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La crisi della sinistra e Renzi, i M5s e Salvini

Luigi Di Maio durante la trasmissione Porta a Porta di Rai 1, Roma 02 Maggio 2018 ANSA / LUIGI MISTRULLI

Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Lionello Fittante.

Quello che sorprende, nelle ripetute analisi sulle sconfitte della sinistra, è l’incapacità generale di adottare una lettura che vada oltre gli aspetti cronachistici e contingenti. Un evidente limite culturale, prima ancora che politico. Un’incapacità elaborativa degli avvenimenti, che li guarda come isolati tra di loro, luoghi indipendenti, sommatoria di casualità contingenti: un approccio che serve, talvolta, per assolversi. Invece tutto è legato, da un unico filo conduttore, leggibile attraverso un approccio storico, perché la sconfitta non è dell’oggi, ma ha evidenti radici lontane, perché le ragioni della sconfitta sono tutte lì, sul piatto della Storia, ed è la sinistra che non è stata in grado di capire.

Le responsabilità sono tutte dentro le scelte adottate, le politiche espresse, il modo di stare nel Paese, di rappresentarlo, nell’incapacità di leggere la storia, i cambiamenti in atto, nelle proprie azioni o inazioni. Proviamo a guardare allora, prendendo come minimo riferimento gli ultimi 25 anni, un quarto di secolo.

Si tratta di un periodo non breve, entro il quale, per rimanere in Italia, si fa a tempo a passare dal dopoguerra al boom economico, dall’autunno caldo all’edonismo reaganiano, dalla caduta del muro di Berlino a Di Maio-Salvini, dove cambiano intere generazioni. Facciamolo perché non si confondano gli effetti (la comparsa di Renzi, dei 5S, di Salvini) con le cause che li determinano. Allora, pur rimanendo necessariamente in superficie, proviamo ad abbandonare la cronaca, a dare un primo sommario, forzatamente semplificato e minimale sguardo.

La sinistra, al termine della enorme e fondamentale esperienza del Pci, si divide fondamentalmente in due: una “moderata”, maggioritaria, del centro-sinistra, che darà vita a Pds/Ds/Pd, e una minoritaria, cosiddetta “antagonista o radicale”.

Questa costola moderata, attraverso cambiamenti via via più vistosi, muta sostanzialmente pelle nell’affannosa rincorsa al centro, recide le radici, abbandona il metodo, la pratica culturale e politica, anche formativa e di selezione del proprio personale: in una parola, abbandona la sua natura originaria. Si teorizza la vocazione maggioritaria, gli artifizi elettorali o costituzionali, non più la ricerca del consenso, l’esercizio e la conquista dell’egemonia politica e culturale. Si teorizza o comunque si pratica, la conversione da partito di massa a partito liquido, leggero, determinando l’abbandono delle periferie, la diminuzione della partecipazione, e si decreta l’ininfluenza del confronto collettivo.

Una “sinistra”, questa, che partecipa alla personalizzazione della leadership, e apre senza filtri ad una indistinta società civile: ricordiamo la prima intervista della neoeletta Madia del 2008? L’esaltazione della propria inesperienza politica? Cos’altro se non l’apertura sul piano culturale e ideologico al mito dell’incompetenza come garanzia di cambiamento poi ben rappresentato dai 5S? È sotto i governi del centro-sinistra che cambia anche il linguaggio politico, la disinvoltura lessicale che prevale sull’argomentare, si anticipa la sguaiatezza dei social.

Una sinistra inoltre, che introduce il lavoro flessibile, di fatto l’apertura alla precarietà: la precarizzazione del futuro come ineluttabile. Infine, una sinistra menzognera, che chiama ai gazebi il suo popolo, per scegliere il candidato premier sulla base di un programma da sottoscrivere, salvo poi disattenderlo, con quegli eletti in parlamento, per le politiche renziane che nulla avevano a che fare con quanto sottoscritto: un altro sostanziale “tradimento”.

Si sostituisce sostanzialmente l’originaria essenza di sinistra, se pure moderata, con un modello liberista, sul piano delle scelte economiche, e centrista sul piano culturale, e con ciò contribuendo allo sfaldamento della partecipazione: il solo obiettivo che conta diventa “governare”, anche a costo di alleanze contro natura, palesi o sotterranee. Bisogna dirlo chiaramente: si sceglie, nella migliore delle ipotesi, di trasformarsi in un partito moderato di centro.

Contemporaneamente l’altro pezzo della sinistra, quella radicale, antagonista, si chiude sempre più progressivamente in una sorta di identitarismo aristocratico, persino elitario, di testimonianza, neanche buono a marcare la differenza perché marginale. Una sinistra, che nasce minoranza e nel rinchiudersi si fa minoritaria, decide di essere ininfluente. Per paradosso, una sorta di vocazione minoritaria.

Una sinistra quindi, che benché definita radicale, risulta marginale, sempre più frammentata e che prova ormai a sopravvivere con trovate elettoralistiche in cui essa stessa non crede, non già attraverso un progetto ampio, sincero, di lungo respiro. Una sinistra capace di frantumarsi sotto distinguo imperscrutabili, a volte sotto il peso di gelosie politiche e personalistiche, mentre il mondo le cambia sotto i piedi.

Tutti volgono la vista al più su sé stessi (risultati elettorali) e meno su quello che avviene nel Paese, sulle proprie esigenze (vale per tutti, ma la sinistra aveva l’obbligo di differenziarsi): accontentarsi di singole sporadiche e localistiche affermazioni, senza preoccuparsi che anche dove si vince la partecipazione diminuisce. Brillante esempio fu il 40% renziano delle regionali emiliane, in cui contava la vittoria se pure con il solo il 36% degli elettori.

Non porsi il problema della riduzione progressiva della democrazia, che non può che vivere di partecipazione, è un peccato mortale nell’essere sinistra.

Non può sorprendere allora che nell’immaginario collettivo abiti un sentimento che accomuna tutti in un unico enorme calderone indistinto: “e allora quando c’eravate voi?” Perché poi, nell’ambiguità del Pd e nell’identitarismo “radicale”, tutti a definirsi eredi di Berlinguer (di quella tradizione). E quindi allora, tutti, appunto, indefinitamente uguali.

In questo scenario di evidenti ritardi e incapacità del personale politico, si sommano, altrettanto evidenti, i limiti e le responsabilità di certo intellettualismo nostrano: politici e intellettuali, incapaci di farsi e svolgere il ruolo di classe dirigente. Confesso di rimpiangere i Gramsci e i Berlinguer, sul piano politico, ma di rimpiangere anche i Calvino, i Moravia, i Pasolini, gli Asor Rosa: intellettuali e artisti che sapevano intrecciare l’elaborazione con la realtà e l’impegno.

Sono queste scelte e questi limiti che fanno crescere i Renzi, i 5S, i Salvini. Se non ragioniamo su questo sarà difficile interpretare cosa avviene nel Paese, e si rinuncerà a recuperare un rapporto, ad avere un’interlocuzione, non solo con chi non ti vota perché sceglie altro, ma con chi preferisce l’astensione. Perché in fondo, semplicemente, non dovremmo chiederci perché la gente ha abbandonato la sinistra, piuttosto perché la sinistra, in questa Storia, di fatto e nelle sue varie espressioni, ha abbandonato la gente.

