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Ora a Lucano gli daranno il divieto di esistere

Mimmo Lucano durante una conferenza stampa per presentare la conclusione della campagna di raccolta firme per candidare il Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019, Roma, 30 gennaio 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

Non è più sindaco di Riace, ormai a trazione Lega. Non è nemmeno consigliere comunale, nonostante sia stato il più votato infatti la sua lista ha preso un solo seggio che è andato al candidato sindaco. Da otto mesi ha divieto di dimora nel suo comune, roba che nemmeno un boss ‘ndranghetista o un pericoloso killer. Eppure Mimmo Lucano non può ancora rientrare nel suo paese. Non si capisce bene quali sarebbero i pericoli di inquinamento delle prove e non si capisce nemmeno come potrebbe reiterare il presunto reato. Eppure il Tribunale di Locri presieduto da Fulvio Accurso ha rigettato l’istanza formulata dagli avvocati Antonio Mazzone e Andrea D’Aqua che avevano chiesto la revoca della misura cautelare. Sembrava una formalità ormai, ma la questione Lucano sta assumendo contorni da vicenda kafkiana.

Ma non è tutto. Ieri è iniziato il processo al Tribunale di Locri e il sindaco ha pensato bene di emanare un’ordinanza per vietare qualsiasi manifestazione di solidarietà nelle vicinanze, un provvedimento abnorme e mai preso per un tribunale che ha visto, tra le altre cose, il processo della strage di Duisburg, tanto per dare l’idea di cosa sia la criminalità, quella vera, da quelle parti.

Eppure non stupisce. Perché Mimmo Lucano deve sparire, gli arriverà prima o poi su carta bollata un gentile richiesta di non esistere più, di smetterla di veicolare il suo messaggio di speranza e di accoglienza. Non potendolo fare fuori malmenandolo come oppositore a un comizio e non scalfendolo con il continuo dileggio che gli è stato riservato allora meglio esiliarlo, sommergerlo di carte bollate, soffiare sul dubbio e sul fango perché non abbia più fiato, farlo passare dalla parte di quelli che non si sa bene cosa abbiano combinato.

E così ci ritroviamo il pericoloso criminale Lucano punito ad oltranza. Ed è una cosa che farebbe sbellicare dal ridere se non fosse tremendamente vero. E qui intorno c’è una puzza che sa di silenziatore. Senza nemmeno bisogno di una pistola.

Buon mercoledì.

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In edicola con Left dal 14 giugno 2019

Yemen, oltre la fine della guerra

Faris al Shaibani osserva con soddisfazione i chicchi rossi di caffè, appena depositati sui tavoli da lavoro da Ruwad al Hayma. Ruwad, contadino, è arrivato da sud e ha percorso molti chilometri per essere qui, in questo cortile dentro la città di Sana’a pieno di tavole su cui una serie di lavoranti, muniti di cappellini, procede alla selezione delle bacche e alla loro essiccazione. Eppure, nonostante la strada e la tensione, Ruwad non sembra provato. Aspetta di sapere se Faris, guardando la qualità dei frutti dei suoi alberi da caffè, accetterà che lui possa essere il cinquantesimo tra i coltivatori yemeniti dell’etichetta Qima Coffee, nonché il primo coltivatore dalla località di Ans, nel governatorato di Dhamar. Faris, dopo avere scrollato la capigliatura nerissima e atteso che il muezzin del minareto aggettante sulla sua fabbrica smetta di richiamare il circondario alla preghiera, guarda Ruwad e dice: «Benvenuto, le tue piante sono buone».

