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Il Portogallo verso le europee, con la sinistra al governo, il Pil in crescita e alcune anomalie da risolvere

Del Portogallo si parla poco eppure è un caso particolare in questa Europa. Il Paese ha un governo socialista presieduto da Antonio Costa e sorretto dall’esterno da due forze di sinistra “radicale”. Una è la Cdu e cioè l’unione tra il Partito comunista e i verdi. Il Pcp fa parte al Parlamento europeo del Gue. L’altra è il Bloco de Isquierda formazione di origine sessantottina che sta sia nel Partito della Sinistra Europea che nrl Gue. La Cdu alle politiche prese l’8% e il Bloco il 10%. Questi voti furono decisivi per consentire un governo di cambiamento e mandare all’opposizione la destra del partito socialdemocratico che pure era stato il più votato.
Si pose così fine ad anni di austerità cominciati purtroppo con un altro governo socialista quello dell’allora leader Socrates. Anni durissimi con una serie di memorandum che furono particolarmente duri al punto da portare la Corte Costituzionale a invalidare una serie di misure ricorrendo alla Costituzione nata dalla Rivoluzione dei garofoni e che letteralmente proibisce di esercitare misure che risultino crudeli verso il popolo.
Durante i memorandum il governo era passato alla destra ma erano cresciuti grandissimi movimenti contro la Troika.
Ora il governo delle sinistre è intervenuto su punti fondamentali come l’aumento del salario minimo e il ripristino di tredicesima e scatti salariali nel pubblico impiego.
Poi un programma di opere di pubblica utilità.
Il risultato lo si vede anche nei dati macroeconomici con una crescita di Pil del 2,5% nel 2017, del 2% nel 2018 e stimata all’1,5% quest’anno.
Soprattutto è migliorata la vita della gente anche se rimangono le forti diseguaglianze e la concentrazione del potere in poche famiglie cosa di cui parla questo documentario ripreso dal sito del Bloco de Isquierda.

PER APPROFONDIRE

Donos de Portugal from Donos de Portugal on Vimeo.

Non è un Paese per bambini

«In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. 1) Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. 2) Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo». Il 20 novembre prossimo compirà 30 anni la Convenzione Internazionale per i Diritti dell’Infanzia delle Nazioni Unite di cui abbiamo appena citato l’articolo 3 e che risulta ratificata da 196 Paesi, fra cui l’Italia (1991). Da tempo anche da noi si dimostra che gran parte della Convenzione viene totalmente o in parte violata (v. Left del 22 febbraio 2019), ma è soprattutto l’articolo citato, nella parte in cui si da la preminenza “all’interesse superiore del fanciullo”.

Invece oltre ai tanti casi di sfruttamento lavorativo e di maltrattamenti messi in atto da privati in Italia, da tempo sono alcune istituzioni locali ad infrangere tale Convenzione. Su Left abbiamo parlato a lungo di quanto accaduto a Monfalcone (scuola materna negata a bambini stranieri), Lodi (accesso alla mensa gratuito a figli di migranti in assenza di alcuni documenti difficili da procurare nel paese di provenienza) e poi Pisa, piccoli Comuni in Lombardia e in Veneto. Numerose sentenze stanno dando torto agli amministratori locali che si sono resi responsabili di tali discriminazioni con la conseguente rimozione degli ostacoli limitativi e il pagamento delle spese legali e di risarcimento da parte dei Comuni suddetti, ovvero della collettività e non degli autori di tali provvedimenti. L’ultima vicenda di cui è stata data notizia riguarda un comune del veronese dove un sindaco ha dato disposizione che ad una bambina, la cui famiglia non pagava la mensa, venisse negato il pasto dato agli altri alunni e che, per bontà d’animo, le fossero dati crackers col tonno, davanti ai compagni di scuola, tanto per umiliarla un po’ e farle capire come funziona a Minerbe, il paese in questione, a trazione leghista. Poi si è saputo che non era la prima volta che accadeva, in precedenza avevano provveduto docenti a donare il proprio pasto a chi incappava nel severo amministratore che “non voleva danneggiare chi pagava”. Già chi viene danneggiato? Le famiglie o i bambini? Ma forse anche questo sindaco non ha trovato modo e tempo di leggere la Convenzione.

