigoriti e dall’assunzione di personale fresco, reclutato attraverso concorsi imminenti (bisogna sicuramente dare merito al ministro di essersi molto impegnato su questo fronte), ma bisogna vedere come questo personale verrà distribuito.

Scopo di tutto questo sembra essere rendere più razionale la macchina amministrativa. Ma il patrimonio culturale non è amministrazione. Quale visione del patrimonio e quale progetto di Paese ispirano queste azioni politiche? Lo stesso caso dell’Accademia a Firenze, che potrebbe finire in una stessa megadirezione con Uffizi e Pitti, anziché andare ad arricchire il polo museale con i suoi introiti, evidenzia questa opacità di visione, o comunque un malinteso senso della funzione di un museo, che in entrambi i casi il suo ministero vedrebbe solo come produttore di incassi.

Ma anziché discutere con foga da campanile sulla perdita di autonomia di un museo piuttosto che di un altro, e della sorte dei loro direttori (problema peraltro serissimo), dobbiamo semmai – e qui si torna al progetto eversivo di Salvini – interrogarci seriamente sul futuro del nostro sistema della tutela anche alla luce di devoluzioni territoriali che sembrano imminenti, se è vero che la bozza di accordo tra il governo e le Regioni che hanno chiesto l’autonomia – Lombardia, Emilia Romagna e Veneto – assegna a Lombardia e Veneto la tutela del patrimonio artistico e ambientale. Addirittura la bozza più operativa elaborata dal Veneto e concordata col governo il 15 maggio prevede senza mezzi termini di porre le soprintendenze alla dipendenza della Regione. La cosa rischia di creare un conflitto anche a livello costituzionale, perché la tutela non è oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ma esclusiva dello Stato. Questo dunque è il campo su cui si giocherà la partita decisiva: che non riguarda soltanto cultori professionali del patrimonio, intellettuali e “professoroni”. Riguarda tutti noi proprio in quanto il patrimonio è la risorsa del nostro stare al mondo, anche là dove tutto sembra non avere senso. Ma è soltanto in questa coscienza del patrimonio che possiamo ritrovare un senso anche là dove non sembra esserci più. Forse ce ne dovremmo ricordare ogni volta che un barcone si affaccia al nostro orizzonte.

L’articolo di Fulvio Cervini è tratto da Left n. 28 del 12 luglio 2019


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Consultazioni come partite di calcio

Second round of formal political consultations at the Quirinale Palace following the resignation of Prime Minister Giuseppe Conte, in Rome, Italy, 27 August 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Scusate se non scrivo un prolisso editoriale sulle voci, sulle vocine, sulle vocette, sui bisbiglii e sugli sbadigli delle “fonti” della trattativa per il governo. So che sarebbe adrenalinico, come buongiorno, ma strizzare le meningi sui retroscena di cui vorrebbero che si parli proprio quelli che fingono di non volere i retroscena mi farebbe sentire piuttosto scomodo in questa enorme catena di montaggio che è la politica diventata reality.

Così ci siamo riempiti di trasmissioni che danno di gomito ai colpi di gomito di una trattativa politica, frugando tra gli sguardi come se fosse una puntata dei cronisti che si corteggiano, elemosinando mezze dichiarazioni che non significano nulla ma che vengono interpretati come fossero fondi di caffè. E sul niente si dibatte tantissimo fingendo di sapere. Ieri, se ci pensate, non è ufficialmente successo nulla. O meglio: stanno trattando e come tutte le trattative si trovano di fronte alla difficoltà di tenere insieme i pezzi (se davvero si possono tenere insieme).

Ciò che colpisce però è che tutti i personaggi in commedia hanno detto tutto e il contrario di tutto: Zingaretti non voleva Conte e probabilmente c’è Conte, Di Maio aveva detto “mai con il Pd” e tratta con il Pd, Salvini si è presentato alle elezioni con Berlusconi e si è poi  accordato con il M5S e ora dice che i governi li devono decidere le elezioni. Uno spettacolo grottesco, triste, deturpante.

Programmi? Boh. Si sa intanto che i ministri grillini hanno appoggiato l’ennesima schifezza di Salvini. Questo è l’unico fatto reale di ieri. Ah, no, c’è un altro fatto: per il M5S tratta con autorevole voce in capitolo anche una società privata, la Casaleggio. Prima era una vergogna. Ora non più.

