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La salute non ammette ignoranza

Il nostro Servizio sanitario nazionale è stato da molti considerato il più bello del mondo e forse effettivamente lo è stato. Ha da poco superato i 40 anni e quindi una buona parte della popolazione  è cresciuta e vissuta con questo Ssn. Fa parte del nostro quotidiano. Se stai male vai al pronto soccorso, qui qualcuno ti visita e ti cura. Oppure puoi chiamare l’ambulanza che ti porta in ospedale, se hai bisogno di una visita chiedi un appuntamento al medico di base oppure allo specialista. E questo vale per chiunque, sia nel nostro Paese cittadino italiano o straniero, e il tutto gratuitamente. Per questo diciamo che il nostro servizio sanitario è “universale”. Questo fa parte del nostro quotidiano quindi penso che tante persone potrebbero avere difficoltà a capire che dietro tutto ciò vi siano tante cose che non funzionano. Dobbiamo essere ottimisti e c’è ancora tempo per evitare che le cose precipitino. Ma non è tanto.

Io in particolare, essendo psichiatra e psicoterapeuta, devo qui parlare della salute mentale e potrei cominciare con la frase apparentemente banale ma per me molto significativa che questo è il problema più importante della salute oggi. Limitandosi in maniera grossolana ai soli numeri, sappiamo che il bisogno di cure mediche in Italia è sì in leggera crescita, ma è abbastanza stabile.

Le cure per il cancro o per le malattie cardiovascolari richiedono gli investimenti più alti e questi sono in lieve crescita, mentre la richiesta di cure psichiatriche ha…

L’articolo di Andrea Masini prosegue su Left del 31 maggio 2019


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Ritratto di un ras con i piedi di argilla

Perde le staffe, alza la voce. Si blinda dietro cordoni di polizia. Cerca rifugio in palchi originariamente pensati per esporsi ai suoi fan, ma che – con sempre più frequenza – si trasformano in recinti per proteggerlo. La figura di Salvini, quella stessa silhouette che esce irrobustita dalle urne europee, mostra crepe sempre più evidenti quando entra in contatto diretto col magma sociale italiano, per un comizio o un evento pubblico. Lo dimostrano le contestazioni accorate ed energiche che il ministro in felpa colleziona dal Nord al Sud del Paese. Come è possibile? Si tratta forse di un paradosso?

In realtà, prestando un po’ di attenzione, non è difficile intuire ciò che lo stesso Salvini ha ben chiaro. Ma non dice. I sorrisi sgangherati, quasi digrignati, che oppone a chi lo contesta dissimulano a stento il segreto di Pulcinella della Terza Repubblica. Ossia che le merci politiche populiste, al pari dei beni di consumo, si fanno ogni giorno più deperibili, con una data di scadenza sempre più ravvicinata. E che ossessionare via twitter un intero Paese con refrain che non incidono di una virgola sul benessere materiale e esistenziale delle persone (dai migranti che «ci invadono», alla cannabis «emergenza nazionale») alla lunga, porta ad una reazione. Ad un risveglio.

E non ci riferiamo qui soltanto a movimenti vivaci come Non una di meno, a quelli contro le grandi opere, agli studenti, ai giovani per il clima, ai sindacati più battaglieri, alle rivolte dei migranti, su cui teniamo i riflettori accesi ogni settimana. Il missionario della paura di stanza al Viminale incontra una diffusa e spontanea resistenza in…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue da Left in edicola dal 31 maggio 2019


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«La mia sfida contro le minacce neofasciste, per fare luce sulla Brescia nera»

The anti-fascist demonstration awaiting the intervention of Mimmo Lucano, suspended mayor of Riace, in Aldo Moro square in Rome, Italy, 13 May 2019. With a big banner in his head "Fascism is not an opinion" the anti-fascist student procession started from the university city directed to piazzale Aldo Moro to protest against the rally of Forza Nuova, banned by the police, scheduled at 14.30 against the intervention of the former mayor of Riace pro migrants Mimmo Lucano invited in the afternoon to a seminar at the university. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Federico Gervasoni, giornalista freelance classe 1991, collaboratore di Left, da tempo è in prima linea nel raccontare e denunciare il ritorno sulla scena politica bresciana di forze di estrema destra. Per il suo impegno, ha ricevuto minacce e intimidazioni. Ora, ne “Il cuore nero della città” (Liberedizioni, 2019), raccoglie in un’inchiesta il frutto di anni di lavoro sul campo. Vi proponiamo qui la sua presentazione dell’opera

“Il cuore nero della città” nasce in un appartamento di Brescia dove da “ragazzo di provincia”, mi ero trasferito in affitto. Ho scritto questo libro con un unico intento letterario: raccontare uno spaccato maggiormente complesso di ciò che può invece trasmettere un articolo di giornale. In passato, mi è stato proposto di firmare le mie inchieste sul neofascismo con uno pseudonimo. Ho sempre rifiutato. Voglio che la mia firma significhi responsabilità e soprattutto scelta. Sfida talvolta. Quelle di un giornalista freelance di ventotto anni e alla ricerca di vicende che lasciano il segno. Viviamo in un momento storico in cui la difficoltà dell’editoria è immensa. La crisi taglia ovunque e non risparmia nessuno. Forse l’online è il futuro a patto che si faccia vera informazione d’approfondimento oppure si scrivano pezzi coraggiosi.