Ruwad allarga in un sorriso il viso cotto dal sole e sformato da una guancia troppo grossa, per le frequenti masticature del qat (la droga da meditazione locale, ndr), poi i due si stringono la mano e si abbracciano. Il contadino non fa nemmeno in tempo a eclissarsi tra i banchi da lavoro per l’essiccazione del caffè, portando in giro la sua preziosa mercanzia, che un altro pick up strombazza davanti al portone. «È una…

L’articolo di Laura Silvia Battaglia prosegue su Left in edicola fino al 13 giugno 2019


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Breve storia di un golpe suave, così la destra brasiliana si è liberata di Lula

È il settembre 2018. Meno di un anno fa. Siamo nel Brasile di Temer, arrivato alla presidenza del Paese dopo l’impeachment di Dilma Rousseff, la presidentessa eletta nelle file del PT, il Partido des Trabalhadores. Siamo nel Brasile in cui Lula, che di quel PT è stato fondatore e che per ben due volte ha rivestito la carica di presidente (dal 2002 al 2010), è in carcere con l’accusa di corruzione. E siamo nel Brasile che corre veloce verso nuove elezioni presidenziali.

Per mesi i sondaggi hanno dato Lula vincente. Poi l’arresto, ma nei sondaggi è sempre lui primo, a distanza abissale dai rivali. Arriva però l’interdizione: Lula non può essere candidato. Il PT sceglie allora Haddad, ex sindaco di Sao Paulo, ma lo spazio politico diventa terreno di conquista per l’ormai noto Bolsonaro, politico di vecchia data che tuttavia riesce ad accreditarsi come “nuovo” e le cui sortite tutt’altro che politically correct (contro donne, “comunisti”, movimenti LGBTQI, indigeni, e chi più ne ha più ne metta) suscitano più consensi che riprovazione.

È in questa cornice che un giudice della Corte suprema di giustizia, il cui nome agli appassionati di calcio farà venire alla mente un centravanti polacco del Bayern Monaco, prende una decisione che lì per lì non fa troppo notizia: Lewandowski, questo il nome del giudice, autorizza Mônica Bergamo, famosa giornalista del principale quotidiano brasiliano, Folha, a intervistare Lula. In carcere.

Quest’intervista, autorizzata a settembre, però “non s’ha da fare”. Almeno non subito. E infatti sarà realizzata solo un mese fa, a maggio. A elezioni concluse, con Bolsonaro eletto alla presidenza del gigante latinoamericano e Lula fuori dai giochi. Definitivamente, almeno così sembra.

Eppure, dietro questa apparente non-notizia, la notizia c’è. Eccome se c’è. La decisione del giudice Lewandowski, infatti, ha suscitato un putiferio in alcuni ambienti giudiziari. È quello che emerge in maniera cristallina dalle rivelazioni pubblicate domenica 9 giugno dal The Intercept. Il sito di giornalismo ha avuto a disposizione, grazie ad una fonte anonima, le chat private di alcuni dei giudici accusatori di Lula. Esce un quadro che avvalora la tesi di chi sostiene che l’incarceramento di Lula abbia una ragione prettamente politica: eliminare dai giochi quello che sarebbe divenuto sicuramente presidente del Brasile, così da spianare la strada a Bolsonaro. Un “golpe suave”, come si dice in una regione, l’America Latina, che ci sta tristemente abituando a questo golpe del XXI secolo. Non più carri armati nelle strade, ma giudici nella aule di tribunali. Così – è l’accusa di tanti – si fanno e si disfano governi. E il Brasile non farebbe eccezione.

Torniamo alle trascrizioni del The Intercept. I giudici alla notizia della possibile intervista a Lula entrano in stato di agitazione febbrile. Si confrontano tra di loro lungamente, cercando di studiare una strategia che impedisca l’intervista. Sono indignati, parlano di “circo” (giudice Laura Tessler), lanciano accuse di “mafiosi” (giudice Athayde Ribeiro Costa). Convengono che un appello contro la decisione di Lewandowski avrebbe zero possibilità ed esporrebbe i giudici all’accusa di voler impedire che Lula parli per motivi essenzialmente politici. Studiano allora il da farsi…

Nel frattempo, su un’altra chat, Deltan Dallagnol, a capo della task force del processo Lava Jato contro Lula, parla con un altro giudice, che non lavora al caso Lula. Esprimono preoccupazione per una possibile elezione di Haddad, il candidato del PT che ha sostituito l’incandidabile Lula. “Sono molto preoccupata del possibile ritorno del PT e ho spesso pregato Dio affinché illumini il nostro popolo e ci dia un miracolo che ci salvi”, afferma Carol. “Sono con te, Carol! Prega dunque. Ne abbiamo bisogno come paese.”, così risponde Dallagnol.