Lionello Fittante è cofondatore dell’associazione politico-culturale #perimolti e fa parte del comitato nazionale di èViva

Una sicurezza: è un fallimento

Un cartellone che pubblicizza la festa della Lega sulla spiaggia di Milano Marittima (Ravenna), località dove il vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno Matteo Salvini sta trascorrendo alcuni giorni di vacanza, 3 agosto 2019. ANSA/SERENELLA MATTERA

Il ministro dell’interno (volutamente minuscolo) Salvini sta preparando il suo tour estivo sulle spiagge italiane per raccogliere un po’ di voti tra un aperitivo e un po’ di musica dance e mentre finge di scannarsi con i suoi alleati di governo usa il suo unico argomento per tenere caldi i suoi elettori. Sicurezza è la parola magica con cui alimenta il fiele e concima un po’ di odio in giro. Ma forse sarebbe il caso di vedere i numeri di questi suoi famosi decreti sicurezza, i numeri non mentono, i numeri non sono opinioni e stanno lì fermi senza subire condizionamenti.

Come abbiamo scritto più volte il primo decreto sicurezza ha prodotto semplicemente con una firma circa 18.000 irregolari in più. Gente che era sul territorio italiano e che di colpo ha scoperto di non poter accedere alla protezione umanitaria. Il decreto sicurezza, insomma, ha prodotto clandestini. Forte, vero? E anche se volessimo credere che l’iniziativa del governo sia volta a ripulire l’Italia (perché è questo il termine che usano i tifosi del Capitano) allora vale la pena sapere che a giugno del 2019 c’erano in Italia 71.000 stranieri irregolari in più rispetto a giugno del 2018. Sembra incredibile, vero?

Fermi, non è tutto. I numeri sono dovuti al fatto che con 78.000 dinieghi di protezione internazionale il prode Salvini è riuscito a rimpatriare solo 6.953 rimpatri. Vi ricordate quando in campagna elettorale si diceva che i numeri di Salvini sui rimpatri promessi fossero tutte balle? Ecco la prova provata. Ovviamente sulla pelle delle persone. E se qualcuno può pensare che Salvini abbia comunque fatto meglio del governo precedente ditegli tranquillamente di no: il governo Conte sta rimpatriando il 7% in meno rispetto al governo precedente, quello dei comunisti amici delle ONG. Applausi a scena aperta.

I dinieghi di protezione sono passati da meno del 60% nel 2017 a oltre l’80% oggi. Ma ovviamente le persone continuano a rimanere qui. Si producono irregolari che non possono regolarizzarsi e che non vengono rimandati nel proprio Paese: è la formula perfetta per creare ancora più insicurezza e continuare a usarla per scopi elettorali.

A proposito: a questo ritmo per rimpatriare tutti (62.000 persone) ci vorrebbero circa 97 anni. Che poi, se ci pensate, è poco più della rateizzazione concessa alla Lega per restituire i 49 milioni che ha fatto sparire.

Buona sicurezza a tutti. E buon martedì.

Codice rosso, la legge per contrastare la violenza sulle donne e sui minori nasce zoppa

A pochi giorni dalla entrata in vigore del cd. Codice Rosso (l’8 agosto, ndr), un caso di cronaca solleva non pochi interrogativi sula sua potenziale efficacia. A Treviso un uomo, che nel 2013 tentò di uccidere l’allora compagna strangolandola fino a farle perdere i sensi, simulando un incidente in auto e dando fuoco al veicolo, potrà usufruire di una misura alternativa alla detenzione prevista dall’ordinamento penitenziario e sconterà parte della pena fuori dalle mura carcerarie in regime di semilibertà.
In particolare, i Giudici del Tribunale di Sorveglianza di Venezia (organo competente nella fase esecutiva) hanno stabilito, a fronte di una condotta regolare e partecipativa a corsi e attività, che il condannato possa abbandonare la propria cella per alcune ore durante il giorno, per poi farvi ritorno per la notte.
Legittimamente la vittima, l’ex moglie, teme di poter incontrare nuovamente l’uomo che solo 6 anni fa tentò di ucciderla.
Si ricorda che il 18 luglio scorso il Senato ha approvato, con 197 voti favorevoli e 47 astensioni, il D.D.L. n. AC 1455-A, rinominato “Codice Rosso”. La nuova Legge era nata con l’obiettivo di inasprire la disciplina penale della violenza domestica e di genere, cercando di rendere più agevoli e rapidi i processi in sede penale per accertare le conseguenti responsabilità. Ma cosa si è fatto per riformare la fase esecutiva? In altri termini, se si vuol parlare di corsia preferenziale – che peraltro già c’era – non valeva anche inserire qualche correttivo per il post-processo?
La riforma su questo punto nulla ha modificato e vi è la possibilità che situazioni del genere si ripetano. A tacer di critiche, quello che qui si esprime non riguarda la parità di trattamento in esecuzione ma, lo si ripete, una – seppur tecnica – critica all’ennesimo provvedimento zoppo.
È proprio questo aspetto, allora, che rende la riforma approvata incompleta: il Governo prima ed il Parlamento poi, si sono concentrati solo sulla fase cognitiva del giudizio penale, tralasciando completamente la – fondamentale – parte legata alla fase di esecuzione della pena.
Si configura, in questo modo, un evidente squilibrio, poiché da un lato le pene per questi delitti sono ora aumentate, ma dall’altro lato, i condannati potranno comunque usufruire della rosa di misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario ed uscire dal carcere prima dell’espiazione completa della pena.
Il punto debole della Legge è, dunque, rinvenibile nella mancanza di una specifica previsione limitativa dei benefici premiali in sede esecutiva per i condannati dei reati coinvolti nella riforma.
Peraltro, una simile impostazione normativa è già prevista dall’art. 4 bis L. 354/75, rubricato «divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti», che per l’appunto dispone uno stringente limite al godimento delle misure alternative per coloro che si siano resi responsabili di delitti di associazione mafiosa o di violenza sessuale, dunque assolutamente analoghi ai reati di genere, le cui pene sono state ora innalzate.
Bastava ampliare questo elenco, includendo tutti i reati citati nella riforma. Non serviva altro.
Il provvedimento, seppur apprezzabile nell’ottica di una repressione dei fenomeni di violenza sulle donne, risulta essere, dunque, perfettibile a fronte della mancanza di un’opera di armonizzazione tra la disciplina sostanziale e quella di cui all’ordinamento penitenziario.
Una siffatta impostazione può comportare il rischio, come nel caso di Treviso citato poc’anzi, che un uomo, condannato per un reato di genere, possa dopo una manciata d’anni uscire dal carcere in regime di semilibertà e incontrare nuovamente la vittima: tuttavia, è proprio riguardo a tali delitti che le esigenze di restrizione permangono per tutta la durata della pena.
Concludendo, un aumento di pena da solo non basta a prevenire il rischio di configurazione del reato: a ciò vanno aggiunti sia strumenti di prevenzione in senso stretto che limitazioni in fase esecutiva. Peraltro una simile impostazione è stata seguita dalla Legge 3/19 (la “spazzacorrotti”) che ha ampliato l’elenco dei reati ostativi, introducendo quelli legati al fenomeno della corruzione. Anche qui silenzio su tutti gli altri strumenti preventivi.

Alessandro Parrotta è avvocato e direttore di Ispeg

Olga e la Costituzione anti-Putin: una lotta senza armi per la democrazia, a 17 anni

«A ciascuno sarà garantita la libertà di espressione e di parola. I cittadini della Federazione hanno il diritto di riunirsi pacificamente, senza armi, e di tenere assemblee, comizi, dimostrazioni, marce e picchetti». Le foto di Olga Misik, la ragazza di 17 anni che il 27 luglio scorso ha letto la Costituzione russa davanti agli agenti in assetto antisommossa, sono diventate subito virali. Il suo gesto di protesta contro la decisione di Putin di non ammettere i 57 candidati dell’opposizione alle elezioni dell’8 settembre per il consiglio comunale di Mosca – per presunti vizi di forma – le è costato, però, l’arresto.