Sono trascorsi dieci mesi dal 31 luglio 2018, ovvero da quando, sulle pagine de La Stampa uscì il mio reportage dedicato alla ricostituzione di Avanguardia nazionale. Tra i complimenti dei colleghi più esperti, non posso però scordare le voci insistenti di chi etichettava il tutto come pura strumentalizzazione per procurarmi notorietà. Mio malgrado, poco dopo sono finito in un vortice di insulti, minacce e intimidazioni.

È tremendo da spiegare ma nel nostro Paese chi si occupa di estrema destra diventa automaticamente un bersaglio da colpire e affondare. Da quasi un anno, il reparto Digos della Questura di Brescia, garantisce la mia sicurezza. Più volte infatti i neofascisti hanno provato a farmi tacere. Eppure, non mi hanno distrutto. Non ci sono mai riusciti. Resisto, viaggio, scrivo, parlo agli incontri pubblici, vivo. C’è poi da dire una cosa. Nessuno mi obbliga a fare quello che faccio. Proprio perché sono freelance, spesso le storie da approfondire e raccontare le scelgo io. Poi, non lo nego: questa professione per me ha senso nel momento in cui informa, suscita emozioni e apre la testa. Ho sempre ritenuto il giornalismo come un dovere civile e morale.

Ritengo il mio lavoro un vaccino contro l’ignoranza e le fake news, necessario affinché l’opinione pubblica venga avvertita. Si chiama giornalismo libero ed è quello che solitamente non piace e dà fastidio. Quello portato avanti da chi davanti alle minacce non si arrende. Non ho mai risposto per scelta a tutte le feroci e infondate accuse innescate nei miei confronti. Piuttosto, ho preferito continuare a scrivere, raccontare e soprattutto indagare. In Italia si dà per scontata la libertà d’espressione, in realtà è costantemente sotto tiro. Negli ultimi quattro anni ho frequentato ambienti dove l’ultradestra trova un terreno assai fertile di crescita.

Il cuore nero della città è un volume duro e violento proprio perché la violenza è parte del mondo che racconta. Ho trascorso parecchio tempo con teste rasate provenienti da posti diversi. Ci ho messo tanto ma alla fine ho strappato la loro fiducia. Preziosa e soprattutto necessaria per riordinare le idee e iniziare un percorso. Era fondamentale che il libro non si trattasse di una grossa operazione predatoria, composta unicamente da informazione raccolte da altri. Detesto infatti quel tipo di giornalismo che fa totale affidamento a ciò che comodamente si trova rovistando tra i social.

Del resto, non puoi scrivere di CasaPound se non andrai mai ad una manifestazione delle tartarughe frecciate. In questi lunghi quattro anni trascorsi a studiare l’estrema destra, mi è capitato di spedire un articolo in strada, a bordo di un pullman di ritorno da un corteo non autorizzato, oppure seduto sui gradoni di uno stadio. Più volte sono finito nel mezzo di concerti d’area, scontri, riunioni e momenti nostalgici.

Il cuore nero della città, spiega un fenomeno disomogeneo e quindi pericoloso. Racconta di retroscena, trame politiche e inchieste. Sono tutte storie che occorre evidenziare per fare memoria e per illuminare quella parte informativa del Paese che i volti neri vorrebbero tenere al buio. Brescia, è medaglia d’argento per l’eroica Resistenza al nazifascismo. Nel liceo statale, dedicato alla poetessa Veronica Gambara, dove mi sono diplomato nove anni fa, la targa all’ingresso della biblioteca ricorda Clementina Calzari Trebeschi, l’insegnante uccisa a 31 anni il 28 maggio 1974 nella strage fascista di piazza della Loggia, costata otto vittime e centodue feriti.

Oggi, nel 2019, Brescia è diventata il luogo della convivenza, dell’accoglienza e non della contrapposizione. A certe persone le brutalità e il dolore degli anni Settanta non hanno insegnato proprio nulla. La lotta al neofascismo è una lotta a oltranza, loro con la forza e le minacce, noi con la cultura e l’informazione. L’essenza del mio compito si riassume meglio in una frase: scrivere qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato. Il cuore nero della città è soprattutto questo.

Rousseau non ha tradito Di Maio ma cresce il dissenso nel M5s. E Salvini presenta il conto delle europee