Rispostandoci sull’altra chat, quella degli accusatori di Lula, Januàrio Paludio, suggerisce un “Piano B”, considerata l’impossibilità di bloccare l’intervista: “dare a tutti [i giornalisti] la possibilità di intervistare [Lula] nello stesso giorno. Sarà caotico, riducendo così la possibilità che l’intervista sia diretta”.

La tensione è alle stelle. I messaggi si accavallano, l’ansia e la paura si sentono. Si raggiunge il climax. E poi, come in ogni tragedia che si rispetti, arriva il deus ex machina: si fa largo la voce che un partito della destra brasiliana, il Partido Novo, che concorreva alle elezioni presidenziali, abbia impugnato la decisione del giudice. Ciò permetterebbe di dilazionare i tempi dell’intervista, evitando che le parole di Lula possano spingere Haddad alla presidenza. La voce diventa notizia. E a quel punto è giubilo tra i giudici. Esultano. Sono felici. È arrivato qualcuno che gli ha tolto le castagne dal fuoco. È arrivato qualcuno che ha il loro stesso obiettivo: eliminare Lula dall’agone politico. Non perché sia un criminale, ma perché bisogna impedire a tutti i costi che il PT ritorni al governo del paese. Motivazioni politiche espresse da giudici che si sono sempre professati apolitici. Giudici che affermavano che l’unica preoccupazione era la lotta alla corruzione e che, invece, stando alle chat, hanno fatto di tutto per impedire la vittoria di colui che ritenevano un nemico politico.

Potremmo fermarci qui. Ma no. Dai documenti pubblicati dal The Intercept emerge molto altro.

In gioco, infatti, dopo una delle parti in campo, l’accusa, entra anche l’arbitro: Sergio Moro. Moro è oggi il Super-Ministro della Giustizia del governo Bolsonaro. Una strana coincidenza che colui che ha eliminato dalla scena politica brasiliana Lula, il principale rivale di Bolsonaro, sia poi arrivato a ricoprire una carica tanto importante e dotata di enormi poteri, per decisione dello stesso Bolsonaro.

L’attuale presidente brasiliano, in effetti, dovrebbe essere estremamente riconoscente a Moro. Quest’ultimo – l’arbitro del processo Lava Jato in cui era imputato Lula – offriva consigli all’accusa. Così emerge dalle chat pubblicate dal The Intercept. A Dallagnol, ad esempio, suggeriva di “invertire l’ordine delle due fasi pianificate [mandato d’arresto e interrogatori]”. In risposta a un comunicato del PT sul processo Lava Jato, chiede, sempre a Dallagnol: “Cosa pensi del folle comunicato del PT? Dobbiamo controbattere?”, utilizzando un “noi” che fa venir meno la separazione che secondo il sistema giudiziario brasiliano dovrebbe esserci tra accusa e giudice. In altre conversazioni Moro fornisce a Dallagnol informazioni importanti ai fini di impostare la strategia dell’accusa. Informazioni confidenziali che minano ancora una volta la sua terzietà. Eppure, in ogni dichiarazione pubblica Moro aveva allontanato da sé qualsiasi accusa e sospetto, dicendosi anzi indignato per il fatto che qualcuno potesse mettere in dubbio la sua imparzialità.

