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Se Di Maio si dimentica dei precari del suo stesso ministero

Preso com’è ad «abolire la povertà», il ministro del Lavoro Luigi di Maio non ha mai incontrato i precari del suo ministero che, da luglio dell’anno scorso, hanno ripetutamente scritto e chiesto. Intanto per loro comincia lo stillicidio del fine contratto. Sono, ad oggi, 654, dal primo giugno hanno perduto il posto in 13 e prima ancora sei nel mese precedente. Sono i precari dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal, già Italia lavoro). I precari di Anpal servizi sono un paradosso nella già paradossale vicenda politica e sociale di questo Paese: in attesa che i 3mila navigator vengano contrattualizzati in Anpal servizi e visto che i Centri per l’impiego sono attualmente sottodimensionati saranno loro a supportare i percettori di quello che viene chiamato “reddito di cittadinanza”. Giovedì prossimo, 6 giugno, faranno di nuovo sciopero e manifesteranno davanti al ministero dello Sviluppo economico a Roma.

«Mi puoi lasciare anonima?», chiede Marisol, nome di fantasia, prima di cominciare a raccontare che, dopo sei anni di tempo determinato e sei proroghe, ha perso il lavoro. Era una delle lavoratrici e lavoratori di Anpal servizi in distacco proprio al ministero per attività di alto livello come la formazione alle politiche attive del lavoro per fasce vulnerabili (ad esempio i rifugiati) e altre attività strategiche o proprio funzioni strutturali come la comunicazione istituzionale del ministero. In generale, più della metà dei dipendenti della società in house sono precari. E senza il superamento del precariato strutturale, gli operatori, da personale specializzato nelle politiche attive e nella ricollocazione, si stanno trasformando in soggetti da ricollocare.

«La prima lettera a Di Maio l’abbiamo scritta a luglio 2018, non ci ha mai risposto né ricevuto – spiega Marisol – nel tempo abbiamo capito che ci vuole sostituire con i famosi navigator, un turn over pianificato perché alcuni paletti nel bando non ci hanno permesso di partecipare al concorso. Sono previste solo alcune lauree mentre noi siamo una comunità professionale variegata. Il tipo di selezione ci sembra arbitraria: la laurea in sociologia sì, per esempio, e quella in filosofia non vale per accedere al concorso. E potevi candidarti solo se il tuo contratto con Anpal scadeva meno di 30 giorni prima dei termini per la domanda».

Nei dodici mesi dall’insediamento del governo, la comunità professionale di Anpal servizi ha animato una articolata mobilitazione, con scioperi e presidi sotto il ministero e le sedi aziendali. Tutti gli incontri istituzionali ottenuti non hanno prodotto alcun risultato, nonostante le tante promesse. «Come quelle della senatrice Catalfo», riprende Marisol ricordando l’incontro con la componente della commissione lavoro definita da un noto quotidiano come «la vestale a cinque stelle del “reddito di cittadinanza”». «Le furono portati documenti e proposte ma siamo stati presi in giro perché disse che le nostre competenze erano strategiche per i programmi che il moVimento voleva implementare».

Il quadro si è, poi, drammaticamente complicato alla luce della chiusura del dialogo da parte del presidente Parisi «che ha imposto – si legge nella lettera aperta a Di Maio del coordinamento precari – uno stile decisionista poco attento alla cura delle relazioni industriali». Il professore Mimmo Parisi, della Mississippi State university, è il cosiddetto “amico americano”, il guru a cui il vicepremier di Pomigliano ha affidato l’impresa di gestire il RdC.

«L’ultima volta ci ha ricevuto il sottosegretario Claudio Cominardi e un certo Tripiedi, che ci ha accusato di essere dei “sacconiani”, raccomandati e incompetenti. Entrambi hanno avuto il coraggio di dirci che non sapevano nulla dell’azienda, e che non avevano ricevuto nessuna richiesta di incontro in precedenza» dice ancora Marisol. Se Di Maio passerà alla storia per aver previsto un “nuovo miracolo economico” mentre tutto intorno crollava l’economia, il deputato 5 Stelle Davide Tripiedi sarà ricordato per una gaffe («Sarò breve e circonciso», l’ha davvero pronunciato lui dagli scranni di Montecitorio) e per lo scarso rispetto dimostrato per questi lavoratori. «Ma se quando Sacconi era ministro io andavo ancora a scuola! – sbotta la “nostra” Marisol – tutti e due hanno avuto il coraggio di dire che non sapevano niente dell’azienda, “non abbiamo ricevuto nulla”…».

In questa storia non ci fanno una gran figura nemmeno i sindacati, «se il coordinamento s’è mosso un anno fa, loro hanno temporeggiato con la scusa di attendere la rimozione di Del Conte, bocconiano e del Giglio magico di Renzi, e “l’amico americano” Parisi, insediatosi da poco, ha solo detto che sta lavorando coi suoi legali per trovare una soluzione. Ha chiesto tempo ma il tempo sta volando». Il vecchio piano di stabilizzazione per chi aveva 54 mesi di anzianità s’è interrotto alla vigilia delle passate elezioni, «funzionava – spiega Marisol – con un tavolo semestrale che stabiliva le assunzioni a tempo indeterminato. Nessuno di noi sa il perché, s’è parlato di danno erariale che sarebbe derivato dalle stabilizzazioni ma la Corte dei conti non ha avuto nulla da dire nella sua recente relazione su Anpal servizi. Ora si parla di concorso riservato, ma solo per venti posti, con una norma inserita nel Decreto dignità che ha stanziato un milione per la stabilizzazione di alcuni dei precari, ma l’azienda lavora con fondi strutturali e potrebbe assumere molte più persone, tutti lavoratori che sono piuttosto efficienti rispetto agli obiettivi aziendali certificati tant’è che abbiamo anche preso un piccolo premio di produzione».