«Il MoVimento 5 Stelle non perde mai: o vince o impara», scrive Di Maio, o chi per lui, sul blog delle stelle, l’house organ del partito giallo. Retorica per galvanizzare i suoi dopo aver “imparato” che sei milioni di voti si sono volatilizzati in dodici mesi ma secondo alcuni il non perdere mai potrebbe dipendere dalle prodigiose qualità della piattaforma Rousseau, un marchingegno che in parecchi considerano opaco  e che ieri sera ha registrato un record di clic nella votazione sul referendum interno sul ruolo di Di Maio. La lampada di Aladino elettronica di Casaleggio, intanto, è una delle ragioni per cui i verdi europei hanno rifiutato al M5s l’ospitalità nella loro famiglia all’europarlamento. Così sia Di Maio sia Salvini – che nelle stesse ore incassa un búcsú da Orban, l’addio di Fidesz al progetto di super-gruppo sovranista a cui stanno lavorando Marine Le Pen e Matteo Salvini – si confermano partner imbarazzanti fuori dai confini della patria.
«Penso – osserva Lamberts – che (i cinquestelle, ndr) siano disperati, ma perché dovremmo soccorrerli, quando sono disperati, sprecando tutto il nostro capitale politico? Immaginate come apparirebbero i Verdi se li accogliessimo ora. La nostra coesione è la nostra forza. Forse siamo più piccoli, ma siamo coesi, agiamo come una squadra. E ora, se avessi 14 eurodeputati le cui posizioni sono decise da qualcuno a Milano….no, questo è veleno», ha detto il copresidente del gruppo dei Verdi nell’Aula di Strasbugo Philippe Lamberts. «Fanno i referendum interni, ma se vuoi controllare i documenti e i dati, Casaleggio dice di no. Spiacente, ma questa non è democrazia. Bisogna avere una democrazia vera: avere una democrazia diretta via Internet, quando il processo non può essere sottoposto a un audit, mi spiace ma non è democrazia. La chiamano democrazia diretta, per me è autocrazia».
Intanto su Rousseau c’è stato il record “mondiale” di votazioni, ben 14 mila in più rispetto all’ultima votazione, peraltro spalmata su tre giorni. «Con 56.127 preferenze espresse – si legge sul blog delle Stelle – la nostra piattaforma online ha fatto registrare il record assoluto. Quella odierna è stata non solo la votazione con maggior partecipazione dell’intera storia di Rousseau, ma anche quella più partecipata di sempre a livello mondiale in fatto di democrazia digitale». Un risultato auspicato anche da Salvini – «Dai 5 Stelle mi auguro tanti sì per Luigi Di Maio e una marea di sì per andare avanti col governo» – mentre in tanti tra gli ortodossi, a partire da Roberto Fico, si sono dichiarati contrari alla scelta del leader e non hanno votato. «Ora ripartiamo più forti ma non mi monto la testa, è il momento dell’umiltà», esulta Di Maio ma la sconfitta alle Europee è destinata ad innescare una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione interna del Movimento che non tutti digeriranno di buon grado. Già nel corso dell’assemblea dei parlamentari, quando è emerso il tema della costituzione di una sorta di segreteria politica (o comitato dei saggi, o cabina di regia) in tanti hanno chiesto al capo politico che si trattasse di persone elette dai gruppi e non nominate dall’alto. Saranno accontentati a metà. I sommovimenti potrebbero avere luogo nelle prossime ore e saranno frutto della strategia sua e del suo inner circle, il cerchio magico. Ma, assicura Di Maio, nelle prossime settimane si avrà una nuova struttura organizzativa che deve prevedere «compiti precisi» in capo a persone «individuate dal M5S». Probabile, quindi, il nuovo ricorso alla piattaforma Rousseau. La nuova struttura, nella strategia di Di Maio, avrà deleghe ben precise sui temi, sui territori e sulle liste civiche, vero e proprio trampolino con cui il Movimento proverà a risalire la china. Si fanno i nomi di Alessandro Di Battista, Roberto Fico, o Chiara Appendino e, nei prossimi giorni, Di Maio si dedicherà al Movimento incontrando consiglieri regionali, sindaci, consiglieri regionali e partecipando in prima persona alle assemblee regionali. «Servirà, inoltre, un raccordo più stretto tra governo e Parlamento», ha detto Di Maio perché nella congiunta dei gruppi a finire nel mirino sono stati anche i membri M5S dell’esecutivo. Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, su Fb, attacca il suo ministro Elisabetta Trenta: «Le ho spiegato che il nemico non è Salvini, ma le scelte del ministero sono influenzate da capi e capetti del passato», scrive Tofalo innescando l’ira dei vertici e anche di tanti parlamentari. «Parole gravi, prendiamo le distanze», si affrettano a dire fonti del M5S. Ma la querelle non sembra finita e, in serata il M5S è costretto a smentire i rumors delle dimissioni di Tofalo. Il momento è delicato, con un Salvini debordante e un Di Maio che, per ora, ha il difficile compito frenare qualsiasi risposta alle provocazioni leghiste.
Non va meglio in periferia: «La votazione su Rousseau mi sembra un’assurda buffonata (ai livelli di quella sulla Diciotti) che servirà a legittimare o no, non Di Maio in sé, ma la linea tenuta dal M5S finora», dice Maura Paoli unendosi al gruppo dei consiglieri M5S di Torino e del Piemonte che – nonostante gli appelli della sindaca Appendino – hanno deciso di non partecipare alla votazione di oggi sulla piattaforma Rousseau, «una votazione politica – scrive su Facebook – che si nasconde dietro un voto alla persona». Per la consigliera, appartenente a quella che viene definita l’ala dura del Movimento a Palazzo Civico, «Di Maio è un personaggio, costruito e supportato da una cerchia di persone che, a mio parere, hanno consigliato una strategia politica e comunicativa pessima. Se Di Maio dovesse saltare, ma il metodo rimanesse invariato – precisa – non cambierebbe nulla».
Tutto ciò mentre vanno in fumo due narrazioni giallo-verdi, quella del nuovo miracolo economico e quella del governo degli onesti. Mentre andava in scena il responso di Rousseau, si dimetteva Edoardo Rixi, viceministro leghista, mezz’ora dopo la notizia della sua condanna a tre anni e cinque mesi in primo grado, e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per le «spese pazze» di quando era consigliere regionale in Liguria. In mezz’ora piovono ben 37 richieste di dimissioni contate da Matteo Salvini. Potrebbe essere un nuovo caso Siri, potrebbe portare alla crisi di governo ma il leader della Lega non vuole far saltare il banco su una sentenza. E così attacca i giudici («Rispetto le sentenze ma è incredibile che ci siano spacciatori a piede libero, e sindaci, amministratori e parlamentari accusati o condannati senza uno straccio di prova. Cinque anni per un omicidio, tre anni per un piatto di spaghetti: abbiamo un problema») ma il caso Rixi lo chiude in fretta e accoglie le dimissioni che Rixi ha consegnato nelle sue mani, come se fosse lui il premier, notano in tanti.
Nella stessa, convulsa giornata, Conte ha visto – separatamente – i capigruppo di M5s e Lega per provare a portare avanti almeno i decreti su sanità in Calabria, crescita e cantieri che sono in Parlamento. Ai leghisti dice che valuterà richieste come stralciare la norma salva Roma dal dl crescita. E con fair play loda per la «sensibilità istituzionale» la scelta di Rixi di dimettersi dopo la condanna. Ma il protagonismo «da premier» di Salvini alimenta nel M5s il sospetto che voglia «provocare» con ultimatum continui, per portare Di Maio alla rottura e andare al voto a settembre addossandogli la colpa della crisi. Il ministro dell’Interno nega: «A settembre non si vota, si fa la manovra». Ma in un solo giorno, apre innumerevoli fronti nella maggioranza. In mattinata si presenta da Giovanni Tria con Giorgetti, Borghi, Garavaglia e Bagnai. Dice un «no assoluto» all’aumento dell’Iva e mette sul tavolo la sua ricetta per evitare la procedura d’infrazione europea, che passa da una proroga della pace fiscale «da alcune decine di miliardi». Non solo. Annuncia che porterà il progetto di flat tax (da realizzare in autunno) al prossimo Consiglio dei ministri, «quando si farà». Anticipa voci europee di aumento al 55% dei finanziamenti per la Tav: è «vantaggioso e doveroso farla». Annuncia la sospensione del codice degli appalti per due anni e nuove norme sui rifiuti. Tav, appalti, rifiuti: il M5s, chiusa la «bizzarria» del voto su Rousseau, deve dire – avverte Salvini – tanti Sì o non si va avanti. La lista è da incubo per il M5s. Ma il Movimento non reagisce. Nel mirino ci sono Danilo Toninelli («Uno sbloccatore di cantieri senza eguali», ironizza), Elisabetta Trenta («Tagliare sulla difesa è suicida») e Sergio Costa («Per difendere l’ambiente non può bloccare il Paese»). Il ministro dell’Interno invoca poi per l’Italia (e la Lega) un commissario europeo con portafoglio economico e la nomina del nuovo ministro agli Affari europei: «Conte ha la delega ma lui ha altro da fare, la prossima settimana va in Vietnam…», nota Salvini.

