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I conti di Conte

Italian Prime Minister Giuseppe Conte (R) is flanked by Deputy Prime Minister and Interior Minister Matteo Salvini (L) as he addresses to the Senate about the government crisis, in Rome, Italy, 20 August 2019. ANSA/ ETTORE FERRARI

Piccolo promemoria per tutti quelli che in questi mesi hanno contestato gli appuntamenti del buongiorno: ieri Giuseppe Conte ha stilato un lungo sommario di tutte le critiche che da più parti si scrivevano contro il ministro dell’interno (anzi, ex, che peccato) Matteo Salvini.

Si era detto fin dall’inizio che questa crisi era solo un lurido giochetto per provare a capitalizzare i consensi che stavano fuori dal Parlamento (che poi bisogna vedere quanto i sondaggi alla fine si trasformino in voti) dimenticando completamente il ruolo del Parlamento e di una democrazia parlamentare com’è quella italiana. Salvini voleva una crisi sognando che le istituzioni siano semplici come una diretta Facebook. E si sbagliava. E ora anche Conte lo riconosce.

Si diceva che Salvini non ha nessuna cultura delle regole e soprattutto nessun rispetto per i meccanismi istituzionali, impegnato sempre a spremere la sua posizione per mietere consenso, concentrato nel fare propaganda piuttosto che fare il ministro. Lo scrivevamo in molti. Dicevano che no, che non era vero. Ora invece è vero. L’ha detto anche Conte.

Scrivevamo che Salvini ha un populismo pericoloso che richiama la politica di piazza e certi modi di periodi bui e ci dicevano che esageravamo. Anzi: dicevano che ce l’avevamo con Salvini e scrivevamo sempre e solo di lui. Ora anche Conte ce l’ha con lui e ripete esattamente gli stessi concetti. Perfetto.

Abbiamo scritto che l’obbligo di Salvini è quello di spiegare al Parlamento la vicenda russa senza permettersi di sbolognarla come chiacchiericcio giornalistico. Ci hanno detto in molti che no, che non era vero, che il Capitano non doveva inseguire le tesi dei giornali. E invece Conte l’ha ribadito. Alla buon’ora.

Abbiamo anche scritto che Salvini sembra un patetico Esorciccio quando impugna i rosari e i vangeli brandendoli come manganelli contro gli avversari politici. Sembrava che avessimo scritto un’eresia. L’ha detto ieri anche Conte.

Ora sorge una domanda spontanea: quindi davvero non eravamo visionari? Quindi davvero in fondo solo i tifosi di Salvini sono rimasti a non vedere ciò che è sotto agli occhi di tutti? Benissimo. Bene Conte. Però quattordici mesi per accorgersene non è certo un lampo di genio. No.

Buon mercoledì.

Unidas Podemos lancia proposte a Sánchez per riaprire il dialogo. Con una piattaforma sui diritti

epa07740194 A composite picture shows Spanish acting Prime Minister Pedro Sanchez (L) and leader of Spanish left coalition Unidas Podemos' Pablo Iglesias (R) attend the second and last investiture vote at Lower Chamber of Spanish Parliament in Madrid, Spain, 25 July 2019. Sanchez lost a vote of confidence in parliament by 155 votes against his reelection, 67 abstentions and 124 votes in favor, making it not sufficient to form a new coalition government. EPA/BALLESTEROS/EMILIO NARANJO

Unidas Podemos propone, ma è il Psoe che dispone. È appena passato ferragosto e Pedro Sánchez, presidente del consiglio in attesa di governo, è in vacanza a Doñana, nel sud della Spagna. Unidas Podemos si riunisce, discute e invia al Psoe una nuova proposta per riprendere i negoziati per un governo di coalizione. Un documento di 110 pagine, con 4 diverse proposte organizzative di ministeri e vicepresidenze possibili. Titolo e sottotitolo: “Proposte per riprendere il dialogo. Per un accordo globale per il governo di coalizione”.
I negoziati si erano conclusi a luglio, senza accordo e senza investitura per il candidato socialista Sánchez, che ora ha tempo fino al 23 settembre per uscire dallo stallo, per cercare e raccogliere sostegno, per evitare la convocazione di nuove elezioni anticipate.

Il documento inviato da Pablo Iglesias & C. prende l’iniziativa e non accetta il continuo rinvio del dialogo: «Per formare il più presto possibile un governo di coalizione, come già esiste in molti altri Paesi europei e nel nostro paese a livello comunale e regionale». Il testo è un po’ prolisso e include anche una serie di proposte programmatiche, copiate e incollate dalla seconda versione del documento España Avanza, redatto dal Psoe lo scorso luglio, e dall’accordo di bilancio per il 2019 già concordato lo scorso autunno da Unidas Podemos e Psoe.

