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Mai più, nunca más

«Andrò avanti con l’associazione che porta il nome di Stefano. Ha ragione chi dice che lo strumentalizzo, continuerò a farlo, perché tramite lui ricordiamo tutti gli altri Stefano».

Da quella notte di ottobre 2009, Ilaria Cucchi si interroga su cosa si dovrebbe fare «perché non succeda mai più», come, prima di lei, scrissero su un lenzuolo gli amici di Federico Aldrovandi quando scesero in piazza un anno dopo l’uccisione del diciottenne ferrarese da parte di quattro agenti. E prima di loro ci aveva pensato Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, che provò a mettere insieme «il Paese dei comitati», come lo chiamava Manlio Milani, il marito di Livia Bottardi che morì nella strage di Brescia 27 anni prima di Carlo, 31 prima di Federico, 35 prima di Stefano.

L’unica cosa che possiamo fare è un lavoro di sensibilizzazione. In fondo è quello che stiamo facendo. Ed è l’unica speranza che abbiamo», dice la sorella di Cucchi al termine di un’ennesima, partecipatissima, proiezione collettiva di Sulla mia pelle, il film di Cremonini che ricostruisce l’ultima settimana di vita di Stefano. Migliaia di persone, da un mese, vi prendono parte nelle piazze, nelle università, nei centri sociali nonostante la lunga notte della Repubblica del tempo di Salvini e Di Maio.

Oltre cinque anni fa, l’assoluzione delle guardie penitenziarie nel primo processo, quello che ignorava il ruolo dei carabinieri che avevano arrestato Cucchi, sembrava una pietra tombale sulla battaglia di verità e giustizia.

Centinaia di persone diedero vita alle “mille candele” sotto il Csm per illuminare quei luoghi bui dove ogni giorno si umiliano le esistenze e si calpesta la democrazia. Fu un nuovo inizio.

Poi l’inchiesta bis, un altro processo e le rivelazioni di Francesco Tedesco.

Tutto quello che in questi anni avevo solo potuto immaginare, il tassello che mancava adesso è arrivato», ripete Ilaria Cucchi da quando le rivelazioni di uno dei carabinieri imputati per l’omicidio preterintenzionale di suo fratello hanno confermato quello che immaginava da quando aveva rivisto Stefano sul tavolo dell’obitorio.

Dieci anni fa. E mentre lei era in obitorio, Tedesco scriveva un rapporto su quello che era accaduto una settimana prima, la notte dell’arresto. Ma lei non poteva saperlo perché il “muro” era già stato issato, erano spariti i nomi di chi aveva preso parte all’arresto, erano stati falsificati i verbali, sarebbe sparito anche quel rapporto, un ministro del governo Berlusconi, La Russa, aveva ordinato di lasciar stare i carabinieri, che non c’entravano. La notte della Repubblica non è iniziata ieri.

Il muro serviva a fare la guerra a noi.

Colpevolizzazione secondaria, direbbero gli addetti ai lavori della giurisprudenza: la tendenza a processare le vittime quando i carnefici sono potenti, magari in divisa.

Non ci siamo fermati e, col tempo, siamo diventati sempre di più. Sono stati anni difficilissimi, la mia vita è cambiata per sempre. Io sono cambiata e se anche domani Stefano dovesse tornare a casa, tutto il dolore non ce lo toglierebbe nessuno. Dieci anni fa ero una persona che si fidava talmente delle istituzioni da affidare loro mio fratello di fronte a quello che percepivo come un mio fallimento. Nel momento più brutto della nostra vita, però, quelle stesse istituzioni ci voltavano le spalle. Lo Stato non era più nostro alleato ma il nostro peggior nemico, non potevo nemmeno immaginare che sarebbe stata una battaglia dentro e fuori le aule di giustizia.

Sono stati anni in cui ha scoperto una dimensione politica che mai avrebbe immaginato.

Era l’ultima cosa che avrei voluto, purtroppo sono stata costretta a diventare un punto di riferimento. Ma quello che è successo può ancora accadere a chiunque. Non possiamo più voltarci dall’altra parte.