Chi Rixica e chi rosica

Edoardo Rixi, viceministro alle infrastrutture a margine di una presentazione di due candidati leghisti per le elezioni europee, Genova, 24 aprile 2019. ANSA/LUCA ZENNARO

Aveva promesso che in caso di condanna non ne avrebbe messo in discussione il ruolo. Che personaggio, il ministro dell’Interno: il viceministro leghista alle Infrastrutture e ai Trasporti Edoardo Rixi è stato condannato a 3 anni e 5 mesi di reclusione nell’ambito dell’inchiesta sulle spese nel Consiglio Regionale della Liguria e Salvini ne ha accettato le dimissioni. Balle. Balle su balle. Prove di forza di un governo che da parte leghista continua a perdere pezzi per condanne e affini come nel miglior periodo berlusconiano.

Lui, Rixi, si dice tranquillo (beato lui) e Salvini lo ringrazia con un comunicato che sembra quasi commovente, come due vecchi amici che non si vedranno per un po’ perché sono finite le vacanze estive ma, dice Salvini di avergli già trovato un buon parcheggio all’interno del partito con il ruolo di responsabilità che giustamente si conviene a un condannato.

Con la differenza che se tutto questo fosse accaduto con gli altri governi ci sarebbe gente che si sarebbe fatta esplodere (Salvini incluso) in nome dell’onestà e del buon governo e invece qui tutto passa sotto il silenzio, anzi sotto il rumore roboante di un sovranismo che vorrebbe anche decidere tutto.

