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Lavorare meno, guadagnare lo stesso

Il problema è che siamo sempre inchiodati nei nostri pregiudizi, impegnati a credere che non ci sia alternativa, destinati a galleggiare senza nemmeno più la voglia di invertire la rotta e intanto ci perdiamo il mondo là fuori, quello che sperimenta, che rischia e che alla fine dimostra come il mondo reale sia diverso dalla realtà che ci viene raccontata ogni volta, sempre uguale a se stessa, sempre senza via d’uscita.

Eppure ieri è uscito un interessante articolo sul Corriere della Sera (uno di quegli articoli che non fanno clic e non conquistano i lettori poiché non contengono risse o altro) che racconta di come alcune aziende sparse per il mondo abbiano deciso di fare lavorare i propri dipendenti per quattro giorni alla settimana con lo stesso stipendio ottenendone un aumento di fatturato. Incredibile, eh?

Perpetual Guardian ha uffici in Nuova Zelanda, qualcosa come 140.000 clienti e dopo otto settimane di sperimentazione ha deciso di lasciare libertà di scelta sul lavorare il venerdì ai propri dipendenti. Risultato? un più 20% di fatturato. Davvero. E il tema è molto più attuale di quello che si crede visto che ben 350 aziende hanno chiamato il ceo dell’azienda per avere ragguagli e aggiornamenti.

Anche Radioactive (un’agenzia di pr) ha optato per la settimana corta in cambio di 15 minuti in meno di pausa pranzo e di una piccola decurtazione delle ferie. Risultato? L’azienda va a gonfie vele e i cittadini si godono il maggior tempo libero. Più concentrati sul lavoro e più aperti a vivere di vita vissuta.

I nomi sono tantissimi. Negli USA il week end lungo è molto usato anche da aziende di grosse dimensioni e tutto questo mi fa pensare a noi, costretti a sobbarcarci di un milione di piccoli lavoretti per campare, un Paese di piccoli professionisti che devono compiere salti mortali per arrivare alla fine del mese. Ed è bellissimo pensare che si lavori per vivere e non si viva per lavorare perché è un adagio che ha moltissimi anni e incredibilmente nessuna forte rappresentanza nella politica. E forse saremmo tutti meno esasperati. Più vivi, appunto.

Buon mercoledì.

 

L’altra cultura di Cesare Bermani

Che la storia la scrivano i vincitori non è sempre vero. C’è tra gli storici una minoranza di ricercatori che potremmo definire inattuale, non nel senso di un ritardo, ma perché in anticipo sui tempi. Una minoranza che per l’originale metodo di lavoro non è largamente accolta dai contemporanei. Bisogna attendere la crisi di conformismi culturali e di ideologie radicate perché le loro scoperte vengano accettate. È il caso di Cesare Bermani che, nel solco dell’invito gramsciano, da molti decenni lavora per la totale «inversione di valori sociali e storici», corollario indispensabile alle «vere rivoluzioni, che fanno epoca nella storia». E nella certezza che nulla oppone «tanti ostacoli alle innovazioni quanto il linguaggio».
Per questo è stato tra i primi a utilizzare sistematicamente le fonti orali, usualmente ignorate dalla storiografia ufficiale.
Le vive testimonianze di quelle masse subalterne che, pur non avendo mai avuto voce nella storia, da oltre un secolo la fanno sul campo. Munito, oltre che di registratore e microfono, di passione civile e rigore scientifico, a partire dai primi anni Sessanta ha portato alla luce e consegnato alla storia tesori altrimenti destinati ad essere perduti.
A Cesare Bermani, che è stato tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino e collaboratore di Gianni Bosio, chiediamo di rievocare gli esordi della sua formazione di storico.
Sono stato un militante del Partito comunista italiano dal 1955 al 1970. Poi nel Manifesto e in Rifondazione. Nell’estate 1963 Roberto Leydi stava lavorando al primo volume di Canti sociali italiani. Mi convinse a collaborare con lui e c…

 

L’intervista di Noemi Ghetti a cesare Bermani prosegue su Left in edicola fino al 30 maggio 2019


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La Reggia di Caserta e il nuovo quasi direttore

Non c’è che dire la Reggia di Caserta non ha pace. Sembra di trovarsi davanti ad un caso di macumba. Dopo gli anni della molto discussa gestione di Mauro Felicori e un lungo interim, finalmente nei giorni scorsi era stato tirato fuori, dalla terna finale del concorso internazionale, il nome della nuova direttrice, l’architetto Tiziana Maffei. Tutto risolto? Assolutamente no perché, in realtà, è stato presentato un ricorso da un dirigente dello stesso ministero, il dottor Antonio Tarasco, che in prima sessione aveva ottenuto il punteggio più alto fra tutti i 77 partecipanti al concorso e quindi aveva il diritto di accedere alla terna finale per la valutazione conclusiva.