E poi, come tutti i reality viene fuori che deve votare anche il pubblico da casa.

Evviva.

Buon mercoledì.

Colpo di coda del governo giallonero. Salvini, Trenta e Toninelli vietano lo sbarco ai profughi della Eleonore

26 August 2019, --: On Monday, more than 250 migrants were rescued off the Libyan coast of the Mediterranean. The German rescue ship "Eleonore" took in about 100 migrants near Libya. The people were rescued while their boat was sinking, said Axel Steier, spokesman for the Dresden aid organisation Mission Lifeline, which supports the "Eleonore". Photo: Johannes Filous/dpa

Ancora porti chiusi. Nemmeno il governo ai titoli di coda ferma le politiche xenofobe dei gialloneri e Salvini prosegue indisturbato nel suo lavoro. Stando a una nota del Viminale, il ministro dell’Interno ha firmato il divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque italiane per la nave Eleonore della Ong Lifeline, battente bandiera tedesca, che ieri aveva soccorso 101 migranti a bordo di un barcone che stava affondando al largo delle coste libiche. Il provvedimento è già stato controfirmato dai ministri della Difesa e delle Infrastrutture e Trasporti Trenta e Toninelli.

Il provvedimento trae la sua base normativa dal decreto sicurezza bis (che consente al ministero dell’Interno di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale per ragioni di ordine e sicurezza). Immediata la reazione dei deputati del Pd, tra cui Matteo Orfini che scrive su Twitter: «Salvini chiude i porti alla Ong Lifeline con 101 persone a bordo. Presidente Giuseppe Conte, mentre parliamo di possibili governi tra un ultimatum e l’altro, potrebbe cortesemente evitare che chi agisce su sua delega continui con politiche disumane? A proposito di discontinuità».

Recentemente, Salvini aveva disposto il divieto di ingresso per la nave Open Arms, gestita dall’omonima Ong spagnola, che a Ferragosto si trovava al largo di Lampedusa già da parecchi giorni con centinaia di migranti a bordo tra cui moltissimi minori non accompagnati, senza possibilità di farli sbarcare. Il Tar del Lazio si era espresso accogliendo le richieste degli avvocati della Ong, permettendo alla nave di entrare a Lampedusa, secondo la regola del porto più vicino. «Sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane», si leggeva nel testo del decreto del Tar del Lazio in relazione al ricorso presentato dalla Open Arms contro il provvedimento di Salvini. La sentenza proseguiva spiegando che per i motivi sopracitati si rendeva possibile: «Prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici». Lo stesso ex premier Giuseppe Conte aveva inviato una lettera a Salvini chiedendo lo sbarco immediato e la messa in sicurezza dei minori.

La scelta di Trenta e Toninelli è in controtendenza con quella presa nel caso della nave di Open Arms, quando si rifiutarono di mettere la propria firma sul documento: «Ho preso questa decisione, motivata da solide ragioni legali, ascoltando la mia coscienza – aveva dichiarato allora Trenta -. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità. Per questo non ho firmato». Ora la decisione di appoggiare la scelta di Salvini, che informerà del provvedimento anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come previsto dal decreto sicurezza bis, fa esultare il Viminale per «la ritrovata compattezza del governo a fronte dell’ennesimo tentativo di avvicinamento alle acque italiane di una ong tedesca».

Le tragedie nel Mediterraneo intanto continuano, nel silenzio delle autorità marittime, che negli ultimi tre giorni hanno avuto notizia di almeno sei barconi partiti da Tripoli senza che venissero segnalati ai naviganti. Secondo Alarm Phone – il call center che raccoglie le richieste di soccorso da parte dei migranti nel Mar Mediterraneo diramando poi l’allarme alle autorità e alle Ong attive in mare – l’ultimo naufragio è avvenuto verso le 3.30 di questa mattina: un barcone con a bordo circa 90 persone è affondato, le autorità libiche stanno cercando di recuperare morti e superstiti, ma a quanto pare la maggior parte delle persone non ce l’hanno fatta, il numero resta ancora imprecisato. Sulla pagina Twitter, proprio Alarm Phone sancisce: «Queste morti sono tua responsabilità Europa. Le tue politiche di deterrenza uccidono».