E non è stata la sola: 1300 i fermi dopo l’ondata di proteste per “elezioni libere ed eque” dell’ultimo weekend di luglio nella capitale, e altri 700 sabato 3 agosto, con gli investigatori russi che hanno aperto un’inchiesta per “disordini di massa”, un reato che comporta pene dai 3 anni nel caso della sola partecipazione ai 15 anni per l’organizzazione. Le due manifestazioni non erano autorizzate, pretesto con cui la polizia ha schierato decine di agenti antisommossa a presidiare le vie centrali della capitale. È partita, inoltre, una nuova inchiesta su Alexei Navalny, il leader dissidente in testa alle manifestazioni. Il blogger è indagato per “riciclaggio”: gli inquirenti accusano il Fondo anti-corruzione del dissidente russo di ricevere illegalmente somme di quasi un miliardo di rubli (13,8 milioni di euro). Navalny sta scontando una pena detentiva di 30 giorni per “manifestazioni non autorizzate”.

Nelle settimane passate, si manifestava non solo per le elezioni della Duma, ma, più in generale, contro lo Stato illiberale che sta prendendo il posto della Russia democratica nata a seguito dello scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991. A proposito dell’opposizione, si tratta di una minoranza, la cosiddetta intellighenzia urbana scontenta, che è costituita prevalentemente dalla gioventù russa ma che alle elezioni conta poco, visto che Putin gode ancora del sostegno della maggior parte della popolazione.

«Sono arrivati e hanno portato via sette persone che stavano solo parlando tra loro, sedute», ha raccontato all’agenzia France Presse Olga Yakovleva, 50 anni. Tra i fermati vi sono almeno sette minori, ha detto il commissario della città di Mosca per i Diritti dei bambini, Yevgeny Bunimovich, confermando così la sempre più frequente presenza alle proteste di giovanissimi. In caserma è finita, tra gli altri, l’avvocatessa e attivista Lyubov Sobol, una degli aspiranti candidati ai quali era stata negata la registrazione per l’elezione a consiglio comunale di Mosca nella 43a circoscrizione elettorale.

Lo stesso caso di Olga è controverso. La 17enne, non stava “manifestando” in senso stretto. Non stava tenendo un picchetto o una assemblea non autorizzata. Gli agenti, interdetti, non hanno agito in un primo momento e sono rimasti immobili con i caschi e i manganelli, i gambali protettivi, i guanti e i giubbotti antiproiettile. Olga portava con sé solo un giubbetto antiproiettile, il telefono e una copia della Costituzione. Il documento era stato varato dal primo presidente della Russia post-sovietica, Boris Eltsin, che aveva fatto copiare in buona parte le leggi fondamentali della Francia e degli Stati Uniti. Lo stesso testo sul quale ha giurato Vladimir Putin ogni volta che è diventato presidente: nel 2000, nel 2004, nel 2012, nel 2018. «Ho letto ai poliziotti l’articolo 31 della Costituzione che prevede la libertà di assemblea – racconta al quotidiano online Meduza -, il 29 sulla libertà di parola, e l’articolo 3, che descrive il popolo come la principale fonte del potere». I motivi della protesta sembrano esserle molto chiari nonostante la giovane età: «Vogliamo una Russia libera, nella quale non avvengano azioni illegali. Nessuno deve avere paura della polizia e dei tribunali», ha affermato nell’intervista. Il Paese dovrebbe «avere la voglia di andare avanti e non la nostalgia dei vecchi tempi e delle vecchie leggi. La Costituzione non deve sembrare una raccolta di barzellette e il programma del governo non deve essere desunto dai romanzi di George Orwell».

La studentessa ha appena terminato il liceo a Voskresensk, una cittadina a Sud di Mosca, e fa parte del Bessrochkà, un movimento che non ha leader né una struttura centrale, ma i militanti sono sparpagliati sul territorio. «Comunichiamo attraverso Telegram, partecipiamo a manifestazioni, distribuiamo giornali, volantini e adesivi». Prende parte ad ogni protesta, a partire dal 9 settembre 2018, quando si era scesi in piazza con Navalny per l’abolizione della riforma delle pensioni (che implicava l’aumento dell’età pensionabile).

Tuttavia, i genitori si oppongono al suo attivismo: «Mia madre è molto contraria al fatto che partecipi ai raduni perché ha paura delle conseguenze, e mio padre è un fan sfegatato di Putin e Stalin, li considera i migliori sovrani e odia i manifestanti. Non fa che dirmi “tu non hai vissuto nel caos degli anni Novanta”. Litigo con lui molto spesso e cerco di spiegare alcune cose anche a mia madre, ma lei guarda moltissimo la propaganda televisiva e crede sinceramente che i manifestanti lancino fumogeni e attacchino la polizia antisommossa». Così, la ritroviamo a sfidare la polizia in strada: «Volevo spiegare agli agenti che la gente si era radunata pacificamente, senza armi, e quindi legalmente». Solo in seguito, una volta terminata la manifestazione, la polizia l’ha portata via mentre ancora stringeva la Costituzione in mano. «Mi hanno preso per le braccia e le gambe e mi hanno trascinata lungo la strada. Ho urlato perché mi stavano facendo male, ma loro lo sapevano».

Trasportata in un van con altri 21 detenuti, gli agenti hanno sequestrato loro tutti gli effetti personali e chiuso i finestrini, lasciandoli senza aria, racconta Olga. Tutti coloro che non volevano dare il telefono furono spinti sul pavimento e costretti a consegnarlo con la forza, alcuni furono picchiati. La polizia fumava di proposito nel vagone, e l’aria diminuiva ancora: «Mi sentivo sempre peggio, ma si rifiutarono di farmi salire nell’ambulanza che viaggiava lì vicino». Poi la detenzione illegale (in quanto minorenne) fino al giorno successivo. Avrà l’obbligo di comparire in tribunale tra un mese.

La ragazza era già stata arrestata il 12 giugno – durante una manifestazione a sostegno di Ivan Golunov, reporter investigativo di Meduza, che era stato trattenuto nel centro di Mosca il 6 giugno con l’accusa di traffico di stupefacenti, maltrattato e poi assolto -, e illegalmente detenuta il 26 luglio (il giorno prima della lettura della Costituzione). In questa occasione, Olga stava distribuendo volantini contro la rimozione dei candidati dell’opposizione dalle elezioni di settembre, ma nessuno dei fogli aizzava alla manifestazione o alla violenza, difatti gli agenti che hanno proceduto al suo arresto non hanno voluto menzionarne le motivazioni.

In tutti questi casi, il gioco delle autorità sembra essere sempre lo stesso: la Costituzione prevede sì la libertà di assembramento, ma solo dietro autorizzazione. Ogni volta il luogo scelto viene giudicato «non adatto» per motivi diversi: traffico, ordine pubblico, altri eventi già programmati, e con questo pretesto scattano i fermi e gli arresti.

«L’ingiustizia concerne sempre tutti – conclude Olga -. Oggi la Duma di Mosca, domani il governo della regione, tra una settimana il capo del Distretto della Resurrezione. È solo questione di tempo. È stupido pensare che queste manifestazioni riguardino solo le libere elezioni o l’ammissione dei candidati. In realtà, vogliamo difendere i diritti costituzionali elementari che non sarebbero mai messi in discussione in uno Stato democratico».

