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Quanto è largo il campo di Calenda

CARLO CALENDA MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO SULLO SFONDO IL LOGO ILVA

Lo scoop, se così si può dire, è che Carlo Calenda si iscriverà al gruppo dei socialisti e democratici europei. Su questo punto il neoparlamentare Ue promotore del manifesto Siamo europei non aveva ancora sciolto la riserva fra i socialisti e il rassemblement dei lib-dem di Macron. Così spiega a Left lo stesso recordman di preferenze delle europee.

Anche se solo tre giorni prima del voto aveva detto in tv che il presidente francese è «un sovranista» perché «sull’immigrazione fa più o meno le stesse cose che fa Salvini, solo che le fa con il sorriso sulle labbra», Calenda sembra restare sulla scia del tormentone “da Macron a Tsipras” anche nel post-europee, un “campo largo” in cui tutti dicono di voler dialogare e continuare ad allargare. Ma quanto è largo questo campo? Molto largo, dal punto di vista delle opzioni strategiche e dei valori. Molto meno dal punto di vista dei consensi, ancora sotto il 30%.

Romano, classe ’73, Calenda è stato top manager Sky e Ferrari trascinato da Montezemolo nella breve avventura di Italia futura, quella che Crozza chiamava l’“Italia dei Carini”. Da lì l’approdo a Scelta civica fu naturale ma poi quell’area s’è frantumata tanto che qualcuno la ribattezzò “Sciolta civica”: 3,5 milioni di voti e il 10,5% nel 2013 che i sondaggisti ritengono travasati all’80% in M5s. Al momento dell’ognuno per sé Calenda sceglie l’orbita del Pd e diventa prima rappresentante permanente dell’Italia nell’Ue per conto del governo Letta, poi ministro con Renzi e Gentiloni allo Sviluppo economico, in pratica Yes Triv, Sì Tap, Certamente Ttip, Comunque Tav. Più che un campo largo sembra…

L’intervista di Checchino Antonini a Carlo Calenda prosegue su Left in edicola  giugno 2019


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La politica dell’insicurezza nella società della crisi

Sebbene i reati di natura violenta siano in calo da qualche anno, l’attenzione dell’elettorato sembra dominata dal tema della sicurezza in una larga fetta di Europa. In Italia dalle ultime rilevazioni Istat emerge che il 33,9% dei cittadini ritiene di vivere in una zona ad alto rischio di criminalità, una donna su tre non esce da sola la sera (36,6%) e quasi un cittadino su due dà un giudizio negativo sul controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine (46,4%). Contemporaneamente cresce il consenso per i leader decisionisti e reazionari che propongono come soluzione uno schema dicotomico di premi e rigide punizioni, di buoni e di cattivi. Una gerarchia dei cittadini giustificata anche da una presunta emergenza di natura economica, dall’idea che i soldi sono finiti e che bisogna pensare prima a… Eppure il mito della scarsità non trova riscontro nei dati reali: in Italia risparmi privati e avanzo primario statale sono i più alti d’Europa. I soldi ci sono. Perché allora siamo così sensibili all’allarme? Perché in un mondo dove oggettivamente la sicurezza non è un problema, l’agenda politica punta ad aumentarla? Perché ci sentiamo insicuri? Forse un nuovo spettro si aggira per l’Europa?

Una spiegazione potrebbe offrircela la psicologia dei vissuti soggettivi prodotti dalla realtà socio-economica nella quale siamo immersi: un impianto economico neoliberista in una particolare situazione di crisi.

Miguel Benasayag ne L’epoca delle passioni tristi traccia un continuo tra economia, incertezza del presente, e i vissuti di impotenza della generazione della crisi. In un’economia neoliberista l’individuo agisce come un sistema isolato, che stipula contratti con altri sistemi-individui per massimizzare la propria utilità. Gli altri (sistemi), le relazioni, costituiscono quindi una minaccia e un limite. L’enfer c’est les autres!

È così che l’homo oeconomicus, nella sua illusione autarchica, si ammala di competizione. La possibilità di proiettarsi in un futuro insieme personale e collettivo, si sgretola sotto i piedi. Ci si ritrova sradicati, soli, impotenti ed esposti alle intemperie; immersi in un’atmosfera di relazioni precarie e minacciose in cui si fatica a respirare. Il futuro collassa, “cambia di segno” e si fa minaccia, da promessa qual era. Esso diventa un destino meccanico, il vecchio mito del treno a vapore fuori controllo che corre inarrestabile lungo le rotaie del “sistema”. Una locomotiva ideologica che non traina più a rialzo il Pil come faceva un tempo, che produce debito e povertà e in cui non crediamo più fino in fondo. La liturgia della crescita, della ripresa dei consumi, diventa un rituale vuoto, la crisalide evanescente di un divenire sottratto alla creatività e al potere delle comunità. Ciò che fonda la cultura occidentale (la capacità dell’uomo di cambiare tutto secondo il suo volere) è allo stesso tempo ciò che la sta minando dal suo interno. Ma il treno sbuffa lo stesso, fa sentire il suo fischio, arranca quasi per abitudine, perché è un dato di fatto, nonostante gli avvertimenti degli “strikers for future”.

E a chi non sciopera per il futuro cosa rimane? Un mondo minaccioso, in perpetuo stato di crisi ed emergenza, dal quale ripararsi ognuno a modo suo secondo le proprie doti. È la grande fuga dall’impotenza già dipinta da Goodman nel suo attualissimo saggio del ’63, Psicologia dell’impotenza. Chi può permetterselo si auto segrega in casa, privato nel privato, dove almeno conserva “potere d’acquisto”. Abbandona la nave per la scialuppa di salvataggio. Ma a quale prezzo!