Le guardie private in città: da Cascina a Pisa il business della sicurezza targato Lega

Cascina docet, Pisa obbedisce. È come dire “figlia insegna a mamma”. Da quando Cascina è diventata fortezza della Lega toscana e laboratorio nazionale dei progetti sulla sicurezza targati Salvini sotto la guida della sindaca Susanna Ceccardi, pupilla del Capitano e consigliera nazionale per la sicurezza, i rapporti tra il capoluogo ed il secondo comune per densità di popolazione della provincia pisana, si sono ribaltati. Di fatto, oggi, la città della Torre (e di Galileo…) guarda a Cascina con ammirazione, e persino con una certa reverenziale sudditanza, per quanto riguarda la pratica politica sul fronte “sicurezza”, il mantra su cui Salvini ha costruito la sua popolarità.

A Cascina la “sicurezza” è stata privatizzata. Ovvero, per realizzare i due progetti partoriti dalla giunta leghista, “Sentinelle di notte” e “Sentinelle a scuola”, si è deciso di affidare a vigilantes armati del corpo privato “Guardie di città” il controllo delle persone e del territorio. Un modus operandi su cui sembra stia già lavorando l’onorevole della Lega, Edoardo Ziello, osservatore iperpresente della politica pisana guidata dal leghista Michele Conti, per creare una task force contro la mala-movida della città universitaria.

Una formula che, al contrario, ha allarmato il gruppo pisano di opposizione, Diritti in Comune (Una città in comune – Rifondazione Comunista – Pisa Possibile), rappresentato dal consigliere comunale Ciccio Auletta. «La sicurezza pubblica non è un business, ma un ruolo cardine dello Stato – ha dichiarato Auletta – . Si moltiplicano le voci secondo cui la Giunta Conti vuole copiare quella di Cascina e utilizzare guardie private (magari proprio il “solito” Corpo delle guardie di città) per funzioni di controllo del territorio e di ordine pubblico, che spettano invece allo Stato e alle forze di polizia. Si tratta di una scelta gravissima, su cui chiediamo al Questore e al Prefetto di Pisa di intervenire per impedire alla amministrazione comunale pisana di procedere in tale direzione. Si cerca infatti di introdurre surrettiziamente una sorta di polizia al servizio della Giunta – ha continuato Auletta. Di fronte alle fallimentari politiche securitarie del loro ministro degli Interni, che combatte i poveri e i richiedenti asilo invece di colpire la criminalità, la Lega sul territorio utilizza società private per privatizzare di fatto la sicurezza, facendone un business e erodendo così uno dei cardini dello Stato».

«È un provvedimento, anche in questo caso – ha aggiunto Auletta – di pura propaganda che non renderà nessuno davvero più sicuro. Legittima difesa, decreti sicurezza, militarizzazione della Polizia municipale dotata di manganello e spray urticante, affidamenti a guardie private di servizi prettamente statali costituiscono un mix esplosivo, che nulla ha a che vedere con lo Stato di diritto né con il contrasto alla criminalità, ma che fa assomigliare le nostre città sempre di più al Far West». Per queste ragioni Diritti in Comune si è impegnato a sollevare immediatamente la questione in Consiglio comunale per capire quali sono le reali intenzioni della Giunta e chiedere fin da subito alle autorità competenti, Prefetto e Questore, di intervenire per fermare provvedimenti simili.

Ma se non riuscite a battere la destra, perché siete lì?

Giornalisti fuori da Palazzo Chigi durante l'incontro tra il segretario del PD Nicola Zingaretti ed il capo politico del M5S Luigi Di Maio, Roma 26 agosto 2019. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Rubo, non me ne vorrà, una domanda che ha posto Francesco Costa sul suo blog per aprire una riflessione sul caotico momento della politica italiana, questa crisi di governo che quel geniaccio di Salvini ha acceso per diventare condottiero e invece ora è bello rinchiuso in un cul de sac.

Obbligatoria premessa: il governo gialloverde è stato il governo più di destra e più reazionario che si sia visto in questi ultimi anni in Italia. Sono riusciti perfino a fare apparire responsabile uno come Silvio Berlusconi e diversi italiani sono convinti che un cactus come presidente del Consiglio (e magari un cavallo al Viminale) potrebbero fare meno danni di quelli che abbiamo avuto finora. Comprensibile quindi che nella tattica politica rientri anche l’ipotesi di mettere fuori gioco gli avversari per indebolirli e per recuperare consensi. Insomma, per dirsela tutta, questo non è un editoriale pro o contro il governo giallorosso. Su quello ci sarà molto da dire e da scrivere quando i giochi saranno definitivamente e ufficialmente chiusi.