Tra le proposte del documento dei podemisti è previsto, a fine legislatura, l’innalzamento del salario minimo inter professionale a 1.200 euro; l’aggiornamento per legge delle pensioni all’indice dei prezzi al consumo e l’abrogazione della riforma del lavoro del 2012; la richiesta di universalizzare la rete pubblica delle scuole da 0 a 3 anni in modo che qualsiasi famiglia vi possa accedere; definire congedi di paternità e maternità uguali e non trasferibili; garantire servizi pubblici e un’adeguata connettività ovunque nel Paese; la fine delle porte girevoli, meccanismo che permette ai politici di riciclarsi nelle aziende private, e la creazione di un’unità di polizia specializzata nella corruzione istituzionale; stabilire affitti più bassi e calmierati per evitare speculazioni e garantire il diritto all’alloggio; fissare un tasso minimo effettivo del 15% per le banche, in modo che il salvataggio bancario venga progressivamente restituito alle casse dello Stato; proposte di obiettivi ambiziosi per ridurre le emissioni di CO2; promuovere una legge sui cambiamenti climatici temeraria, che preveda una riforma del mercato elettrico per favorire le energie rinnovabili e ridurre la bolletta dell’elettricità.

E più avanti si legge: «Questo governo di coalizione può diventare un riferimento in tutta Europa che dimostra che un’uscita sociale e democratica dalla crisi economica è possibile. Intendiamo lavorare sodo per costruire una nuova Europa che metta al centro le persone e i loro diritti».

Il Psoe prende tempo, è contrariato per aver ricevuto il documento in contemporanea con i mezzi di comunicazione e non prima in esclusiva, impiega qualche ora per leggerlo e risponde: è impossibile. Apprezzano la proposta, «nel programmatico, ci è molto vicina», ma sottolineano che la loro posizione su un possibile governo di coalizione non è cambiata. Il documento di risposta della leadership socialista ricorda che molte delle misure incluse già hanno “fatto parte del discorso di investitura del candidato premier” lo scorso luglio, ma si evidenziano le «importanti differenze nelle questioni statali», ossia le discordanze sulla soluzione della questione catalana.

Non piace l’idea di Unidas Podemos di creare un tavolo dei partiti sulla Catalogna, parallelo alle istituzioni, per incentivare una soluzione politica e non giuridica della crisi territoriale. “La proposta del Psoe è nota: dialogo all’interno della legge, rispetto della Costituzione e rafforzamento dello Stato autonomo”, si legge nel comunicato socialista. «Speriamo che si possa raggiungere un ampio accordo per sbloccare la situazione politica e che presto la Spagna abbia il governo che gli spagnoli hanno votato in maggioranza: un governo progressista, femminista, ambientalista ed europeista guidato dal Psoe», conclude la formazione guidata da Pedro Sánchez, che invita Unidas Podemos a «lavorare in quella direzione».

Lo stallo continua, i socialisti, per ora, finiscono le vacanze e restano rintanati nella loro idea di governo monocolore o, alla peggio, di elezioni, lasciando nell’incertezza e nella delusione milioni di persone che avevano votato per un governo progressista che delineasse un paese diverso.

Siamo ancora tra Scilla e Cariddi

La cosa peggiore è l’uso veramente improprio della religione in un’aula istituzionale. La cosa positiva è che con le dimissioni del governo, Salvini non è più ministro. Ma la cosa che rincuora di più è che le donne e gli uomini a bordo della Open Arms finalmente potranno scendere, grazie però ad un magistrato.

Il resto è un dibattito in cui si evidenziano le due caratteristiche di questa epoca. Da un lato ciò che rappresenta l’ancoraggio vero di parte dell’attuale classe politica, e cioè quello alla governance europea, più volte richiamato da Conte e ben presente a tutti. Dietro la formula del «governo Ursula», riferita alla Presidente della Commissione su cui si è consumata la differenza (tattica?) tra la Lega e gli altri, e dietro le urgenze e le emergenze di indicare il Commissario e affrontare gli obblighi economici, ci sta questo ancoraggio. Dall’altro la intrinseca debolezza, e pericolosità, di quella che è stata chiamata Seconda repubblica. Doveva dare stabilità e invece crea rischi continui. Doveva superare la “partitocrazia” e invece ha creato leaderismi, populismi, rischi di degenerazioni autoritarie. Ecco che la “soluzione” della crisi sta tra quanto “tiene” dell’assetto costituzionale e istituzionale, l’ancoraggio europeo e le “dinamiche” della Seconda repubblica.

Conte si è avvalso molto del retaggio “antico” e ha addebitato tante colpe a Salvini, a partire dalla crisi. Poi è stato molto continuista, anche sul peggio di quanto fatto. E ha taciuto (tornandoci però nella replica per difendere la sostanza del suo operato) sui migranti, vittime del governo gialloverde. Salvini ha rivendicato tutto e ha fatto un discorso fortemente elettorale. Zingaretti ha chiesto discontinuità contestando tutto il governo gialloverde ma non offrendo discontinuità su quanto fatto dal Pd con i suoi governi.

In questo quadro, tra Scilla e Cariddi, tra l’ancoraggio all’Europa e le perversioni della seconda repubblica, tutto può ancora accadere. Ma se vogliamo almeno provare ad andare oltre Scilla e Cariddi, bisognerà mettere mano ad entrambi i corni della questione. La maggioranza di Ursula può (per ora) tenere a bada le destre peggiori. Ma la recessione che arriva addirittura dalla Germania ci dice che ci vuole ben altro. Ciò che resta dell’assetto parlamentare aiuta a frenare chi vuole tutto il potere. Ma se non si mette mano al disastro del maggioritario ricostruendo il proporzionale prima o poi sarà troppo tardi.