Il portavoce del ministro si chiama Luigi Falco e proviene proprio da Anpal servizi e Di Maio l’avrebbe visto bene alla presidenza se solo avesse avuto le competenze. Forse è proprio lui a scrivere la risposta in politichese puro di difficile esegesi ai quesiti di Left: Perché Di Maio non ha mai incontrato i suoi precari? «Il ministero ha sempre ascoltato le istanze dei lavoratori a tempo determinato di Anpal servizi – assicura in una mail il capo dell’ufficio stampa del Mlps – inserendo anche un emendamento per favorire la loro assunzione nel decreto del reddito di cittadinanza, un impegno concreto che ha recepito una richiesta dei lavoratori che mai era accaduto nella storia di Anpal Servizi». Con la seconda domanda abbiamo cercato di capire se fossero almeno allo studio le soluzioni per quei precari. «Con la riorganizzazione delle attività legate all’investimento che il ministero ha fatto nella società per la realizzazione del Reddito di cittadinanza ci sarà un piano dettagliato di assunzioni che andranno oltre lo stanziamento appostato». Quando? Come? «Il capo ufficio è in riunione e non credo sarà breve».

Intanto, in netto ritardo rispetto agli annunci, l’iter per arruolare 2.980 navigator, la «figura centrale» del percorso di avviamento al lavoro collegato al reddito di cittadinanza, si concretizza con l’annuncio delle date del maxi-concorso: selezioni il 18, 19 e 20 giugno, alla Fiera di Roma per quasi 54mila candidati. I candidati in arrivo a Roma saranno un fiume in piena: erano state 78.788 le domande, a partire dalla Campania con 13.001 candidati e dalla Sicilia con 11.886, poi il Lazio con 9.304, la Puglia con 9.191 e la Calabria con 6.977. La città con più candidati è Roma (7.092), seguita da Napoli (6.812), Palermo (3.503), Catania (2.758), Salerno (2.457). Laureati, in maggioranza dal centro-sud, dopo la prima scrematura basata sul voto di laurea, saranno in 53.907 a contendersi con cento quiz in cento minuti un incarico di collaborazione a termine, fino al 30 aprile 2021, con una retribuzione annua di 27.338,76 euro lordi, ed un rimborso spese forfettario di 300 euro lordi mensili. Con l’assunzione dei navigator si giungerebbe ad avere un organico composto da circa il 90% di precari.

«Quando un sistema è basato sulla precarietà dei diritti degli operatori, non può che produrre una precarietà dei servizi per gli utenti», considera il coordinamento dei lavoratori Anpal servizi. È proprio del rancore e dall’insicurezza che produce la precarietà che si nutre un governo come quello animato da Di Maio e Salvini.

«La giungla non è in vendita»

Waorani indigenous people protest outside the Ministry of Natural Resources in Quito on May 16, 2019, against the government's extractive policy in the Amazon. (Photo by Cristina VEGA / AFP) (Photo credit should read CRISTINA VEGA/AFP/Getty Images)

A proposito delle cose che succedono a casa loro arriva questa notizia che rincuora, e noi abbiamo bisogno di rincuorarci per credere nella giustizia del mondo e dell’uomo, e che quando l’ho letta mi si è allargato il cuore. Cinquemila indios ecuadoriani delle tribù Waorani sono riusciti a fermare lo sfruttamento petrolifero delle foreste in cui vivono, circa 200mila ettari di Amazzonia. Lo so sembra incredibile detto così eppure non hanno fatto altro che manifestare, alzare la voce, provare a fare in modo che il mondo si interessasse di queste notizie che sembrano non interessare a nessuno e che invece stabiliscono (o meglio, ristabiliscono) le regole del mondo.

La Corte suprema dell’Ecuador, con una sentenza quasi inaspettata ha stabilito che nessuno ha il diritto di impiantare giacimenti petroliferi nei terreni delle tribù senza prima interpellarli e senza coinvolgerli. Tutt’altro rispetto alle guerre poco democratiche o alle esportazioni di democrazia che in nome del dio petrolio infiammano di conflitti l’Africa, sì l’Africa, di quelli che poi vengono da noi per scappare da tracimazioni che hanno sempre radici capitalistiche occidentali.

I Waorani hanno attraversato la giungla a piedi e in canoa per andare ad ascoltare la sentenza e le foto dei festeggiamenti sono una carezza sul cuore. Non si tratta solo della vittoria di Davide contro Golia ma si tratta dell’affermazione di un principio che se fosse applicato dappertutto ridisegnerebbe la geografia del mondo e soprattutto risolverebbe molto di più il problema delle migrazioni, più di tanti decreti, decreti bis o decreti tris.

La consapevolezza che anche noi siamo predoni in terra d’altri e poi non vogliamo occuparci delle conseguenze è uno dei punti fondamentali di questo tempo in cui un intero continente si ritrova a scappare dalla fame e dal piombo e chiede all’Europa di restituire il maltolto di secoli di razzie economiche che hanno lasciato macerie dappertutto.

«Siamo guerrieri – dichiara il loro capo tribù – Prima combattevamo con le frecce, adesso lo facciamo con la penna». E in fondo è quello che facciamo, proviamo a fare ci impegniamo a fare, ci sforziamo di fare ogni giorno: provare a combattere con la penna. Perché “nessuna giungla sia in vendita”.

Buon martedì.

La Rappresentante di Lista e La Municipàl: largo a una nuova energia in musica

Da qualche anno, la voce potente di Veronica Lucchesi dà vita, insieme al chitarrista Dario Mangiaracina, al gruppo de La Rappresentante di Lista con, al loro attivo, ben tre album. L’ultimo, Go Go Diva, uscito lo scorso dicembre, è stato anticipato dal singolo “Questo corpo” con il video a figura intera di Lucchesi per ribadire con energia l’intento del gruppo: «Rappresentante di Lista, ossia la nostra musa. Il prototipo di donna di cui vogliamo parlare. Il punto di vista femminile, di una donna che accoglie, che ha voglia di fare delle scelte, che ha uno sguardo attento sul mondo, su quello che succede». Una donna risoluta, ma che si mette in rapporto con l’altro, con gli altri, come hanno fatto loro quando più di dieci anni fa si sono conosciuti e hanno deciso di realizzare qualcosa. «Ci siamo conosciuti in teatro, abbiamo iniziato a lavorare insieme come attori in una compagnia per preparare uno spettacolo. Durante le pause, scrivevamo canzoni per gioco, anche insieme ad altri colleghi. Questa passione, in me e Veronica, è rimasta come un desiderio fortissimo che ci ha portato qui», racconta Dario, che, a proposito di questo aprirsi all’altro, puntualizza che per questo il loro è uno sguardo al plurale. Plurale femminile però. A proposito della presenza delle donne sulla scena musicale italiana, Veronica dice: «Vorrei essere considerata per quello che faccio, per i testi che porto che già parlano moltissimo di quello che provo e sento». Sarà una bella festa vedere dal vivo, nei principali club italiani, da ora e per tutto il periodo estivo, le loro capacità performative.