A risolvere il problema sono intervenute le istituzioni superiori, la Regione, qualche procura pronta a riportare la giustizia? No. È intervenuto un giocatore di calcio, Antonio Candreva, romano di Tor De’ Cenci che in silenzio è intervenuto pagando la mensa per tutto l’anno scolastico e per tutti gli alunni di famiglie non abbienti. Ringraziando il bel gesto del calciatore, che ha mostrato di non ragionare con i piedi, ci poniamo una domanda. In un altro paesino, più piccolo, in Calabria ma più noto, Riace, il sindaco si è assunto la responsabilità di garantire lavoro a due cooperative sociali per la raccolta di rifiuti e di celebrare un matrimonio fra un riacese e una ragazza nigeriana. Atti condotti senza alcun motivo di frodo e gestiti diligentemente secondo la Corte di Cassazione, comunque non riconducibile con certezza a reati ma su cui la Procura di Locri esprime un giudizio diverso. Per questi “reati”, per un impianto accusatorio ritenuto dalla cassazione e da altri organi della magistratura Domenico Lucano, il sindaco di Riace è stato rinviato a giudizio. Si lascerà processare e rifarebbe quello che ha fatto. Certo, con la sua amministrazione si è anche aperta una scuola elementare per bambini figli di migranti e riacesi e non si è posto il problema della retta. I bambini debbono mangiare no? Debbono studiare no? Ma Lucano oggi non può neanche rientrare al suo paese, ha persino un divieto di dimora. Invece i “sindaci antibambini” del Nord, continuano a governare impuniti.

Sarebbe troppo chiedere che, così come si possono rimuovere i consigli comunali sospettati di infiltrazioni della criminalità organizzata si potessero attuare simili procedure verso chi disobbedisce alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, quella ratificata dal maggior numero di Paesi al mondo (Italia compresa)? Sarebbe troppo far comprendere ai “bravi cittadini” magari orgogliosi dei “sindaci orchi” del “prima gli italiani” che esistono leggi e convenzioni che non possono essere violate? Le “infiltrazioni” di cui sono protagonisti questi amministratori non sono meno gravi di quelle mafiose, diffondono un germe pericoloso e infettivo, quello della cattiveria, della rabbia, dell’esclusione di chi è più povero o in difficoltà. Dovremmo pretenderle sanzioni del genere e imporre che taluni elementi valoriali non possano essere subordinati a nessuna giustificazione di bilancio. La giustizia di cui avrebbe bisogno questo paese dovrebbe proteggere e sostenere chi lavora come Domenico Lucano e tanti altri ma rendere impossibile a chi viene meno ai propri doveri di amministratore ogni azione discriminatoria. Amministrare è difficile ma bisogna dimostrare di esserne degni e di lavorare per il bene di tutta la collettività, a partire dai più vulnerabili. Domenico (Mimmo) Lucano, potrà sempre dire di averlo fatto e guardarsi ogni mattina davanti allo specchio, chi affama o caccia i bambini per sentirsi forte, no.

Chi ha tradito Assange. L’intrigo internazionale dietro l’arresto del fondatore di Wikileaks

epa07500608 A person holds a sign during a rally calling for the release WikiLeaks founder Julian Assange, in Sydney, Australia, 12 April 2019. The President of Ecuador, Lenin Moreno, withdrew asylum of Assange, after accusing him of violating international agreements, a special protocol of coexistence and participating in a plot of institutional destabilization. Assange was arrested by British authorities on 11 April 2019. EPA/PETER RAE AUSTRALIA AND NEW ZEALAND OUT

Tutto il possibile per evitare l’estradizione mentre il mondo si spacca sulla sorte e sul giudizio nei confronti di Julian Assange. Reporters without borders scrive che «prendere di mira Assange dopo quasi nove anni per il fatto che Wikileaks abbia fornito informazioni (come i cablo della diplomazia Usa) a giornalisti nell’interesse pubblico, sarebbe una misura puramente punitiva, e stabilirebbe un pericoloso precedente per giornalisti, whistleblower (chi denuncia pubblicamente illeciti di un governo o di un’azienda), e altre fonte giornalistiche che gli Usa potrebbero voler perseguire in futuro. La Gran Bretagna deve mantenere una posizione di sani principi rispetto a qualunque richiesta di estradare Assange, e garantirne la protezione secondo le leggi britanniche ed europee rilevanti per il suo contributo al giornalismo».