C’è però una domanda di fondo che non si può non fare a tutti quelli che ci ripetono da giorni che la destra non si può battere e che quindi bisogna ingegnarsi per non andare ad elezioni. È chiaro e saputo che siamo una democrazia parlamentare e che non si vota ogni volta che i sondaggi tornano comodi a qualcuno, solo mi chiedo cosa dovrebbero pensare gli elettori di sinistra di una classe dirigente che dichiara di non essere in grado di vincere perché quegli altri sono troppo forti. Cosa diremmo a un idraulico che ci dice che aggiusterà alla bell’e meglio il nostro lavandino perché non è in grado di sostituirlo? Cosa diremmo a un medico che ci prescrive una montagna di antidolorifici perché non sa quale sia la cura?

Insomma, a dirsela tutta, non è che facciano proprio un figurone quelli che vorrebbero rassicurarci dicendo che stanno spalando l’acqua fuori dalla chiglia e dovremmo essere felici di non affondare. Ma soprattutto: se dei dirigenti che dovrebbero portare un partito a essere credibile (e quindi votato) ci dicono che non ci riusciranno che cosa ci fanno lì?

Buon martedì.

La crisi di governo vista dal Sud

Mentre Giuseppe Conte, nel suo discorso al Senato il 20 agosto scorso, ha omesso completamente la responsabilità del M5s sulla questione migranti, tacendo anche sulla responsabilità nell’aver portato al governo la peggior destra antimeridionale, preoccupa la sua disponibilità a procedere con decisione nell’applicazione del Regionalismo differenziato. Sarà un caso, ma questo passaggio del suo discorso è stato l’unico in cui Salvini ha annuito compiaciuto. Anche su questo punto Conte ha deluso, così come sul non aver evidenziato alcuna discontinuità con la disastrosa esperienza di governo appena conclusa, decreti sicurezza compresi.

Permangono quindi la pervicace volontà da parte del M5s di procedere con la “Secessione dei ricchi” e il pericolo che, per non scontentare l’elettorato e l’imprenditoria del Nord, Pd e M5s – che al Nord hanno sostenuto con forza le ragioni delle Regioni “secessioniste” – trovino un accordo, nell’eventuale formazione di un governo di scopo, convergendo sulla proposta di Regionalismo emiliano, presentandolo come «temperato». Il tema dell’autonomia differenziata resta così all’ordine del giorno del dibattito politico, a prescindere dalla crisi. Il sistema fin qui determinato in assenza della definizione di Lep (livelli essenziali di prestazione, ndr) e fabbisogni standard, che i Cinquestelle non han voluto o saputo affrontare o imporre, finirà per aumentare ancora di più le differenze tra le regioni. Il pericolo è evidenziato anche dalla polemica, nata pochi giorni fa al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini dopo una tavola rotonda sul tema, scoppiata fra Luca Zaia, governatore leghista del Veneto, e Adriano Giannola, presidente dello Svimez. Tavola rotonda in cui Giannola ha giustamente attaccato il progetto autonomista della Lega e le richieste che vengono dalle tre Regioni del nord, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

«Per fermare l’eutanasia del Paese – ha dichiarato – il Nord deve capire che solo recuperando il Sud e il suo mercato interno (che assorbe il 70% delle merci prodotte al Nord) può recuperare esso stesso». Giannola ha inoltre rivendicato «l’operazione verità, che ha silurato le pretese iniziali del disegno autonomista». Ma ha messo in guardia sul «motivo accuratamente nascosto del fallimento del disegno autonomista, che fa prevedere una più virulenta ripresa, senza mediazioni, dopo l’eventuale vittoria elettorale della Lega» e riferendosi in particolare a Veneto e Lombardia, ha aggiunto, indicando il vero pericolo in essere per il futuro del Sud: «Torneranno alla carica, se vincenti, più aggressivi e più forti, con Salvini ancor più dipendente dai governatori». Punto sul vivo, Zaia ha affidato la sua risposta, poche ore dopo, a un lungo comunicato, con un veemente attacco contro chi difende – con numeri incontrovertibili – le ragioni di un Sud tacciato, come nella migliore tradizione leghista, come piagnone e sprecone: «È ora di finirla con la bufala della secessione dei ricchi e dell’Italia di serie A e serie B»…