Sono fratello e sorella, invece, Isabella e Carmine Tundo, il duo salentino de La Municipàl (nella foto). Carmine, che fin da bambino scriveva canzoni per band ska punk, è stato poi scoperto da Corrado Rustici e con la Sugar di Caterina Caselli ha pubblicato il primo album da solista. Il suo curriculum si arricchisce di premi e collaborazioni, come quella con Malika Ayane. Nel 2013 decide di coinvolgere, nel suo progetto, la sorella Isabella, fino a quel momento impegnata negli studi in medicina. Carmine e Isabella, che si divide tra l’ospedale e il palco, si aggiudicano il premio 1M Next, il premio Siae, Nuovo Imaie e Altoparlante. Mi incuriosisce il loro rapporto e chiedo se siano sempre andati d’accordo. Ridono entrambi, poi risponde Carmine: «Abbiamo ancora le cicatrici che ci siamo lasciati addosso da piccoli, poi siamo cresciuti, siamo maturati, almeno si spera». Quando Isabella è in ospedale, lui compone e poi condivide tutto con lei: «Ci troviamo in sintonia sulle cose da dire; la maggior parte dei testi la scrivo io, ma lei poi si trova d’accordo. È una cosa strana che non ho riscontrato mai, neanche con musicisti con i quali suono da venti anni. Una questione di sangue, che ci porta ad avere un’affinità artistica». I fratelli Tundo portano in giro il loro ultimo album Bellissimi difetti, e nel 2020 hanno in programma anche un tour europeo. «Il titolo si ispira alla pratica giapponese del kintsugi quando da un’imperfezione può nascere una forma ancora migliore di perfezione estetica e interiore. Abbiamo pensato sempre che quelli che sono le nostre imperfezioni ci differenziano dagli altri. Quando sei un po’ più piccolo tendi a uniformarti e poi viviamo in una società che omologa. La riscoperta del proprio essere diverso è importante». Prima di salutarli, gli chiedo perché si sono dati quel nome. Mi risponde Carmine: «Un nome nato un po’ per gioco perché nostro padre faceva il vigile urbano e sono contento oggi di indossare la giacca di servizio di mio padre». Appunto, il lavoro. Ecco un argomento che non fa distinzioni di sesso, soprattutto quando non c’è, e del quale dovremmo parlare. Anche suonando.

Settis: Se Venezia muore all’ombra dei grattacieli del mare

Nel suo libro “Se Venezia muore” Salvatore Settis lanciava l’allarme sul futuro del capoluogo veneto e non solo. Ridotta a scenografia per navi grattacielo, spopolata, la Serenissima rischia di diventare una sorta di Disneyland diceva già nel 2014 l’archeologo e storico dell’arte. Vi riproponiamo questa intervista realizzata da Simona Maggiorelli

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Lancia un grido d’allarme per Venezia e, attraverso questo simbolo, per il futuro di molte altre città storiche il libro di Salvatore Settis, Se Venezia muore.

Nel volume edito da Einaudi, l’eminente archeologo e storico dell’Arte della Normale stigmatizza le responsabilità politiche e l’ignoranza di amministrazioni e governi che hanno ridotto la Laguna a una sorta di Disneyland per grandi navi. Ma al contempo, come è nel suo stile colto e animato da passione civile, offre una riflessione alta sul senso politico dell’abitare raccontando l’originalità e l’unicità di centri urbani (da Venezia a l’Aquila, a Matera e oltre) che rappresentano una sfida creativa ai limiti imposti dalla natura.

Con i suoi palazzi storici che concorrono, ciascuno con un proprio timbro, alla composizione armonica della città sull’acqua, «Venezia offre l’esempio supremo di una transizione dall’ordine della natura a quello della cultura» scrive Settis. Qui più che altrove le tipologie architettoniche, le sequenze dei quartieri, le tecniche di muratura, i materiali, le membrature lasciano trasparire in filigrana il vissuto, le tensioni, i conflitti di chi l’ha abitata e modificata nei secoli. «Per sparse sopravvivenze» la città visibile racconta la storia della «città invisibile» fatta di relazioni umane.

All’occhio attento Venezia si fa leggere «come un palinsesto» lasciando intravedere una forma latente e più profonda. Che inavvertitamente, potremmo dire, concorre a creare la speciale atmosfera e lo spirito cosmopolita e malinconico che aleggia per le calli. «Ogni città lascia una traccia nell’animo, nel carattere e negli umori delle persone che la abitano», scrive Orhan Pamuk in Istanbul. Tornano in mente queste parole del premio Nobel turco leggendo Se Venezia muore.

«Nel parlare di città invisibile la mia ispirazione diretta è Calvino e il suo personaggio di Marco Polo» commenta Settis. «Ma Pamuk è un autore che amo molto. In Istanbul c’è il suo continuo girare intorno alla città e alla sua infanzia. Mentre il museo privato che ha costruito più di recente racconta un amore per una donna che è anche amore per Istanbul. La dimensione più importante di ogni discorso sulle città non è quella urbanistica né quella speculativa o dei piani casa dei vari governi, ma riguarda l’anima della città: l’anima siamo noi che l’abitiamo».

La città vive di relazioni umane, di spazi pubblici abitati, altrimenti rischia di scadere a scenografia inerte. Il centro di Venezia, come quello di Firenze, perde abitanti ed è sempre più ostaggio di un turismo mordi e fuggi. Come far capire ai politici che è un assassinio?

Di fronte alla politica ufficiale dei partiti ci sono già moltissimi movimenti di cittadini che si oppongono e contrastano tutto questo. Ma oltre alla lotta perché non si facciano più cene sul ponte Vecchio a Firenze, perché non si svendano i nostri centri storici, occorre una riflessione sui grandi principi: bisogna ricordarsi che cosa è la città e che sono gli esseri umani ad animarla. La città storica si pone come un luogo di dialogo, di discorso, uno spazio di creatività, di democrazia. In cui i cittadini sono attivi, non sono solo servitori di stuoli di turisti. Beninteso, va benissimo che ci sia chi tiene alberghi, chi fa cucina, ma non può essere solo questo. Le città devono ritrovare la loro “anima”. Venezia perde mille abitanti l’anno. Si svuota, in particolare, di chi ha pochi soldi. Sta diventando una sorta di paradiso artificiale per ricchi, una città che non esiste, una Disneyland. Questo è esattamente il contrario di ogni meccanismo di eguaglianza, di democrazia, di cui oggi invece avremmo bisogno.