Eccoli, gli scafisti (radical chic)

Un fermo immagine tratto da un video della polizia di ragusa mostra un momento dell'operazione anti caporalato svolta nelle campagne ragusane che ha prtato al fermo di alcuni sfruttatori di manodopera a Ragusa, 6 giugno 2018. ANSA/POLIZIA EDITORIAL USE ONLY

Volete sapere chi sono quelli che lucrano sull’immigrazione e che guadagnano con gli stranieri? Semplice. Semplicissimo.

Casamassima, ad esempio, paese in provincia di Bari: Domenico De Frenza sfruttava un pastore bengalese (senza permesso di soggiorno e quindi invisibile, senza diritti) facendolo lavorare 11 ore al giorno con la sontuosa paga di 1,80 euro all’ora. Un euro e ottanta centesimi ogni ora. Nessun risposo, niente ferie, nessuna assistenza medica. Niente di niente. Abitava in un container costruito assemblando le cabine di un camion, la cucina era costituita da un fornello con una bombola di gas, per i servizi igienici si serviva di un pozzo, quello usato dagli animali per abbeverarsi. Aveva provato a ribellarsi, il bengalese, ma essendo invisibile ha dovuto sottostare ai voleri del suo padrone pur di spedire un po’ di soldi a casa alla moglie e ai figli. Eccolo, lo scafista.

Oppure potete andare nelle campagne di Latina, di Fondi, di Terracina dove i Sikh da anni sono forza lavoro da stremare e sottopagare con l’accondiscendente di tutta la filiera alimentare.

Oppure potete andare nelle fabbriche venete, dove gli scafisti votano Lega.

Oppure potete fare un salto nelle imprese edili in Lombardia, dove se scomparissero tutti gli stranieri non sarebbero nemmeno capaci di tirare su una cuccia per cani.

Oppure potreste chiedere a un ministro dell’Interno che senza stranieri sarebbe ancora a fare l’anonimo (ma ultrapagato) parlamentare europeo. Non so se ve lo ricordate: è quello che critica i radical chic e intanto passeggia nella sontuosa villa del suocero Denis Verdini.

Oppure potreste chiedere al sindaco di Gallarate, che si è inventato un reato di un tunisino contro un italiano e invece era il contrario. E gli sono rimaste in bocca le scuse e le parole.

Se ci pensate bene sono tutti dei privilegiati, mica dei disperati, dei perfetti radical chic.

Per esistere hanno bisogno delle stesse persone che a parole condannano. Altrimenti sarebbero niente. Niente di niente. E se quelli diventassero persone normali, i clandestini come li chiamano loro, improvvisamente toccherebbe dargli diritti. E questi non esisterebbero più.

Buon martedì.

Legge elettorale e taglio dei parlamentari: attenzione ai ciarlatani di governo

Un momento del voto sul disegno di legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, Roma 7 febbraio 2019. ANSA/GIUSEPPE LAMI

È possibile, in questo momento storico, opporsi ad un governo – qualsiasi esso sia – che abbia lo scopo di tagliare il numero dei parlamentari? L’argomento è indubbiamente spinoso.
Il “gentismo di governo” ha anestetizzato ogni capacità critica: rassegnati ad essere “plebe” per tutta la vita – ché nessuno più le include in un discorso di “direzione dello stato” – le masse popolari hanno convertito l’odio di classe in un sentimento di invidia per l’élite governante. Non potendo farne parte, si consolano pensando che, in futuro, sempre più persone condivideranno la loro condizione di esclusi.

Non può che essere questo, e non altro, il motivo che ancora oggi spinge milioni di italiani ad applaudire a quanti loro promettano di ridurre le loro chances di poter, un giorno, “dirigere lo Stato”: se qualcuno crede ancora alla favoletta dei risparmi, infatti, forse merita davvero di rimanere plebe (e su questo anche Marx avrebbe avuto poco da dire).

Ohibò, ma che sinistra è questa che “insulta” il popolo “sovrano”? Non sia mai, per carità, ma dopo questa tragicomica esperienza di governo e ancor più grottesca crisi, consentiteci almeno di sorridere un po’ di chi ancora crede ai ciarlatani, gialli o verdi che siano (su quelli tricolore del passato, poi, sorvoliamo).

E consentiteci, altresì, di sparger qualche lacrima anche per noi stessi, che dovremmo occuparci di come superare la democrazia liberale (e borghese) e invece ci tocca, contro i nostri stessi interessi, di difenderne i principi nell’interesse di tutti, lasciando il socialismo (e, per i romantici, la rivoluzione) a ben oltre che dopodomani.

Cionondimeno, passate le risa, è tradizione di ogni Paese sano nel quale approdi il ciarlatano di turno a mostrar la miracolosa mercanzia che, ad un certo momento, qualcuno di quelli che osservavano la scena si alzi per scacciarlo a suon di pedate, giusto in tempo perché la fila dei gonzi non riempia tutta la piazza.
Per tirare pedate non serve né la laurea, né altro attestato di merito: basta saper come, e soprattutto dove, colpire.

Orbene, contro il governo che verrà e nell’interesse di quelle masse popolari a cui oggi facciamo ribrezzo, vorrei sommariamente indicare un paio di temi ai quali richiamarsi per fare appello a quanti non siano ammaliati – non ancora o non più – dai ciarlatani di governo: un appello non a questa o quella forza politica del nascente governo morente dei non salviniani, ma alla mobilitazione di tutti coloro i quali non si arrendono allo stantìo gioco dell’alternanza senza alternativa.