Non si avvelena così la Duchessa

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«Siamo in viaggio di maturità, alla quarta tappa del Cammino dei briganti», raccontano Lorenzo Castellucci e Margherita Randazzo mentre si bagnano nel fontanile di Cartore alla fine dell’escursione al lago della Duchessa. Il Cammino dei briganti è un anello di 100 km, percorribile a tappe, che nella Valle del Salto si incrocia con il sentiero europeo E1, 7mila km a piedi da capo Nord a capo Passero, e con il Cammino naturale dei parchi, 430 km tra borghi e aree protette dall’Appia antica fino alla basilica di Collemaggio.
La Riserva naturale regionale Montagne della Duchessa, nata nel 1990 quando una mobilitazione riuscì a sventare un progetto di impianti sciistici, è un’istituzione regionale del Lazio, i suoi guardiaparco garantiscono anche l’attività antincendio sull’intero territorio del Comune di Borgorose, 4.500 abitanti disseminati per 17 frazioni.

«Ci sono 1200 specie vegetali, 42 di orchidee, due Zsc (zone speciale di conservazione) per una fauna altrettanto varia, ed è un’area di connessione per il transito dell’orso marsicano» spiega a Left Silvia Scozzafava, senior ecologist della Riserva. «Qui è racchiusa in soli 3.500 ettari tutta la biodiversità dell’Appennino tra 800 e 2.184 metri sul livello del mare, non è un santuario ma un territorio vissuto con le tracce di una lunga frequentazione umana, qui c’è la possibilità di conservazione attiva, una convivenza armonica tra paesaggi a mosaico e wilderness». Lorenzo e Margherita, bolognesi, hanno gli sguardi illuminati dai paesaggi quasi selvaggi che stanno attraversando, gli stessi in cui hanno scorrazzato i briganti e prima di loro gli Equi, i Romani, Francesco d’Assisi, l’antipapa Niccolo V, i ghibellini di Corradino di Svevia, Stendhal, Margherita d’Austria e in ogni tempo i pastori, sempre meno però. «Per questo ci siamo rimasti male quando ci siamo trovati davanti quelle fabbriche». In realtà si tratta di quel che resta di un piccolo centro industriale nella Piana di Spedino dove…

L’inchiesta di Checchino Antonini e Massimo Lauria prosegue su Left in edicola dal 17 agoesto 2019


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Dai, stava scherzando

Italian Deputy Prime Minister and Interior Minister, Matteo Salvini, during the speech at Lido Cala Sveva in Termoli, stage of his 'Italian summer tour', 9 August 2019. ANSA / NICO LANESE

La sintesi migliore l’ha scritta Arianna Ciccone nel suo profilo Facebook:

“Prima chiede la fiducia. La ottiene. E due giorni dopo, a Camere chiuse, apre la crisi di Governo.

Presenta una mozione di sfiducia al Presidente del Consiglio. Ma non si dimette né lui né fa dimettere i suoi ministri.

Poi dice ai giornalisti che lui è pronto a dimettersi, che non ha problemi a ritirare i suoi ministri. E subito dopo annuncia che invece no, non si dimette.

Prima dice che va da solo al voto, poi chiede a Berlusconi di andare insieme.

Prima dice che il taglio dei parlamentari è Salva-Renzi e che fino all’anno prossimo non si potrebbe tornare al voto. E quindi no, non lo vota.
Poi dice che è pronto a votarlo e subito dopo si va a votare (ma poi mica è lui che può decidere la data del voto!).

Gli fanno notare che se vuole votare taglio parlamentari dovrebbe ritirare la sfiducia a Conte. Ma lui dice no, non la ritira.

Qui o siamo davanti al più grande stratega politico al mondo mai visto in tutta la storia dell’umanità e noi mortali non possiamo capire proprio o manco lui sa che cazzo sta facendo”.

A questo forse si potrebbe anche aggiungere che nelle ultime ore Salvini, consapevole di avere sbagliato tempi e modi, stia cercando di tornare sui suoi passi simulando addirittura di non avere mai chiesto la caduta del governo. Anzi, come gli ha insegnato bene il suo padrino Berlusconi ha anche tentato di dare la colpa ai giornalisti, come se la crisi fosse solo un’allucinazione generale dovuta al solleone estivo.

L’unica cosa che riesce a mettere a fuoco anche nel marasma della confusione labirintitica sono le navi dei poveracci: del resto non è mai riuscito a parlare d’altro. Un uomo con un solo argomento ma con mille facce.

Buon sabato.

Cosmopoliti di tutto il mondo unitevi

C’era nel pensiero degli anarchici («La mia patria è il mondo intero», scriveva Pietro Gori), ma c’era – in chiave ancor più rivoluzionaria perché collettiva – nel pensiero marxiano «proletari di tutto il mondo unitevi».