Ora, la ragazza vuole diventare giornalista esperta in politica e diritti umani. Alla domanda: «E dopo la storia con Ivan Golunov, non avevi paura di scrivere la verità?», ha risposto senza esitazione: «Al contrario, dopo la storia con Golunov, è diventato necessario scrivere la verità. E più persone lo faranno, più sarà sicuro per tutti».

Parole e pallottole

epa07756083 A woman crying after leaving the family reunification center at MaCarthur Elementary School in El Paso, Texas, USA, 03 August 2019, issued 04 August 2019. Twenty people were confirmed killed and more than 25 injured earlier in the day by a lone gunman at a Walmart at the Cielo Vista Mall. EPA/IVAN PIERRE AGUIRRE

Venti morti e quasi una trentina di feriti. Sono i numeri della strage a El Paso, quella su cui aprono tutti i giornali. Ed ogni volta noi qui a raccontare di cosa succede sdoganando le armi e di cosa accade quando qualcuno si sente superiore per razza e per religione. Ma l’editoriale più ficcante, quello che serve, l’ha scritto inconsapevolmente proprio l’assassino, Patrick Crusius, che nel suo manifesto in cui esprime le ragioni della strage (come se potessero esistere ragioni in una strage), spara parole come pallottole. Basta leggerle per capire dove stiamo scendendo anche noi, qui, in Italia.

“Sono un sostenitore della strage di Christchurch e del suo manifesto. Questo attacco è una risposta all’invasione ispanica in Texas. Sono stati loro a istigarmi, sto semplicemente difendendo il mio Paese dall’invasione. Questo è il manifesto in cui spiego le ragioni del mio attacco”, scriveva Patrick Crusius.

Poi: “L’America è in decomposizione dall’interno. La verità scomoda è che sia democratici che repubblicani hanno fallito per anni. Entrambi sono coinvolti in uno dei più grandi tradimenti della storia americana”.

Poi: “I nostri amici europei non hanno delle leggi sulle armi che gli consentano di difendersi da milioni di invasori. Non hanno scelta: possono solo sedersi e guardare i loro Paesi bruciare”.

Poi: “Gli ispanici sono migranti economici, sono disposti a tornare nei loro Paesi. Per far sì che ciò accada hanno bisogno di un incentivo che io, insieme ad altri patrioti americani, dobbiamo dare”.

Poi: “Ho trascorso la vita a prepararmi per un futuro che non esiste. Presto gli ispanici prenderanno il controllo del mio amato Texas. Ricordate: l’inerzia è una scelta. Non posso più sopportare la vergogna”.

Davvero serve altro?

Sono pallottole, le parole.

Buon lunedì.

Chiamatelo reddito di discriminazione

La protesta a Napoli di due operai, licenziati dalla Fca , sul campanile della Chiesa del Carmine in piazza Mercato. Oltre ad aver esposto uno striscione con la scritta 'Reddito di cittadinanza per licenziati non c'Ë' , uno dei manifestanti ha indossato delle orecchie da coniglio come ironico riferimento ad una risposta scortese dato ad una utente, in cerca di informazioni sull'accesso al reddito, da un operatore INPS. 20 aprile 2019 ANSA / CIRO FUSCO

«Siamo 140 mila? Che bello non sentirsi soli». Roxana, cittadina ucraina da 13 anni in Italia, madre separata con 3 figli, fa una risata amara di chi in fondo se l’aspettava. «Ho fatto domanda per avere la cittadinanza, se l’avessi ottenuta forse avrei votato M5s perché la loro idea di sostegno a chi sta male mi piaceva. Poi ho scoperto la fregatura, quindi né reddito né cittadinanza». La promessa del reddito di cittadinanza è stata mantenuta ma con mille limiti, e poco o nulla ha a che fare con le proposte avanzate in passato dalla sinistra radicale. Un sostegno in grado di garantire una sopravvivenza dignitosa senza subire il ricatto di offerte di lavoro al ribasso. Quando venne emanato il decreto-legge 4/2019, poi convertito dalla legge 26/2019, recante il titolo Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni si istituì questa misura a decorrere dal mese di aprile.

Una circolare, sempre nello stesso periodo, la 43/2019, chiarì che il reddito di cittadinanza era una misura di politica attiva del lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, destinata a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura, attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro. Ma chi ne ha diritto? Già da allora si provò ad escludere i cittadini di origine straniera al grido di “prima gli italiani”, poi è parso chiaro che tale esclusione avrebbe sollevato principi di incostituzionalità per l’intero impianto legislativo. Quindi sono rientrati anche i “migranti regolari”.

Fermo restando che l’indirizzo politico delle forze che compongono il governo, rispetto ai cittadini stranieri, si era manifestato in maniera a dir poco ostile sin dalla campagna elettorale del 2018, dopo le elezioni europee la Lega, forte del risultato acquisito, ha avuto maggiore facilità nell’ottenere un incremento a tale spinta e non solo in materia di “porti chiusi”. Il 5 luglio scorso l’Inps servizi ha inviato a tutte le sedi periferiche una circolare, la n.100, che interviene su alcuni aspetti che riguardano la richiesta sia del reddito di cittadinanza che della pensione di cittadinanza spettante agli over 65 che fino a prima dell’emanazione della legge vivevano con la pensione sociale. La circolare stabilisce che «la norma, al comma 1-bis, pone l’obbligo in capo ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea di produrre in fase di istruttoria, ai fini dell’accoglimento delle domande, una certificazione dell’autorità estera competente, tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana, conformemente a quanto disposto dall’articolo 3 del testo unico di cui al Decreto del presidente della Repubblica 445 del 2000 e dall’articolo 2 del Dpr 394 del 1999».

In pratica, le stesse norme messe in atto per impedire ai bambini delle scuole di Lodi e di altri Comuni di usufruire, in quanto al di sotto della soglia Isee, della mensa e di altri servizi gratuiti a scuola. Per gran parte dei cittadini stranieri richiedenti il reddito, come per le famiglie dei bambini che chiedevano il servizio mensa, spesso è stato impossibile produrre questa documentazione. L’estensore della circolare si è preoccupato di specificare che per chi possiede lo status di rifugiato e per coloro che possono dimostrare che tali certificazioni sono impossibili da ottenere, tali divieti non valgono. Salvo poi avvalersi del fatto che «ciò posto, nelle more dell’emanazione del citato decreto attuativo, l’Istituto (l’Inps ndr) ha provveduto a sospendere l’istruttoria di tutte le domande presentate a decorrere dal mese di aprile 2019 da parte di richiedenti non comunitari». Quindi 140 mila domande di reddito e pensione, sono bloccate in virtù di tale circolare. «Sto già seguendo alcune di queste pratiche – racconta l’avvocato Massimo Bianchini….

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 2 agosto 2019


SOMMARIO ACQUISTA

A piena voce di donna

Mi è capitato di leggere il bel romanzo di Hoda Barakat, Corriere di notte (La Nave di Teseo, traduzione di Samuela Pagani), proprio mentre chiudevo le bozze per Fusibilia de Il canto libero delle stelle mediterranee, un testo dedicato alle storie delle principali cantanti arabo-mediterranee del Novecento, e sono stata felicemente colpita dalla presenza di alcune di loro anche nel libro della scrittrice libanese. Corriere di notte, vincitore dell’International Prize for arabic fiction 2019, il più importante premio per la letteratura araba, ha la forma di un romanzo epistolare che raccoglie l’ultima struggente lettera scritta da ciascun personaggio. Una di queste voci inconsolabili – reduci da guerre civili, violenza, distruzione, fallimenti e disillusioni -, termina la sua lettera disperata alla madre rincuorandosi al pensiero di ascoltare una canzone della stella del Libano: «Metterò Fairuz in cima ai preferiti del mio cellulare e mi addormenterò. Cercherò di non piangere sentendo la sua bella e tenera voce. Mia cara madre, dovunque tu sia, buonanotte».