In questo scritto voglio concentrarmi esclusivamente sulla questione democratica, rinviando ad altro momento le altre questioni, a partire da quella sociale.
Parto da due argomenti scottanti: la legge elettorale e, appunto, la riduzione del numero dei parlamentari.

Esiste un ottimo argomento per sostenere, nelle piazze, l’approvazione di una legge elettorale proporzionale pura, lo stesso che usano gli ultras del maggioritario per mettere all’angolo i proporzionalisti quando questi ultimi chiedono il ritorno al proporzionale “per tutelare le minoranze”: la legge proporzionale è, in verità, la più maggioritaria delle leggi.

Se c’è una maggioranza tra gli elettori, infatti, la legge proporzionale la riporta pari pari nel Parlamento (purché sia pura, senza premi di maggioranza, sbarramenti o altre storture).
Secondo un ragionamento di classe, che dovrebbe essere il nostro faro (o almeno per me lo è), non c’è legge elettorale migliore del proporzionale, proprio perché di suo non tutela le minoranze: quelle sociali, ovviamente, ovverosia banchieri, finanzieri, dirigenti d’azienda, ereditieri. Queste minoranze, più rimangono tali e meglio è.
Si dirà: ma i partiti politici non rappresentano più le classi (o le alleanze di classi): giusto.

E infatti il problema non è l’assenza della legge proporzionale, ma esattamente quella di un partito della classe maggioritaria, cioè di chi deve lavorare per vivere: non ho dubbio alcuno sul fatto che se siffatto partito esistesse e fosse dato in ascesa nei sondaggi, alcuna legge elettorale maggioritaria o premio di maggioranza esisterebbe nel nostro Paese.

Tutto il resto è un corollario: dalla tutela delle minoranze – ché, fosse per noi, banchieri, finanzieri, ereditieri e dirigenti d’azienda li vorremmo quanto prima nella nostra “maggioranza” di salariati – al rischio dei “pieni poteri” a Salvini (ma qualcuno crede davvero che nell’Italia di oggi ciò sarebbe consentito a un emissario di Putin? Dentro la Ue? Dentro la Nato?).

Quindi, la riduzione dei parlamentari.
In primo luogo, alla ferrea legge del numero assoluto che i pentastellati ed altri novelli oligarchi ostentano, secondo la quale l’Italia è seconda in Europa per numero di parlamentari (dopo il Regno Unito), si potrebbe opporre l’altrettanto ferrea legge del numero relativo, da cui emerge che l’Italia è al sest’ultimo posto in Europa nel rapporto tra numero dei parlamentari e numero di abitanti – solo 1.6 ogni centomila abitanti, praticamente al livello della “democraticissima” Polonia e al di sotto dei 2 del Belgio, del Regno Unito che ne possiede 2.2 come il Portogallo, di Repubblica Ceca e Grecia (2.7), dell’Austria (2.9), di Svezia, Finlandia e Ungheria (3.7), dell’Irlanda (4.9), senza citare le inarrivabili Slovenia (6.3), Cipro (6.5), Estonia (7.6) Lussemburgo (11.2) e Malta (16.4).

In secondo luogo, opporre al taglio dei parlamentari il taglio dei loro stipendi e di altri emolumenti: anziché eliminare un terzo dei parlamentari, perché non abrogare l’ignobile legge del 1965 (governo di centrosinistra, Moro – Nenni) che aggancia lo stipendio a quello dei presidenti di sezione della Cassazione?

Nella gara di chi la spara più grossa, si potrebbe pure sfidare gli sforbiciatori a ritornare all’austerità dei costituenti, i quali non guadagnavano più di tre volte un operaio di terzo livello: per i candidati di quel partito operaio di cui parlavamo in premessa sarebbe solo guadagno. Al contrario, dal divano di casa, avrebbe voglia qualcuno ad invidiare chi lascerebbe la famiglia per tutta la settimana per guadagnare, stringi stringi, poco più di quello che già aveva, ma con in più tutte le rotture connesse all’incarico pubblico (a cui, da oggi, bisogna aggiungere il rischio del ferragosto in Transatlantico, anziché sul transatlantico).

Certo, potrebbe accadere che la politica andrebbe a farla solo chi se la può permettere, cioè quelle minoranze che potrebbero vivere senza lavorare: questa situazione imporrebbe, dunque, di riaprire il ragionamento sul finanziamento pubblico ai partiti e…
Ma meglio affrontare questo e altri spinosi temi la prossima volta, ché in troppi han già bevuto la pozione del ciarlatano intanto che noi eravamo al bar a farci beffe di lui.

Alessandro Tedde (Sassari, 1988), avvocato e giurista con una laurea in diritto costituzionale e un post-laurea in Studi e ricerche parlamentari a Firenze, è fondatore e presidente di Sinistra XXI, think tank per il quale coordina il progetto di ricerca “Democracy as self-government”, con il sostegno di Transform!Europe.