Provocatoriamente potremmo dire anche che il cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens. La nostra specie è da sempre naturalmente nomade. Non solo per bisogno. Ma anche per curiosità, per esigenza di conoscenza dell’altro e di ampliamento dei propri orizzonti, come ci insegnano gli antropologi. Ma in tempi di rigurgiti nazionalisti e sovranisti come quelli che stiamo vivendo, la parola cosmopolitismo ci appare sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo. Abbiamo chiesto al filologo e studioso del mondo antico Luciano Canfora di aiutarci a ricostruirne l’origine e a comprenderne l’attualità.

Professor Canfora come leggere la parola cosmopolitismo in tempi di sovranisti al governo?

Intanto dobbiamo dire che il cosmopolitismo è l’esatto contrario del razzismo, poiché il razzismo si fonda (più o meno apertamente) sull’idea della supremazia di alcuni su altri, di un popolo, di un gruppo più o meno definibile rispetto a tutti gli altri. Le leggi razziali del 1938 si fondavano sulla premessa della difesa della razza da “inquinamenti”. La copertina di quel periodico ridicolo che si chiamava La difesa della razza raffigurava un italiano più o meno apollineo nei tratti, distinto, separato da un ebreo, ovviamente bruttissimo quanto nasuto, e da un nero, nerissimo. Questa era la “cultura”, il livello mentale dei vari Interlandi, Mussolini, Pende, e dei tanti cosiddetti intellettuali che si misero a scrivere sulla difesa della razza.

Riprendere oggi a coltivare il cosmopolitismo potrebbe essere un antidoto rispetto all’ideologia suprematista e isolazionista alla Trump? È antistorica la sua visione condivisa da Salvini che dice: «Prima gli italiani»?

Non direi antistorica. È pre culturale, al di sotto della media minima necessaria degli esseri pensanti, è una forma sub umana di pensiero (o meglio di non pensiero), che ha una sua forza soltanto nella campagna ferocissima di cacciata dei migranti, di disseminazione della paura, di additamento di un nemico che non è un nemico, esattamente come durante il nazionalsocialismo tedesco si additava l’ebreo come l’affamatore del popolo. È lo stesso meccanismo.

Il cosmopolitismo è un antidoto?

È ben più che un antidoto, noi abbiamo scelto questo tema qui a Genova, proponendolo alla cittadinanza e alle scuole, perché riteniamo che il mondo tutto corra pericolo, dall’America di Trump al nostro Paese.

Cosa dire a chi anche a sinistra prospetta un ritorno a un’idea di patria seppur legata alla Costituzione?

Di curarsi la mente e di studiare la storia.

In un quadro europeo e mondiale dove le disuguaglianze economiche e sociali sono sempre più feroci c’è chi dice che il cosmopolitismo sia un privilegio di pochi.

Non so chi dica che il cosmopolitismo sia un concetto elitario. Il compagno Marx disse «gli operai non hanno patria», nel senso che gliela hanno tolta. «Proletari di tutto il mondo unitevi». Spero che queste parole tornino a risuonare.

Dunque il cosmopolitismo si può legare a un’idea di uguaglianza fra tutti gli esseri umani?

Si deve legare a un’idea di uguaglianza! Il fatto stesso di concepire la caduta delle barriere nazionali e delle barriere sociali significa lavorare per l’uguaglianza. Un pensatore molto originale come il sofista Antifonte in un testo che si è conservato solo in parte, dice: «Noi siamo più barbari dei barbari perché crediamo alla differenza fra i Greci e i Barbari, tra gli schiavi e liberi».

Quest’anno ricorre il trentennale della caduta di Berlino, ma ancora non abbiamo realizzato un mondo senza muri, anzi ne stiamo costruendo di nuovi…

La caduta del muro di Berlino fu l’effetto di una situazione diplomatica complessa, che sarebbe lungo descrivere. Alla base c’era la crisi del sistema sovietico e del sistema socialista al proprio interno. Quello che era un confine di Stato fu gestito malissimo, in maniera punitiva e sbagliata. Ma il muro che è stato quasi portato a compimento fra Messico e Usa è molto più grave perché è il simbolo del razzismo trionfante.

Perché tornare a votare con il Rosatellum sarebbe molto pericoloso

Siamo a un passo dallo sfacelo: c’è la prospettiva seria di un governo Salvini-Meloni-Iannone, ma nessuno lo scrive, nessuno riflette seriamente su tale ipotesi. Eppure c’è davvero il rischio di trovarsi una stabile maggioranza d’ispirazione fascista. Lega, Fratelli d’Italia e Casapound che potrebbero eleggere: presidente della Repubblica, membri non togati del Consiglio superiore della magistratura, membri della Corte Costituzionale.