Del resto che sia Salvini, cioè il ministro dell’Interno a dire “ho accettato le dimissioni di Rixi” significa che non esistano nemmeno più le normali prassi istituzionali. Fa tutto lui. E disfa tutto lui. Ed è segretario di un partito che continua a collezionare le ruberie che gli italiani dicevano di non volere più vedere. E invece ci sono ancora.

Avanti così.

Buon venerdì.

Dio è con noi, disse il ministro che si credeva premier

«Dio è con noi» dicevano i crociati che saccheggiavano le terre degli “infedeli”, violentando e uccidendo. Gott mit uns, era il motto degli antichi cavalieri teutonici e dei re di Prussia; motto che fu adottato dalle truppe della Wermacht durante il nazismo. In “nome di dio” hanno fatto stragi i terroristi dell’Isis e i vari mass murderers suprematisti cristiani. Anche Bush andò alla guerra in Iraq leggendo la Bibbia. Ogni volta che la vittoria di un politico viene attribuita all’aiuto divino, sparisce l’umano. E gli effetti sono sempre dei più agghiaccianti. La storia insegna.

Qualcuno dice che quello di Salvini sia solo un furbo ammiccare a simboli che sarebbero “tradizionali”, per far presa su una certa parte del Paese meno istruita e attrezzata. Ma è davvero difficile pensare che sia innocuo e normale presentarsi alla conferenza stampa del dopo elezioni di uno Stato laico e moderno baciando il rosario, vaneggiando di radici cristiane dell’Europa, parlando di diritto a fare figli, di diritto alla vita. Dal concepimento, ministro Salvini? Come imporrebbe santa madre Chiesa che accusa di omicidio le donne che decidono di interrompere una gravidanza. E come è tornato a ribadire papa Francesco che, dopo aver dato dei sicari ai ginecologi non obiettori, il 24 maggio è entrato a gamba tesa su questioni medico scientifiche che riguardano la salute delle donne e dei nascituri, arrivando a dire stop all’amniocentesi.

Che Salvini stia con quella parte della gerarchia ecclesiastica che attacca il papa, poco conta, la dottrina è la medesima, profondamente misogina, volta a riportare le donne in casa riconoscendole solo come madri e ancelle del focolare. Il riferimento più diretto di Salvini, come è noto, è l’oppressiva e oscurantista ideologia propagandata dal recente congresso delle famiglie di Verona. Emulo della destra più autoritaria e confessionale, da Bannon a Orban, Salvini sta cercando di fare dell’Italia uno Stato teocratico. Ad imporre le radici giudaico cristiane per legge ci aveva già provato Cota nel 2009. Ma allora la Lega non era in posizione di forza al governo. Con un Salvini auto nominato premier in pectore, che dopo aver fagocitato i voti dei M5s, si appresta a dettare l’agenda politica imponendo decreto sicurezza bis, autonomia differenziata, Tav, sblocca cantieri, revisione dell’abuso d’ufficio, flat tax allargata. Come se non bastassero gli effetti disastrosi che ha prodotto il governo giallonero fin qui. Avevano promesso di abolire la povertà e hanno prodotto solo misure assistenziali condizionate, a cui in tanti hanno rinunciato anche perché le cifre risultavano (come previsto anche da noi) irrisorie. Hanno promesso più sicurezza e hanno incrementato la vendita delle armi per chi vuole farsi giustizia da sé.

Il fallimento sociale del governo è sotto gli occhi di tutti. Sul piede di guerra sono anche i pensionati che nei prossimi giorni scendono in piazza denunciando di essere stati scippati. Ma anche il fallimento sul piano economico è alle porte, lo vedremo squadernato con la legge di bilancio. Intanto dall’Europa arriva la lettera che sanziona l’Italia per il debito. Ma per riprendere il filo del discorso che avevamo avviato, va denunciato anche l’attacco messo in atto dai gialloneri alla libertà di dissenso (persino censurando e rimuovendo striscioni) all’informazione (tagli e intimidazioni alle voci fuori dal coro), alla libertà di insegnamento (vedi per esempio il caso della docente sospesa perché i suoi allievi avevano accostato il decreto sicurezza alle leggi razziali), alla laicità dello Stato e ai diritti delle donne e dei bambini, minacciati da ministri come Fontana e da senatori come Pillon in nome della tutela della famiglia cosiddetta naturale, del capofamiglia e della difesa della razza italica. Dal ddl Pillon fino alle schede elettorali in cui le donne sposate figurano con il cognome del marito accanto al proprio. Salvini e i suoi vorrebbero fare dell’Italia un Paese arretrato, provinciale, isolato, destrorso. Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d’Italia ha già pronto l’olio di ricino?