“È la rivoluzione dei nostri tempi”: la sfida pacifica dei ragazzi di Hong Kong

Undicesimo week end di proteste a Honk Kong. Tra sabato 17 e domenica 18 agosto circa 2 milioni di persone hanno manifestato al Victoria Park. Sulle ragioni e le modalità della protesta, ecco le voci dal vivo dei giovani dell’ex colonia britannica.

Martedì 13 agosto 2019, aeroporto internazionale di Hong Kong, ore 17.30, (ora locale)

All’arrivo un avviso sul pannello elettronico, al ritiro bagagli avverte: “Tutti i voli sono cancellati, i passeggeri sono pregati di allontanarsi dall’aeroporto, il prima possibile”. Poche centinaia di metri più avanti, lo sguardo si apre oltre le porte che si spalancano nella hall, immensa: due lunghe ali di folla accolgono i viaggiatori. I manifestanti sono assiepati a centinaia, espongono cartelli e porgono volantini, mostrano foto, fogli e cartoni con frasi in inglese e in cinese. Gridano slogan.

L’effetto sonoro è formidabile. È un’eco di voci che a tratti esplode e poi sotterranea, pervade discendente lo spazio gigantesco dell’aeroporto, un ventre torrido di vetro e metallo. Pensiline sovrapposte, corridoi trasversali, che collegano i diversi piani, scale mobili: ogni margine visibile è tutto un corteo di voci e di corpi che si muovono. Sono ragazzi e ragazze, tantissimi. Sono quelli che le tv internazionali mostrano da giorni, nelle edizioni asiatiche, inquadrandone le avanguardie più agguerrite che fronteggiano la polizia in assetto anti sommossa.

Molte ragazze hanno sull’occhio destro pezzi di carta disegnati con una ferita sanguinante. Il riferimento è all’episodio di una loro coetanea ferita gravemente all’occhio da un proiettile di gomma delle forze speciali, qualche giorno prima. Anche un grande cartellone pubblicitario elettronico di una marca fashion, sul quale lei e lui, giovani e bellissimi, si preparano ad affrontare una giornata “felice”, ironia della sorte, è stato modificato da un disegno sull’occhio destro di lei, chiuso da un cerotto insanguinato a forma di ics.

I manifestanti sono ragazzini, tantissimi, e pacifici. In molti si avvicinano per chiedere scusa del disagio ai passeggeri rimasti a terra. Si inchinano con una mano sul petto. Regalano acqua, snack e biscotti al cioccolato. Da lunedì 12 agosto lo “strike” generale proclamato alla vigilia del fine settimana li ha radunati all’aeroporto di Hong Kong, che per il secondo giorno consecutivo ha deciso di chiudere e cancellare tutti i voli, per motivi di sicurezza. A partire dalle ore 16. I manifestanti hanno bloccato l’ingresso ai “security checks”. Dicono. In realtà dal lato inaccessibile del grande hub intercontinentale, gli aerei decollano, ma con a bordo i passeggeri rimasti a terra il giorno prima.

È l’undicesima settimana di rivolta e scontri per Hong Kong. Sono in diverse migliaia a partecipare al sit-in di protesta all’aeroporto, visti dall’alto sembrano formiche. Si muovono di continuo. Segnano con la loro fisicità lo spazio bianco, tutto intorno. Cappelli e mascherina, nera per lo più, sono eleganti e inquietanti al tempo stesso. Alcuni sono incappucciati, altri indossano il casco giallo, sul quale c’è scritto: è per la nostra protezione. È un mondo umano particolare, quello che si osserva: coppie di ragazzi, lui e lei, mano nella mano, con i cartelli contro la brutalità della polizia, adulti solitari, una donna che piange e scivola via, un padre con una bambina piccola sopra un carrello, distribuisce triangoli di riso avvolti nelle alghe, che prende da una busta della spesa.

C’è chi distribuisce mele, bottiglie d’acqua. Giovanissimi in camicia bianca e cravatte nere, scarpe all’inglese, passano chiacchierando fittamente. Ragazze esili come foglie chiedono di prendere i loro volantini. È l’occasione per mostrare al mondo la loro realtà: “Dateci una possibilità” è scritto sopra un cartello, “ascoltateci”, gridano dietro a un blocco formato da carrelli per i bagagli posti di traverso. “Free Hong Hong”, risalgono forti gli slogan dal fondo della hall. Stanno facendo la storia, inconsapevoli, forse. “C’è bisogno di spiegare perché?”, dice una ragazza, alludendo all’episodio della dimostrante ferita all’occhio, da cui ha perso la vista. Intanto chiama per noi la compagnia aerea che sembra non offrire soluzioni al volo “sparito”.

I motivi della rivolta sono fondamentalmente due, spiega porgendo una bottiglia d’acqua il suo compagno, mascherina nera e sguardo come un taglio: “La legge sull’estradizione e poi le violenze della polizia, è contro tutto questo che lottiamo”. Hong Kong parrebbe un luogo privilegiato, rispetto alla Cina continentale, sotto diversi aspetti anche sul piano delle libertà individuali. Il problema richiederebbe un discorso lungo e approfondito, ammette, prima di sparire, in un lampo, insieme ai suoi compagni. Non è facile comprendere. È un fatto che questi ragazzi si sentono oppressi.