La famiglia e lo standard di vita diventano affari da proteggere, dai ladri, dagli altri, dall’innovazione culturale. L’unico bene comune di valore è la sicurezza, mentre al di là dei confini della legittima difesa, dove finisce ciò che è mio, cresce l’indifferenza e il cinismo. L’ansia diventa di status, ci si arma per difendere quel che si ha. Si armano i figli per conquistarlo. La concezione utilitaristica della vita viene trasmessa alle nuove generazioni rafforzata dalla crisi economica, proprio perché in tempo di crisi si è più portati pensare che tutto debba servire a qualcosa. I giovani apprendono così “sotto minaccia” che dovranno lottare per un posto nel mondo. Molti giovani non reggono il peso della competizione e si ritirano nei mondi virtuali in cui possono tutto.

Poi c’è chi doti non ne ha: chi non può rifugiarsi nel privato, nelle abitudini del consumo e nelle prospettive di carriera, rimane in strada dove la competizione allarga le file della guerra tra poveri (una guerra vaporizzata e microdosata). Per chi vive ai margini non resta che arrendersi, gettandosi tra le braccia dell’assistenzialismo statale, dove previsto e accessibile, oppure combattere identificandosi coi leader muscolari che promettono il ritorno del passato per stuccare le crepe del futuro (make America great AGAIN!). La politica diventa così tifo e adorazione dell’azione per l’azione, premiando proprio quegli attori politici che si fanno garanti dell’attuale sistema economico alla radice del problema. Le figure politiche odierne non sono che i coaguli di ciò che scorre nelle vene della società in crisi.

Questi sono circoli viziosi pericolosi, dove il venir meno della coesione sociale, impotenza e insicurezza si intrecciano e si autoalimentano. Come interrompere il circolo? O meglio, come non rimettere in circolo impotenza, insicurezza e minaccia?

L’impossibilità di un fare disinteressato, promosso dal piacere intrinseco alle attività creative e ai legami, è secondo Benasayag esattamente ciò che sta alla base del senso pervasivo di impotenza e insicurezza. L’umano si trova nell’impossibilità di agire secondo le proprie esigenze di socialità, ma può solo limitarsi a reagire all’egoismo altrui. È quindi essenziale: “promuovere spazi di socializzazione… pratiche concrete che riescono ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano”…uno spazio di interesse dis-interessato dove regna l’utilità dell’inutile, che è poi in fondo l’utilità della vita. Questo significa reinvestire nei legami, superarne la visione “contrattuale” e limitante, in virtù dello sviluppo di pratiche più desiderabili, potenti e ricche. Occorre realizzare che non esiste un individuo astratto, separato e tuttalpiù influenzato dal proprio contesto. E rimettere al centro le relazioni. Ma per fare ciò è necessario innanzitutto cambiare noi stessi.

Pietro Sarasso è uno psicologo

Tutti con Mimmo Lucano l’11 giugno

L’11 giugno a Locri si tiene la prima udienza del processo a Mimmo Lucano. Un processo che suona come una gigantesca operazione mirata a stroncare, anche attraverso la “giustizia”, una pericolosa utopia che metteva, nel concreto, in discussione la narrazione della naturalità di un mondo fatto di ingiustizie, sfruttamento, disumanità nel quale la guerra, e tutte le peggiori nefandezze che sono considerate un prodotto della natura umana. E la naturalità di un sistema ciclopico che nessuna azione, individuale o collettiva che sia, può mutare. Fino a quando questo sogno è rimasto nei confini di un piccolo paese della Calabria Jonica, o si è appena affacciato fuori di esso, tutto è andato bene. Le rendicontazioni delle attività dello Sprar erano corrette, i prefetti chiamavano Lucano per far fronte alle ripetute emergenze relative ai continui sbarchi di migranti degli anni scorsi, che non riuscivano a fronteggiare altrimenti. Tutto era a norma, comprese le stalle degli asini della raccolta differenziata, oggi disoccupati e privati delle loro stalle perché non a norma. E quando in alcuni paesi si erigevano barricate per 8/10 persone di pelle nera, a Riace, paese di poco più 1500 abitanti, se ne accoglievano centinaia nel rispetto della loro dignità di persone sofferenti fuggite da veri e propri inferni di fuoco, includendoli, nella misura del possibile, nel tessuto sociale e della piccola economia del paese, attivando un circuito virtuoso di sviluppo locale che dava lavoro direttamente a oltre 80 riacesi, e riattivava tutta una serie di attività e laboratori che sviluppavano un indotto significativo per le dimensioni di Riace. Quando questa realtà ha decisamente varcato i confini della Jonica, della Calabria e dell’Italia, con il sindaco Lucano nel 2010 si posiziona al terzo posto nel concorso per il miglior sindaco del mondo che la City Mayors Foundation bandisce a cadenza biennale. E poi nel 2016 con la rivista Usa Fortune che lo colloca, unico italiano, al 40° posto su 50, tra le persone più influenti del mondo. E quando un regista della fama di Wim Wenders gira un film sull’accoglienza a Riace e su Lucano e indica ai premi Nobel per la pace di tutto il mondo riuniti a Berlino nel 2009 per celebrare la caduta del muro, quell’esperienza come la vera rivoluzione del nuovo secolo. Quando infine, dopo aver ricevuto un numero infinito di riconoscimenti e premi in tutto il mondo, la Rai gira una fiction Tutto il mondo è paese con Beppe Fiorello nelle vesti del sindaco Lucano, che doveva andare in onda nel febbraio 2018, si ritiene che la misura sia colma. E l’attacco politico e giudiziario, preparato con cura, con ispezioni a ripetizione, blocco dei fondi per errori formali e poggiato su una serie di imputazioni che saranno sgretolate dal Gip prima e dalla Cassazione poi, il 2 ottobre 2018 fa scattare gli arresti domiciliari per il sindaco dell’utopia che aveva osato mostrare che è normale e naturale la solidarietà e non il rifiuto, l’accoglienza civile e non il respingimento, la Pace e non la guerra, il rispetto dei diritti umani e non lo sfruttamento schiavile. E soprattutto che i migranti non sono un problema ma una risorsa umana, culturale ed economica. Un’ondata di solidarietà scoppia contestualmente in tante parti del nostro Paese e del mondo. La Riace di Lucano diventa un modello e una bandiera di un’altra idea di mondo e di Umanità e la spinta viene da circa centomila persone che ne sostengono la candidatura al premio Nobel per la pace 2019. Piovono altri riconoscimenti, cittadinanze onorarie, richieste di candidatura. Lucano non scappa dal processo, come personaggi oggi di moda, osannati e votati, fanno. Non cerca immunità parlamentari né stipendi di diverse migliaia di euro al mese che avrebbe facilmente potuto ottenere candidandosi alle europee. Resta, forte della sua onestà, della sua lealtà verso la Costituzione, rispettoso delle leggi e degli stessi magistrati che con un accanimento degno di miglior causa gli hanno persino impedito di fare la sua campagna elettorale come candidato al consiglio comunale, decretando di fatto, con queste misure, la sconfitta della lista in cui era candidato, capeggiata da Maria Spanò una coraggiosa ed intraprendente donna jonica, già assessore di provata capacità. Martedì 11 giugno parte il processo. A Locri ci sarà una manifestazione di solidarietà promossa dal Comitato 11 giugno, nato da meno di un mese per sostenere e dare solidarietà a Mimmo Lucano in questa vicenda giudiziaria. In tante altre piazze d’Italia ci saranno presidi in luoghi simbolici a mostrare ancora solidarietà a Lucano e a dire con forza che nessuna sconfitta elettorale maturata in un clima di assedio e sospensione della democrazia, può minare la sua dignità umana e politica, la sua onestà di uomo e di amministratore, il valore e la potenza della sua utopia. Che la sua Riace, entrata nella leggenda, continuerà ad essere simbolo di umanità e degli abitanti della terra che riconoscono nell’altro un fratello e non un nemico.