Le rivelazioni del The Intercept fanno crollare un castello di carta costruito – nemmeno tanto sapientemente – in questi ultimi anni. L’ombra che cala sull’intero sistema brasiliano – in primis sul pilastro giudiziario – è inquietante. Le chat tra giudici ci raccontano di un Paese in cui la magistratura agisce per obiettivi politici e non per affermare verità e giustizia. Le parole che cominciano a essere diffuse in mezzo mondo sono destinate ad alzare un polverone. Per il popolo brasiliano, per l’amore della verità e della trasparenza, è un bene che questi particolari siano emersi. Ma anche per l’opinione pubblica internazionale. La consapevolezza è il primo passo per trasformare ciò che è marcio e darsi una possibilità per il futuro. È questa la sfida più grande che attende chi, dentro e fuori il Brasile, non si arrende a che le nostre vite vengano governate dalla bugia e dall’inganno.

A proposito della balla dei giovani che non vogliono lavorare

Ricordate qualche giorno fa la notizia che fece il giro di tutti i giornali (e che venne parecchio strumentalizzata dalle opposizioni) secondo la quale quest’anno a Gabicce (località marina delle Marche) non si trovavano più lavoratori stagionali perché i giovani preferivano il reddito di cittadinanza piuttosto che impegnarsi in un lavoro? Una notizia perfetta per attaccare il governo da una parte e per perseguire la solita retorica dei giovani che non hanno voglia di lavorare dall’altra.

Beh, su quella notizia ha indagato Arianna Ciccone, di Valigia Blu, e ha notato che il presidente degli albergatori ha in pratica smentito la notizia affermando che: «In realtà sono anni che lanciamo l’allarme dei lavoratori che mancano. Evidentemente negli anni passati nessuno ci ha fatto caso perché non essendoci appiglio per un attacco alla politica non è stato dato molto peso alle nostre dichiarazioni. La ricerca diventa sempre più problematica».

Non solo: la ricerca diventa problematica «perché l’estate si accorcia progressivamente e si lavora quindi sempre meno». Non più quattro o cinque mesi, ma poco più di tre. «Quindi il professionista preparato e qualificato – perché alle prime armi se ne trovano – ha magari già trovato una occupazione annuale».

E poi: «È possibile che abbia inciso il reddito di cittadinanza, ma in misura molto ridotta. Parliamo del 5, 10% del fabbisogno. Ma di sicuro non è questa la causa».

In pratica i giornali hanno riportato, ancora una volta, una notizia fondamentalmente falsa e sbagliata senza preoccuparsi di smentirla. A ruota l’opposizione ha pensato bene di continuare nel giochetto reddito di cittadinanza=nullafacenza senza nemmeno preoccuparsi degli effetti che il propagare una notizia falsa ha sui giovani (e possibili elettori) di un Sud che viene sempre più spesso dipinto (secondo la migliore logica leghista, tra l’altro) un covo di indolenti. E pensare che poi si stupiscono, questi, se non prendono voti al Sud. Pensa te.

E così ancora una volta l’ecologia del giornalismo va a farsi benedire e di conseguenza anche la sua credibilità. Perché va bene fare opposizione dura e pura ma riuscire a farla senza appoggiarsi alle balle forse sarebbe più salutare. E ce n’è tanto da raccontare e denunciare. Tantissimo. Non c’è bisogno di inventarsi altro.

Buon martedì.

Un milione in strada a Hong Kong contro l’estradizione in Cina

Protester are seen marching in the streets during a protest in Hong Kong, China. 9 June 2019. Hundreds of Thousands takes to the streets of Hong Kong in protest of the cities Governments recent proposal to amend the extradition law which would allow the transfer of fugitive to China, Taiwan and Macau. (Photo by Vernon Yuen/NurPhoto via Getty Images)

Nemmeno il caldo umido e soffocante di Hong Kong ha impedito a circa un milione di persone (secondo le stime degli organizzatori) di scendere in strada il 9 giugno per protestare contro una legge che prevede l’estradizione forzata in Cina, a Taiwan e a Macau per i sospettati di crimini come stupro o omicidio. La norma voluta da Pechino dovrebbe essere approvata mercoledì prossimo dall’esecutivo della ex colonia britannica.