Appesa ad un reggi mano in alluminio di una scala, una fotocopia mostra immagini della repressione di piazza Tienanmen nel 1989 e quelle di questi giorni a Hong Kong: oggi come allora, trenta anni dopo, recita. Su un altro cartello, un manifestante ha scritto: “Noi non siamo cinesi, siamo Hongkongers”. Applausi. Slogan che montano con un clamore spaventoso e un effetto emotivo notevole. All’ingresso della metro sono accalcati a centinaia. Nelle viscere dell’aeroporto, dove la massa precipita nel sottosuolo, la strettoia si chiude in un ondeggiare di corpi, flash e grida. A impressionare è la compostezza in cui comunque tutto si svolge. “Non riprendere i volti, per favore”, qualcuno batte sulla spalla.

Cellulari, macchine fotografiche e telecamere illuminano l’avanguardia che si sposta con uno strano movimento circolare, come una perturbazione meteo: procede intorno ad un nucleo sul quale dall’alto puntano gli obiettivi della stampa internazionale e degli stessi dimostranti. Poi tutto sembra fermarsi per ripartire in un altro luogo, non lontano, in un conflitto dai mille volti che si consuma per segmenti, con improvvise accelerazioni e lunghe pause. Decine di piccole iniziative, persino con carrelli rovesciati a creare mini barricate.

Ma all’ora di cena, anche la rivoluzione fa una pausa. I ragazzi si fermano per mangiare. Stanchi e sudati. Pure al Mc Donald, al piano di sopra, la coda è già lunga. Una camionetta blindata della polizia è ferma nelle immediate vicinanze di un ingresso, all’esterno, spenta e buia. Per le autorità i manifestanti sono protagonisti di gravi crimini, attuati con turpe, orribile violenza. Terrorismo è l’accusa. Da giorni la Cina raduna blindati e mezzi di trasporto truppe al confine di Shenzhen, praticamente a una manciata di chilometri da qui. La pressione è alle stelle. Intanto dopo una notte di tuoni e pioggia, un’altra luna è sorta, pallida, su Hong Kong.

(Le foto sono di Giovanni Senatore)

 

Hong Kong, 14 agosto 2019

Dopo due giorni di proteste di massa, l’aeroporto internazionale di Hong Kong, ha ripreso il suo regolare funzionamento anche per la stretta dei controlli operata dalle forze dell’ordine, in particolare sui documenti d’identità agli ingressi della metro. Già nella serata del 14 nuovi scontri e violenze si sono verificati in un’altra zona di Hong Kong, che conta 7.5 milioni di residenti. I manifestanti indicano in 5 punti i termini minimi per porre fine alla protesta. “5 demands, not one less”, spiegano, cinque richieste, non una di meno: ritiro completo del disegno di legge sull’estradizione, totale cessazione dell’assetto anti sommossa, liberazione incondizionata di tutti i manifestanti arrestati (fonti della protesta indicano questo numero in 600 persone, di età compresa tra i 14 e i 76 anni), istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sui comportamenti della polizia, suffragio universale. “Liberate Hong Kong. Revolution of our time”, “Liberare Hong Kong” scrivono in un volantino i manifestanti, “è la rivoluzione dei nostri tempi”.

Sulla rivolta di Hong Kong, leggi anche l’articolo di Alessandra Colarizi su Left del 9 agosto 2019


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La parola di d’io

Senza saperlo don Donato Piacentini è l’esempio perfetto del sovranista dei nostri tempi che finge di occuparsi dei poveri nostri per reclamare il diritto di non occuparsi degli altri. Nel suo caso esiste anche l’aggravante del ruolo religioso (che smentisce in toto le sue affermazioni proprio nei principi generali) ma se fosse stato un metalmeccanico, un ingegnere, un cameriere o un ministro dell’interno non sarebbe cambiato molto.

«Vanno a soccorrere persone che hanno telefonini o catenine al collo e  che dicono di venire dalle persecuzioni. Ma quali persecuzioni? Guardiamoci intorno, guardiamo la nostra città, la nostra patria. Guardiamo le persone accanto, che hanno bisogno e quante ne  conosco io, sono tante, tantissime, una marea che si vergognano del loro stato di vita», ha urlacciato don Donato durante la sua predica a Sora durante la celebrazione della festa di San Rocco. E qui esce subito la prima caratteristica del sovranista razzista: per loro la realtà del mondo è valutabile semplicemente dal proprio ristretto sguardo provinciale. È vero ciò che loro credono vero. I fatti non contano. Le sensazioni sono fatti. Sono miopi e strabici per vedere solo quello che confermano le loro tesi. In nome di d’io.

Poi c’è il loro proverbiale coraggio. È stato sconfessato dal suo vescovo che in un comunicato ufficiale parla di “discutibili scelte personali” ricordando quanto invece sottolineato dallo stesso vescovo nella sua omelia per la festa di San Rocco, ovvero che “uno dei cardini fondamentali” del Vangelo ”è la scelta ‘prima gli altri’” ribadendo dunque l’impegno per l’accoglienza dei migranti. È stato sconfessato da una valanga di commenti (giustamente) indignati. E cosa ha fatto don Donato? Ha detto di essere stato frainteso, ovviamente. «Tutto è stato ampliato e trasformato. Se necessario sono pronte le scuse senza che si arrivi ad una strumentalizzazione in qualsiasi campo che non era nelle intenzioni», ha scritto il prete, dimenticando che l’unica cosa ampia di questa storia è l’empietà delle sue parole.