I Cinqueselle hanno aperto la strada a questa destra fascista ed hanno responsabilità gravissime. Le leadership dei grillini sono state altamente inadeguate. D’altronde si sapeva, il M5s ha rappresentato un’entità a sé che a contatto con il potere avrebbe potuto perdere la testa. Così è stato, quindi, non poteva finire diversamente.  L’imperdonabile arrivismo politico dei Cinquestelle emerge con forza dopo il salvataggio di Salvini in aula per il caso “Diciotti”, per l’atteggiamento intransigente sui migranti e infine per l’assoluta ingiustificata approvazione del decreto sicurezza bis. Il danno ormai è fatto.

Cosa si potrebbe fare adesso? Il Parlamento ha la concreta possibilità di far slittare l’aumento automatico dell’Iva. Dopo la caduta del governo Conte, potrebbe formarsi uno elettorale, che non può essere quello attuale, e subito dopo il voto, considerato ormai “inevitabile”, e che tuttavia ha bisogno di tempi tecnici per potersi svolgere. Questa però sarebbe la soluzione più immediata ma non la migliore praticabile. Il vero problema è che bisognerebbe rivedere l’attuale legge elettorale che, di fatto, è la vera causa di tutti i mali. Se i nostri politici fossero onesti e pronti a fare il bene del Paese questo dovrebbe essere un punto non secondario, poco dibattuto, ma di fondamentale importanza per la tenuta delle istituzioni democratiche. Ricordo bene come tutti i partiti hanno, secondo la loro convenienza politica, criticato la legge elettorale denominata Rosatellum. Allora perché non abrogarla creandone una nuova, giusta, semplice, che possa dare peso al voto dei cittadini che tornino ad essere unici artefici del risultato finale? Tutti hanno gridato allo scandalo perché i parlamentari sono nominati e non eletti. E’ esattamente così! Allora perché non trasformare questo grido di accusa in atti concreti? I Cinque Stelle che tanto hanno odiato e combattuto questa legge elettorale perché non ne hanno mai proposta una nuova che mettesse al centro l’elettore? Ovviamente non quello della piattaforma Rousseau.

Nessuno ci ha nemmeno provato. Di ridiscutere seriamente l’attuale legge elettorale non si hanno tracce parlamentari. Personalmente ritengo che se passasse la riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari sarebbe pericolosissimo andare a votare con il Rosatellum (o con il Rosatellum ter) che, di fatto, consegnerebbe il Parlamento ai segretari di partito! Nessuno lo dice, come mai? Allora il tema centrale diventa un imperativo: cambiare la legge elettorale per dare la possibilità ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. E non scegliere persone designate dai partiti e calate dall’alto. E poi vinca il più votato dagli italiani. Dirò di più, io ritornerei a un proporzionale puro o aperto che, possa ridare al cittadino elettore la possibilità di scegliere e decidere il rappresentante in Parlamento e non essere obbligato a ratificare una scelta fatta da un segretario di partito.

Cari cittadini italiani come mai nessuno ha avuto il coraggio di mettere sul tavolo di discussione la riforma dell’attuale legge elettorale? Probabilmente perché a tutti sta bene che si voti con queste regole che assicurano la fedeltà dell’eletto al leader designatore per poi gridare forse allo scandalo. Poi ci chiediamo perché l’astensione dal voto aumenti e il cittadino si allontani ancora di più dalla politica attiva. Io credo che la scelta di ridurre i parlamentari aggravi la crisi attuale del Parlamento, creata anzitutto da un ruolo prevalente del Governo e largamente al di fuori della previsione della Costituzione, che gli attribuisce un ruolo centrale nel nostro sistema istituzionale di democrazia rappresentativa. La riduzione del numero di parlamentari è decisa in un quadro di mortificazione del Parlamento e di conseguenza allontanerà ancora di più rappresentanti e rappresentati. Cosa ben diversa è un nuovo progetto istituzionale con meno parlamentari che non riduca la rappresentanza del territorio. Stefano Rodotà, favorevole a una diminuzione dei parlamentari, puntava a ridare assoluta centralità al Parlamento e rimetteva il Governo al suo posto di semplice attuatore.