Persone di ogni strato sociale – dagli avvocati agli uomini d’affari, dagli studenti, ai gruppi religiosi e alle figure pro-democrazia – hanno partecipato a quella che sembra essere stata la più grande marcia degli ultimi 20 anni, addirittura più imponente del Movimento degli Ombrelli del 2014, quando centinaia di migliaia di manifestanti reclamavano un sistema politico più democratico.

Chi critica la bozza teme che l’indipendenza giudiziaria di Hong Kong sarà minata dall’influenza del poco trasparente sistema di giustizia cinese, politicamente condizionato e rinomato per le detenzioni illecite, i processi arbitrari, e le torture. Tuttavia, il maggiore sostenitore dell’emendamento è proprio la governatrice, Carrie Lam, che aveva spinto per la sua approvazione prima di luglio.

Dopo la marcia, ci sono stati scontri tra i protestanti che hanno tentato di irrompere nel complesso del Parlamento e la polizia: alle bottiglie incendiarie e alle barricate dei primi hanno risposto le manganellate e gli spray urticanti dei secondi. Per rassicurare i cittadini, il governo ha stabilito che alla Corte di Hong Kong sarà lasciata l’ultima parola sulla concessione delle estradizioni. Saranno consegnati solo i fuggitivi colpevoli di reati con una sentenza di almeno sette anni, mentre i sospettati di crimini politici o religiosi non saranno estradati.

Il governo ha annunciato che andrà avanti con l’approvazione della nuova legge, malgrado la manifestazione. Secondo quanto riportato dall’Ansa, Carrie Lam ha detto che «la nuova normativa aiuterà a difendere la giustizia e a onorare gli obblighi internazionali di Hong Kong».

Tunisia, la primavera delle minoranze

Nel maggio del 2019 si è tenuto il pellegrinaggio del Lag-ba-Omer alla sinagoga della Ghriba (la meravigliosa) sull’isola di Djerba in Tunisia. Come ogni anno, la comunità ebraica sia tunisina che della diaspora ha festeggiato il suo pellegrinaggio che quest’anno coincideva anche con il mese del ramadan musulmano, fornendo l’occasione di un iftar comune che ha riunito i rappresentanti e i fedeli delle tre religioni del Libro in Tunisia.

A lungo la Tunisia è stata presentata dalle autorità come un Paese fortemente omogeneo a netta maggioranza arabo-musulmana di confessione sunnita e di scuola giuridica malekita comprendente una piccola minoranza ebraica, ma la Tunisia è molto più stratificata e differenziata al proprio interno a livello di composizione etnica, religiosa e linguistica di quanto questa descrizione schematica non permetta di capire. In effetti, dopo la rivoluzione del 2011 e l’avvio della transizione democratica, sono nate numerose associazioni che hanno iniziato a lavorare sui diritti delle minoranze e che non cessano di reclamare la concessione di diritti di cittadinanza piena per tutti i Tunisini, inclusi coloro che oggi subiscono discriminazioni di diritto e/o di fatto. Tali associazioni hanno infatti portato all’attenzione pubblica l’esistenza di numerose minoranze etniche, religiose, linguistiche e sessuali.

Al livello di composizione etnica, la Tunisia conta – oltre alle summenzionate popolazione araba ed ebraica – gruppi di cittadini neri ed amazigh (un popolo autoctono dell’Africa del nord), soprattutto concentrati nei governatorati del sud della Tunisia, i cui numeri sono virtualmente ignorati nonostante i numerosi appelli dell’Onu al governo di fornire cifre statistiche attendibili sulla composizione etnica del Paese. Ad oggi, non esistono dati ufficiali in merito.