Ovviamente ha negato e ovviamente mente, il caro parroco. Il suo profilo Facebook è pieno di post a sostegno delle politiche disumane del ministro dell’interno. Ma ovviamente non ha il coraggio di dichiararlo. Perché i razzisti sono così: fondamentalmente vigliacchi e consapevoli che le loro affermazioni sono contrarie alla legge. Per questo si sono inventati il buonsenso per nascondersi. Ma appena li beccano poi, sempre, iniziano a frignare.

Vada in pace, don Donato.

Buon lunedì.

Sànchez: «La Spagna pronta ad accogliere i migranti a bordo di Open Arms»

Alcuni migranti si gettano in mare dalla Open Arms sperando di poter raggiungere a nuoto le coste di Lampedusa, perché anche la disperazione ha un limite. Vengono ripescati e riportati a bordo quando arriva la notizia che il governo spagnolo di Pedro Sánchez, seppur con colpevole ritardo, decide di abilitare il porto di Algeciras, nello stretto di Gibilterra, per far sbarcare gli ultimi 105 migranti rimasti sequestrati sulla nave che batte bandiera spagnola, dopo il rifiuto di Matteo Salvini a farli scendere.

Il governo spagnolo ha scelto il porto andaluso perché considerato il più preparato per l’operazione. Ad Algeciras è in funzione da un anno un Centro di assistenza temporanea per stranieri (Cate), con la capacità di accogliere, per essere identificati e poi indirizzati alla rete di accoglienza, circa 600 migranti. Sembrerebbe tutto perfetto se non fosse che proprio a luglio scorso la Caravana Abriendo Fronteras, composta da una rete di associazioni spagnole che rivendicano l’accoglienza e il diritto di libertà di movimento per tutte le persone, si era mobilitata presso il Cate di San Roque-Algeciras per denunciare quanto siano inutili e dannose queste strutture.

Sequestro di persona è l’espressione utilizzata da Oscar Camps, fondatore della ong Open Arms, nel video diffuso qualche giorno fa via twitter: “Scusi il disturbo durante le vacanze, presidente Sánchez, ma ci stanno sequestrando”. A bordo viaggiano cittadini spagnoli a cui è impedito l’attracco, così come alle centinaia di migranti soccorsi e ospitati da più di 18 giorni e aggiunge “Di che cos’altro ha bisogno Matteo Salvini per la sua campagna politica? Morti?”

L’esecutivo in funzione in Spagna, in attesa che si definisca un governo dopo le elezioni dello scorso aprile, interviene con una dichiarazione ai media e si appropria del ruolo di “guidare una risposta a una crisi umanitaria” , di fronte alla “situazione di emergenza” che si sta vivendo all’interno della nave spagnola per “la inconcepibile risposta delle autorità italiane, e in particolare del ministro degli Interni, Matteo Salvini, per la chiusura di tutti i suoi porti e le difficoltà esposte da altri paesi del Mediterraneo centrale”, una chiara allusione a Malta che spesso e volentieri ha negato l’accoglienza ai migranti.
“I porti spagnoli non sono i più vicini o i più sicuri per Open Arms, ma al momento la Spagna è l’unico paese disposto ad accoglierla nel quadro di una soluzione europea”, afferma la dichiarazione del governo Sánchez. Lo stesso governo che sei mesi fa, però, aveva tolto l’autorizzazione alla ong Open Arms per svolgere attività di ricerca e soccorso di migranti nelle acque del mediterraneo, ribadendo che è compito della guardia costiera spagnola, nel rispetto dei trattati internazionali sui diritti umani, farsi carico di queste operazioni. Che poi però svolge, solo quando costretta e solo in prossimità delle proprie acque nazionali.

Il piano del governo spagnolo, riportato nel comunicato, prevede che, una volta sbarcati i migranti ad Algeciras, si proceda con la distribuzione già concordata tra sei paesi europei: oltre alla Spagna, Francia, Germania, Portogallo, Lussemburgo e Romania. Matteo Salvini, spesso definito dai principali giornali spagnoli come un ministro dell’ultradestra xenofoba e sessista, non ha tardato a esprimere il suo entusiasmo, via social network : “… Bene! Chi la dura la vince” e ironizza con un video sulle critiche della stampa e della classe politica di fronte al suo rifiuto di aprire i porti italiani ai soccorsi.

Fonti diplomatiche spagnole sottolineano che è la prima volta che un paese rifiuta di consentire lo sbarco di alcuni migranti nonostante l’impegno a non rimanere sul suo territorio e inquadrano questo atteggiamento delle autorità italiane nello scontro tra i due partner di coalizione, il Movimento 5 Stelle e la Lega, in vista di una crisi di governo o di prossime elezioni.

In una dichiarazione rilasciata dal ministero degli Affari esteri spagnolo, pochi minuti prima di quella dell’esecutivo, viene annunciato che “il governo spagnolo prenderà in considerazione la possibilità di agire dinanzi all’Unione europea o dinanzi alle istituzioni per i diritti umani e il diritto marittimo internazionale, contro l’atteggiamento sostenuto dal governo italiano in merito allo sbarco di migranti a bordo della Open Arms”. E hanno assicurato che porteranno questa denuncia nella prossima riunione dei ministri degli interni dell’UE, alla quale dovrebbe partecipare anche Matteo Salvini, e non escludono che potrebbero avviare una azione giudiziaria presso la Corte de L’Aia, perché l’atteggiamento del ministro degli interni italiano ha comportato una flagrante violazione della convenzione del mare e del diritto internazionale.