Il team legale che lo assiste dopo l’arresto, ieri a Londra, conferma la determinazione a opporsi attraverso tutte le vie giudiziarie disponibili alla richiesta d’estradizione presentata dagli Usa alla Gran Bretagna nei confronti del fondatore australiano di Wikileaks per quasi sette anni rifugiato politico nell’ambasciata dell’Ecuador. Estradarlo rappresenterebbe «un precedente pericoloso», ha sottolineato uno dei legali, Jennifer Robinson, citata da diversi media del Regno. Significherebbe aprire le porte alla caccia a qualunque giornalista abbia «pubblicato informazioni vere e verificabili sugli Stati Uniti». Robinson ha visto Assange ieri nella camera di sicurezza della stazione di polizia in cui è stato recluso dopo l’arresto e ne ha raccolto il messaggio di gratitudine verso i numerosi difensori dei diritti umani e sostenitori che si sono mobilitati in suo favore in giro per il mondo. Il 47enne fondatore di Wikileaks non è peraltro parso sorpreso o scioccato dell’accaduto: «Ve l’avevo detto» che finiva così, s’è limitato a dire alla legale. «Amnesty International chiede al Regno Unito di rifiutare di estradare o trasferire in ogni altro modo Assange negli Usa, dove c’è l’assai concreto rischio che egli possa andare incontro a violazioni dei diritti umani, tra cui condizioni detentive che violerebbero il divieto assoluto di tortura e di altri maltrattamenti e un processo iniquo che potrebbe essere seguito dall’esecuzione, a causa del suo lavoro con Wikileaks – dice Massimo Moratti, vicedirettore per le ricerche sull’Europa di Amnesty International -. Le denunce di stupro e di altre forme di violenza sessuale contro Assange dovrebbero essere indagate nel rispetto dei diritti delle denuncianti e dell’imputato e arrivare a processo qualora vi fossero sufficienti prove nei confronti di quest’ultimo. Se la Svezia decidesse di chiedere l’estradizione dal Regno Unito, dovrebbe fornire adeguate garanzie sulla non estradizione o trasferimento in ogni altro modo verso gli Usa». Non è ancora chiaro, per Amnesty, sulla base di quale procedimento formale le forze di polizia di sua maestà siano potute entrare nell’ambasciata dopo che il presidente Moreno ha ritirato l’asilo politico ad Assange.

Sulla linea di Amnesty c’è Jeremy Corbyn, leader dell’opposizione laburista britannica: «L’estradizione di Assange per aver rivelato prove di atrocità in Iraq e in Afghanistan deve avere l’opposizione del governo britannico». Il numero uno del Labour ha voluto rilanciare il video – diffuso a suo tempo da Wikileaks e uscito dagli archivi del Pentagono – che documenta la strage di civili di un raid aereo condotto dagli Usa in territorio iracheno nel 2007. Raid costato la vita fra gli altri anche a due giornalisti dell’agenzia britannica Reuters. «Ora esiste il pericolo reale che il caso possa diventare un modello per i governi che cercano di punire i media per aver esposto prove di abusi – ha detto Arianna Ciccone, fondatrice del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, contraria all’estradizione negli Usa – non bisogna dimenticare che tutta la vicenda nasce dalla pubblicazione da parte di Wikileaks delle prove di gravi crimini commessi dall’esercito Usa, in cui persero la vita decine di civili e due giornalisti della Reuters. Chat criptate, cartelle condivise, fonti anonime sono tutte attività normali del giornalismo nell’era digitale. Che queste siano configurate come attività cospirazioniste a carico di Assange per commettere frodi informatiche, potrebbe costituire un pericoloso precedente per i giornalisti di tutto il mondo». Anche dalla Pamela Anderson Foundation, parte la petizione contro l’estradizione del fondatore di Wikileaks negli Usa con la protagonista di Baywatch che rilancia l’hashtag #protectjulian.