Così è descritto l’accaduto: «Il mancato inserimento del candidato Tarasco all’interno delle terne da proporre al Ministro – sottolineano poi i legali – ed in particolare per quanto concerne la terna per la Reggia di Caserta, appare evidentemente il frutto di un errore di calcolo della stessa Commissione esaminatrice. Diversamente, si tratterebbe di una deliberata ed ingiustificata esclusione» (https://napoli.repubblica.it/cronaca/2019/05/26/news/reggia_caserta_primo_ricorso_bando_direttori_escluso_candidato_con_maggior_punteggio-227194345/?fbclid=IwAR3yjI-zodawYMV__XSN5YwN-J1Fzeyq4cudCyILxGi_ialaQvqIEdH06jg ).
La magistratura chiarirà la questione. Quello che colpisce in modo drammatico in tutta questa vicenda non è però il presunto errore di calcolo ma sono i titoli del candidato estromesso. La stessa fonte ci informa che «Antonio Tarasco, dirigente di seconda fascia della Direzione generale musei, è autore di un libro che espone una idea moderna e innovativa di gestione dei beni culturali, ed ha conseguito l’abilitazione da professore ordinario di diritto amministrativo».
Quindi, riassumendo, un sito monumentale importante a livello mondiale come la Reggia casertana può essere diretto anche da un professore di diritto amministrativo. Poco sembra contare che un candidato conosca la storia dell’architettura o dell’arte, poco conta che sappia disegnare o meno, o che sappia dove sia di casa una prospettiva o, meglio ancora, che conosca la vita e le opere del Vanvitelli che quell’edificio progettò. Ci chiediamo se valga intanto il principio di reciprocità, se ciò a tenere lezioni di diritto amministrativo possa essere messo anche un docente di storia dell’architettura o peggio ancora uno di restauro dei monumenti. Evidentemente no. E tutto questo, in generale, a completamento di una sorta di diffuso marasma generale fondato su una preparazione dei dirigenti sempre più approssimativa e vaga, lo chiamano olismo. Sullo sfondo di questa ennesima vicenda a tratti tragicomica si staglia quell’immane carrozzone che è l’ultima creazione dalle forme dell’evo franceschiniano, ovvero la Scuola del Patrimonio, ennesima occasione persa, è vero, ma chicchissima perché riccamente ornata con altissimi dirigenti ministeriali in pensione come docenti. Forse quell’istituto, diversamente strutturato, dovrebbe essere usato, invece, per preparare proprio quei dirigenti, anche ministeriali, da mandare a curare i grandi musei oppure i complessi storici come la Reggia di Caserta. Della scuola dovremo tornare a parlarne ovviamente.

Ma esattamente cosa festeggia Zingaretti?

Italian Partito Democratico Secretary, Nicola Zingaretti, during a press conference the day after the European elections in Rome, 27 May 2019. The European Parliament election is held by member countries of the European Union (EU) from 23 to 26 May 2019. ANSA/CLAUDIO PERI

Io non so se in politica sia regolare e abituale festeggiare anche un mancato crollo, una sfiorata sparizione oppure un successo che si mantiene sulla stessa linea precedente ma devo ammettere che questa soddisfazione in casa Pd mi lascia piuttosto perplesso, se posso dirlo.

Il perché è presto detto, basta guardare il numero di voti:

Politiche 2018 vs Europee 2019 (voti in termini assoluti non percentuali)

M5s 2018: 11 milioni di voti
M5s 2019: 4,5 milioni

Pd 2018: 6,1 milioni
Pd 2019: 6 milioni

FI 2018: 4,6 milioni
Fi 2019: 2,3 milioni

Lega 2018: 5,7 milioni
Lega 2019: 9,1 milioni

In sostanza il Pd ha perso 100.000 voti (sì avete letto bene, perso) rispetto alle precedenti politiche mentre la Lega ne ha guadagnati 3.400.000.