La presenza di Fairuz, così come quella della diva egiziana Umm Kalthum in un’altra lettera, mi ha confermato quanto queste cantanti abbiano avuto e abbiano ancora oggi un ruolo centrale nelle società dei Paesi arabi. Un ruolo consolatorio da un lato e unificante da un altro. Non esiste un arabo che non abbia mai ascoltato una canzone di entrambe. I loro repertori, se pur diversi, fanno parte di un patrimonio comune e soprattutto nelle generazioni più adulte è ancora un’abitudine irrinunciabile ascoltarli. Fairuz la mattina, Umm Kalthum la sera.

Quando ho cominciato a incuriosirmi alle storie di queste cantanti, ho capito che raccontandole avrei potuto contribuire a smentire il pregiudizio che cristallizza l’immagine delle donne arabe in signore velate, sottomesse e ammutolite e a ricordare che sono esistite figure femminili lontane dagli stereotipi diffusi in Occidente, donne autorevoli e forti che sono riuscite a tirare fuori la voce e a essere padrone del loro destino.

Alle emblematiche vite di Umm Kalthum, “la madre di tutti” che nacque nel 1898 in piccolo villaggio sul delta orientale del Nilo in una famiglia musulmana, e di Fairuz, ancora vivente, nata tra le montagne del Libano nel 1935 in una casa siriaco-cattolica, si intrecciano le storie di altre donne che hanno cantato per esistere. È il 1912 quando la principessa drusa…

L’articolo di Francesca Bellino prosegue su Left in edicola dal 2 agosto 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Quelli che rubano i figli degli altri

«In galera i ladri di bambini e i loro complici, non avrò pace finché non saranno tornati da mamma e papà tutti i bimbi portati via ingiustamente». Con un post su Facebook Matteo Salvini è tornato a modo suo sul caso Bibbiano il 27 luglio. Replicando sinteticamente, come impone la dura legge dei social, quanto aveva già urlato il 23 luglio arringando qualche decina di persone durante un comizio organizzato per l’occasione nella cittadina in provincia di Reggio Emilia disorientata dall’inchiesta della procura sui presunti affidi illeciti.

«Non mi darò pace fino a quando l’ultimo bambino in Italia sottratto ingiustamente alla propria famiglia non tornerà a casa da mamma e papà» ha detto il capo della Lega ribattendo in questo modo a chi lo ha accusato di fare una passerella: «Dovrebbero parlare con quelle mamme e quei papà con cui ho parlato io, a cui sono stati rubati con l’inganno i bimbi». E ancora: «Ai primi di agosto sarà approvata in Senato la proposta della Lega di una commissione di inchiesta sulle case famiglia. Andremo fino in fondo. Non solo sui diecimila bambini portati via alle famiglie in Emilia Romagna, un numero che non sta né in cielo né in terra, ma in tutta Italia. È una vergogna che ci sia chi fa business sulla pelle dei bambini».

Staremo a vedere, sperando che almeno si faccia chiarezza sulla bufala dei 10mila bambini portati via alle loro famiglie con annessa allusione a un presunto business tutto da dimostrare, diffusa dalla stampa di destra e rilanciata forse incautamente dal ministro. Il quale ha concluso il suo comizio così: «Invito chiunque sia a conoscenza di altri abusi, ovunque in Italia, di segnalarli al ministero dell’Interno, se vuole anche dietro anonimato e faremo tutte le verifiche del caso». Ebbene, signor ministro, eccoci qua.
Come certamente Salvini saprà, e se non ne è a conoscenza gli suggeriamo di farselo raccontare, sin dai tempi della dittatura civico-militare le Abuelas di Plaza de Mayo sono alla ricerca dei loro nipoti scomparsi. Secondo le combattive Nonne argentine sono almeno 500 i figli di desaparecidos iscritti con falsa identità all’anagrafe da famiglie considerate dalla giunta civico-militare ideologicamente adatte a educare un bambino lontano dal possibile contagio della sovversione in quanto di provata fede cristiana e di costumi occidentali. Il generale Videla, con la benedizione della Conferenza episcopale argentina e il sostegno delle multinazionali straniere nordamericane ed europee, definiva infatti terrorista non solo la resistenza armata (che peraltro in Argentina era stata sgominata dalle squadracce fasciste della Tripla A ben prima del golpe del 1976), ma anche le persone le cui idee erano «contrarie alla civiltà cristiana occidentale». Quindi per “salvare” la società argentina era necessario che i figli dei “sovversivi” fossero separati dalla famiglia naturale perché erano come «semi dell’albero del diavolo».

«Personalmente non ho eliminato nessun bambino» ha spiegato una decina di anni fa durante il processo sul Piano sistematico di appropriazione dei bambini il capo della polizia della provincia di Buenos Aires, Ramón Camps, fedele servitore della dittatura fascista di Videla. «Quello che ho fatto è stato darne alcuni a organizzazioni benefiche affinché gli trovassero dei nuovi genitori. I sovversivi educano i loro figli alla sovversione. Per questo dovevano essere imprigionati e separati». Il 13 giugno scorso, le Abuelas hanno annunciato il ritrovamento del nipote rubato e desaparecido numero 130. Javier Matías Darroux Mijalchuk era scomparso nel 1977 dopo l’omicidio della giovanissima madre. Mancano all’appello ancora 370 nipoti, molti dei quali – almeno 70 – li stanno cercando anche in Italia. Già perché è qui da noi che decine di gerarchi argentini dopo la fine della dittatura nel 1983 hanno trovato riparo, ripercorrendo a ritroso la via di fuga in sud America intrapresa dopo la fine della seconda guerra mondiale dai nazisti (in numerosi casi sotto la protezione del Vaticano). L’ipotesi delle Abuelas, che puntano il dito anche contro la P2, è che molti dei fuggitivi potrebbero aver portato con se i figli rubati ai desaparecidos e si siano rifatti una vita nel nostro Paese grazie anche alla doppia cittadinanza che per un cittadino argentino è relativamente semplice da ottenere se consideriamo che oltre la metà della popolazione è di origini italiane. Non solo, alcuni dei figli rubati, potrebbero addirittura essere stati adottati illegalmente da famiglie di nostri connazionali. In tal caso molto probabilmente da militari, da appartenenti ai servizi deviati o da affiliati alla P2, persone cioè che in quegli anni potevano ottenere facilmente a Buenos Aires i documenti necessari per far uscire un neonato dall’Argentina senza troppi controlli.

Le prime segnalazioni in tal senso risalgono al periodo centrale della presidenza di Sandro Pertini. Lo abbiamo già raccontato ai nostri lettori ma non ci stancheremo mai di rifarlo perché a quanto pare nessun altro ha mai acceso i riflettori mediatici e investigativi su questa storia. Men che meno il ministro Salvini che dice di voler «riportare i bambini rubati da mamma e papà». Ecco cosa disse Pertini il 30 aprile 1983 a un giornalista dell’Ansa: «Ho ricevuto le Madri di Plaza de Mayo quattro o cinque volte. Una madre è venuta da me a piangere, disperata, non la dimenticherò mai più, e mi ha detto: “Mia figlia in carcere ha partorito. Le è stato tolto il figlio, ed è stato consegnato a una famiglia italiana”. Nel messaggio di fine anno (1982, ndr) ho ricordato questo episodio. Ho detto che la famiglia italiana cui è stato affidato questo figlio lo restituisca, altrimenti non avrà pace». Tutto chiaro, no?