Se non si danno strumenti di conoscenza, ma al contrario impacchettiamo pubblicitariamente Venezia, dando libero accesso alle grandi navi, non rischiamo di azzerarne la storia e di offrirne agli stessi turisti un’immagine appiattita, quasi fosse un clone di se stessa?

La ragione per cui Venezia si presta ad essere il simbolo delle città storiche è che, oltre ad essere straordinariamente bella, il suo tessuto urbano vive in simbiosi con la natura e in particolare con la Laguna. Il che, mutatis mutandis, è vero anche per altre città. In genere il limite della città è la campagna ma oggi è ridotta a un ritaglio fra un’autostrada e un’altra. A Venezia invece la presenza della Laguna è molto forte. Ma queste gigantesche navi sfilano portando decine di migliaia di persone al giorno, che guardano Venezia dall’alto stando in mutande. A volte non si degnano nemmeno di scendere. Questa intrusione di grattacieli immobili, distrugge il rapporto con la natura. È un problema non solo estetico, ma anche di natura etica,comportamentale, sanitaria, perché è chiaro che queste navi inquinano pesantemente. Le autorità comunali, regionali e nazionali fanno finta di non vedere ma lo sanno tutti.

Oltre alle «navi grattacielo», c’è stato anche chi ha avanzato il progetto folle di costruire un cordone di grattacieli a margine della città per proteggerla dall’acqua alta. Il postmoderno in architettura rischia di fare danni irreparabili?

Questo «grattacielismo» – l’espressione è di Vittorio Gregotti – affligge l’architettura contemporanea. È un figlio diretto della speculazione finanziaria. Edificare in altezza non conviene a chi ci va a vivere o a lavorare. Chi potendo scegliere andrebbe al centesimo piano, chiuso in un loculo e non in una casa con giardino? Il grattacielismo di moda nei più ricchi fra i Paesi del Golfo Persico, ad Abu Dhabi e Dubai, in Italia non ha mai preso piede ma ora lo si cerca di lanciare: i grattacieli di Milano spuntati per l’Expo ne sono un esempio. Pensavamo che i grattacieli a Venezia fossero solo un delirio di Pierre Cardin, ma è uscita quest’idea di uno studio belga di fare una corona di grattacieli. Può essere considerata una provocazione, uno scherzo, non è un progetto commissionato davvero, ma racconta questa difficoltà a pensare l’architettura contemporanea se non passando attraverso la forma del grattacielo. Qui sarebbe passiva imitazione, una scopiazzatura.

Riallacciandosi a Rem Kolhaas, tra l’altro direttore della Biennale 2014, lei racconta la storia dei grattacieli di Manhattan. A New York, come a Dubai o ad Honk Kong, il grattacielo era forse l’unica forma proponibile, ma che senso avrebbe nel nostro contesto?

La forma del grattacielo, così come è nata storicamente alla fine dell’800 ai primi del ’900 in città come Chicago o New York, veniva da un certo orizzonte culturale . È veramente sorprendente che città come Milano o Torino si vogliano allineare a questa moda con cento anni di ritardo, per giunta presentandola come se fosse una novità. E qui si notano contraddizioni anche di un architetto come Renzo Piano che da un lato dice «rammendiamo le periferie», dando una parola d’ordine bellissima, dall’altra costruisce un grattacielo nel centro di Torino. Se si limitasse a curare le periferie senza fare grattacieli sarebbe più credibile.

Citando Plutarco lei ricorda che una città è come un organismo vivente. Ed è soggetta al passare del tempo. Ma non tutto ciò che appartiene al passato deve essere conservato tale e quale. Da parte dei politici al governo va di moda accusare i soprintendenti di essere dei talebani della conservazione, ma la tutela non è, di per sé, necessariamente dinamica?

La tutela è sempre qualcosa di dinamico. Non solo i soprintendenti ma anche persone come me vengono accusate di essere talebani della conservazione. C’è questa specie di leggenda nera per cui chi dice dobbiamo proteggere le nostre città e il nostro patrimonio viene scambiato per uno che vuole ibernarli. Ma la realtà non si può ibernare, gli alberi crescono, nascono, muoiono, lo stesso paesaggio è in continuo mutamento, la natura e l’essere umano hanno a che fare con il cambiamento. Certo in questo caso deve essere negoziato in base al codice genetici di una determinata città, di un determinato paesaggio. E poi ci sono le leggi e il rispetto della legalità che dovrebbero portare verso la tutela.

Lo Sblocca Italia, di cui lei ha scritto anche nel libro Rottama Italia (L’Altreconomia) porterà nuove colate di cemento? Come si muove il governo?

La politica si sta muovendo come al tempo in cui il presidente del Consiglio si chiamava Berlusconi. Da questo punto di vista il cambiamento di cognome del premier e del nome del partito di maggioranza relativa non ha portato nessun cambiamento. Qui si vede che con il patto del Nazareno Berlusconi porta dei voti a Renzi, chiedendo delle cose in cambio. Nello Sblocca Italia ci sono delle norme contro cui il Pd protestava vivacemente quando le proponeva il centrodestra, ora le ha fatte proprie.

 

L’intervista a Salvatore Settis è stata pubblicata su Left del 15 novembre 2014

Chi dice cosa

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (S) con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta durante la parata militare per le celebrazioni del 73esimo anniversario della Festa della Repubblica Italiana, Roma, 02 giugno 2019. ANSA/ANGELO CARCONI

Ieri è stata la Festa degli Italiani, è il simbolo del ritrovamento della libertà e della democrazia da parte del nostro popolo. È un appuntamento che rinsalda da parte dei cittadini la loro adesione leale e il loro sostegno all’ordinamento repubblicano, nella sua articolazione, allo stesso tempo unitaria e rispettosa delle autonomie, sociali e territoriali.