Davvero sicuri che ci sia da esultare? Siamo davvero sicuri che un partito che ha ceduto una parte del proprio simbolo a Calenda (rinunciando di fatto a dialogare seriamente con la sinistra) e che perde 100.000 voti rispetto le precedenti pessime elezioni abbia da brindare?

La politica è strana. Vincono tutti. Nonostante i numeri.

Avanti così, mi raccomando.

Buon martedì.

I licenziati 2.0

Il negozio di Cesano Maderno (MB) della Mercatone Uno, 25 maggio 2019. L'esercizio è chiuso dopo la notizia del dichiarato fallimento di Shernon Holding, la società che gestiva i punti vendita. ANSA/ROBERTO RITONDALE

Scusate se non parlo di politica, delle elezioni appena trascorse su cui potete leggere commentatori molto più degni di me, scusate se piuttosto mi rimane sul gozzo questa vicenda dei lavoratori della Mercatone Uno, che sono un numero impressionante, mille e ottocento, considerato per tre nell’ipotesi di famiglia, seimila persone che vivono queste elezioni europee con la sensazione di sconfitta che hanno provato trovando chiuso l’abituale ingresso di lavoro, scoprendolo da Facebook.

Scusate anche se mi permetto di dire che il caso vale anche per altre migliaia di persone che vengono licenziate senza remore con un sms, con un fax, con una mail stringata che dice che è finita come se il lavoro non fosse più il perno su cui costruirsi una vita, sperare in una famiglia, programmare un futuro ma semplicemente un orpello che ti viene regalato a tempo determinatissimo in un mondo che ha appreso la velocità anche nei rapporti umani, a dispetto del rispetto che si dovrebbe usare e che invece rimane nascosto tra le pieghe di un’imprenditoria indegna, inumana, fallace nei conti quanto nel rispetto dei lavoratori, che sfrutta questo tempo per strizzare i propri dipendenti finché non ne esce più nemmeno una goccia e poi li getta via come percolato di un’accelerazione del lavoro che ha qualcosa di ipercapitalistico e allo stesso modo è disumana nei suoi rapporti.

Mi verrebbe da chiedere, scusatemi ancora, che dicono i nostri politici su una vicenda come questa, un disastro occupazionale che è solo l’ultimo di una lunga serie in un Paese che si ostina a parlare di profughi e di Rom mentre lascia indietro tutti: gente che fino a un minuto prima almeno galleggiava, seppur a fatica, in una quotidianità sopportabile e che invece si ritrova ai margini, nel bordo che teniamo per i disperati, i diseredati, gli sfortunati, i troppo fragili per stare al passo con i tempi e i disoccupati dell’ultima ora che non hanno nemmeno sentore delle politiche industriali dell’azienda in cui lavorano.

Arriverà un giorno, quando la smetteremo di inseguire la propaganda, in cui finalmente affronteremo il tema dell’etica nell’imprenditoria, quella cosa che distingue un Paese civile da un Paese sfruttatore e allora ci accorgeremo che mentre ci occupavamo di altro questi hanno costruito un mondo in cui le relazioni sono unidirezionali, e anche la fatica e il sudore arrivano da una parte sola. E non vengono pagate il giusto. E non durano nemmeno il tempo di costruire un po’ di speranza.

Buon lunedì.

Lettera aperta del Comitato di redazione di Radio Radicale al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

Egregio Presidente,
 
le decisioni prese dal Governo con la legge di bilancio mettono a rischio dopo 43 anni la vita di Radio Radicale. In queste settimane abbiamo ricevuto sostegno da ogni parte: partiti politici e singoli parlamentari, sindaci e amministrazioni locali, società scientifiche e personalità del mondo accademico, fondazioni culturali, tutte le componenti della magistratura associata, avvocati penalisti, civilisti e amministrativisti, scrittori, registi, attori, decine e decine di migliaia di cittadini.
 
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nella sua segnalazione urgente al Governo, ha definito quello di Radio Radicale un servizio di interesse generale che come tale non deve essere interrotto e che va garantito fino al generale riassetto del sistema e ad un nuovo bando di gara. La decisione di non ammettere gli emendamenti al “decreto crescita” va però in direzione opposta e pone una seria ipoteca sul proseguimento del nostro lavoro.
 
Ci rivolgiamo a Lei quale garante dei principi della Costituzione che all’articolo 21 afferma il diritto di tutti i cittadini ad informare, informarsi ed essere informati, perché crediamo che il servizio pubblico garantito da Radio Radicale, così ben descritto nella segnalazione urgente dell’Agcom, meriti di non finire e meriti per ciò una Sua dichiarazione.
 