Peccato però che, in questo caso, chi si lamenta da tempo siano proprio i governatori “secessionisti” del Nord, che battono cassa dolendosi di ricevere pochi denari anche se, proprio dai dati Svimez recentemente diffusi, si evince che principalmente su scuola, sanità, infrastrutture e trasporti il Sud negli ultimi 10 anni, anche grazie alla mai avvenuta definizione di Lep e fabbisogni standard, ha visto un imponente travaso di finanziamenti a vantaggio delle Regioni del Centro-Nord. Il “differenziale a vantaggio del Centro Nord” avviene considerando che il dato della spesa pubblica nel 2017 è stato di 696,7 miliardi di euro per il Centro nord, dove abita il 65,7% della popolazione, e di soli 272,6 miliardi di euro per il Sud, in cui risiede il 34,3% dei cittadini. Ecco da dove nasce l’espressione di cittadini di «serie A», al Nord, e «serie B», al Sud: dal fatto che il meridione riceve percentualmente molto meno solo per motivi geografici, con buona pace di Zaia.

Romano Prodi, sulle autonomie regionali, il 18 agosto all’interno di una intervista al Messaggero sulla situazione politica, ha dichiarato: «Non possono essere lasciate all’iniziativa di alcune Regioni, ma debbono coinvolgere tutti gli italiani». L’auspicio è che questa presa di posizione chiara contro il regionalismo differenziato, da parte di un personaggio molto autorevole all’interno del Pd, porti il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ad un ripensamento, se non ad una rapida retromarcia sul tema.

Giova a questo punto ricordare che il Sud con la caduta del governo vede anche interrompersi l’attuazione di quel «piano per il Sud» di cui il premier Conte ha fatto cenno nel suo discorso al Senato. I cui punti di forza sarebbero stati l’estensione della decontribuzione per le nuove assunzioni al Sud, a partire dai giovani, la nomina di Invitalia (l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, ndr) a “braccio operativo” degli enti locali, per sveltire la realizzazione di opere infrastrutturali e l’istituzione della Banca degli investimenti per aiutare le piccole e medie imprese meridionali ad accedere al credito in maniera più conveniente rispetto allo scenario attuale, coinvolgendo Banca del Mezzogiorno e Cassa depositi e prestiti. Per non parlare delle vertenze industriali, come, ad esempio, quella della Whirlpool. Impossibile, adesso, prevedere cosa di questo sarà ripreso o meno da un eventuale nuovo governo.

Di sicuro i tempi inevitabilmente si allungheranno a fronte di uno scenario da brividi per il Sud, sull’orlo di una recessione che meriterebbe decisioni molto più forti, rapide e condivise. In uno scenario economico che nel Sud vede una frenata più accentuata rispetto al Centro-Nord, con l’occupazione che si riduce già a partire dalla metà del 2018, e uno scenario negativo per il 2019 che fa prevedere un’ulteriore caduta dell’occupazione e del Pil. In sintesi: un 2019 di stagnazione italiana e di recessione meridionale.

Uno scenario che potrebbe ancora peggiorare se dovesse poi scattare l’aumento dell’Iva previsto dalle clausole di salvaguardia. La Svimez regionalizza l’impatto delle clausole e prevede un effetto recessivo diffuso su tutto il Paese ma più accentuato al Meridione, dove il più basso livello medio dei redditi esalta gli effetti della regressività dell’aumento Iva, cioè il fatto che pesi proporzionalmente di più sui consumatori a reddito basso. Per non parlare poi dell’eventuale applicazione della Flat tax sostenuta dalla Lega nel caso di nuove elezioni e di vittoria del centro-destra. Uno scenario assolutamente negativo per il Sud, in previsione di una manovra “lacrime e sangue” nei prossimi mesi, se i conti, come probabile, dovessero ulteriormente peggiorare.

Prima del precipitare della situazione è perciò necessario strutturare proposte di possibile e sensata realizzazione per rilanciare il Sud. È in gioco la tenuta democratica del Paese e la sua stessa natura unitaria.