Abbiamo appena celebrato in ventotto Paesi d’Europa un grande esercizio di democrazia: la elezione dei deputati al Parlamento Europeo, a conferma delle radici solide di una esperienza che stiamo, gradualmente, costruendo da ormai sessantadue anni. In realtà sessantotto dal momento dell’avvio del primo organismo comunitario, la Comunità del carbone e dell’acciaio.

L’Italia è stata guidata, in questo percorso, dalle indicazioni della sua Costituzione; dalla consapevolezza di una sempre più accentuata interdipendenza tra i popoli; dalla amara lezione dei sanguinosi conflitti del ventesimo secolo. Soltanto la via della collaborazione e del dialogo permette di superare i contrasti e di promuovere il mutuo interesse nella comunità internazionale.

La Repubblica italiana, con l’assunzione di responsabilità nel contesto globale, ha contribuito, per la sua parte, alla definizione di modelli multilaterali e di equilibri diretti a garantire universalmente pace, sviluppo, promozione dei diritti umani.

La Repubblica italiana, con l’assunzione di responsabilità nel contesto globale, ha contribuito, per la sua parte, alla definizione di modelli multilaterali e di equilibri diretti a garantire universalmente pace, sviluppo, promozione dei diritti umani.

Anche per questo non possiamo sottovalutare le tensioni che si sono manifestate, e si manifestano, provocando conflitti e mettendo pesantemente a rischio la pace in tanti luoghi del mondo.

Va ricordato che – in ogni ambito – libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo.

I valori delle civiltà e delle culture di ogni popolo contrastano in modo radicale con quella deriva e fanno, invece, appello a salde fondamenta di umanità, per confidare nel progresso. Per quanto ci riguarda, in questo anno, cinquecentesimo dalla morte di Leonardo da Vinci, avvertiamo in modo ancor più esigente questa prospettiva.

Abbiamo bisogno di praticare attenzione e rispetto reciproco, nella libertà e nella legalità internazionale, per avanzare sulla strada del progresso, con il dinamismo che contrassegna il mondo contemporaneo in cui viviamo.

Bel buongiorno, eh? Sono pezzi del discorso del Presidente della Repubblica. Mica un giornalista di parte. Il Presidente della Repubblica.

Buon lunedì.

Tian’anmen, trent’anni dopo

Students re-paint a message of commemoration to China's 1989 Tiananmen Square crackdown, on the campus of Hong Kong University (HKU) in Hong Kong on June 4, 2015. Tens of thousands were expected later in the day to mark the 26th anniversary of the Tiananmen Square crackdown, organisers said, as they called on people to "stay united" as the city faces frustrations over its own democratic reforms. AFP PHOTO / Philippe Lopez (Photo credit should read PHILIPPE LOPEZ/AFP/Getty Images)

Il 4 giugno ricorrono trent’anni dai fatti di Tian’anmen, un evento tragico in cui un Paese sovrano ha fatto uso della forza sul proprio territorio, per salvaguardare la stabilità di un governo. Chi ha assistito a quegli eventi da vicino, come osservatore straniero, era convinto che la Cina dopo quei tragici fatti non avrebbe potuto più essere come prima.

Era appunto il 1989, in primavera per la prima volta un Presidente dell’Urss compiva una visita di stato in Cina; la guerra fredda fra Russia e Usa sembrava terminata; Russia e Cina si erano rappacificate e questa era avviata da dieci anni sulla strada delle riforme: si pensava davvero che il mondo stesse entrando in un’epoca di pace e prosperità.

In effetti quei fatti – per quanto tragici – hanno segnato, nella storia moderna della Cina, l’inizio del più duraturo periodo di sviluppo economico e quindi sociale di questo immenso Paese, grande quasi quanto tutta l’Europa e con una popolazione di oltre un miliardo e duecento milioni di persone. Dal 1990 ad oggi, la Cina ha assistito ad uno sviluppo economico che non ha precedenti nella storia umana. Il mondo intellettuale cinese, in grande fermento dal 1978 al 1989, ma ancora collocato ai margini di quello sviluppo, a partire degli anni 90 è stato coinvolto appieno in questa nuova lunga marcia per il progresso scientifico, tecnologico e produttivo. Le università cinesi sono diventate negli…

Il racconto di Federico Masini prosegue su Left in edicola fino al 6 giugno 2019


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Perché il disastro di May passerà alla storia

British Prime Minister Theresa May enters a car after meeting with the French president at the Elysee Palace in Paris on April 9, 2019. - British Prime Minister Theresa May met the German chancellor in Berlin prior to travelling to Paris to meet the French president in a last-gasp bid to avert a no-deal Brexit and secure a new delay to the date for leaving the bloc. (Photo by Martin BUREAU / AFP) (Photo credit should read MARTIN BUREAU/AFP/Getty Images)

La settimana appena passata rischia di passare come una delle più “esplosive” della storia recente della Gran Bretagna. Nell’arco di pochi giorni, infatti, abbiamo assistito alle dimissioni del primo ministro Theresa May e ad una tornata elettorale europea che ha avuto risultati non solo sorprendenti ma anche, a loro modo, storici.

Andiamo con ordine. All’indomani del voto del 23 maggio, nonostante i risultati ancora non fossero pubblici, la May annunciava la decisione di dimettersi da leader dei Tories dando il via alla corsa alla sua successione, che partirà formalmente il 7 giugno. La decisione veniva dopo una ennesima serie di dimissioni da parte di suoi ministri che si opponevano alla volontà del primo ministro di sottoporre, per una quarta volta, il suo accordo per la Brexit al Parlamento.

Le dimissioni non sono certo arrivate come un fulmine a ciel sereno. Sono ormai mesi che Theresa May non ha il controllo del proprio partito e, cosa ben più importante, del proprio gruppo parlamentare. Come dicono gli inglesi: in office but not in power.

La May ha infatti…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola fino al 6 giugno 2019


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L’anno in cui le donne fecero l’Italia

Nell’immaginario collettivo le lunghe file di donne, eleganti o con abiti modesti, mamme col pupo in braccio o magnifiche come Anna Magnani colta nell’atto di sigillare la scheda prima d’imbucarla nell’urna, sono tutte immagini associate al 2 giugno ’46 e al primo voto delle donne italiane, dimenticando che il 10 marzo avevano già votato per le amministrative; una seconda tornata, ben più consistente, si avrà il 10 novembre. È comunque giusto legare il ’46 al primo voto femminile, mettendo in primo piano referendum e Assemblea costituente.