Intanto il portavoce della Open Arms rifiuta la proposta di Sánchez, ricordando che la situazione per i migranti a bordo è “di emergenza” e sottolineando che lo sbarco deve essere “immediato”, che il porto di Algeciras è il “più lontano dal Mediterraneo”. La rotta verso Algeciras è già stabilita, ma il capitano della nave spagnola spiega l’impossibilità di soddisfare un ordine che sarebbe obbligato a rispettare: “Dopo 26 giorni di missione, 17 in attesa con 134 persone a bordo, un ordine del tribunale a favore e 6 paesi disposti a ospitare, ci si chiede di navigare per 950 miglia, circa 5 giorni in più, verso Algeciras, il porto più lontano del Mediterraneo, con una situazione insostenibile a bordo?”

«Io, ricercatore italiano emigrato in Albania»

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Quando decisi di partire e trasferirmi ne sapevo veramente poco dell’Albania. Come molti italiani ne conoscevo la posizione sulla mappa e ricordavo a grandi linee il suo recente passato. Tirana l’ho scelta ma, ripensandoci ora, forse ad avermi voluto è stata più lei. È stato un po’ come in quei corteggiamenti dove entrambi si guardano ma poi è l’altro a fare il primo passo e prendere l’iniziativa. Tra me e l’Albania è andata proprio in questo modo e, devo ammettere, nemmeno il tempo di sbarcare ed è stato amore a prima vista.

Sono arrivato nell’ottobre dello scorso anno, con una valigia e tanta voglia di mettermi in gioco. Come tanti miei coetanei impegnati in un dottorato di ricerca in Progettazione architettonica, ero da tempo ben consapevole che per poter avere una carriera di tipo accademico avrei dovuto guardare fuori dai confini nazionali, alla ricerca di un Paese che credesse in me e nella mia formazione. Fare il ricercatore in Italia è difficile, non c’è bisogno di rimarcarlo, ma sentivo di potermi permettere un’avventura in un posto dove un’esperienza reale avrebbe potuto finalmente farmi capire se quella che inseguivo fosse la strada giusta. L’occasione è arrivata la scorsa estate quando mi è stata offerta una posizione presso la Polis University di Tirana, dove avrei potuto mettere in pratica quello che avevo imparato negli ultimi anni in una realtà completamente nuova e differente rispetto a quella con cui mi ero confrontato fino a quel momento.

A Polis insegno progettazione architettonica e dirigo una unità di ricerca che lavora sull’innovazione e approfondisce il rapporto tra Information technology e architettura. Appena arrivato mi è stato comunicato che avrei insegnato al quarto anno del corso di laurea e avrei avuto un corso tutto mio. Alla notizia…

L’articolo di Valerio Perna prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2019


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Maryse Condé, il coraggio della verità

Una visione epica dell’esistenza e della letteratura. Una lingua ricca di aromi, carnale, nitida. Con grande spessore letterario e umano, Maryse Condé, premio Nobel alternativo 2018, ha raccontato la sua terra madre, l’isola caraibica di Guadalupe, e le ferite del colonialismo. Grande viaggiatrice, dalla Francia, scelse di andare a vivere e a insegnare in Africa, rifiutando ogni mitologia delle radici, per conoscere quella immensa e variegata realtà con i propri occhi. A 82 anni ora lo racconta nell’autobiografia La vita senza fard (La Tartaruga), coraggiosa testimonianza di scrittrice e donna che si presenta senza infingimenti.

Maryse, la verità chiede coraggio, identità, assunzione di responsabilità, cosa significa per lei la parola «verità» e quanto le è costato cercarla sempre?
C’è un’immagine che caratterizza ognuno di noi, che uno lo voglia o meno. Un’ immagine fatta da propositi a volte concepiti senza troppe riflessioni, da reazioni momentanee, immediate. Questa immagine a volte ne nasconde una più profonda, più adeguata alla propria personalità più intima. Quello che io chiamo verità è la ricerca costante dell’espressione di sé più autentica, al di là delle idealizzazioni e dei malintesi. Non è un’impresa facile, è un lavoro di demistificazione, è il rifiuto di ciò che è comodo e facile ricordare. Questa ricerca è dolorosa e costa a coloro che vi si dedicano seriamente.

Nel dittico Le muraglie di terra e La terra in briciole lei riporta alla luce la storia di Segou e della sua islamizzazione, dall’arrivo del primo bianco sul Niger fino alla conquista coloniale francese. La verità storica ha una grande importanza collettiva, ma troppo spesso viene negata?

Non ho inventato nulla. Tutto il mondo sa che Mungo Park era stato inviato dalla Società di geografia inglese per scoprire in quale senso scorresse il fiume Niger, chiamato “Joliba” dagli africani. Sono partita da questo aneddoto per raccontare la vita dei primi abitanti dell’impero Bambara. Ho voluto…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Maryse Condé prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2019


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