Ad esempio, fra i cinque punti proposti dal Partito democratico per l’eventuale formazione di un nuovo governo con il M5s il quinto, «sterzata sulle politiche economiche», andrebbe approfondito ed integrato con una visione redistributiva, di rilancio del lavoro e di maggiore equità territoriale, con investimenti pubblici che necessariamente ripartano dal Sud e soprattutto, per mettere in sicurezza dall’egoismo leghista il Mezzogiorno nel prossimo futuro, arrivare finalmente a definire ed applicare una volta per tutte Lep e fabbisogni standard, affinché non vi siano più cittadini e servizi di serie A e di serie B. È questo un passaggio fondamentale perché i diritti sociali non rimangano vuota enunciazione, ma siano effettivamente esigibili. Misura dell’uguaglianza del Paese e reale indicatore che il regionalismo differenziato miri realmente ad una migliore efficienza e non sia destinato ad aumentare le diseguaglianze, già presenti, in nome dell’egoismo territoriale (come evidenziato dalla Corte dei conti il 17 luglio 2019).

Da questa proposta e da questo impegno di equità riparta anche la proposta progressista, sia nel caso di formazione di un nuovo governo, sia nel caso di elezioni, mettendo in campo uno sforzo straordinario per raccontare cosa comporterebbe per il Sud nei prossimi anni l’applicazione del regionalismo differenziato senza queste preliminari e necessarie definizioni (e raccontarlo dati alla mano, indicando quanto già è stato “scippato” e quanto lo sarà). Spiegando le conseguenze nel dettaglio a tutti gli elettori e non solo a quelli del Sud.

Natale Cuccurese è presidente e segretario nazionale del Partito del Sud-meridionalisti progressisti

I conti dimezzati

Un momento del voto sul disegno di legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, Roma 7 febbraio 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Cerchiamo di capirci: un taglio alla spesa pubblica, soprattutto se intacca alcuni insopportabili privilegi del corpo parlamentare, sarebbe un segnale di morigeratezza al passo con questi tempi di difficoltà economiche e di crisi del lavoro. Su questo possiamo essere d’accordo. Ma la bava alla bocca anti-casta che in questi anni ha addirittura dipinto realtà inesistenti pur di accrescere l’antipolitica come leva per scardinare la democrazia e imporre l’autoritarismo (e il leaderismo) è uno degli errori più gravi che si potrebbero commettere in questo tempo dove si chiede di instaurare una credibilità, oltre che un governo.

Il taglio dei parlamentari, ad esempio, comporterebbe un risparmio nelle casse dello Stato di 50 milioni di euro. Ebbene, 50 milioni di euro non sono poca roba, detti così, buttati come se fossero un amo, ma stiamo parlando dello 0,007% della spesa pubblica. Un’inezia. Una roba da niente.

Sento già le osservazioni: “Da qualche parte bisogna cominciare”, dicono. Ed è verissimo. Ma ridurre il numero di deputati significa inevitabilmente ridurre anche la rappresentanza dei cittadini (quelli che si invocano sempre quando si è alti nei sondaggi, per dire) e tagliare i parlamentari significherebbe sicuramente mettere mano alla Costituzione (ve lo ricordate il risultato dell’ultimo referendum?) e affidare al prossimo governo lo studio di una giusta legge elettorale (sì, ciao) che non penalizzi le regioni più piccole.

Allora mi chiedo se non si otterrebbe un risparmio significativo (seppur minimo) e simile al taglio dei parlamentari con il dimezzamento delle indennità, solo per fare un esempio. O se davvero non sia possibile trovare risparmi più consistenti con riforme ben più coraggiose (mafie, corruzione, centinaia di miliardi, vi dicono qualcosa?) che garantirebbero l’equilibrio della democrazia decidendo di toccare quei potentati che da sempre ci costano molto di più dei caffè alla buvette della Camera (riconversione ecologica, ad esempio, che farebbe bene ai nostri figli).

Insomma, provare ad essere seri, fare tornare di moda la serietà, alzare il livello. Volare alto: una volta si diceva così.

Buon lunedì.