Ricorda Maria Bellonci: «Quel 2 giugno, quando di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis, mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadina. Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire». Ciò che spaventò fu “cittadina”, un concetto fatto su misura per il maschio adulto visto che le donne difettavano, sostiene Anna Rossi Doria, di due qualità essenziali all’individuo: l’indipendenza e il possesso della propria persona. Le donne sposate poi erano del tutto prive, fino al Novecento, di ogni diritto civile nei Paesi in cui vigono il Codice napoleonico e l’autorizzazione parentale.

Il diritto di voto scardinò la separazione fra pubblico e privato dando un nuovo significato all’identità femminile, sia valorizzando i ruoli tradizionali come la maternità, sia proiettando la donna nella vita pubblica. Ma dai diritti politici alla pienezza di quelli civili il percorso fu lungo e accidentato; basti ricordare che negare l’accesso alla magistratura sarà considerato una vendetta postuma al diritto di voto. Lo stesso giurista Vezio Crisafulli sostiene che le radici di tale resistenza siano culturali e non giuridiche: «Anche in molti che non sono affatto … retrivi e codini, l’idea di essere giudicati da donne provoca un senso di fastidio, nel quale confluiscono moventi irrazionali … e persino veri e propri complessi ancestrali; né ho ritegno a confessare che una tale reazione istintiva e emozionale, la conosco bene io stesso, per esperienza diretta».

Il diritto al voto fu una conquista delle donne, non una concessione, non lo si ricorda mai abbastanza. Le donne si sono battute nella Resistenza e nei Gruppi di difesa della donna, e mentre ancora si combatteva, l’Udi (Unione donne italiane) e il Cif (Centro italiano femminile) avviarono la raccolta di firme per una petizione da inoltrare al governo Bonomi sul diritto di voto, attivo e passivo. Tutti i leader politici nutrirono forti dubbi sul voto alle donne, ma di fronte alla palese opposizione di liberali, azionisti e repubblicani, Togliatti e De Gasperi si attivarono, come testimoniato da uno scambio epistolare, per mettere in agenda l’estensione del voto. Il ddl venne approvato il 31 gennaio ’45, ma si dovette integrarlo in quanto, stranamente, non v’era traccia di eleggibilità delle donne.

E venne fatto in gran fretta e approvato a sorpresa, onde evitare la “settimana del voto” proclamata dall’Udi e con l’adesione delle organizzazioni femminili di tutti i partiti. Lo stesso Togliatti sostenne che «la concessione del voto alle donne è giunta prima che le masse femminili fossero mobilitate su questa questione», ma commise errore ben più grave quando negò che «la tradizionale arretratezza delle masse femminili italiane» andasse «messa in relazione al fatto che sono legate alla religione cattolica» riconducendola alla sola questione economica e all’arretratezza dei rapporti civili. È ben noto che Pio XII, favorevole al suffragio femminile, si rivolse alle presidenti del Cif con intenti molto espliciti: «Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione … per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere la sua restaurazione».

Così le donne votarono e furono determinanti per la vittoria della repubblica, ma non scelsero le donne: soltanto 2mila sono elette nei consigli comunali e 21 alla Costituente. Concorde è il parere degli storici nel ritenere che questo fu un voto ideologico, visto che nella campagna elettorale sono del tutto assenti i problemi costituzionali così come nella scelta dei candidati le competenze. Il voto del 2 giugno si definisce libero e espressione di sovranità popolare, ma sono stati i partiti a orientarne gli esiti, i nuovi partiti di massa che hanno saputo comprendere la profonda trasformazione operata dal fascismo in tal senso, mentre il Pli e il Pd’A, legati a vecchie concezioni elitarie, furono destinati a eclissarsi. Se i partiti condizionano fortemente le scelte degli elettori non si può parlare di libertà dei cittadini.

Il referendum pose una scelta chiara, che spaccò in due il Paese tra Nord e Sud e tra repubblica e monarchia. Gli schieramenti furono ben definiti: i fautori della repubblica dalla sinistra a Giannini dell’Uomo qualunque, quelli della monarchia a destra. Contraddittoria fu invece la posizione della Dc che scelse l’agnosticismo, nonostante il sondaggio interno di Attilio Piccioni rilevasse che la maggioranza degli iscritti fosse per la repubblica e volesse fare campagna elettorale; ma De Gasperi sapeva bene di avere un’organizzazione debole e che il consenso al partito era mediato dalla Chiesa, non benevola nei confronti della repubblica.

Giorgio Galli, confrontando il risultato referendario con il voto ai partiti, conclude che il contributo Dc alla repubblica non abbia superato il milione di voti, e che degli 8 milioni dei consensi democristiani, la gran parte provenisse da un elettorato moderato-conservatore, pur essendo le posizioni ufficiali orientate verso un certo ammodernamento della società e De Gasperi, al momento, non vedesse alternativa alla collaborazione con le sinistre: egli guardava alle masse contadine e ai ceti medi, il 57% della popolazione italiana, già base del fascismo e che andava conquistato dalla Dc.

Le amministrative del 10 novembre segnarono un’inversione con il crollo democristiano e una grande affermazione dell’Uomo qualunque, che Giannini aveva accreditato come vero partito cattolico; un preciso avvertimento a De Gasperi, a cui non restava altro da fare se non rompere con Psi e Pci, dopo un drammatico colloquio con Giovanni Battista Montini, sostituto della segreteria di Stato vaticana, che senza mezzi termini gli comunicò che tale collaborazione «non è più ammessa» pena l’essere considerati di un «partito filo-nemico».