Tolto il solo Movimento 5 Stelle, che comunque ha visto emergere al suo interno posizioni diverse, sulla vicenda di Radio Radicale si è formata una vera e propria unità nazionale che chiede di essere rappresentata.
 
EsprimendoLe i sentimenti di massimo rispetto per il Suo ruolo e la Sua persona Le chiediamo di valutare l’opportunità di un Suo intervento in merito. Non si tratta solo della sopravvivenza di una testata giornalistica ma più in generale della questione dell’informazione e della democrazia nel nostro Paese.
 
Il Comitato di redazione di Radio Radicale
Andrea Billau
Lorena D’Urso
Giovanna Reanda

La grande abbuffata di poltrone in salsa giallonera

LUIGI DI MAIO POLITICO MATTEO SALVINI POLITICO

«Ricordi il film degli anni 80 Lui è peggio di me? Ecco: diciamo che loro sono peggio di quelli che c’erano prima». Basta una battuta davanti a un caffè in Transatlantico per descrivere un dato che da qualche mese – complice i rapporti gelidi tra Lega e Cinque stelle – circola pesantemente anche nella maggioranza: il governo del cambiamento ha cambiato ben poco. E, anzi, nell’esigenza del potere di piazzare uomini fidati all’interno delle stanze dei bottoni, si è rivelata più conservatrice delle legislature precedenti. «La presenza di due forze distinte – ci spiega il nostro interlocutore, interno alla maggioranza – ha fatto sì che, in questo continuo “tu piazza il tuo, io piazzo il mio”, si vada avanti all’infinito». Così nelle aziende pubbliche, così alla Rai, così nei ministeri. Tutto sapientemente bilanciato a seconda di questa o quella esigenza.

Uno degli ultimi esempi è arrivato con l’Inps: Pasquale Tridico, in quota M5s, presidente dell’Istituto di previdenza; e Adriano Morrone, in quota Lega, suo vice. Fa niente se qualche giorno fa il consiglio di vigilanza interno abbia messo in discussione la sua designazione. In una nota inviata al ministero del Lavoro, infatti, i sindaci hanno sottolineato il rischio di «posizioni di inopportunità e potenziale conflitto d’interessi visto che il prescelto, Morrone, è attualmente un dirigente di seconda fascia dell’istituto. In pratica, potrebbe prendere decisioni che riguarderebbero anche la sua carriera».

Dettagli, quando c’è da posizionare le persone giuste al posto giusto. Esattamente come avvenuto all’Anpal. Dopo che a capo dell’Agenzia nazionale politiche attive lavoro, che dovrà coordinare il lavoro dei centri per l’impiego per il reddito di cittadinanza, è arrivato direttamente dal Mississippi Mimmo Parisi, inventore degli oscuri navigator e vicino a Casaleggio, Luigi Di Maio ha pensato bene di accaparrarsi anche il posto di dirigente generale, con la nomina di Luigi Falco, amico ed ex portavoce proprio del ministro del Lavoro. Questo è avvenuto nonost…

L’articolo di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola fino al 30 maggio 2019


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Ma quale scarsità, i soldi ci sono

Graffiti with the image of President Michel Temer running with a suitcase of money is seen in the center of Sao Paulo, Brazil on 28 August 2018. The suitcase with $ 500,000 of JBS money received by retired deputy Rodrigo Rocha Loures (PMDB-PR) is missing. The MP was filmed by the Federal Police in a controlled action (planned to catch offenses) carrying the bag when leaving a pizzeria in São Paulo hastily.The Public Prosecutor suspects that the president was also one of the recipients of the tip. In the request to open the investigation, the Attorney General of the Republic, Rodrigo Janot, sees signs of passive corruption, gang formation and obstruction of justice in practices related to Temer. (Photo by Cris Faga/NurPhoto via Getty Images)