Pericle ci insegna che il cittadino, non solo deve esercitare la sovranità popolare partecipando alle elezioni (quali che siano le sue scelte), ma poi deve chiedere conto ai suoi “delegati” di ciò che fanno nell’interesse comune, deve far sentire la propria voce, partecipare al dibattito pubblico sulle questioni di fondo, indignarsi per le cose che non vanno, svolgere azioni concrete di controllo sul bene comune. Questa è la cittadinanza attiva che, alla fine, è il valore più rilevante di ogni altro, non solo perché è il sale della democrazia, ma anche, e soprattutto, perché è la maggior garanzia del rispetto e dell’attuazione di tutti gli altri valori costituzionali. Il distacco, l’indifferenza, non appartengono alla democrazia e non la qualificano; non valorizzano la persona e non ne esaltano la dignità. Com’era solito dirmi il mio maestro, Giuliano Vassalli, i sistemi elettorali sono infiniti e non esiste uno perfetto, dipende da chi li usa e da come li usa. Partiamo da una nozione semplicissima: in una democrazia, il sistema elettorale è il mezzo con cui i voti espressi dagli elettori si traducono in rappresentanza parlamentare. I meccanismi utilizzabili sono due: maggioritario e proporzionale.

Il nostro Paese li ha sperimentati entrambi. La domanda da porsi è: cosa si vuol prediligere con il tipo di sistema elettorale, la governabilità o la rappresentatività? Per quanto mi riguarda la soluzione ideale, sarebbe un mix tra questi due “ingredienti”. Il nodo da sciogliere resta comunque quello della scelta finale: proporzionale o maggioritario? Con entrambi, se si vuole, si può garantire sia la governabilità sia la rappresentatività. Personalmente a me piace un sistema proporzionale con soglia di sbarramento accettabile (ad esempio il 5%), con pesi e contrappesi da stabilire con particolare minuziosità.

Una legge di questo tipo, tra i suoi contrappesi, ad esempio, dovrebbe prevedere il divieto assoluto del cambio di “casacca”. Sono stato da sempre convinto che il funzionamento di un sistema politico non dipenda da una legge elettorale ma da altri fattori come la storia, la cultura, il costume e l’economia di una nazione. Sono convinto che il sistema proporzionale possa funzionare ancora perché se si volesse, si potrebbe garantire contemporaneamente sia la rappresentatività sia la governabilità. Ci sono ad esempio i collegi uninominali. Ogni partito presenta un candidato, l’elettore sceglie un candidato-partito, chi prende più voti è eletto. Sfortunatamente semplice a dirsi ma difficile a realizzarsi in una Nazione dove regnano sovrane mafie, corruzione ed evasione fiscale. Come disse qualcuno secoli orsono: “Abbiamo fatto l’Italia ora occorre fare gli italiani”. Motto, purtroppo, ancora attualissimo.

Vincenzo Musacchio è giurista e direttore scientifico della Scuola di legalità di Roma e del Molise

Socialismo o barbarie

«Socialismo o barbarie». È lapidario Ken Loach nell’esprimere la sua visione del futuro citando un leggendario slogan di Rosa Luxemburg. «Sembra un aut aut disperato, vero? Penso invece che oggi più che mai, non esista davvero un’altra via», rincara il grande regista britannico autore di pellicole indimenticabili come Land and freedom, Carla’s song e I, Daniel Blake. Abbiamo raccolto il suo messaggio che, forte e chiaro, indica nell’autodeterminazione dei popoli l’unica risposta possibile alla chiusura delle frontiere e all’avanzata del nazionalismo xenofobo.

Cosa la preoccupa di più, in questo momento?

Sono preoccupato da tutto quello che accade a casa nostra come da quello che accade nel resto del mondo. Penso a quello che accade in Siria e alle terribili sofferenze che quelle popolazioni stanno attraversando. Penso allo sciagurato intervento del governo inglese in quei territori. Penso anche alla cacciata dei palestinesi dalle loro terre da parte degli israeliani e che le sofferenze per quei popoli sembrano eterne. Sono preoccupato da Trump per esempio. E soprattutto sono preoccupato per come sia difficile distinguere tra cosa è falso e cosa è vero.

La guerra che si combatte sul fronte delle “fake notizie” sembra non avere fine.

Certo, penso alle manipolazioni della stampa inglese e alle sue bugie, alle accuse calunniose di antisemitismo che hanno colpito il Labour. Da quando Jeremy Corbyn ha ottenuto la leadership del partito grazie all’appoggio della gente e non grazie ai giochi in Parlamento, gli attacchi si susseguono senza sosta. È il classico gioco delle classi dominanti che quando si sentono minacciate nel loro esercizio del potere, cambiano le regole del gioco, spesso falsificando la realtà grazie al contributo dei media che sono nel loro libro paga, spesso ricoprendosi di ridicolo. Per esempio, se appoggi il popolo palestinese, allora non puoi che essere antisemita.