Mentre in Europa potrebbe presto insediarsi una maggioranza allargata di socialisti popolari, liberali e verdi (ai quali va il voto soprattutto dei più giovani del Nord Europa), secondo Salvini noi dovremmo fare la fine dell’Ungheria di Orban, Paese senza libertà di stampa, che alza fini spinati contro i migranti e impone leggi da schiavitù ai lavoratori. La lega che ha votato il trattato di Maastricht e perfino il pareggio di bilancio in Costituzione ora dice di voler andare in Europa a ri-contrattare vincoli e trattati. Dov’era l’eurodeputato Salvini quando veniva discussa la riforma del Trattato di Dublino? Circola ancora un video in cui da colleghi di altre nazionalità, in Aula, viene appellato come fannullone e assenteista. In Europa Salvini non avrà tappeti rossi ad attenderlo. Anzi è ancora alla ricerca di una casa comune sovranista, dopo che il bureau del Consiglio d’Europa, responsabile di tutelare la democrazia e i diritti umani, poco prima delle elezioni europee ha respinto la formazione di un unico gruppo dei partiti sovranisti. Ma la narrazione salviniana sembra ancora fare presa su quella pancia del Paese alla ricerca l’uomo forte, che si illude che il Capitano anteponga a tutto gli interessi degli italiani poveri, non volendone vedere l’anima neoliberista di difensore degli interessi dei ricchi (basta pensare alla flat tax).

Sarà anche un compito nostro cercare di far aprire loro gli occhi, così come ci impegneremo per mobilitare quella parte ampia dell’elettorato che non è andata a votare (ben il 46%). Dobbiamo lavorare per costruire un’opposizione di massa. Non tanto e non solo per fermare l’avanzata sovranista che in Europa non c’è stata. Ma per smontare la narrazione pallonara di chi, dopo il voto delle europee, pretende di balcanizzare il Parlamento, cancellando le regole democratiche.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 31 maggio 2019


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Se dissentire è reato

ROME, ITALY - MAY 13: Thousands of students and anti-fascists guard the University La Sapienza in Rome in defense of the suspended Mayor of Riace, Mimmo Lucano, known for the reception of migrants, whose intervention today in the Faculty of Letters was intended to be prevented by militants of the extreme right Forza Nuova, on May 13, 2019 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images,)

Metti che il decreto sicurezza bis fosse stato già in vigore quando la polizia ha caricato gli antifascisti a Genova. E metti che Stefano Origone – il cronista di Repubblica che quella sera è tornato a casa con quattro fratture e una commozione cerebrale per le manganellate – si fosse recato a quella manifestazione con un caschetto da ciclista, “così, non si sa mai”, grazie a quel decreto avrebbe rischiato fino a tre anni di prigione perché, dopo aver equiparato (col primo decreto sicurezza) i blocchi stradali al sequestro di persona e i movimenti per la casa a un’associazione a delinquere, Salvini vorrebbe fare il bis «criminalizzando, non solo la solidarietà, ma anche chi fa resistenza passiva, magari solo usando del cartone attorno alle braccia o portandosi un casco», spiega a Left, Riccardo Bucci, avvocato e animatore di Alterego-Fabbrica dei diritti, associazione di avvocati e avvocatesse che credono nel ruolo sociale del giurista e del diritto, nata nei giorni terribili dei terremoti in Centro Italia.

«Quel decreto non è ancora stato discusso, però è indicativo di quanto l’inasprimento del codice penale sia lesivo dei diritti previsti dalla Costituzione perché va a violare i diritti alla salute, a manifestare e all’autodifesa». Pene pesantissime colpiranno più di quanto già accada chi lancia oggetti, chi usa strumenti di difesa passiva e anche chi partecipa a un corteo non autorizzato quando, fino ad ora, erano punibili solo gli organizzatori. «Una stretta repressiva pericolosa – dice sempre Bucci – ma forse nemmeno al Viminale sono tutti disposti a seguire Salvini su questo terreno e su quello del conflitto di interessi con altri ministeri come nel caso della gestione degli sbarchi e della chiusura dei porti».

Anche Patrizio Gonnella, di Antigone, sottolinea come «andan…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 31 maggio 2019


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E invece l’Italia conterà meno

Ora, preso dall’ubriacatura del trionfo elettorale, il giunonico ministro dell’Interno promette «di rivoltare l’Europa come un calzino» ma i suoi fidati collaboratori devono essersi scordati di fargli vedere i risultati europei nel loro complesso e lui, al solito, ragiona come se il mondo fosse il suo cortile e lui possa davvero risultare credibile come Erode condominiale. In Europa il sovranismo non ha sfondato e il fatto che da noi stia facendo faville interessa al resto del Vecchio continente un po’ come pesa un scoreggia fatta nell’iperspazio.

I parlamentari italiani della Lega sono una sparuta minoranza che non avrà nessun peso in chiave della composizione della maggioranza che guiderà il Parlamento Europeo e anche se dovessero essere presenti a tutte le riunioni (cosa che Salvini non ha mai fatto nella sua lunga carriera politica che gli ha permesso di non lavorare un solo giorno in vita sua, come certificato da sentenza passata in giudicato) non potranno fare altro che pesare per quello che pesano nel computo generale: poco o niente.

E dispiace che Salvini pensi che tutti i partiti possano essere come il Movimento 5 stelle, pronti a farselo salire sulle spalle per lanciarlo ancora più in alto come fanno i padri con i figli al mare. No, caro capitano, non sono tutti così sprovveduti, spiace per te e per i tuoi sogni di vanagloria.

Anzi, a pensarci bene, l’Italia sarà ancora più sola con il suo turbosovranismo che non può certo trovare appoggio con i sovranisti inglesi che stanno facendo ciao ciao con la manina al resto d’Europa e con Orban che è disposto a tutte le foto in posa che servono ma che non vuole prendersi un solo sputo dei migranti in arrivo, come la collega Polonia.