Al livello della composizione religiosa, la Tunisia, oltre alla minoranza ebraica che è sempre rimasta nel Paese, conta anche una minoranza cristiana autoctona (costituita da Tunisini convertiti) oltre a cristiani europei e subsahariani residenti in Tunisia e ad una minoranza bahai, che ancora, a distanza di anni, richiede alle autorità l’assegnazione di un cimitero per i propri fedeli, privilegio che viene ad oggi riconosciuto solo ai fedeli delle tre religioni del Libro. Il numero di persone atee è ugualmente sostenuto, tanto che gli atei si sono recentemente costituiti in un’associazione – Associazione dei liberi pensatori – autorizzata dal governo: un caso unico in Maghreb e Medio Oriente.

Ancora, a livello linguistico, gli amazigh sono diventati una minoranza linguistica a seguito dell’arabizzazione. Il numero dei parlanti tafinagh si riduce progressivamente e lo Stato non fa nulla per preservare la sopravvivenza di questa lingua che ad oggi è parlata solo in qualche villaggio. Tuttavia, esistono delle iniziative private volte a preservare l’apprendimento e l’uso del tafinagh e una forte domanda di riconoscimento dei diritti culturali e linguistici specifici delle poche comunità superstiti.

Per quanto riguarda le minoranze sessuali, si tratta soprattutto della comunità Lgbt, il cui riconoscimento è sostenuto da numerosi attori della società civile in continuità con la recente depenalizzazione legale dell’omosessualità (articolo 230 del Codice penale).

Nonostante la Costituzione del 2014 garantisca piena uguaglianza e libertà di coscienza a tutti i cittadini (articolo 6), ella assegna ancora alcuni privilegi all’Islam e alla lingua araba, poiché l’articolo 1 così dispone: « La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano. L’Islam è la sua religione, l’arabo la sua lingua e la Repubblica il suo regime». Questa definizione è confermata da altri articoli costituzionali che vanno nello stesso senso, tra cui quello che stabilisce che la carica di presidente della Repubblica debba essere riservata a candidati di fede musulmana (art.74).

La Tunisia ha ratificato numerosi testi sulla non-discriminazione, ed in particolare le convenzioni Onu tese a proteggere le minoranze e ad accordare loro gli strumenti legali per accedere alla giustizia nazionale ed internazionale. La prima legge sull’eliminazione della discriminazione razziale è stata adottata nell’ottobre del 2018 a seguito delle rivendicazioni di una parte attiva della società civile tunisina, delle raccomandazioni Onu e di alcuni episodi di aggressione razziale che avevano scosso l’opinione pubblica. Tale legge rappresenta una novità assoluta nel mondo arabo: essa prevede la creazione di una Commissione nazionale di lotta contro la discriminazione razziale responsabile della stesura di politiche pubbliche finalizzate a contrastare gli stereotipi a fondo razziale e a fornire delle cifre reali sull’ampiezza dei casi di razzismo riguardo ai neri tunisini e agli immigrati sub-sahariani che si trovino in Tunisia a vario titolo (studio, migrazioni od asilo).

La questione delle minoranze sessuali resta ancora sospesa, nonostante le numerose raccomandazioni internazionali sulla necessità di dare seguito alla depenalizzazione dell’omosessualità, a cui il Governo tunisino stenta a dare risposta. Le associazioni che difendono i diritti delle persone Lgbt hanno anche subito pressioni di varia natura da parte della società e dello Stato che sembra addirittura voler negare di fatto quella libertà d’associazione che è loro accordata per diritto. E’ infatti notizia di cronaca recente che lo Stato ha tentato di chiudere l’associazione Lgbt Shams che era stata precedentemente autorizzata ad operare. Le accuse prodotte a carico dell’associazione non si sono fondate su argomenti giuridici ma sull’invocazione della violazione di «un ordine sociale» e dei «principi della società musulmana» ai quali le attività di tale associazione verrebbero meno. Tuttavia, il tribunale ha preso una posizione chiara, stabilendo con sentenza che l’associazione Shams possa continuare ad operare.