In tempi di Brexit, mentre assistiamo all’avanzata del nazionalismo xenofobo, alla chiusura delle frontiere, lei crede ancora nell’attualità dell’internazionalismo e della solidarietà?

L’internazionalismo è da sempre un fondamentale valore della sinistra. Un valore per cui ci siamo battuti in passato e per cui ci batteremo in futuro. L’internazionalismo è valido oggi e lo sarà sempre. Soprattutto oggi, in un mondo globalizzato, i problemi e i bisogni della working class sono simili. In Uk come in Spagna, come in Italia. E anche in Corea.

Perché?

Perché tutti i lavoratori si trovano e si troveranno a fare i conti con il mercato globale, la competitività globale e con lo sfruttamento globale. I movimenti nazionalisti e xenofobi che prosperano in Europa come in America e che apparentemente nascono dal basso, affermando di difendere la working class, sono palesemente al servizio della classe dominante, sfruttando il concetto del Paese dominante. Per sconfiggerli, bisogna rimettere in campo il concetto dell’autodeterminazione dei popoli. Bisogna lavorare insieme, costruire legami e obiettivi comuni che vadano oltre i confini nazionali.

Sembra che però tutto vada nella direzione opposta.

Anche se al momento sembra impossibile, si può sempre lavorare a un cambiamento possibile del sistema, a un nuovo modello economico. Abbiamo bisogno di una differente visione di Unione europea. Io credo nell’Europa dei popoli, della gente, contro questo club di grassi businessman che è invece l’Ue di Bruxelles.

In I, Daniel Blake, lei ha offerto un’indimenticabile testimonianza di come il sistema socio assistenziale britannico possa annientare la vita delle persone. Come si può uscire da questa trappola?

Possiamo pensare a un unico modello di social welfare che rispetti la dignità delle persone. Per esempio. Il sistema inglese umilia la gente, criminalizzando i loro bisogni  e le loro esigenze attraverso l’esercizio punitivo delle forme di assistenza, creando un clima di incertezza, quasi di paura. Penso si tratti di crudeltà consapevole ai danni di lavoratori e disoccupati, donne e madri soprattutto. Per cui, anche ottenere un alloggio diventa un percorso umiliante, per non parlare del lavoro e anche della stessa sussistenza quotidiana.

The Black Post: Giornalisti non per caso

Il sole tramonta dietro l’acquedotto romano vicino a via Casilina Vecchia, zona San Giovanni della Capitale. Il caldo comincia ad allentare la presa, il cielo si colora di rosso. Intorno ad un tavolo, su una terrazza di un bel palazzetto con una vista così suggestiva, oltre a noi di Left ci sono Sandro Medici e Soumaila Diawara. E poi c’è Luca De Simoni, Daouda del Burkina Faso, Nazlican, turca, Rose di origine camerunense e Sofonias dall’Etiopia.

Nomi noti, come quelli del giornalista e politico Sandro e del poeta Soumaila e altri meno. Tutti insieme formano la redazione di The Black Post – L’informazione Nero su Bianco, una novità editoriale (portale di informazione online) che parte da un’idea semplice: a parlare di migrazione devono essere gli stessi migranti.

«Sono sempre terze persone a trattare le migrazioni – racconta Luca, ideatore del progetto, studente e impegnato in un giornale online – magari giornalisti o politici di turno, ma mai i protagonisti, i migranti. Volevamo dare loro voce, creando un punto di vista e una narrazione diversi. Abbiamo cominciato a cercare ragazzi e ragazze che volessero partecipare e pian piano si è creato il gruppo».

Un’idea ge…

L’articolo di Simone Schiavetti prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2019


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Dalle resistenze alla resistenza

Per sconfiggere Salvini loro sono decisivi. Loro sono le donne e gli uomini, le esperienza di vita, lotta, società, a cui dà la parola questo numero di Left che esce in un ferragosto infuocato. Non un’idea “antipolitica”, né una scelta spiazzata dall’accelerarsi della crisi. Questo spazio era stato pensato prima che Salvini lanciasse la sua “madre di tutte le battaglie”. Ma per chi, come noi di Left, la lotta contro Salvini, la Lega e il governo giallonero non è una scelta dell’ultima ora, né tantomeno una questione solo elettorale, la coincidenza della crisi con questo dar voce a chi resiste e cerca di esistere è assolutamente politica ed aiuta ad agire nella crisi.