Ps. A Roma che ha accolto Mimmo con affetto e solidarietà militante in tante occasioni, l’ultima, travolgente alla Sapienza, il presidio si terrà l’11 giugno dalle ore 10 alle ore 13 a piazza della Madonna di Loreto.

L’intervento di Mimmo Rizzuti è tratto da Left in edicola dal 7 giugno 2019


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L’apologia dei secondi

Bisognerebbe arrivare al punto che compaia dappertutto un’elegia dei secondi. Una sorta di risarcimento morale e sociale a coloro che non ce l’hanno fatta, spesso solo per un pelo, per poco, per sfortuna oppure semplicemente perché erano nel posto giusto al momento giusto.

Bisognerebbe riuscire a smetterla di amare solo i vincitori, e scorgere tutti quelli dietro che di solito non guarda nessuno, e che non sono mica sconfitti ma sono soprattutto dei vincitori mancati per motivi diversi, per sfighe (si può dire sfighe in un editoriale mattutino?) oppure perché semplicemente non ce l’hanno fatta, non hanno abbastanza forza, non abbastanza mestiere, non hanno abbastanza conoscenze.

E quindi? Quindi pensate se improvvisamente oggi celebrassimo la giornata mondiale dei secondi, costringendoci tutti a valutare i gregari, a raccontare le gesta, a metterli in prima pagina, a fare in modo che tutto il modo si accorga che non vincere non c’entra nulla con il fallire ma semplicemente significa essere arrivati anche solo un centimetro dopo. Provate a pensare a una giornata mondiale che li celebri, semplicemente, si fermi, provi ad aspettare, provi ad ascoltare con il cuore ciò che è successo e ciò che che non è successo e poi improvvisamente si accorga di quelli di cui non si accorge nessuno.

I secondi, gli sconfitti, o addirittura i cenciosi sono quelli che hanno dei talenti che noi chiamiamo sconfitte. E sbagliamo a prenderle così sotto gamba perché dentro hanno tutte le battaglie personali ce ha ognuno di noi, dentro qualche tasca, nel nostre quotidianità sfortunate o difficoltose.

Ora ci vorrebbe un’apologia dei secondi, che di colpo diventino primi, e che non siano più un peso ma semplicemente diventino persone da raccontare, con tutti i loro nei, con tutte le loro fragilità con le loro indicibili debolezze che si vergognano di raccontare e che invece scritte sarebbero bellissime, da farci un romanzo sulla debolezza umana, su quelle che noi chiamiamo sconfitte e invece sono dei talenti fuori dal pensiero imperante.

Proviamo per un giorno a dedicarci ai secondi, dove dentro ci siamo anche noi, e ci accorgiamo che è meravigliosamente umano essere fallibili, con etica, con giustizia, mettendocela tutta.

Buon venerdì.

 

 

La tempesta si annuncia goccia dopo goccia

Dopo il vuoto pneumatico del discorso “al popolo” del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, inizia il conto alla rovescia per il governo giallonero dicono molti osservatori, preconizzando nuove elezioni, se non a settembre, a febbraio 2020. Quel che a noi balza ancora agli occhi è il granitico patto di potere legastellato, con i grillini totalmente asserviti ai diktat della Lega, sodali di un contratto corporativo che li ha portati a ingoiare la legittima difesa, condoni vari (compreso quello a Ischia), il sì agli F35 e ora li vede alla prova della manovra di bilancio, della Flat tax, dell’autonomia differenziata, dello Sblocca cantieri, con la richiesta da parte di Salvini di una deroga di due anni del codice degli appalti.