Affido familiare, la legge va migliorata: si sa che non funziona

«Nei confronti della realtà umana del bambino c’è un pregiudizio culturale storico, vale a dire l’idea che sia una tavoletta di cera da plasmare. Spesso l’atteggiamento nei confronti dei bambini è questo. Anche da parte di persone che per professione sono sovente in rapporto con loro, per cui vengono indotti a dire determinate cose. E i bambini lo fanno perché hanno la naturale tendenza a fidarsi degli adulti, purtroppo». Si parla molto da quasi due mesi dell’operazione “Angeli e demoni” sui presunti affidamenti illeciti di bambini a Bibbiano in provincia di Reggio Emilia. Fermo restando l’auspicio che sia fatta al più presto chiarezza e la presunzione d’innocenza delle persone coinvolte nelle indagini a vario titolo, abbiamo chiesto allo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini di spiegarci cosa può accadere quando uno specialista ritiene di essere in presenza di una vicenda di abusi o maltrattamenti di minori in famiglia. Riguardo il caso in questione, ricordiamo che il procuratore capo Marco Mescolini all’Ansa al mometno dei primi arresti parlò di «lavaggio del cervello ai piccoli» per creare falsi ricordi (con lo scopo di toglierli ai loro genitori e affidarli ad altre famiglie). Plagio, insomma. Tuttavia, Mescolini ha anche doverosamente aggiunto che «non è il sistema dei servizi sociali sotto esame, ma le persone attinte dalla misura». Le ultime iscrizioni al registro degli indagati – tre, per abuso di ufficio – risalgono alla scorsa settimana.

Professore, come ci si dovrebbe rapportare a un bambino per cercare di capire se davvero ha subito un abuso dai suoi genitori?

È sempre difficile fare un “interrogatorio” o un colloquio con un bambino specie se si dà per scontato che qualcosa sia successo. Io spesso ho modo di riscontrare che il problema sia in questa mentalità per cui i bambini non sanno nulla ed è l’adulto che gli deve insegnare cosa dire. Al contrario, ci si deve sempre mettere in una reale situazione di ascolto, partecipe ed empatico nei loro confronti. Perché, come ampiamente dimostrato con la teoria della nascita di Fagioli, ogni bambino è portatore di una conoscenza, è dotato di una intelligenza e di una capacità di comprendere. Se manca questo approccio si inficia qualunque tipo di relazione. Da quella dell’assistente sociale a quella del magistrato o dello psicologo psicoterapeuta. Per evitare di mettere in bocca delle risposte preconfezionate c’è chi ha sottolineato l’importanza di fare delle domande indirette. Se c’è questo pregiudizio sulla realtà del bambino, anche le domande indirette purtroppo possono risolvere ben poco. Si deve riuscire a fare un pensiero, un’immagine di un bambino che è sapiente, che quindi sa le cose e te le può spiegare. A modo suo e nei termini suoi.

Per il minore, quali sono le conseguenze di un pregiudizio del genere?

Il bambino lo sente come vissuto emotivo ma non è in grado di opporsi alla “lesione”. Si tratta peraltro di un pregiudizio che non è nemmeno espresso e verbalizzato. Inoltre è diffuso nella nostra cultura e dunque lui lo ha già in parte vissuto nel rapporto con i genitori, in famiglia, a scuola. Questa immagine della tabula rasa su cui gli adulti devono scrivere è presentissima nella nostra cultura.

Come se ne esce?

Lo abbiamo accennato prima. Bisogna fare un cambio di paradigma culturale e scientifico e realizzare che il bambino pur avendo il suo modo di esprimersi ha sicuramente delle conoscenze molto esatte e profonde dei rapporti, di ciò che ha vissuto e di cosa è la vita. Senza questa conoscenza non si può immaginare né vedere il percorso di sviluppo che lui fa, imparando il linguaggio, imparando a muoversi nella società… Bisogna avere questa consapevolezza delle sue capacità, delle sue potenzialità e quindi mettersi in una dimensione di ascolto reale: “Cerco di capire cosa mi stai dicendo”. Questo vale per un medico, per un assistente sociale e per un genitore. Spesso invece l’adulto, tanto più se investito di un compito delicato come può essere quello dell’assistente sociale, dello psicologo terapeuta, del magistrato, quando si trova di fronte un minore ha già formulato un giudizio. Quindi poi rischia di adattarlo alla situazione del bambino, senza cercare di capire cosa stia realmente cercando di dire.

Il procuratore Mescolini ha detto che il sistema dei servizi sociali non è sotto esame. Lei cosa ne pensa?

Tante volte gli assistenti sociali salvano la vita a dei bambini che sono sottoposti a maltrattamenti, violenze o peggio. Purtroppo nella pratica clinica vedo che però alcuni compiono degli errori gravi.

Questo dipende dal pregiudizio di cui abbiamo parlato?