Anche perché molte di queste esperienze e lotte vivevano già prima che ci fosse la stretta di questi mesi. A dire che quanto di negativo e terribile è incubato nella nostra realtà politica arriva da lontano, anche da molto. Da quando la competizione ha sostituito la cooperazione aprendo la strada all’odio. Ma anche a dire che nonostante competizione e odio soffino sull’individualismo c’è invece un noi che ha continuato a vivere. E che non ha ceduto alle sirene del populismo.

Come ha fatto? Coltivando la socialità, immaginando un’alternativa di società e cercando di renderla cosa viva, pratica quotidiana. Contro le élites e contro il populismo, tra Scilla e Cariddi, in un mare che, non a caso rifiuta i porti chiusi. In questo rifiutare i porti chiusi, in questo aprire società c’è l’antidoto agli altri grandi mali della politica e cioè il settarismo e il politicismo. La sfida della alternatività come possibilità di scelta è la cura per quel furto di democrazia che subiamo da troppo tempo da elites e populisti e che ora rischia di degenerare ulteriormente.

Per noi di Left mettere in campo questa risorsa, questo noi, è fondamentale. Lo abbiamo sempre fatto col settimanale, l’online e ora anche con i laboratori politici. Non rinunciando a “leggere” la politica e avendo cara la lezione che era di Luigi Pintor col suo Servabo. Ricordarsi che essa deve vivere anche e soprattutto fuori dai palazzi. Salvini ha lanciato la sua sfida. Dopo essersi coperto dentro il governo giallonero dice di voler fare in proprio. Cosa vuol fare veramente e che cosa pensa per sé e per l’Italia?

Si può anche sospettare che preferisca sfuggire i nodi che vengono al pettine, il rapporto con la Ue, la legge di stabilità, la manovra e l’Iva, lo spread scaricando su altri i problemi e cavalcando l’onda populista oltre questi ostacoli. Attenzione però a non farsi distrarre e non cogliere il senso della sfida che sta lanciando. Anche perché l’andare oltre gli ostacoli di autunno presupporrebbe una “transizione governativa” quanto mai incerta e perigliosa.

C’erano una volta i “governi balneari” che erano di decantazione. Poi c’è stato il governo Monti ed è proprio tutta un’altra storia. Manovra economica, legge europea e dossier aperti come l’autonomia differenziata e il taglio dei parlamentari (o del Parlamento) non possono non inquietare. E c’è il Commissario europeo da indicare. Ma poi la sfida di Salvini sarebbe, è, comunque aperta. Possiamo dire, per cercare di capire, che sia una sorta di “fare come Orban e l’Ungheria”? Naturalmente situazioni diverse, Paesi con pesi diversi, addirittura con Orban che “furbamente” sta con il Ppe e Ursula Von der Leyen in Europa mentre la Lega e Salvini sono rimasti “isolati” e la presidente della Commissione europea ha rifiutato i loro voti che invece in Italia sono stati accettati per la Tav.

Come tutti i paragoni, questo suona solo indicativo. La realtà potrebbe essere anche peggiore. Il fatto è che tutte le forze politiche in Italia sono divise non solo sulla tattica ma sulla identità. Prive di una idea autonoma, molte oscillano tra elitismo e populismo. Questo rende la situazione particolarmente pericolosa. La stessa Lega, che tenta, ed è tentata, l’affondo è quella che vuole un Nord integrato nel traino tedesco o quella del partito della Nazione trumpiano che litiga con Bruxelles?

Il Pd, cosa può fare di se stesso oltre ad esser diviso tra “zingarettiani” e “renziani”, e dopo che le due idee prevalenti “usate” nel post Pci, e cioè partito della nazione e partito dei cittadini, si sono esternalizzate nella Lega e nei Cinquestelle lasciando in sostanza un “partito del governo” (più che “di governo)? E i Cinquestelle, che hanno votato per Ursula Von der Leyen come un “partito macroniano” qualsiasi, pensano di salvarsi rispolverando il populismo? E queste forze politiche possono combinarsi diversamente tra loro in modi che aiutino e non danneggino ulteriormente? In questa situazione delle forze politiche le “istituzioni”, ormai italiane ed europee stanno tra la Costituzione (meno male che resiste) e il “governo europeo” (assai più problematico). Vedremo cosa accadrà.