“Mi ricordo promesse verdi” titolavamo già mesi fa ricordando come anche per quanto riguarda la lotta al consumo di suolo – cavallo di battaglia dei grillini della prima ora – tutto sia finito in un nulla di fatto. Penoso e inaccettabile è stato anche il rimpallo di responsabilità fra i ministri Salvini e Toninelli dopo lo scontro fra una nave da crociera e un battello a Venezia, incidente in cui hanno rischiato la vita molte persone. La dismisura dei «grattacieli del mare» in Laguna non è solo uno schiaffo estetico alla cura e alla fantasia con cui generazioni e generazioni di architetti, artisti e abitanti hanno dato vita a questa antica città che nasce dal gioco armonico di palazzi tutti diversi. Come purtroppo abbiamo visto anche con questo incidente l’invasione delle grandi navi è un pericolo reale e mette a serio rischio la salute e la sopravvivenza dell’ecosistema della laguna. Venezia, ancor più di altre città, è un delicato organismo vivente, la stratificazione della sua storia, la presenza viva dei suoi abitanti passati e presenti forma un’immagine invisibile e potente, che dissennate politiche neoliberiste rischiano di distruggere, cancellandone la mirabile, originalissima sinfonia di case, calli e mare. Lo denunciava già Salvatore Settis nel 2014 con il libro Se Venezia muore (Einaudi) ma la politica, miope, non gli ha dato ascolto.

La tutela del paesaggio, dei centri storici, dell’arte, con lungimiranza costituzionalizzata all’indomani della guerra, dopo la Resistenza partigiana al sacco fascista è ancora un faro culturale per ricostruire il Paese; ancor più in questo momento in cui è messo a sacco dall’ignoranza e dal razzismo di forze sovraniste che puntano a isolare l’Italia dal resto d’Europa. Ripercorrendo queste settimane post elettorali in cui imperversa il tonitruante Salvini con la minaccia di un decreto immigrazione bis, ancor più lesivo dei diritti umani rispetto al precedente intervento del ministro sul tema, scorgiamo però gesti e azioni importanti per rompere il silenzio sulla repressione del dissenso e sulla criminalizzazione della migrazione a cui anche l’opposizione assiste inerte. Ancora una volta prese di posizione forti di rifiuto del razzismo arrivano dalla società civile e dai lavoratori! Dopo aver bloccato con uno sciopero l’imbarco di attrezzature di guerra su navi saudite (ne scrive Chiara Cruciati su questo numero) i camalli, i portuali genovesi, hanno attaccato alla Lanterna di Genova un grande striscione per dare il benvenuto alla nave carica di migranti salvati nel Mediterraneo che la politica dei porti chiusi aveva trattenuto al largo.

Ma a illuminare questa settimana è stata anche l’iniziativa coraggiosa e politicamente importante di due senatrici a vita, Liliana Segre e Elena Cattaneo, che hanno invitato e accolto in Senato la professoressa Rosa Maria Dell’Aria, sospesa perché i suoi alunni avevano osato interrogarsi sulle radici del fascismo e sui possibili nessi fra le leggi razziali e il decreto sicurezza e immigrazione. Un’occasione preziosa per parlare di libertà di insegnamento, di formazione, che spinge i ragazzi a sviluppare autonomia di pensiero, ma anche per tornare a indagare le radici storiche del nazifascismo che affondano nel razzismo e nell’antisemitismo. Mentre registriamo preoccupati il moltiplicarsi di azioni squadriste di fascisti del nuovo millennio, che si sentono legittimati dall’hate speech, avallato da esponenti di governo.

Nell’intervista che Liliana Segre ha rilasciato a Federico Tulli troverete riflessioni importanti su come la stupidità violenta del razzismo, che si ferma al colore della pelle, alle caratteristiche somatiche o alle differenze d’accento, negando la fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani, poi possa diventare de-umanizzazione dell’altro, pogrom e… addirittura piano lucido di sterminio. «La tempesta si annuncia goccia dopo goccia» è la frase della scrittrice Lia Levi che aveva colpito gli studenti della professoressa Dell’Aria. A permettere ad una goccia di diventare mare, avverte Segre, è l’indifferenza, quel voltarsi dall’altra parte che lei sperimentò sulla propria pelle quando, bambina, fu deportata e che ora colpisce i migranti. Complice colpevole è il silenzio, è l’inerzia, è l’anaffettività di chi volta la testa dall’altra parte. Complice è chi “non vuol vedere” la distruzione e l’annientamento del diverso che sarebbe non umano.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 7 giugno 2019


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Anticorpi di democrazia

«Io l’odio l’ho visto. Non ne ho solo sentito parlare. E per odio non intendo quella cosa che si scatena tra condomini quando scoppia una disputa per una lampadina. Io ho visto l’odio messo in pratica. Ne sono stata vittima in prima persona. Ho visto quando dalle parole si passa ai fatti. Ed è uno stacco minimo. Quando si dà il passaporto alla parola lo si dà anche al fatto». Siamo con Liliana Segre, la senatrice a vita Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz, tra gli ultimi testimoni della Shoah italiana e delle conseguenze provocate dalle leggi razziali di Mussolini.

La incontriamo al termine della visita degli studenti della IIE Informatica dell’Istituto Vittorio Emanuele III di Palermo, che, insieme alla scienziata Elena Cattaneo, anche lei senatrice a vita, Liliana Segre ha invitato al Senato con la loro insegnante di storia e italiano, Rosa Maria Dell’Aria, punita con una sospensione dal ministero per – a dire di zelanti ispettori – non aver vigilato su un video dei suoi ragazzi, in cui un fotogramma accosta le leggi razziali fasciste al decreto sicurezza e immigrazione di Salvini. «Ho voluto conoscerli uno per uno» racconta sorridendo mentre ci sediamo per l’intervista nella sala Zuccari di palazzo Giustiniani poco dopo che i ragazzi sono corsi via per riprendere l’aereo per Palermo.