Nonostante la Tunisia si distingua positivamente nel contesto regionale riguardo al buon funzionamento dello Stato di diritto, le minoranze tunisine hanno ancora un lungo cammino da percorrere per ottenere il pieno riconoscimento e l’uguaglianza sostanziale.

Omar Fassatoui, titolare di un dottorato in scienze politiche, è ricercatore associato presso il CHERPA Aix-en-Provence e presso la Facoltà di Diritto e Scienze Politiche dell’Università di Tunis el-Manar. La sua area di ricerca spazia dai diritti umani, alle questioni migratorie, ai rapporti Stato/religione

Se l’antimafia la fanno gli stranieri, a Ballarò

Palermo si ribella alla violenza e ad ogni forma di razzismo. Per questo oggi quasi tremila persone sono scese in piazza, sfidando la pioggia. Cartelli gialli con scritte nere hanno attraversato lo storico mercato di Ballarò per manifestare solidarietà a Yusupha, 21 anni, il migrante originario del Gambia ferito con un colpo di pistola da Emanuele Rubino, 28 anni, fermato con l'accusa di tentato omicidio, dopo un diverbio per futili motivi con alcuni giovani del rione. ANSA/IGNAZIO MARCHESE

Una storia piccola, di cui si è parlato poco ma che dice molto come tutte le storie minime che sono buone per essere paradigma contro i pregiudizi facili. A Ballarò, quartiere palermitano, la più importante azione antimafia l’hanno fatta negli ultimi mesi gli immigrati.

Partiamo dall’inizio. Nel 2016 un gambiano poco più che ventenne, Yusupha Susso, decide di rispondere alle offese razziste, non ce la fa più e reagisce. Solo che se la prende mica con uno qualunque, ma con un mafioso e figurati se la mafia di Ballarò si fa mettere i piedi in testa, perdipiù da un nero. Così Emanuele Rubino decide di vendicarsi e per dimostrare tutta la sua indecente potenza al quartiere spara alla testa a Yusupha. Il ragazzo va in coma. Rubino viene arrestato.

La comunità straniera decide che è ora di reagire. Vengono da Tunisia, Gambia, Bangladesh e da anni pagano il pizzo, chinando la testa. Decidono che è ora di rialzarsi e denunciano i loro estorsori. Ne nasce una delle più importanti indagini degli ultimi anni nel quartiere di Ballarò dove la cosca locale viene smembrata da arresti e condanne. Una di loro, Sumi Aktar, diventa la prima politica bangladese eletta in Sicilia (alla Consulta delle culture), e dice: “Da stranieri abbiamo già dimostrato il nostro coraggio denunciando la mafia e il pizzo. I commercianti bangladesi hanno contribuito alla crescita di Palermo. Da stranieri ci sentiamo parte di questa città. Per noi Palermo non è una tappa transitoria. E’ casa nostra”.

Ed è una storia bellissima perché non divide le persone in base ai colori o alla provenienza ma dimostra che esistano dappertutto buoni e cattivi. E anche buoni che hanno più coraggio degli storici residenti. E poi è una storia bellissima perché se la raccontate a Salvini implode e diventa polvere di stelle.

E sanno tutte di buono le storie che mischiano persone, coraggio e dove vincono quelli giusti. Perché questi sono fatti, mica pregiudizi.

Buon lunedì.

 

Braccia incrociate contro i signori delle guerre

Nel romanzo incompiuto Alabarde, Alabarde, José Saramago investe l’impiegato delle Produzioni Bellona S.A, Artuz Paz Semedo, del compito di indagare le vendite di armi della sua azienda ai fascisti nella seconda guerra mondiale sulla spinta di un libro, La Speranza di André Malraux. Lì, seppur così non è, Saramago era convinto di aver letto di un boicottaggio di bombe durante la guerra civile spagnola. Bombe che non esplodevano, caso immaginato di una particolare forma di sciopero: il lavoratore sabota il suo lavoro come strumento di lotta al fascismo e alla guerra.