Perché Moreno ha sfrattato Assange

Nota di colore, in una giornata piuttosto convulsa, l’assenza del gatto James, che ha fatto a lungo compagnia ad Assange nei suoi 2487 giorni nell’ambasciata. I media britannici, rilanciati dal quotidiano El Universo di Guayaquil, hanno indicato che il felino, visto spesso lo scorso anno alla finestra della stanza di Assange talvolta con vistosi cravattini al collo, è stato portato via da amici del ricercatore nel settembre scorso. La presenza di James era stata uno dei punti di frizione con il personale diplomatico ecuadoriano che aveva chiesto all’ospite in esilio di occuparsi meglio dell’alimentazione e della pulizia della sua mascotte se non voleva che fosse portata via. Ma le note di colore finiscono qui: Marco Consolo, responsabile Area esteri di Rifondazione, ricorda «che Moreno è appena stato messo sotto inchiesta grazie ad intercettazioni telefoniche che hanno messo in evidenza episodi di corruzione in cui sarebbe coinvolto. Intercettazioni di cui Moreno ha accusato direttamente Assange. È evidente che la consegna di Assange, oltre a rappresentare una vendetta nei suoi confronti, dimostra il tradimento di Moreno ai principi della “Rivoluzione ciudadana” iniziata da Correa e la subordinazione del governo Moreno a Washington».

Il ministro degli Esteri dell’Ecuador, José Valencia, è stato più vago illustrando alla sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del Paese i nove motivi per cui il governo Moreno ha deciso di revocare asilo e nazionalità ecuadoriana all’attivista australiano. Come riportato dai media ecuadoriani, l’intervento negli affari interni da parte di altri Stati, il cattivo comportamento e la mancanza di rispetto nei confronti dell’Ecuador, le minacce di Assange contro lo Stato ecuadoriano e l’ambasciata, la posizione inalterabile del Regno Unito di non garantire un salvacondotto all’attivista e lo stato di salute di Assange come motivo di preoccupazione sarebbero i primi cinque motivi che hanno portato alla scelta di revocare l’asilo e la nazionalità ad Assange. Le restanti ragioni sono che, secondo Quito, l’asilo non è uno strumento per impedire un processo giudiziario, che al momento della revoca non c’era una richiesta di estradizione, che l’Ecuador ha ricevuto sufficienti garanzie dal Regno Unito per la protezione di Assange e, infine, che ci sarebbero state irregolarità nelle procedure per la concessione della cittadinanza ecuadoriana all’attivista. Intanto, le forze di sicurezza di Quito hanno arrestato una persona vicina al sito web di Wikileaks che stava tentando di partire per il Giappone. «C’è un piano di destabilizzazione in Ecuador che è legato agli interessi geopolitici», ha detto la ministra dell’Interno Maria Paula Romo dopo l’arresto. «Abbiamo la prova di una relazione tra la persona arrestata e Ricardo Patino, che era ministro degli esteri quando a Julian Assange è stato concesso l’asilo», ha aggiunto.

Le garanzie sbandierate da Moreno non convincono Marise Payne, ministra degli Esteri australiana, «totalmente contraria» alla pena di morte e timorosa che Assange, svedese di origini australiane, possa rischiare la pena capitale se estradato negli Usa. Un rappresentante del consolato australiano farà oggi visita al detenuto nella prigione di Londra. Per ora l’uomo è accusato negli Stati Uniti solo di cospirazione informatica, reato che non prevede la condanna capitale, ma i suoi sostenitori temono che contro di lui possano essere mossi altri addebiti.