«Con il loro meraviglioso lavoro hanno colto una questione cruciale: l’indifferenza. È un loro diritto e devono sempre avere il diritto di esprimere un giudizio, siamo in un Paese con un governo democraticamente eletto. E loro denunciano l’indifferenza, perché ne sono preoccupati. Come me. Quando in televisione passa la notizia di un barcone cappottato, io sento dire: basta con questa roba. È la stessa cosa che accadeva dopo la fine della guerra: basta con questi ebrei e…

L’intervista di Federico Tulli a Liliana Segre prosegue su Left in edicola dal 7 giugno 2019


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L’eutanasia della stampa

Noa Pothoven, la 17enne olandese che ha chiesto e ottenuto, dopo una lunga battaglia, l'eutanasia, legale nei Paesi Bassi, dopo anni di sofferenze psichiche seguite ad una violenza subita da bambina, in un'immagine tratta dal suo profilo Instagram. INSTAGRAM NOA POTHOVEN +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO? ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L?AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

L’eutanasia della stampa si è consumata ieri, strillata su tutti i maxischermo degli aeroporti e delle stazioni che ci dicevano come una ragazza olandese appena diciassettenne avesse avuto diritto all’eutanasia dopo essere stata vittima di uno stupro. Una notizia data così, secca, senza verificarne l’autenticità e soprattutto senza nemmeno controllare le fonti, quel poco che basta per provocare un po’ di sdegno, un dibattito praticamente sul nulla e poter urlare tutti insieme che non è possibile riuscire a ottenere l’autorizzazione alla morte così giovane.

Pochi si sono presi la briga di raccontare, mentre il chiacchiericcio continuava indomito, che la povera Noa Pothoven (questo il nome della ragazza) in realtà di stupri ne avesse subiti più di uno in giovane età, che non sia mai riuscita ad uscirne e soprattutto che non c’è nessuna legge olandese che le permettesse di morire (secondo alcune ricostruzioni le istituzioni olandesi le avrebbero presentato un ultimo tentativo di recupero e avrebbero al massimo autorizzato di prendere in considerazione l’eutanasia legale all’età di 21 anni).

Noa invece non voleva aspettare così tanto e quindi si è lasciata morire, di fame e di sete, usando i suoi ultimi giorni (e le indicibili sofferenze) per salutare le persone a lei care. Nessuna eutanasia, quindi. Gesto volontario di lasciarsi deperire.

Ma a deperire davvero è quella stampa che pur di trovare una buona notizia da fare ripetutamente cliccare si inventa qualcosa che non è accaduto offendendo perfino la morte, pro domo sua, e andando consapevolmente a toccare i fili scoperti di un dibattito che garantisce condivisioni e interazioni sui social. E non sarà un caso che mentre in Olanda la notizia si è meritata un mezzo trafiletto qui invece sia stata declamata con la grancassa dappertutto, come un’orchestra rumorosa e stonata desiderosa di ottenere un po’ di attenzione.

Hai voglia poi a chiedere la misura alla politica, se i media ne sono l’esatto riflesso, la giusta rappresentazione.

Buon giovedì.

Fine vita quando la scelta è libera e consapevole

A quattro mesi dall’entrata in vigore della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) è ancora pressoché nulla l’informazione istituzionale su questo importante e delicato strumento  disposizione dei cittadini che vogliono redigere il loro cosiddetto testamento biologico. Per sopperire a questa mancanza, distribuendo materiale informativo nelle principali piazze italiane, l’associazione Luca Coscioni, insieme a Radicali italiani, Unione atei e agnostici razionalisti e Chiesa pastafariana italiana, ha indetto per il 21 aprile la Giornata del testamento biologico. Si tratta di una importante occasione di chiarimento delle modalità di attuazione della legge 219/17, arrivata dopo anni di attesa alla fine di un iter che si avviò solamente nel 2009 dopo la morte di Eluana Englaro. Uno dei principali nodi da sciogliere, informando le persone interessate, è costituito dal ruolo dei comuni. Da un lato infatti le amministrazioni locali non sono tenute a istituire un registro dei testamenti biologici (anche se molti lo stanno facendo “spontaneamente”), dall’altro sono obbligate a ricevere e conservare le Dat autenticate dei cittadini disponenti. Un’altra questione centrale riguarda l’obiezione di coscienza. Come molti ricorderanno, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin a legge fresca di approvazione (era il 22 dicembre 2017) si affrettò a invocare la necessità di prevedere per i medici il diritto all’obiezione di coscienza. Il messaggio, sebbene giunto fuori tempo massimo, ha contribuito ad alimentare confusione sui contenuti della norma che in nessun modo contempla questa possibilità. Per le associazioni impegnate sul fronte del riconoscimento dei diritti sul “fine vita”, la normativa sul testamento biologico è anche un punto di partenza verso una legge che regolamenti suicidio assistito ed eutanasia. Il suicidio assistito, spiega l’associazione Coscioni, «è una forma di eutanasia, legale in Svizzera, dove a seguito di un iter strettamente regolamentato, e sotto controllo medico, la persona che ne fa richiesta autonomamente si somministra il farmaco, senza intervento di terzi». Punto cardine della battaglia è la legge di iniziativa popolare nota come “eutanasia legale”, presentata nel 2012, che si fonda sulla libertà e la responsabilità «di scegliere per se stessi fino alla fine». Un modello di riferimento normativo è rappresentato dalla legislazione olandese dove già dal primo aprile 2002 esiste una legge su eutanasia e suicidio assistito in presenza di «sofferenza insopportabile», come bene spiega Libertà di decidere – il fine vita volontario in Olanda di Johannes Agterberg uscito in Italia per New Press.