Il senso comune oggi in Italia dice che non ci sono i soldi, che siamo in una situazione di scarsità. È una vera e propria “ideologia dominante” perché è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione di qualunque strato sociale e orientamento politico. La scarsità è il punto da cui parte ogni ragionamento politico e sulla base di questo assunto vengono avanzate le proposte politiche. I fascisti della Lega sulla scarsità motivano il loro razzismo nazionalista: non possiamo accogliere tutti perché non ci sono i soldi e allora prima pensiamo ai nostri. I liberali – di centrodestra, centrosinistra – sulla scarsità motivano le politiche di rigore e in definitiva i tagli del welfare. Gli stessi grillini alla prova dei fatti hanno applicato i vincoli europei e ci dicono che non si può fare altro, che non possono fare i miracoli. Il punto fondamentale su cui interrogarsi è: ma questa tesi della scarsità, dei soldi che non ci sono, è vera o falsa? Io penso che sia falsissima. L’Italia è un Paese ricco. Il risparmio privato italiano è il più alto d’Europa, il doppio di quello tedesco. La bilancia commerciale italiana è in attivo, dopo la Germania siamo il Paese europeo che esporta di più. Il bilancio dello Stato ha un enorme avanzo primario che è cominciato nel 1992 e nel corso dei decenni è il maggiore di tutta Europa. Qual è il problema dell’Italia? Che la ricchezza privata è molto mal distribuita – molto peggio che in Germania – perché il 10 per cento più ricco della popolazione possiede la larga maggioranza del risparmio stesso. Abbiamo così una minoranza che non sa cosa farsene dei soldi e una maggioranza che non arriva a fine mese ed esperimenta – concretamente – che i soldi non ci sono. Come se non bastasse gli italiani ricchi hanno anche evaso le tasse in modi vergognosi e con questi soldi hanno comprato – in buona compagnia con le banche – titoli di Stato, che dopo la separazione tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, hanno dato rendimenti assurdi, ingrassando i possessori dei titoli e spiumando lo Stato. Così in Italia lo Stato è in deficit nonostante spenda per i servizi meno di quanto incassa di tasse, la maggioranza della popolazione è povera nonostante il Paese risulti ricco, una minoranza del 10 per cento si ingrassa e l’economia ristagna. Ristagna perché lo Stato invece di fare una spesa in deficit fa un avanzo primario e cioè spende meno di quanto incassa regalando soldi ai rentier e producendo un effetto recessivo sull’economia italiana. Ristagna perché le famiglie, che sono il nucleo fondamentale del consumo interno non hanno i soldi per arrivare a fine mese. Quindi l’idea che in Italia non ci siano i soldi e che l’Italia sia un Paese povero è completamente sballata. In Italia i soldi sono così mal distribuiti da non poter essere spesi produttivamente. Questo perché chi ha i soldi li investe in attività produttive solo se pensa di poterci guadagnare. Ma in un Paese in cui il mercato interno è crollato nel 2008 e non si è mai ripreso, in cui la fiducia dei cittadini è sotto la suola delle scarpe, difficile fare investimenti produttivi che rendano. In Italia quindi i soldi, la ricchezza, c’è. Solo che è distribuita in modo tale da non servire a nulla, per cui il Paese sprofonda. Senza redistribuzione del reddito è impossibile che l’Italia esca dalla crisi ma nonostante questo la Lega, i Cinque stelle, Forza Italia e il Pd sono contro la patrimoniale sulle grandi ricchezze. Per il semplice motivo che tutti questi partiti sono interni alle classi dominanti di questo Paese. È un problema di classe, bellezza: cane non mangia cane! Sorge spontanea la domanda: ma come hanno fatto gli italiani a farsi fregare in questo modo incredibile? Perché la colonizzazione dei cervelli comincia da molto tempo ed è stata fatta a reti unificate: ha cominciato Craxi con il taglio dei 4 punti di scala mobile a dire che bisognava che i privilegiati che avevano un lavoro facessero un piccolo sacrificio in modo che ci fossero le risorse per fare gli investimenti e dare lavoro ai figli. Su questa idea vinse il referendum contro il Pci, poi centro destra e centro sinistra proseguirono con Amato nel 1992, con Dini nel ’96, poi tutti gli altri fino a Monti. Così l’idea che i soldi non ci sono è diventato senso comune ed è stata la base su cui si sono fondate le politiche di rigore ed oggi i fascisti fondano le loro politiche razziste. Scardinare questa idiozia è fondamentale per cambiare l’Italia. A questo serve la sinistra.