«Amo Wikileaks»: però dopo queste dichiarazioni nel 2016 in campagna elettorale, Donald Trump non ha mai più accennato ad Assange. La divulgazione di migliaia di email hackerate del partito democratico danneggiarono la sua rivale Hillary Clinton che, infatti, adesso fa la voce grossa: «L’arresto riguarda l’assistenza all’hackeraggio di un computer militare per rubare informazioni dal governo degli Stati Uniti» – ha detto Clinton a New York. «Aspetterò e vedrò cosa succederà, ma deve rispondere per quello che ha fatto». Assange dovrebbe comparire di nuovo nel tribunale il 2 maggio per un’audizione sulla richiesta di estradizione negli Stati Uniti. Anche il ministro della giustizia americano ha chiesto l’estradizione ma la Casa Bianca non ha commentato e il tycoon ha mantenuto un insolito silenzio su Twitter. Incalzato alla Casa Bianca dai cronisti Trump ha glissato scaricando ogni responsabilità sull’attorney general: «Non so nulla di Wikileaks. Non è cosa mia. So che c’è stato qualcosa che ha a che fare con Assange ma non ho un’opinione. Sarà l’attorney general a prendere una decisione». «Se lo vogliono, per me è ok», si era limitato a dire quando il suo ex attorney general Jeff Sessions lo indicò come una priorità per la giustizia Usa. L’atto d’accusa Usa contro Assange risale ad oltre un anno fa, quando fu depositato segretamente ad Alexandria, in Virginia, prima di venire svelato lo scorso novembre per un errore di copia-incolla da parte di un procuratore. Un solo capo di imputazione: cospirazione insieme a Chelsea Manning finalizzata ad hackerare nel 2010 decine di migliaia di documenti classificati legati alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, dall’Afghanistan all’Iran e a Guantanamo, passando per i rapporti con gli alleati. Una delle più colossali fughe di notizie della storia, che mise gravemente in pericolo e in imbarazzo gli Usa. Se condannato, Assange rischia sino a 5 anni, meno di quelli passati nell’ambasciata di Quito. L’accusa infatti è solo quella di pirateria informatica, non di spionaggio, anche se questo non placa le ire dei difensori dei diritti umani. Ma il ministero della giustizia Usa sembra intenzionato a contestare altri reati, che potrebbero aumentare la pena. Barack Obama aveva commutato la pena di 35 anni a Manning, liberandola dopo sette, ma lo scorso mese è tornata in prigione per essersi rifiutata di testimoniare davanti ad un gran giurì ad Alexandria. Segno che i procuratori sono ancora al lavoro.

Assange, Manning e Snowden

La storia recente di Wikileaks è legata ad altri due nomi che hanno fatto tremare e irritare molte cancellerie mondiali e imbarazzando la Casa Bianca: Chelsea Manning ed Edward Snowden. La prima tornata in carcere negli Usa nel marzo scorso dopo che era stata graziata nel gennaio del 2017 da Barack Obama, il secondo fuggito nel 2014 in Russia dove ancora si trova con un permesso di soggiorno e dove nel 2020 potrebbe fare richiesta di cittadinanza. Ma potrebbe essere proprio lui la prossima testa a cadere, se sono vere le indiscrezioni di intelligence secondo cui Putin sarebbe intenzionato a consegnarlo a Trump come gesto di distensione. La storia di Wikileaks parte dal soldato Bradley Manning, che nel 2013 quando era già era stato condannato a 35 anni di carcere decise di diventare donna sottoponendosi a un trattamento ormonale e cambiando il nome in Chelsea. Nel 2009 rubò decine di migliaia di documenti militari e diplomatici riservati, alcuni top secret, trafugati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence a Baghdad. Una volta impossessatasi del materiale sensibile – tra cui un video in cui elicotteri Usa uccidevano 12 civili disarmati – Manning le consegnò a Wikileaks. Ed è per questo che Assange era fino ad oggi ricercato e rifugiato nella sede dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Arrestata e reclusa prima in Kuwait e poi in isolamento nel carcere militare di Quantico, in Virginia, al termine del processo davanti alla corte marziale, Manning riuscì ad evitare la condanna per il capo di accusa più grave, quello di connivenza con il nemico e alto tradimento, reato che prevede la pena di morte. Snowden fece invece esplodere lo scandalo del Datagate che mise molto in difficoltà Obama, quando si scoprì che la Nsa spiava anche diversi leader stranieri di Paesi alleati, come Angela Merkel o Nicolas Sarkozy. Informatico ed ex contractor della Cia, Snowden rivelò pubblicamente dettagli di diversi programmi top-secret di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico, tra cui Prism, diffondendo le carte trafugate con la collaborazione di Glenn Greenwald, giornalista del Guardian.