Può succedere che un disegno fatto da un bambino venga interpretato sulla base di una convinzione che l’operatore si è fatto senza dare l’attenzione necessaria al minore. E la relazione che presenta al magistrato viene redatta in modo tale che delle madri non pessime finiscono per perdere la genitorialità. E i loro figli vengono dati in affidamento. Essendo io uno psichiatra degli adulti di solito vengo chiamato per la perizia o la valutazione dei genitori. In alcuni casi sembrano brave persone, in altri invece era solo uno dei due quello con problemi (tossicodipendenza, etc), ma i figli sono stati lo stesso levati a tutti e due anche quando la madre cercava di tutelarli.

Non c’è modo di evitarlo?

Se l’assistente sociale scrive che ha il sospetto che il bambino stia soffrendo, il magistrato emette un decreto di allontanamento. Come abbiamo visto in questa vicenda di Reggio Emilia, il meccanismo di legge dell’affidamento provvisorio mette la decisione nelle mani degli assistenti sociali.

Sono formati per fare un’analisi psicologica?

Dipende. Gli assistenti sociali più anziani hanno un diploma equiparabile a quello di una maestra d’asilo, ora invece per accedere alla professione occorrono studi universitari. Il punto è che la nuova legge del 2015 andrebbe risistemata, si sa che non funziona. È troppo sbilanciata, anche dal punto di vista degli assistenti sociali. Se accade qualcosa a un bambino che hanno visto reputando che non fosse in pericolo, tutta la responsabilità ricade su di loro pur non avendo competenze specifiche. Un cambiamento va fatto anche a tutela degli assistenti sociali, nel loro interesse. È vero che hanno un potere enorme ma dall’altra parte se succede qualcosa si devono assumere tutta la responsabilità.

Andrea Masini è direttore della rivista scientifica Il sogno della farfalla e docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psichè di Roma.

Roberto Burioni e Guido Silvestri: Contro i negazionisti del metodo scientifico

L’anti-vaccinismo, la contrarietà alla sperimentazione animale e agli ogm, il sostegno al metodo Stamina: sono importanti fenomeni di massa che hanno diviso e continuano a dividere non solo l’opinione pubblica ma anche i decisori politici, sia in Italia che all’estero. Secondo un recente sondaggio dell’Eurobarometro, ad esempio, il 48% degli europei crede a false leggende sui vaccini, ossia che causino spesso gravi effetti collaterali. In questi casi la comunità scientifica ha stigmatizzato tali prese di posizione, prive di oggettività, ma è stata spesso sotto attacco perché per molti un ragionamento basato sull’evidenza scientifica è solo un’opinione, e per di più con la stessa dignità di una affermazione di colui che non ha mai aperto un libro di medicina.

Tuttavia la ricerca medico – scientifica ha anche il nobile compito di demolire i nostri pregiudizi e migliorare le nostre esistenze. In questi ultimi anni, a causa anche di una diffusione incontrollata sui social network di gigantesche bufale, la credibilità della scienza è stata minata da parte della disinformazione e del nuovo oscurantismo in cui si moltiplicano i ciarlatani. Le fake news possono addirittura uccidere o ledere gravemente, se solo si pensa ad un bambino morto per una otite curata con l’omeopatia o a casi di rapporti sessuali non protetti da parte di persone affette da Hiv per le quali l’Hiv non esisterebbe o sarebbe un virus inoffensivo.

Potremmo citare centinaia di altri esempi ma quello che c’è da evidenziare è che per combattere questa pericolosa disinformazione occorre fare rete tra scienziati, politici, società civile, nel comune sforzo di diffondere la verità e combattere la pseudoscienza dilagante sulla rete, aiutando la cittadinanza a capire l’importanza dell’innovazione e supportando la politica a fare scelte sul modello dell’evidence-based policy making. Tutto ciò si rende ancora più necessario in un momento in cui, secondo gli ultimi test Invalsi, il 35% degli studenti di terza media non capisce un testo d’italiano. Per questo è nato il Patto trasversale per la scienza (Pts), il cui obiettivo principale è «portare le evidenze scientifiche alla base delle scelte legislative e di governo di tutti i partiti politici, trasversalmente» oltre che quello di «promuovere la cultura della scienza e il metodo scientifico attraverso programmi formativi e divulgativi in ambito scolastico, sanitario e mediatico». Tra i padri fondatori di questo progetto ci sono due scienziati e divulgatori italiani: Guido Silvestri e Roberto Burioni…

L’intervista di Valentina Stella a Roberto Burioni e Guido Silvestri prosegue su Left in edicola dal 23 agosto 2019


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