Lo scorso 20 maggio nel porto di Genova un vero sciopero ha impedito alla nave saudita Bahri Yanbu di caricare i generatori elettrici dell’italiana Teknel, compagnia che (da “neofita” del commercio con Riyadh) nel 2018 si è aggiudicata oltre la metà delle licenze militari autorizzate dallo Stato italiano verso l’Arabia Saudita: 7.829.780 euro per 18 generatori per altrettanti shelter militari. Strumenti di guerra: gli shelter sono comandi mobili da cui si guidano droni, ordinano raid aerei, si gestisce la comunicazione interna all’esercito.

La rivolta dei camalli genovesi ha costretto la Bahri Yanbu a…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 7 giugno 2019


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Così Bianciardi denunciò il lavoro disumano

Luciano Bianciardi è un giovane intellettuale di provincia. Crede nel lavoro culturale in provincia. Vive in una città aperta al vento e ai forestieri e va incontro agli operai con il bibliobus, un furgone scassato carico di libri. Porta ai minatori i romanzi di Vasco Pratolini e i film di Pietro Germi. Loro lo ricambiano con strette di mano erculee e la promessa di fare del mondo un posto migliore, senza preti e sfruttatori. Luciano guarda quei volti scheletrici, ossuti, vede quei polmoni gonfiarsi e tossire, sente una minaccia incombere su di loro. Una tragedia annunciata. Luciano è il direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto e ha, come altri intellettuali, il mito della classe operaia.

Gli operai per eccellenza nella Maremma degli anni Cinquanta sono i minatori delle Colline Metallifere. Un ampio bacino minerario pieno di pirite e lignite che si estende dal volterrano all’Alta Maremma, su cui imperano prima piccole imprese straniere, poi dal Novecento la Montecatini, la ditta principe dell’estrazione mineraria e della chimica italiana. Boschi di cerro e leccio su cui si affacciano le torri che muovono carrucole e corde verso gli abissi. Minatori che sono operai: figli di braccianti a giornata, hanno adesso un lavoro salariato e scendono nel ventre roccioso della terra.

Terra rossa, per le scorie ferrose degli inerti dello scavo; rossa per l’ideale comunista che t…

 

L’articolo di Alberto Prunetti, illustrato da Vittorio Giacopini, prosegue su Left in edicola dal 7 giugno 2019


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Come si affrontano le urgenze in psichiatria

Il nuovo libro della collana Bios-psichè adolescenza dal titolo Urgenze in psichiatria di Tiziana Amici, Elvira Di Gianfrancesco e Alessio Giampà come gli altri  editi da L’Asino d’oro non è un libro per specialisti ma è un libro che ha l’aspirazione di inserirsi in una dimensione divulgativa. Apparentemente affronta un tema specificatamente medico per fornire ad un pubblico più vasto una maggiore conoscenza. La salute non è un problema che riguarda una sola categoria di persone ma è un argomento che investe tutta la collettività.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), lo stato di salute di una popolazione non può essere inteso solo come un’assenza di malattia. Genialmente lo stato di salute viene identificato con una condizione di benessere fisico, psichico e sociale, che permette di stabilire relazioni soddisfacenti con gli altri essere umani.

Quindi un “essere” (la condizione di benessere) che si associa ad un “fare”: fare relazioni, essere in rapporto. Un “essere” necessario per proporre e sviluppare la naturale socialità umana. Sembra che l’Oms abbia ben chiaro che lo stato di salute è legato all’identità dell’essere umano e alla sua socialità.

Sicuramente è una bella immagine che purtroppo spesso ci dimentichiamo o più drammaticamente perdiamo. Una possibile e più immediata soluzione a questo problema potrebbe essere…


Video della presentazione del libro “Urgenza in psichiatria” realizzato alla Feltrinelli Appia di Roma il 7 giugno 2019 – a cura di Mawivideo

 

L’articolo di Marcella Fagioli prosegue su Left in edicola dal 7 giugno 2019


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