Un libro che può aiutare a far tesoro dell’esperienza di applicazione della legge olandese e capire quali siano le reali difficoltà e i rischi legati all’iter italiano. Non si può non considerare infatti che una pur piccola percentuale dei casi olandesi di suicidio assistito riguarda pazienti psichiatrici. Si tratta di pochi casi rispetto al totale delle richieste che ogni anno provengono da pazienti di questo tipo, che in larga maggioranza vengono respinte. Come nel caso della diciannovenne che lo scorso 17 marzo si è poi suicidata autonomamente con sostanze chimiche acquistate su internet, caso per il quale la magistratura olandese ha aperto un’inchiesta su una cooperativa di assistenza per richiedenti eutanasia o suicidio assistito. È bene precisare, per completezza, che il via libera al suicidio assistito di un paziente psichiatrico viene concesso solo se è riconosciuta la sua capacità di intendere e di volere. Ma per certi versi è proprio qui il punto. Ci si può basare solo su questo fattore per valutare? La depressione non può in alcun modo essere considerata alla stregua di una malattia terminale, dice la moderna psichiatria. Dunque la decisione di togliersi la vita da parte di una persona affetta da depressione non può essere considerata una scelta libera e consapevole.

A questo proposito approfondisce la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti dell’Azienda ospedaliera universitaria senese: «La capacità di intendere e di volere è un concetto giuridico molto aleatorio che si limita alla sola coscienza. Quando si parla di assistenza al suicidio o di eutanasia bisogna distinguere fra malattia organica terminale o comunque gravemente invalidante e malattia mentale, la cui eziopatogenesi non è cosciente e alla quale non è applicabile il concetto di capacità di intendere e di volere». E già questo spiega perché in Italia una discussione politica approfondita su questi temi dovrebbe iniziare al più presto. Non solo per garantire il diritto alla cura e alla salute ma anche per marcare la differenza con la proposta della parlamentare olandese Pia Dijkstra, che nel 2016 nel suo Paese ha presentato un disegno di legge sull’eutanasia per i casi di “vita completa”, ovvero anche in assenza di patologia. Chiediamo quindi alla professoressa Gatti se l’introduzione di un’esplicita esclusione delle patologie psichiatriche, nel testo della proposta di legge sull’eutanasia, sarebbe raccomandabile. «Il diritto a un fine vita dignitoso per chi oggettivamente soffre per una “malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi” (così recita la proposta di legge del comitato “Eutansia legale”, ndr) verrebbe così tutelato. Allo stesso tempo verrebbe ribadita la necessità di un intervento psichiatrico in chi manifesti intenti suicidi legati ad una depressione. Per quest’ultima la cura esiste».

Articolo pubblicato su Left del 20 aprile 2018

«Portare a morire un depresso è omicidio»

Si è fatto accompagnare da un amico fino alla stazione di Chiasso. Qui ha preso un treno proseguendo da solo fino a Zurigo, dove aveva un appuntamento in una clinica “specializzata” in suicidi assistiti. L’ingegnere di Albavilla (Como), protagonista di questa vicenda di cui molto si è parlato e molto ancora si parla, era affetto da una grave forma di depressione. Nessuno a quanto pare era a conoscenza dei suoi propositi. La magistratura di Como ha aperto un’inchiesta e sui media è scattato il dibattito pubblico che vede da sempre affrontarsi due posizioni nette: da una parte i difensori della vita “sempre e comunque”, dall’altra i sostenitori della libertà di decidere per se stessi “sempre e comunque”. E invece bisogna distinguere. E per farlo siamo tornati a interpellare la psichiatra Daniela Polese.

Per Dj Fabo e Welby non esisteva cura, non c’era alcuna possibilità di ripristinare quanto si era perduto. Si può dire lo stesso per una depressione grave?

Welby e Fabo presentavano lesioni organiche e condizioni permanenti, oggettivamente impossibili da trattare per la medicina. Nel caso di Fabo si trattava di un esito da politrauma. La depressione, invece, anche grave, è una malattia che oggi sappiamo con certezza essere curabile, principalmente grazie alla psicoterapia. In questo caso non sono presenti lesioni organiche. Va da sé che, a differenza dei primi, nella depressione non si può parlare di eutanasia. L’idea di incurabilità nella depressione è un sintomo che caratterizza il malato e non può essere condiviso ma deve essere affrontato e contrastato sia sul piano cosciente che non cosciente. Spesso è necessario intervenire anche contro la volontà del paziente, ricoverandolo.

Vale a dire?

Nei reparti di psichiatria abbiamo spesso pazienti con questa diagnosi. Altrimenti non dovremmo accettare pazienti depressi in ambulatorio, né in reparto. Anzi, non dovremmo nemmeno fare questa diagnosi, né quella di psicosi maniaco-depressiva, in fase depressiva. Sarebbe una condizione da assecondare. Ma è una pazzia, oltre che una totale assenza nei confronti del paziente. Ricordo che a proposito del suicidio assistito in Olanda, lo psichiatra Massimo Fagioli disse che c’è «un criterio di libertà, di cui gli olandesi sono un esempio storico, che va a finire nell’indifferenza più totale. Non c’è più interesse per l’altro. Se vuoi morire, muori, tanto se ci sei o no, non cambia nulla». Invece il medico e in particolare lo psichiatra devono prendersi la responsabilità di una diagnosi e di una terapia. Ad oggi con gli strumenti che abbiamo, grazie alla psicoterapia fondata dallo stesso Fagioli, si può guarire dalla depressione. Ci si ammala per un rapporto interumano malato, in particolare nel primo anno di vita, e con un rapporto valido in psicoterapia si può guarire. E questo è un parere condiviso in psichiatria. Non curare un depresso è omissione di soccorso. Portarlo a morire è omicidio.

Impossibile non ricordare la vicenda di Lucio Magri nel 2011. Esponenti della politica e della cultura a lui vicini, allora, parlarono di un esercizio di “libertà”. Assistere il suicidio di un depresso si può considerare come una risposta a un diritto all’autodeterminazione? Qual è il senso di questa parola, in casi simili?