Paolo Ferrero è vicepresidente del Partito della Sinistra Europea

 

L’articolo di Paolo Ferrero è tratto da Left in edicola fino al 30 maggio 2019


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Rom e Sinti, un facile bersaglio ricorrente

SAINTES MARIES DE LA MER, FRANCE - MAY 25: Gypsies dance in the street in Saintes Maries de la Mer in the Camargue region of Southern France on May 25, 2004. The annual pilgrimage is observed by Rroma from all over the world, but especially the Gitans, Rroma, Sinti, and Manouches of France. Their purpose is to pay respect to Sara-la-Kali, or Sara the Black. (Photo by Marco Di Lauro/Getty Images)

Gennaio 2019. Siamo in Bulgaria, nel villaggio di Voivodinovo, non lontano dalla città di Plovdiv: due adolescenti, nel corso di una rissa, picchiano un giovane soldato e lo mandano in ospedale. I due vengono denunciati e dovranno affrontare un processo; la vittima, per fortuna, non è grave, e dopo un breve ricovero può tornare a casa. È una vicenda che merita un’ampia copertura sui giornali locali, ma tutto potrebbe finire qui, se non fosse che i due aggressori sono di origine rom: e quando ci sono di mezzo «gli zingari» le cose si complicano sempre.

Così, sul caso interviene addirittura il vicepremier Krasimir Karakachanov, esponente dell’estrema destra nazionalista (o sovranista che dir si voglia), una specie di Salvini locale: in una dichiarazione di fuoco rilasciata alla stampa, Karakachanov spiega che «gli zingari sono diventati sempre più arroganti, e i bulgari hanno perso la pazienza» (da notare il contrasto tra «gli zingari» e «i bulgari»: come se i rom non fossero cittadini a tutti gli effetti…). Pochi giorni dopo il sindaco di Voivodinovo ordina la demolizione delle case di tutti i rom che abitano nel villaggio.

I colpevoli, dunque, non sono più i due aggressori, ma l’intera comunità di cui fanno parte: una «punizione collettiva», ch…

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola dal 24 maggio 2019


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Se la May piange, Corbyn non ride

Pedestrians walk past placards featuring Britain's Prime Minister Theresa May and opposition Labour party leader Jeremy Corbyn near the Houses of Parliament in central London on April 3, 2019. - Prime Minister Theresa May was to meet on Wednesday with the leader of Britain's main opposition party in a bid to thrash out a Brexit compromise with just days to go until the deadline for leaving the bloc. (Photo by Tolga Akmen / various sources / AFP) (Photo credit should read TOLGA AKMEN/AFP/Getty Images)

Annunziata Rees-Mogg, sorella minore di Jacob, siederà nel nuovo Parlamento europeo. È capolista del Brexit party nella regione del Midlands nel Regno Unito. Nigel Farage l’ha voluta in pole position. Ha anche piazzato un ex ministro del governo conservatore e un ex comunista rivoluzionario in posizioni preminenti. I rappresentanti del partito della Brexit si discosteranno molto dall’immagine che avevano molti dei loro predecessori Ukip, nel nuovo Parlamento.
I sondaggi danno il Brexit party intorno al 30 per cento, seguito dal Labour al 20, mentre i conservatori si attestano intorno al 12. I liberali potrebbero superare i conservatori, e i verdi sperano di fare altrettanto. The Independent group (Change Uk), appena nato con undici parlamentari a Westminster, lotta per riuscire a contare. Nel frattempo, il Partito nazionale scozzese potrebbe accrescere la propria rappresentanza passando da due a tre, con un cittadino francese al secondo posto nella loro lista. Jill Evans di Plaid Cymru spera ancora di poter parlare a nome del Galles nel nuovo Parlamento. Martina Anderson dello Sinn Fein sembra sicura di ottenere un posto nell’Irlanda del Nord. Ma che dire del Labour party? Jeremy Corbyn ha recentemente inasprito la propria posizione sulla Brexit, alla ricerca di un «rapporto stretto e collaborativo con l’Unione europea», che secondo lui «potrebbe far superare la lacerazione nel Paese insieme e attuare il risultato del referendum». Mentre scriveva in questi termini nel manifesto del Labour per le elezioni europee, Honda confermava il proprio piano di chiudere un’importante fabbrica nel sud dell’Inghilterra, che attualmente impiega circa 3.500 persone. L’influente leader del sindacato Unite, Len McCluskey, si era speso per impedire che Honda chiudesse l’impianto. «La Brexit non è la fine del mondo»: questo è stato il suo commento. Altri sindacati hanno una linea più credibile sulla Brexit riguardo alla minaccia al lavoro. A…

Tony Simpson è esponente del Partito laburista e di Unite the Union. Lavora presso la Bertrand Russell peace foundation e ha organizzato la Permanent european union citizenship initiative.

L’articolo di Tony Simpson prosegue su  Left in edicola dal 24 maggio 2019


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