Di certo chi vuole sconfiggere Salvini, e noi siamo da sempre e in prima fila, sa che per farlo la cosa fondamentale è essere l’opposto di lui. Ed esserlo non solo a parole ma nei fatti, nella vita reale. E di questa vita reale, di queste resistenze che fanno una resistenza, parla questo numero.

L’editoriale di Roberto Musacchio è tratto da Left in edicola dal 17 agosto 2019


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C’è un tempo per lavorare e un tempo per vivere

Pepe Mujica, come vede lo stato di salute della “società del benessere”?

Siamo in un vortice. L’innovazione tecnologica sempre più veloce spinge sul pedale della produttività e cambia le forme di lavoro. E va di pari passo con una impressionante tendenza alla concentrazione della ricchezza. L’economia cresce ovunque, con enormi contraddizioni ma cresce. A livello globale la ricchezza aumenta ma è sempre più concentrata nelle mani di pochi, in primis nelle società più sviluppate. Ed è enorme la distanza tra chi è al vertice di questa piramide e il resto della società. Tutto ciò genera una sensazione di insicurezza e di frustrazione in ampi settori anche delle classi medie, non solo in quelle più umili. Questa incertezza è alla base del rigurgito di nazionalismi a cui stiamo assistendo. Avanza la destra che a sua volta alimenta la paura. Basta pensare a coloro che hanno votato Donald Trump.

Nei Paesi avanzati ormai c’è uno smantellamento sistematico delle politiche sociali.

Tutto ciò che è indispensabile per garantire equità e benessere diffuso è sotto attacco, per non dire della tendenza che notiamo ovunque a riformare il diritto del (e al) lavoro. Cercando di renderlo sempre più flessibile e meno tutelato, togliendo ogni sicurezza alle persone.

E poi c’è il marketing.

Un’arma formidabile per far aumentare nelle grandi masse la sete di consumo di novità. Uno strumento che confonde e ci fa illudere che la realizzazione di un’identità umana consista nel comprare cose nuove. Questo modello ormai è diffuso dappertutto. Con il risultato di un colossale indebitamento della gente comune che si trova a vivere alla continua ricerca di soluzioni economiche per far fronte alle rate. Anche questo produce disagio sociale. Togliendo peraltro tempo per gli affetti, per le relazioni personali, per i figli.

Come si può realizzare un nuovo modello di “benessere”?

Penso che confondere le persone facendo credere che la crescita economica sia automaticamente garanzia di benessere per tutti sia estremamente fuorviante e pericoloso. È necessario iniziare almeno a prendere in considerazione come la gente si sente. Bisogna cominciare, a livello politico, a considerare se i cittadini abbiano tutti gli strumenti a disposizione per realizzarsi come persone e non solo come consumatori.

La chiamavano il “presidente contadino”, non sta per caso facendo apologia della povertà?

Non si tratta certo di fare apologia della povertà, né di tornare all’antico. Si tratta di capire che ciò che si sta sprecando non sono solo energia e mezzi materiali, ma tempo di vita e questo tempo non lascia spazio per la soddisfazione delle esigenze più personali, intime, degli esseri umani. Avere cioè tempo da dedicare alle relazioni personali (magari non invitando la fidanzata a passare il sabato pomeriggio in un centro commerciale), nelle relazioni con i figli, con gli amici, con la ricerca e l’approfondimento di interessi in ambito culturale. Indubbiamente bisogna lavorare per vivere. Chi non lavora vive a carico di qualcun altro che lavora. Ma la nostra identità non è solo quella che ci dà il lavoro. Deve esistere un tempo per lavorare e un tempo per vivere e realizzarci a pieno come persone.

È un problema che si sta verificando a qualsiasi latitudine.

Avendo molti soldi a disposizione si possono comperare molte cose. Ma non si può compare il tempo della vita, dei rapporti, quello che si passa alla ricerca della soddisfazione di esigenze che definiscono l’identità di ciascuno di noi. E la “vita” vera ci sfugge tra le mani. Allora in questo senso va fatta una battaglia culturale.

Non è troppo tardi?

Credo che la mia generazione abbia commesso l’errore di non rendersi conto che per cambiare una società non basta occuparsi di produzione e redistribuzione della ricchezza o dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Non si può non notare che in Paesi molto sviluppati a livello tecnologico, come per esempio il Giappone, ci sono ragazzi che si suicidano per non aver passato un esame a scuola. È purtroppo molto frequente. Il punto è che una società altamente competitiva pone delle sfide che finiscono per essere umanamente insostenibili per degli adolescenti e questa cosa è inaccettabile e da sovvertire. Occorre fare in fretta un salto di paradigma culturale.