In aggiunta a quanto citavo prima, non posso non ricordare che lo psichiatra dell’Analisi collettiva diceva con grande chiarezza che «non c’è libertà senza identità ». La libertà è qualcosa che richiama un atto creativo, una realizzazione. Non si può associare, come caoticamente si sente fare in alcuni ambiti, alla distruzione, all’omicidio, al suicidio. Noi esseri umani, se non perdiamo la nostra realtà psichica originaria della nascita, caratterizzata da vitalità e capacità d’immaginare, e riusciamo a realizzare la nostra natura, la nostra personalissima identità, allora siamo liberi. La libertà di uccidere o di uccidersi può chiamarsi libertà? Possiamo ricordare che esiste il codice penale che si occupa di omicidio, anche nei casi in cui il medico non intervenga per impedire un suicidio.

La figlia del giudice Pietro D’Amico, anche lui preda di grave depressione per le calunnie subite, combatte dal 2013 perché suo padre «andava aiutato a vivere, non a morire». Quali ricadute ci possono essere sui familiari della persona depressa che, oltre a compiere un gesto così tragico, viene per di più “assistito” da medici autorizzati da uno Stato?

Sul piano psicologico si subisce una grave violenza. È un dramma avere persone care gravemente malate di mente, ed è una tragedia che muoiano nonostante siano curabili. L’importante è che non si creda di essere colpevoli per la loro morte. Anzi, occorre resistere e reagire. Io mi trovo assolutamente d’accordo con la figlia del giudice. Anche qui, la differenza con i familiari di chi è affetto da malattie organiche è lampante: in quei casi in genere l’eutanasia viene richiesta, perché la violenza consiste nel fatto che i pazienti vengono lasciati a soffrire in una condizione organica incurabile e irreversibile.

A essere carente sembra che sia la cultura della “curabilità”. Si pensa che dalla depressione grave non si possa guarire.

L’idea del peccato originale, cioè la convinzione religiosa che “il Male” sia originariamente insito in ciascuno di noi, collude con la convinzione patologica del depresso che crede di non poter guarire. In psicoanalisi corrisponde alla credenza religiosa di un inconscio naturalmente perverso e psicotico, per cui in genere anche in psicoterapia non si interviene per guarire: si cerca di arginare e gestire questa realtà, anziché di eliminarla, perché si crede costituzionale. In psichiatria, è alla base di quella corrente che sostiene che la malattia è organica, genetica ed ereditaria, pur non esistendo una vera dimostrazione scientifica. Ma da decenni continua a praticare esperimenti e a pubblicare nel tentativo di affermarlo, basando la sua prassi su inferenze, giudizi apriori e non su una ricerca, e somministra prevalentemente psicofarmaci.

È anche la cultura del nordamericano Dsm, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali?

Esattamente. Il Dsm fa diagnosi su base statistica anziché clinica, senza che vi sia alcun interesse né verso l’essere umano né verso la conoscenza. Infine, nella psichiatria di derivazione esistenzialista heideggeriana, la malattia è considerata una forma di esistenza e vi è persino la convinzione che il suicidio non possa essere evitato. D’altronde, possiamo pensare che la stessa esistenza del suicidio assistito per i malati di mente colluda con la malattia e spinga il paziente a trovare conferma del suo pensiero malato. È tutto parte di una cultura tradizionale ancora attuale che va rifiutata perché si possa realizzare un’identità psichiatrica che deve essere intelligente e laica.

Articolo pubblicato su Left del 7 ottobre 2017

Il caso Ellen West. Fu istigazione al suicidio?

“La recensione firmata da Pietro Citati de Il caso Ellen West di Ludwig Binswanger apparsa su Repubblica, fa indignare molto noi psichiatri perché scorretta come metodo e delinquenziale nel pensiero che esprime». Non usa circonlocuzioni la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg (presidente Netforpp Europe) nel commentare il modo in cui il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha presentato la nuova edizione Einaudi del famoso saggio dello psichiatra svizzero padre della Daseinsanalyse, “analisi esistenziale”.

Dottoressa Homberg perché parla di scorrettezza?

Perché Citati tratta il testo di Binswanger come se fosse un’opera letteraria che ha una protagonista, Ellen West, e nella recensione riassume gli stati d’animo come se fosse una eroina. Ora, la figura di un romanzo può essere affascinante quanto si vuole ma sappiamo tutti che è inventata e che lo scrittore esprime una sua visione soggettiva delle cose: ogni lettore deciderà poi da sé se condividerla o no. Lo scrittore Pietro Citati, invece, dopo aver trattato quello che sarebbe un testo scientifico come se fosse un romanzo, repentinamente torna alla scienza. All’improvviso nel suo pezzo Binswanger torna ad essere «un grande psichiatra» che pronuncia ciò che sarebbe una verità scientifica: ovvero quanto può essere bello e libertario suicidarsi. E non parla del gesto di una persona affetta da una malattia del corpo allo stadio terminale, parla del suicidio di una paziente psichiatrica. Messaggio cinico, fatuo e falso perché non c’è storia più dolorosa e fallimentare di una persona che si toglie la vita per motivi psichici. Citati e con lui La Repubblica si sono mai chiesti che cosa provano i familiari di un suicida, spesso segnati a vita?

Con Cecilia Iannaco lei ha tradotto e pubblicato in Italia un lavoro dello psichiatra tedesco Albrecht Hirschmüller che, a proposito degli psichiatri che si occuparono della giovane donna, parla esplicitamente de Il fallimento di tre terapie. Cosa avvenne?

Nel 2002 il noto storico della psichiatria Albrecht Hirschmüller pubblicò una ricostruzione del caso Ellen West (pubblicata in Italia nel 2005 sulla rivista Il sogno della farfalla) che evidenzia in maniera inequivocabile quanto Binswanger abbia mentito sui fatti e quanto le posizioni da lui espresse siano ideologiche e “controtransferenziali”. In base a documenti inediti tra cui il diario di Ellen, Hirschmüller dovette criticare non solo la diagnosi di schizofrenia fatta da Binswanger ma anche tutta l’impostazione di fondo. Ellen West fu tutt’altro che una donna «destinata a realizzarsi nel suicidio». Era una paziente difficilissima ma il suo intento di guarire che c’era, fu brutalmente demolito dai suoi medici e dal marito.