Ha promesso che rivolterà l’Europa come un calzino e invece l’Italia conterà ancora meno. Come scrive il New York Times «l’Italia si dovrà preparare ad un crescente isolamento dopo che i nazionalisti euroscettici della Lega, forza principale della coalizione di governo, hanno trionfato nelle elezioni per il Parlamento europeo. Le richieste del vice primo ministro Matteo Salvini, e leader della Lega, di un allentamento delle regole fiscali e un nuovo mandato per la Banca centrale europea a garanzia dei debiti pubblici, si scontreranno con Bruxelles che non ha alcun interesse ad allentare il rigore fiscale per placare i populisti euroscettici negli Stati membri. Al contrario l’Ue è destinata ad aumentare la sua pressione su Roma per il suo mancato rispetto delle regole fiscali, inviando una lettera mercoledì al governo italiano nella quale si chiedono chiarimenti sul crescente debito. Nonostante la reazione negativa dei mercati, Salvini ha insistito sul fatto che l’Italia necessiti di ampi tagli fiscali, definendo i vincoli fiscali dell’Ue come obsoleti».

E non sono mica comunisti questi.

Buon giovedì.

“Aborto legale ora”. La marea verde torna in piazza a Buenos Aires per pretendere una legge di civiltà

All’urlo di Si el Papa fuese mujer el aborto ya sería ley (se il Papa fosse stato una donna l’aborto già sarebbe legge) e di Las ricas abortan las pobres mueren (le ricche abortiscono e le povere muoiono) ieri migliaia di persone sono scese nelle strade di Buenos Aires per accompagnare la presentazione al Congreso del disegno di legge per la legalizzazione dell’aborto, che per ora è concesso solo in caso di stupro o se la salute della donna è in pericolo.

Il progetto, che prevede che l’aborto sia praticabile fino alle 14esima settimana e che sia finalmente legale, gratuito e ospedalizzato, il 14 giugno 2018 era stato approvato alla Camera dei Deputati con 129 voti a favore e 125 contrari, ma era stato poi rigettato in Senato l’8 agosto scorso, con 38 voti contrari e 31 a favore.

Il 28 maggio, 70 deputate e deputati di diverse fazioni politiche hanno firmato il nuovo progetto, anche se difficilmente questo porterà alla discussione o all’approvazione del disegno. Si tratta dell’ottava proposta di legge avanzata su questo tema. L’obiettivo dei movimenti femministi è quello di non far calare l’attenzione rispetto al tema e far sì che la legalizzazione dell’aborto diventi oggetto di dibattito durante la campagna elettorale presidenziale, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 27 ottobre.

A simboleggiare quanto importante sia questa battaglia, una marea verde ha invaso Plaza del Congreso e le strade vicine. A fronte delle migliaia di manifestanti si è schierata una barricata della polizia, a protezione di una decina di contestatori pro-life che esibivano modelli in plastica di feti di diversi mesi e cartelloni con scritto «Con aborto no te voto».

Migliaia di persone hanno sventolato i panuelos, fazzoletti verdi simbolo della lotta per l’aborto, urlando canti di lotta femminista. Le donne erano a centinaia, di diverse età ed etnie: la lotta per il diritto all’aborto non conosce età e Paese. Le performance artistiche a sostegno della causa sono state svariate; a svettare, decine e decine di cartelloni, in una piazza invasa da bancarelle con libri di autrici femministe e artigianato a tema.

Sono state persino improvvisate partite di calcio, mentre a capeggiare sulle barricate davanti al palazzo del Congreso erano appesi rametti di prezzemolo e grucce in fil di ferro. Sopra i quali si poteva leggere «Ogni donna morta per aborto è un femminicidio»: il prezzemolo e le grucce sono due metodi a cui ancora oggi molte donne, soprattutto le meno abbienti, ricorrono per autoindurre l’aborto. Ovviamente con gravissime conseguenze.

Attualmente la legge consente alle donne argentine di poter abortire in caso di stupro o se la propria salute è messa in pericolo. Ma questa norma non viene fatta rispettare in molte regioni del Paese, specialmente in quelle più conservatrici o fortemente religiose. Un caso emblematico del mancato rispetto della norma vigente è quello di una bambina di 11 anni che lo scorso marzo è stata costretta a partorire dopo essere stata stuprata dal compagno della nonna. Alla bambina, che aveva il diritto ad abortire, sono stati iniettati farmaci per velocizzare la crescita del feto e la sua richiesta di aborto è stata intenzionalmente ritardata fino a quando non c’è stata altra scelta che sottoporla a un cesareo d’urgenza.