Giova ricordare che il Piano di appropriazione dei bambini rientrava in un “disegno” più ampio denominato Processo di riorganizzazione nazionale (Prn). Come ricostruì Luis Eduardo Duhalde – che durante la dittatura era avvocato di familiari di desaparecidos e in seguito è stato giudice della corte federale di Buenos Aires oltre che segretario per i Diritti umani – nel Prn si sosteneva la superiorità dell’umanesimo cattolico e di un sistema di valori rispettosi dei dogmi della Chiesa derivati dalla legge naturale. Questi dovevano essere rispettati da tutti, anche dai non credenti.

Un uomo senza Dio, dicevano, cessa di essere un uomo. Di conseguenza i marxisti o presunti tali, tutti coloro che cioè non aderiscono al Piano, cessano di essere uomini e si può fare di loro ciò che si vuole. Sequestrarli, torturarli, farli scomparire, rubare i loro figli. Ovviamente la famiglia ideale, per gli ideologi del terrorismo di Stato, era fondata sull’autorità paterna e sul ruolo subalterno della donna relegata alla cura dei figli. Il nucleo familiare sarebbe per costoro minacciato di disintegrazione dall’aborto, dal divorzio e dall’uso di contraccettivi. Il controllo della vita familiare e la regolamentazione dei suoi aspetti riproduttivi ed educativi è al centro della politica repressiva di qualsiasi Stato totalitario e la giunta civico militare argentina non fece eccezione. Ma non notate anche voi delle sinistre similitudini con i temi che sono stati al centro del Congresso mondiale delle famiglie organizzato a Verona lo scorso marzo e partecipato da ministri del governo italiano – Salvini compreso – e da fanatici religiosi provenienti da Paesi in cui la democrazia, i diritti delle minoranze e delle donne sono optional fuori catalogo? Ricordiamo ad esempio Dmitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa russa, e Katalin Novak, ministra della Famiglia di Orban. Torniamo ora per un attimo alla propaganda politica che ruota intorno alla vicenda di Bibbiano. Salvini non è stato l’unico politico a voler cavalcare pro domo sua la comprensibile ondata di indignazione popolare. A destra c’è stata la fila e – a nostro parere – spicca la manifestazione organizzata a Bibbiano da neofascisti dichiarati e da un partito come Fratelli d’Italia che ha tra le sue file nostalgici ed ex missini, i quali hanno pensato bene di esporre un cartello con la scritta “I bambini si difendono non si vendono”. Ovviamente siamo tutti d’accordo che i bambini non si vendono, ma chissà cosa penserebbero le Abuelas di Plaza de Mayo (e Pertini) se venissero a sapere che in Italia rappresentanti dell’estrema destra si mostrano indignati per un (presunto) business di sottrazione di minori ai loro genitori naturali.

Non risulta, per dire, che – diversamente da altri partiti, da associazioni, università, sigle sindacali e altri rappresentanti della società civile di tutta Italia – Salvini, la Lega e i fautori de “I bambini si difendono non si vendono” abbiano mai aderito alla Campagna per il diritto all’identità lanciata dalle Abuelas in Italia una decina di anni fa proprio per spezzare la catena di quel piano infame ordito dalla dittatura clericofascista di Videla e soci, e restituire giustizia alle vittime del traffico di figli rubati in sud America. Ma andiamo oltre. Prima si diceva del delirio di essere Dio e di poter disporre della vita e della morte di chi non crede in Dio, che nel Piano di riorganizzazione nazionale argentino “giustificava” l’eliminazione e sparizione fisica dei “sovversivi” e il furto e la rieducazione dei loro bambini con tanto di benedizione di solerti cappellani militari. Questa visione criminale dell’essere umano non era affatto originale. La sue radici affondano difatti nella Spagna cattolica e fascista dove il furto di neonati e un sistema di false adozioni furono usati come strumento di repressione politica, sin dal 1939, durante tutto il periodo della dittatura di Franco. Il quale, è noto, salì al potere anche con l’aiuto militare dell’idolo nostrano dei nostalgici che oggi dicono: “I bambini si difendono non si vendono”. Mussolini (come Hitler) inviò difatti truppe e mezzi in supporto ai golpisti di Franco durante la guerra civile.

E cosa fece una volta al potere il regime spagnolo per guadagnarsi lo status di “modello” da ricalcare per i gerarchi argentini? Con inganni e ricatti perpetrati da suore, preti e medici corrotti mise in piedi un sistema in grado di togliere i figli alle donne repubblicane finite in carcere e alle compagne di partigiani alla macchia, rimaste sole e senza mezzi, per affidarli a famiglie vicine al regime e di stretta osservanza cattolica (v. Simona Maggiorelli su Left del 12 maggio 2012). Esattamente quel che accadde decenni dopo in Argentina. In questo modo, secondo il delirio di Franco, assecondato dallo psichiatra organicista Vallejo Nagera che si era “formato” nella Germania nazista, si sarebbe impedito al «gene del comunismo» di diffondersi. In nome della religione e del futuro della nazione, di fatto, la tratta dei neonati divenne una crociata del governo spagnolo negli anni Quaranta e Cinquanta. Per proseguire poi ben oltre la caduta della dittatura e la morte del Caudillo, avvenuta il 20 novembre 1975. Questa pratica criminale, messa in atto per stroncare l’opposizione e la guerriglia, attaccando l’identità delle donne repubblicane e colpendole nei loro affetti più profondi, diventò un business per congreghe e istituti religiosi e apparati dello Stato.

Un affare talmente redditizio e così radicato da proseguire indisturbato per circa vent’anni fino al 1996 anche durante la cosiddetta transizione quando, in nome di una illusoria pacificazione nazionale, fu siglato un patto d’omertà fra ex appartenenti al regime clericofascista e governo democratico che nasceva così con una grave debolezza intrinseca. È stato stimato in anni più recenti dall’ex giudice Baltasar Garzon (colui che nel 1998 fece arrestare a Londra il dittatore cileno Pinochet) che potrebbero essere almeno 300mila le vittime del sistema di adozioni illegali messo in piedi sotto la dittatura di Franco, con ramificazioni in tutti i Paesi ideologicamente “affini”. «I bambini si difendono, non si vendono. In galera i ladri di bambini e i loro complici che li hanno portati via ingiustamente ai genitori» dicono oggi i destri riuniti a Bibbiano e sguinzagliati sui social, consentendoci così, senza volerlo, di ricordare quanto vi abbiamo qui raccontato. Forse dovremmo ringraziarli (ma a loro interessa solo che si ricomponga la famiglia patriarcale quindi non lo faremo) perché la memoria è sempre il primo passo necessario per ricostruire la verità e ottenere giustizia. Affinché il fascismo e i crimini contro l’umanità che per natura porta con sé non si ripropongano, sotto nuove forme, mai più. Nunca más.

L’articolo di Federico Tulli è stato pubblicato su Left del 2 agosto 2019


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Il governo del nulla

La storia infinita narra una storia che riguarda ogni bambino che diventa adulto. In essa si dice che il nulla vuole impadronirsi di Fantàsia, il regno dove tutto è possibile, dove il pensiero corre libero e dove i desideri che vengono soddisfatti rendono ancora più saldo e forte il regno dell’imperatrice bambina.