Nella prefazione de Il caso Ellen West ora edito da Einaudi si legge che lei «considerava esasperante l’analisi, ma anche l’unico mezzo che possa tirarla fuori dal baratro nel quale è precipitata»…

Come è noto nel 1920 la West iniziò con molte speranze un trattamento analitico con Victor von Gebsattel (che più tardi avrebbe aderito alla filosofia di Heidegger). Purtroppo, dopo pochi mesi costui andò incontro ad una crisi mistica: interruppe l’analisi e portò la sua paziente con sé ai sermoni del suo predicatore. La West, mostrando in questo segni di notevole equilibrio mentale, non gradì ed iniziò una seconda analisi, con un analista che le spiegava tutto con «l’erotismo anale». Quando la West ha una crisi durante le vacanze del suo medico, il marito la convince a farsi ricoverare nella Clinica di Binswanger. Arriviamo così al gennaio del 1921: Binswanger evita ogni rapporto profondo con Ellen ma suona spesso il violino insieme al marito di lei, Karl. Anche se qualche miglioramento c’è il marito continua a dire che lei dovrebbe “porre fine alle proprie sofferenze”. Mossa finale: Binswanger invita per un consulto decisivo il professor Hoche che l’anno prima aveva pubblicato un bestseller sulla necessità di eliminare «vite indegne di essere vissute». Solo dopo Ellen crolla e Binswanger e marito decretano l’incurabilità della paziente. Quando viene dimessa nel marzo 1921, Binswanger “sa” che si suiciderà. In effetti, Ellen prende i barbiturici – avuti da chi? – e lo fa in presenza del marito. Per proteggerlo giuridicamente, lascia per iscritto che lui non ne sapeva niente.

Raccontato così, sembra un’istigazione al suicidio…

Ciò che colpisce è che da parte di questi medici non c’è stata essuna autocritica, solo un freddo dire: era incurabile. Nei suoi diari, Binswanger non nomina Ellen, nemmeno una volta.

Nella lettera che Binswanger scrisse a Karl West dopo il suicidio di Ellen, lo psichiatra arriva a dirsi sollevato. Poi , molti anni dopo , nel 1944, scrive il famoso saggio, in cui sostiene che suicidandosi Ellen West avrebbe realizzato il suo Dasein. Quale influenza ha avuto su di lui il pensiero di Heidegger?

Il contatto con la filosofia di Heidegger gli permise di rileggere ciò che era stata un’allucinante negazione della sua impotenza umana e professionale, come necessità esistenziale e autorealizzazione del malato. Ellen era «nata per la morte». Hirschmüller sospetta che fosse il tentativo binswangheriano di discolparsi di un altro suicidio, quello del figlio maggiore nel 1928. Ciò che colpisce sono però i tempi. Binswanger concepisce questo saggio su una sua paziente ebrea a partire dal 1941-42 quando la Germania nazista che sembra ancora vittoriosa, ha già iniziato lo sterminio degli ebrei. E’ solo cattivo gusto o sotto c’è una micidiale connivenza con il nazismo, mediata dal pensiero di Heidegger? E qui torniamo all’articolo di Repubblica firmato da Citati: mi preoccupa che tramite la glorificazione del suicidio e di Binswanger si voglia proporre di nuovo il pensiero di Heidegger le cui responsabilità di pensatore nel nazismo sono ormai ben note.

IL LIBRO . Il medico e il filosofo

Dopo l’edizione SE uscita nel 2002, ora Einaudi propone una nuova edizione de Il caso Ellen West dello psichiatra Ludwig Binswanger (Kreuzlingen 1881-1966). Al centro, la storia di una giovane donna ebrea che nel 1921 si tolse la vita dopo aver tentato di curarsi con vari tentativi di analisi. L’ultimo fu appunto con il fondatore della Dasainsanalyse, Binswanger che poi considerò quel caso paradigmatico del suo fare psichiatria. Ma chi era la donna che lo psichiatra svizzero chiamò Ellen West sulla scorta di Rebekka West di Rosmersholm di Ibsen?

Studentessa modello, brillante, Ellen ebbe un primo crollo nel 1907, “probabilmente durante un viaggio in Italia, ma le sue cause ci sono ignote” scrive Albrecht Hirshmuller. Ma già da tempo nei diari “dava segni di una personalità premorbosa”. Poi anni di disturbi alimentari e autodistruzione. Con idee esplicitamente suicide. Nonostante tutto questo e altri segni di grave patologia mentale, Binswanger scrisse che con il suicidio Ellen realizzava se stessa. Il consenso alla dimissione della paziente che voleva morire, da parte sua, fu “un segno di ammirazione e di rispetto” chiosa il curatore de Il caso Ellen West Stefano Mistura, senza rilevare la violenza insita in quella “ammirazione”. E aggiunge: “Montaigne, Montesquieu, Hume, Schopenhauer e Heidegger, Binwanger considerva il suicidio un atto di libertà estrema”. Anche quello di una malata di mente. E’ stato scritto da eminenti psichiatri che Heidegger stesso, filosofo di riferimento della Daseinsanalyse era affetto da una particolare forma di schizofrenia. Come è possibile, viene da chiedersi, che Binswanger abbia fatto riferimento all’autore di Essere e tempo, al teorico dell’”essere per la morte”, cioè per l’annullamento e l’eliminazione dell’altro, per comprendere la schizofrenia, ritenendo così di dare una fondazione rigorosa alla psichiatria? Ciò che ci appare evidente è che per questa via Binswanger finì per pensare che la malattia fosse la vita stessa e che la cura della malattia fosse la morte. s.m.

Intervista pubblicata su Left nel 2011