Nel dopoguerra l’unica forza veramente vincitrice fu la Chiesa che vide rafforzata la sua (presunta) autorità morale senza scontare peraltro in nessun modo l’appoggio dato al fascismo per un ventennio. Grazie alla Conciliazione aveva superato la frattura con lo Stato liberale recuperando il consenso dei ceti medi. Il cattolicesimo era diventato religione di Stato e ideologia egemone e essere cattolico non era più un fatto personale ma dovere di ogni buon cittadino. Dopo la guerra questi amanti dell’ordine e del quieto vivere hanno trovato un riscontro nella Dc, ma delusi e traditi nel loro anticomunismo, con il voto autunnale vollero piegare De Gasperi alla loro politica e nel ’48, soddisfatti, indirizzeranno di nuovo il consenso su questo partito. La ribellione finanziata da Vaticano, Azione cattolica e Confindustria ci costringe a superare la versione di un De Gasperi che torna dall’America con il filoncino di pane in mano: gli aiuti economici cioè contro la rottura con la sinistra. È giocoforza pensare che i giochi fossero fatti in Italia, senza sottovalutare la situazione internazionale e la guerra fredda. De Gasperi era spinto verso scelte centriste e inaugurò una lunga stagione di collaborazione con formazioni politiche di destra come l’Msi, una giravolta che lo portò ad affermare: «Non neghiamo quanto di costruttivo e di buono vi fu nel movimento fascista», e nello stesso tempo a varare, nel ’52, la legge Scelba quale concessione formale all’antifascismo.

La complessità del voto del 2 giugno la si afferra solo se si considera anche il fallimento del governo Parri, incapace di affrontare le terribili distruzioni prodotte dalla guerra, di dare una casa a milioni di sfollati; di riattivare un apparato industriale in gran parte distrutto e una viabilità ridotta ai minimi termini. Il problema era sfruttare il 45% di energia elettrica disponibile e che poteva essere impiegata per far ripartire l’economia, se si fosse disposto di materie prime e carbone; oltre che riavviare un settore agricolo e zootecnico distrutto o razziato. Tutto questo in un Paese in cui l’agricoltura, per la sua povertà e arretratezza, rappresentava un’aspra denuncia delle politiche fasciste che conservando intatto il latifondo, si erano impegnate unicamente nella battaglia per il grano a danno della zootecnia e di culture specializzate.

Il 2 giugno si votò in un clima di paure e di apocalittici “salti nel buio”, ma le donne si sono presentate in massa, e qualunque scelta abbiano fatto, dettata o meno dalla consapevolezza, manipolata o libera, è certo che nel loro cuore hanno sentito l’importanza del momento e andando a votare hanno determinato la vittoria della repubblica e della democrazia.

L’articolo di Rita De Petra è stato pubblicato su Left del 31 maggio 2019


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Trump bullizza l’Iran e l’Europa cosa fa?

TEHRAN, IRAN - NOVEMBER 4: On the eve of renewed sanctions by Washington, Iranian protesters demonstate outside the former US embassy in the Iranian capital Tehran on November 4, 2018, marking the anniversary of its storming by student protesters that triggered a hostage crisis in 1979. - Thousands joined rallies in Tehran and other Iranian cities, carrying placards that mocked President Donald Trump, wiping their feet on fake dollar bills, and engaging in the usual ritual of burning the US flag. on November 4, 2018 in Tehran, Iran. Today marked the 39th anniversary of the hostage crisis at the former U.S. embassy in Tehran, and tomorrow sees the U.S., after withdrawing from the Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), impose fresh sanctions on the country. (Photo by Majid Saeedi/Getty Images)

Toni apparentemente distensivi seguiti da dichiarazioni minacciose: da quando è diventato inquilino della Casa Bianca, il presidente Usa Donald Trump ci ha ormai abituato a questi cambi repentini di posizione. La possibile guerra Stati Uniti-Iran, ritornata in prima pagina nelle ultime settimane, non fa eccezione. Nel giro di qualche ora, il leader repubblicano è passato la scorsa settimana da una “tranquillizzante” intervista su Fox News in cui affermava di essere «uno a cui non piace andare in guerra, perché i conflitti danneggiano le economie e soprattutto uccidono le persone» a postare un tweet bellicoso in cui dichiarava che «se l’Iran vorrà combattere, sarà ufficialmente la sua fine».

Dichiarazioni diverse nei toni, ma che partono da uno stesso principio: l’Iran non dovrà «mai» dotarsi di armi nucleari. Cosa che in effetti è avvenuta: a sostenerlo è l’Agenzia internazionale per l’energia atomica che in questi anni ha più volte certificato il rispetto dell’Iran delle clausole dell’accordo sul nucleare (JCPOA) raggiunto nel 2015 dall’attuale ministro degli esteri iraniano Zarif con il 5+1 (gli Usa sotto l’allora presidenza Obama, Ue, Francia, Germania, Cina e Regno Unito). Nelle tre ultime settimane la tensione è però tornata a salire nel Golfo Persico: gli Stati Uniti hanno ammassato imponenti forze militari nelle basi e postazioni americane sparse nelle ricche petromonarchie arabe. Oltre alla portaerei Uss Abraham Lincoln e ai quattro bombardieri B-52, gli Stati Uniti hanno schierato anche una batteria anti-missile Patriot e un’altra nave da guerra (la Arlington) che trasporta mezzi anfibi e veicoli. La militarizzazione dell’area era programmata da tempo ma, come ha precisato il Consigliere della sicurezza nazionale Usa John Bolton, è stata accelerata dalle «informazioni» fornite da alcune fonti israeliane su un «imminente attacco iraniano» contro target americani nel Golfo.

Nonostante il grosso dispiegamento di truppe e armi nella regione (venerdì Washington ha annunciato l’invio di 1.500 soldati in Medio Oriente in chiave «protettiva»), nessuno dei principali attori regionali dichiara pubblicamente di volere la guerra. Non la vogliono apparentemente né gli Usa – sebbene il falco Bolton abbia una posizione interventista –, né tanto meno i suoi alleati sunniti a Riad, l’asse portante insieme ad Israele della “Nato araba” pensata da Trump in chiave anti-Iran. Domenica il ministro degli esteri saudita Adel Jubeiri è stato chiaro: «Il regno dell’Arabia Saudita non vuole una guerra, ma qualora l’altra parte [Iran] la volesse, lotteremo con tutte le nostre forze e determinazione per difenderci e salvaguardare i nostri interessi». Su una posizione difensivista si pone anche l’Iran.