Il nulla vuole il potere su Fantàsia. Ma in verità il nulla non può regnare su Fantàsia. Perché il mezzo con cui il nulla conquista è… se stesso. La sua arma, il suo potere, è far sparire ciò che esiste. Ciò che è, scompare, non è più. È questo il modo paradossale del nulla per conquistare il mondo. Il mondo non viene nemmeno distrutto, perché nella misura in cui venisse distrutto potrebbe essere ricostruito. Esso scompare. Non ne rimane più traccia. Il nulla fa di ciò che è ciò che non è. Fa di ciò che esiste qualcosa che è come se non fosse mai esistito.

La storia narra che la salvezza dal nulla è nelle mani di un bambino. O per meglio dire nella sua voce. Egli dovrà dare un nome alle cose che non lo hanno ancora. Ma in particolare dovrà dare un nome all’imperatrice bambina. Il nome la rende immune dal nulla. Essa non potrà più sparire e con essa il regno di Fantàsia. Il nulla, perso il suo potere di far sparire, non è più… nulla. Come se il suo potere si fosse rivolto contro esso stesso.
Solo con le parole che danno nomi alle cose, il nulla non avrà più il potere di eliminare Fantàsia.
Solo così Fantàsia potrà esistere di nuovo anche in ciò che era stato fatto scomparire, comparendo magicamente… dal nulla.

Atreju, l’eroe puro, senza macchia e senza paura, ricompare a cavallo di Artax, il cavallo che era morto nelle paludi della depressione.
E poi accade che la fantasia esce dal mondo solo immaginario e diventa reale. La favola finisce con Falcor che porta in volo Sebastian, il bambino che non ha dimenticato, dandole un nome, l’imperatrice bambina.
Perché la fantasia può fare di ciò che non è ciò che è. Come se il nulla e il suo potere di far sparire non fossero mai esistiti.

La Repubblica di qualche settimana fa ha pubblicato un articolo che indagava su cosa distingue i giovani usciti dalla maturità con il massimo dei voti da tutti gli altri. La differenza sarebbe la capacità di usare il linguaggio. Quelli che prendono voti alti sono i ragazzi che hanno sviluppato la capacità di usare parole complesse e frasi complesse che gli permettono di elaborare e comunicare concetti complessi. Probabilmente, anzi sicuramente è vero. La capacità di comprendere ma soprattutto quella di saper dire è fondamentale. Ma io penso che si debba fare un passo in più di quello proposto da Repubblica che ne fa una questione di mera accumulazione di parole e di libri letti e poi di influenza dell’ambiente familiare.
Quello che le parole possono e devono dire è del rapporto con gli altri. Perché esse nascono dal rapporto con gli altri.

Il bambino ascolta l’amore contenuto nelle parole che la madre che lo accudisce gli rivolge. Non ne comprende la forma e il significato ma ne comprende il senso che è l’amore della madre. Qualunque sia la lingua in cui tale senso viene veicolato. Egli impara a parlare perché trasforma il suo amore per la madre in un suono. Quel suono che ha il senso dell’amore per la madre poi diventerà parola articolata. E poi dopo ancora simbolo verbale espresso da una linea quando diventerà scrittura.
Il linguaggio del bambino esprime quindi prima di tutto un pensiero d’amore. Le parole che comporrà con la sua voce, facendole simili a quelle ascoltate, esprimeranno nella loro incertezza quell’infinito amore che ha dentro di sé.

Massimo Fagioli la chiamava capacità di amare. È la capacità di amare la realtà fondamentale del bambino. Ed essa viene espressa nelle parole che egli inizierà a comporre con la sua voce.
Quell’infinito amore si trasformerà nelle realizzazioni di rapporto con l’altro essere umano e mano a mano diventerà possibilità di rapporto con il mondo materiale non umano che verrà anch’esso pervaso di affetti. La conoscenza, la possibilità di pensare, di intuire e poi sapere ciò che è nascosto ed invisibile, deriva da questa capacità di amare e di avere rapporto del bambino.

Ogni essere umano ha avuto un’infanzia, più o meno felice. Non voglio qui dire cosa fa la felicità o l’infelicità. Mi interessa solo dire che questo potrà poi comporsi in un alternarsi di essere ed avere.
L’essere del pensiero, della capacità di vedere al di là. Della possibilità di pensare, dell’avere quella fantasia che non può essere intaccata dal nulla nella misura in cui diventa linguaggio articolato, come racconta la storia infinita.
E l’avere della realtà materiale. Certamente necessaria per la sopravvivenza. Certamente pericolosa quando diventa accumulazione che nasconde un’assenza, un nulla dell’essere perché senza capacità di comunicare, di avere rapporto con l’altro essere umano.

Questo giornale fin dal primo numero nel 2006 ha deciso di ribellarsi al nulla del pensiero dominante. E lo ha fatto ospitando una rubrica di pensiero nuovo sull’essere umano.
Una rubrica in cui il suo autore, Massimo Fagioli, ha fatto ricerca. Ma non lo ha fatto nelle chiuse stanze di un laboratorio, in solitudine, aderendo all’immagine consueta dello scienziato solitario e genialoide/pazzoide. Lo ha fatto in quel particolare rapporto con gli altri che si esprime con la scrittura. Aggiustando, modificando, correggendo e aggiungendo, di articolo in articolo, la sua ricerca in pubblico. Con il pubblico che lo leggeva e lo aspettava. Ed è in questo rapporto che ha creato un linguaggio nuovo. Ha dato nomi alle cose del pensiero umano per combattere il nulla.

È dal rapporto che emerge il linguaggio. Ed è per il rapporto che si sviluppa. Quando non è così quello che emerge è un linguaggio freddo, che parla senza avere il senso del rapporto umano anche se può avere un perfetto rapporto con la realtà materiale non umana. È un linguaggio che addormenta o peggio uccide la fantasia perché la sua energia negativa è il nulla.

Ho scritto questi pensieri perché è un po’ di tempo che mi chiedo che cosa sia l’attuale governo italiano ed in particolare il suo ministro dell’Interno che né è di fatto il leader.
Forse parlarne è dargli troppa importanza ed in verità si tratta solo di un personaggio politico di estrema destra come tanti altri ne sono esistiti e che, come tanti altri, passerà e finirà dimenticato.
Ma forse si può capire qualcosa di più del suo successo pensando che esso rappresenta in fondo nient’altro che il nulla.

Perché è facile non pensare, non sentire, non vedere… e quindi non agire.
Se muoiono centinaia e migliaia di persone nel Mediterraneo è più facile non sapere, non vedere, non sentire. È troppo disturbante, stressante, faticoso. Mette in crisi.
Mette in crisi l’idea che la nostra società, il nostro mondo, la società occidentale con il suo infinito potere tecnologico e finanziario, sia una società perfetta, animata dalle migliori intenzioni possibili.
Si potrebbe scoprire che la nostra, al fondo, è una società violenta perché fondata su un pensiero violento. Perché permette, senza battere ciglio, la morte di persone che sono come noi. È un pensiero fascista che dice che quelle persone non sono in realtà come noi.