 

Violenza sulle donne, il Codice rosso è lodevole ma rischia di complicare la situazione dei tribunali

20100118-POL - MILANO - INCHIESTA MEDIASET: PREMIER,NON CI SARO', AVANTI SENZA DI ME - I verbali dell'udienza nel processo sui diritti tv Mediaset, per i diritti televisivi, oggi 18 gennaio 2010, al tribunale di Milano. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha fatto avere ai giudici della prima sezione penale del tribunale di Milano, davanti ai quali è in corso il processo per i diritti tv, una comunicazione in cui spiega di rinunciare espressamente alla sua presenza in aula stamani e che, quindi, l'udienza può procedere anche in sua assenza. Uno dei difensori di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini, ha chiesto il termine per valutare l'eventualità di ricorso al rito abbreviato nel processo. ANSA / MILO SCIAKY / DBA

L’approvazione del “Codice rosso” volto a inasprire la disciplina penale della violenza domestica e di genere, ha ottenuto l’eco mediatica sperata ed il giudizio favorevole dell’opinione pubblica. In sintesi, ai reati di violenza di genere, molestie e stalking viene attribuito una sorta di corsia preferenziale ovvero di codice rosso, come quello delle emergenze in pronto soccorso, affinché si arrivi celermente all’individuazione dei responsabili. Tuttavia la domanda che sorge spontanea per chi quotidianamente si occupa di queste materie, è se fosse davvero necessaria l’approvazione di un provvedimento in tal senso. Non si fraintenda: la ratio del progetto è assolutamente lodevole e lontana da censure di sorta, tuttavia, concentrandosi sulle questioni meramente tecniche della futura legge e mettendo da parte le ragioni politiche sottese all’approvazione della stessa, occorre chiedersi se il Codice rosso sposti davvero gli equilibri mettendo a disposizione della magistratura e delle vittime nuovi strumenti. La riforma mira a velocizzare l’instaurazione del processo e l’adozione di eventuali provvedimenti. In questo senso, il provvedimento prevede che, nei casi di delitti di genere, gli agenti di polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferiscano immediatamente al Pubblico ministero, anche mediante comunicazione orale, alla quale seguirà senza ritardo quella scritta.

È doveroso evidenziare come, a livello procedurale, tutti gli strumenti disciplinati dalla riforma, vi siano già, basta solo utilizzarli. In particolare, per quanto riguarda l’iscrizione della notizia di reato, il codice di rito, all’art. 335, prevede già ora che il Pubblico ministero scriva immediatamente ogni notizia di reato che gli pervenga. In questo senso, la riforma non sposta, dunque, gli equilibri. Ciò che, invece, cambia è la classificazione di alcune tipologie di reato secondo un codice di importanza (“rosso”), che ne velocizzerà il corso delle indagini. Ma ragioniamo, è davvero necessario e soprattutto utile per la giustizia italiana creare delle procedure a doppia velocità, senza, peraltro, disciplinarne le modalità in maniera puntuale ed organica?

Se, per esempio, alla Procura della Repubblica perviene la notizia di un reato di stalking, questa dovrebbe, secondo la nuova normativa, accantonare le altre indagini – che magari stanno procedendo su un reato di omicidio o di spaccio internazionale di stupefacenti – per concentrarsi, invece, sul predetto reato? L’esempio è volutamente forzato ma non pare lontano dalla realtà: chi deciderà quali reati meritano di essere accantonati a favore dei reati di genere? Il rischio è quello di andare a creare non soltanto delle categorie di reati a doppia velocità ma addirittura fattispecie penali di “seria a” e di “serie b”.

Questo fa riflettere. Eppure, come già detto, gli strumenti per contrastare i fenomeni di violenza sulle donne sono puntualmente disciplinati dal codice di procedura penale nel libro quarto, rubricato proprio “Misure cautelari”. In questo senso, occorre rilevare come il Pm, sotto il costante vaglio del Gip, possa già adesso immediatamente sottoporre l’ipotetico responsabile ad una misura restrittiva, nelle more del processo, per tutelare la persona offesa. Lo stesso Pubblico ministero ha, peraltro, anche la possibilità di convocare immediatamente la persona offesa per sentire le sue dichiarazioni. Forse, al posto di ribadire e rafforzare procedure e strumenti già disciplinati, sarebbe stato opportuno agire sul piano dell’organico in forza presso i Palazzi di Giustizia. In tal senso, l’emblema della grave crisi d’organico che stanno vivendo i Tribunali, le Procure e le Corti, è il caso di Stefano Leo (ucciso da una persona condannata, la cui condanna non è stata eseguita ndr).

Peraltro, lo stesso baco valutativo è stato compiuto, a parere di chi scrive, nella Legge Spazzacorrotti, riforma che ha modificato la norma della prescrizione, sancendo che questa sia sospesa dopo la sentenza – di condanna o assoluzione – di primo grado e ritenendo, infondatamente, che questa fosse la via per diminuire la durata dei processi. Per tali motivi quanto sopra espresso risulta perlomeno incompleto: se da un lato, infatti, l’inasprimento delle pene dal punto di vista del diritto sostanziale deve senz’altro essere accolto con favore, dall’altro lato è doveroso, dal punto di vista tecnico, annotare come il ddl “Codice rosso” porti con sé troppe carenze logico-giuridiche che rischiano di complicare ulteriormente la – già grave – situazione presente nelle Procure e nei Tribunali d’Italia, a discapito anche delle persone offese e degli avvocati. Bene, ma non benissimo.

Alessandro Parrotta è avvocato penalista e direttore di Ispeg ( Istituto Studi politici economici giuridici )