Se da un lato il suo ministro agli esteri Zarif ha criticato la debolezza dell’Unione Europea rispetto alle nuove pressioni dei «bulli» americani («una minaccia alla pace e sicurezza internazionale») ribadendo domenica che «Tehran si difenderà da ogni aggressione militare ed economica», dall’altro ha chiesto alla comunità internazionale «passi concreti per la pace» attraverso la normalizzazione delle relazioni economiche tra Bruxelles e Teheran pesantemente colpite dal ripristino delle sanzioni Usa. Parole apparentemente distensive le ha pronunciate una decina di giorni fa anche la Guida Suprema iraniana l’Ayattolah Ali Khameni: «Il conflitto non ci sarà, ma la nazione iraniana ha scelto la strada della resistenza». La preoccupazione a Teheran è però palpabile: il presidente iraniano Rouhani, attaccato duramente dalle forze conservatrici contrarie sin dall’inizio al compromesso politico con l’Occidente, ha chiamato all’unità le fazioni politiche perché il Paese potrebbe affrontare condizioni «più dure di quelle sofferte negli anni ‘80 durante gli otto anni di guerra con l’Iraq». Un risultato politico finora le sanzioni Usa lo hanno ottenuto: l’uscita di Teheran (in parte) dall’accordo sul nucleare. La decisione, annunciata lo scorso 8 maggio, prevede il mancato rispetto da parte dell’Iran di alcuni impegni previsti dall’intesa del 2015 come il mantenimento nel paese delle riserve di uranio arricchito e acqua pesante (300 chili) che avrebbero dovuto essere vendute e la minaccia che l’arricchimento dell’uranio riprenderà qualora, passati 60 giorni dal suo annuncio, le sanzioni su esportazioni di greggio e settore bancario non saranno rimosse. La mossa degli iraniani è chiara: costringere gli europei a intervenire.

Con Bruxelles, in fondo, qualche margine di dialogo è possibile dato che l’Unione europea ha provato timidamente a difendere l’intesa. Tuttavia, la disposizione di Rouhani ha al momento generato reazioni negative in Europa. L’Iran – si legge in una dichiarazione dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini e dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito – deve continuare ad attuare pienamente i suoi impegni sul nucleare e ad astenersi da qualsiasi escalation. La guerra tra Washington e Teheran non appare tradursi al momento in un confronto militare. Eppure i segnali che giungono dalla regione non sono affatto tranquillizzanti: lo staff straniero della Exxon Mobil è stato evacuato dall’Iraq; il Bahrain ha avvertito i suoi cittadini di non recarsi in Iraq e Iran a causa delle loro «condizioni di instabilità»; a Washington ufficiali americani hanno chiesto ai piloti di voli commerciali di prestare massima attenzione quando sorvolano il Golfo Persico e quello dell’Oman. Disposizioni che sono conseguenze dirette del sabotaggio di due petroliere saudite due settimane fa al largo delle coste dell’emirato di Fujairah (Emirati Arabi Uniti) attributo agli yemeniti houthi sostenuti dall’Iran e l’esplosione avvenuta domenica fuori il compound dell’ambasciata Usa nella “Zona Verde” di Baghdad.

Secondo alcuni commentatori la guerra tra Iran e Usa è ormai alle porte. Tuttavia, sottolinea Nicholas Kristof sul New York Times, «noi già siamo incastrati in un altro conflitto, quello yemenita, dove siamo complici dell’uccisione di quasi 250mila persone, molti dei quali bambini morti di fame». Kristof scrive che «in questo clima di tensione, l’Arabia Saudita spingerà gli Stati Uniti a bombardare l’Iran». Bombe sì o bombe no è per certi versi una questione di lana caprina perché la guerra contro Teheran di Washington è già iniziata lo scorso anno quando Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare e riattivare le sanzioni (a cui si sono aggiunte quelle recenti all’export iraniano di alluminio, acciaio, rame e ferro). Una mossa che ha provocato una delle peggiori crisi economiche della storia dell’Iran: il valore del rial è crollato, l’inflazione è salita, ed è aumentato il tasso di disoccupazione.

«Dalla crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana del 1979, gli iraniani temono ogni giorno un possibile scontro tra l’Iran e gli Usa. Sono perciò in qualche modo vaccinati rispetto a quello che sta succedendo ora anche se non vogliono un’altra guerra che potrebbe avere effetti ancora più devastanti di quella contro Saddam degli anni ’80», spiega a Left il ricercatore universitario iraniano Armin Siyavash. Secondo Siyavash, al momento è difficile ipotizzare un confronto militare diretto, ma la guerra economica contro l’Iran e quelle per procura in Siria e Yemen sono già in corso. «Il problema – conclude Siyavash – è che al momento immaginare di risolvere le tensioni nell’area è pura fantasia perché non c’è una reale volontà a dialogare tra le parti».

L’articolo di Roberto Prinzi è stato pubblicato su Left del 31 maggio 2019


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Il popolo europeo ha riscoperto l’Unione

IMAGE DISTRIBUTED FOR AVAAZ - European citizens celebrate with illuminated letters on the steps of the European Parliaments as election results come in with a record number of voters turning out at polling stations across the continent Sunday, May 26, 2019 in Brussels. (Ermindo Armino/AP Images for Avaaz)... Sunday, May 26, 2019 in Brussels. (Ermindo Armino/AP Images for Avaaz)

Un voto che europeo lo è stato veramente. L’alta affluenza alle urne, con un aumento dell’8%, abbastanza generalizzato (ma con l’eccezione dell’Italia), che ha portato più del 50% delle cittadine e dei cittadini del continente a scommettere sul voto, dice della voglia di influire sul futuro dell’Europa e dei singoli Paesi. E di farlo tutti insieme in una delle più grandi elezioni al mondo.

Una domanda politica che si è valsa della natura prevalentemente proporzionale del voto e di una conseguente articolazione dell’offerta per smuovere il quadro già abbastanza turbolento dopo la lunga serie dei voti nazionali. La lettura dei risultati è naturalmente complessa date le molte sfumature presentate dalla situazione dei vari Paesi e del suo riassumersi negli equilibri europei.

Popolari e socialisti, i due soggetti che praticamente da sempre garantiscono la governabilità, non sono più in possesso di una maggioranza autosufficiente. Contemporaneamente le leadership di Germania e Francia, i due Paesi che hanno formato l’asse centrale degli equilibri geopolitici, sono abbastanza terremotate. Di contro però i populisti hanno sì una affermazione, ma non tale da essere in grado di rappresentare una alternativa e neanche una soluzione di riserva per i popolari. Sono invece in grado di garantire la maggioranza i liberali, assai cresciuti e che cambieranno però faccia con l’arrivo di Macron e di Ciudadanos.

E si candidano a entrare nel gioco anche i…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 31 maggio 2019


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