La società in cui viviamo è una creazione umana. Lo Stato, la Costituzione e le leggi, le istituzioni, i poteri dello Stato, etc. sono tutte creazioni umane.
I diritti e i doveri fondamentali sono quindi espressione della realtà umana e dei rapporti che fanno la società. Non il viceversa. Allora come è possibile questa violenza così assurda sotto gli occhi di tutti?
Ciò che questo governo e Salvini non potranno mai comprendere è che l’uguaglianza e la libertà sono caratteristiche prima di tutto umane che solo poi sono diventate fondamento del vivere sociale e civile e quindi della nostra costituzione e delle nostre leggi.

Se comprendiamo questo allora forse potremo un giorno avere uno Stato che ha come reale fondamento l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, che non è una cosa che è così perché stabilita dalla legge ma perché è una caratteristica universale dell’essere esseri umani, del tutto indipendente da dove siamo nati o da che colore della pelle abbiamo o da qualunque altra caratteristica fisica.
Uno Stato che dice che ciò che fa la realtà umana è l’essere nati punto e basta. E questo è più che sufficiente per garantire diritti di uguaglianza e di libertà indipendentemente da dove si è nati o da quali caratteristiche fisiche si abbiano.
Uno Stato che riconosca che ciò che ci fa esseri umani è la nostra capacità di amare.
Ciò che ci permette di avere rapporto con gli altri e di riconoscerli simili a noi stessi.

L’editoriale di Matteo Fago è pubblicato su Left in edicola dal 2 agosto 2019


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Venti di guerra fredda: gli Usa fanno saltare il trattato sul nucleare con la Russia

epa07752013 Activists from IPPNW Germany and ICAN Germany wear masks of US President Donald J. Trump (R) and Russian President Vladimir Putin (L), holding mock nuclear missiles as they demonstrate against the ending of the Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF) in front of the American Embassy at Pariser Platz in Berlin, Germany, 08 December 1987. The INF treaty, signed 01 June 1988, is due to end on 02 August 2019 after US President Donald J. Trump announced the US withdrawl in October 2018 and formally suspending it on 01 February followed by Russia in 02 February 2019. EPA/OMER MESSINGER

Si è chiusa un’era, e il rischio è quello di ritornare a un clima da Guerra fredda. Gli Stati Uniti si sono ritirati formalmente dall’Intermediate-range nuclear forces treaty (Trattato Inf), siglato nel 1987 con la Russia da Ronald Reagan e Mikhail Gorbačëv. Il Segretario di Stato Mike Pompeo lo ha annunciato il 2 agosto – dopo aver reso pubblico a febbraio scorso che la partecipazione degli Usa al patto era sospesa – seguito a ruota da Putin. Sul fronte delle armi “tattiche” (ossia quelle pensate per un uso sul campo di battaglia, a differenza di quelle “strategiche” che hanno un valore deterrente, nda), il Trattato Inf era l’unico accordo rimasto tra Russia e Stati Uniti a garantire un equilibrio.

L’accordo stabiliva la messa al bando di una particolare classe di armi, i missili balistici e cruise a medio o corto raggio (500 – 5.500 km di gittata) lanciati da terra, armati in modo convenzionale o con testate nucleari, e prevedeva un attento regime di verifiche reciproche, comprese ispezioni, che avevano aperto un’era di cooperazione bilaterale sul fronte del disarmo. Dopo la firma, il 1° giugno 1991, Usa e Russia smantellarono 2.692 missili, riducendo completamente gli arsenali. La stagione della deterrenza e della corsa agli armamenti era conclusa, il bando avrebbe dovuto avere durata illimitata.

Le radici del malcontento degli Stati Uniti per il mancato rispetto del Trattato in questione da parte russa affondano ancora nell’amministrazione Obama, che aveva definito Mosca come un “violatore seriale”. Ma, come scoperto dall’attuale amministrazione, Mosca avrebbe violato i limiti imposti dall’Inf, sviluppando un missile di gittata superiore ai 500 km: il cruise Novator 9M729, versione superiore al 9M728 del complesso missilistico Iskander-M. I russi dicono che ha una gittata massima di 480 km, e dunque in regola, e a loro volta puntano il dito sull’MK-41 statunitense. Le testate sarebbero state stanziate nella Russia dell’ovest, dunque dalla parte europea. Secondo la Casa Bianca, tutta l’Europa occidentale sarebbe situata nel raggio di questi missili, e la minaccia alla sicurezza è molto seria.

Pompeo ha subito affermato che: «La Russia è la sola responsabile per il fallimento del trattato. Gli Stati Uniti non rimarranno fedeli ad un accordo che viene deliberatamente violato da una delle parti». Ha aggiunto questa mattina su Twitter che «gli Usa rimangono interessati a un controllo effettivo delle armi che aumenti la sicurezza dell’America, dei suoi alleati e dei suoi partner; che sia controllabile e rinforzabile; e che includa partner che sottostiano responsabilmente agli obblighi imposti». Secondo l’amministrazione Trump, infatti, il 2 febbraio si erano concessi sei mesi alla Russia per tornare in pari con gli obblighi del Trattato Inf, ma la Russia avrebbe rifiutato: «Per troppo tempo la Russia ha violato l’Inf con impunità, sviluppando e testando di nascosto un sistema missilistico proibito che minaccia direttamente gli alleati americani all’estero», aveva affermato il Presidente.

Per la sicurezza europea, questo trattato è stato fondamentale. Alla scadenza dell’ultimatum americano, la Russia ha fatto sapere di aver chiesto agli Stati Uniti di dichiarare una moratoria sullo sviluppo di missili nucleari a breve e medio raggio nelle basi Usa in Europa, il continente più esposto al venir meno del Trattato Inf. Secondo la Reuters, infatti, il Ministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov, ha affermato: «Abbiamo proposto agli Usa e agli altri paesi membri della Nato di soppesare la possibilità di dichiarare la stessa moratoria sul dispiegamento di missili a corto e medio raggio, come i nostri, come quella annunciata da Putin».

Intanto, secondo voci anonime dei vertici della Casa Bianca, con gli States liberi di sviluppare un proprio sistema di armi vietate in precedenza, si prevedono dei test già nelle prossime settimane. «Siamo letteralmente anni orsono dall’avere qualsiasi capacità di risposta immediata. A causa della nostra stretta aderenza al trattato per 32 anni, siamo al punto di contemplare test di volo iniziali, ma niente di più», hanno spiegato i consiglieri dell’amministrazione. L’Alleanza atlantica fa sapere che agirà «in modo misurato e responsabile» per rispondere ai «rischi significativi posti dal missile russo 9M729. Abbiamo concordato un pacchetto di misure bilanciato, coordinato e difensivo». Che include soltanto armi convenzionali (non nucleari).

Il controllo degli armamenti ha subito, dunque, una pesante sconfitta: solo il New Strategic arms reduction treaty (Start), un trattato sulla riduzione delle armi nucleari firmato a Praga nel 2010 resta valido sul fronte del disarmo, nell’ambito della deterrenza strategica, ma è in scadenza tra due anni. Sembra proprio la realizzazione di quello scenario descritto dal “dilemma della sicurezza”: una situazione che si innesca nel sistema internazionale quando gli strumenti impiegati da uno Stato per accrescere la propria sicurezza provocano una riduzione, anche non intenzionale, della sicurezza di altri Stati. Ciò innesca una spirale di insicurezza reciproca che conduce inevitabilmente al rafforzamento degli arsenali e all’esplosione dell’equilibrio.

E intanto la corsa agli armamenti riprende – per quanto Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, abbia esplicitamente affermato che una nuova «corsa agli armamenti» è fuori discussione -, con nuovi temibili attori che si aggiungono sullo scacchiere internazionale, prima fra tutti la Cina.