Le reazioni in Italia

«L’arresto di Assange è una gravissima violazione del diritto internazionale ed un attacco alle libertà individuali. La revoca da parte dell’Ecuador dell’asilo è un atto di una gravità inaudita in spregio ai diritti umani e procedurali e che ha portato il blogger nelle mani dei britannici, senza che sia stato messo nelle condizioni di esercitare i propri diritti», si legge sul blog delle stelle, finestra sul mondo M5S che, con ogni evidenza difende la libertà di stampa solo se viene esercitata a diverse migliaia di chilometri dal nostro Paese. «Le democrazie non devono mai avere paura della trasparenza e della libertà. Assange – per l’house organ dei cinquestelle – con grande coraggio con la sua azione ha svelato le condotte illegali o minacciose di organi istituzionali e potentissime lobby». Più coerente il Pd, che non ha mai brillato né per il rispetto della libertà di stampa né per l’autonomia da Washignton: «Qual è la posizione del ministro degli Esteri del governo italiano riguardo l’arresto di Assange? La posizione del governo italiano è quella espressa dal sottosegretario agli Affari esteri, Manlio Di Stefano, esponente 5 Stelle, il quale ha dichiarato che l’arresto è “una inquietante manifestazione di insofferenza verso chi promuove trasparenza e libertà”?», domandano al ministro Moavero Milanesi i deputati Dem Lia Quartapelle, capogruppo in commissione Esteri, e Andrea Romano, preoccupati per le molteplici prese di posizione di esponenti del governo russo, «Paese che non brilla certo per il rispetto dei diritti dei dissenzienti e per la libertà di stampa, tra cui quella dello stesso portavoce di Vladimir Putin, Dmitrij Peskov». Anche Maurizio Gasparri, postfascista transitato in Forza Italia, considera «raccapricciante vedere gente che va addirittura in televisione a difendere Assange. Una persona pericolosa, che deve essere processata e condannata duramente, non solo dagli Stati Uniti ma da tutta la comunità internazionale. Chi lo difende merita il disprezzo più totale. Perché è gente che ha comportamenti analoghi. Che ha usato la tecnologia in modo intollerabile. Assange – conclude l’ex ministro delle Comunicazioni del penultimo governoBerlusconi – deve essere punito con rapidità ed in modo esemplare. E chi lo difende va controllato e indagato perché potrebbe nascondere qualcosa di illegale».

Povero Salvini, sbarcano addirittura i libici

Che brutto giovedì per il ministro dell’inferno Salvini. Si è distratto un attimo e ecco che nei fantomatici porti chiusi (sì, ciao) arrivano in settanta, tra cui tunisini e libici. L’imbarcazione è stata intercettata mentre puntava sul porto di Lampedusa (quindi sbarcano, a Lampedusa, come avevamo scritto qualche buongiorno fa…) e sono stati accompagnati da un’imbarcazione della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera.

In pratica mentre il ministro era impegnato a organizzare la grigliata del 25 aprile è stato smentito sulla difesa dei confini ma soprattutto è stato smentito sul fatto che la Libia sia un porto sicuro. Talmente sicuro che ci scappano i libici stessi. Ci sarebbe da ridere se la situazione non fosse drammatica e se non ci fosse, là sotto nel Mediterraneo, tutta la carne uccisa dall’inerzia dell’Europa e dal cinismo di un ministro che è riuscito a fallire in tutti i campi (quello economico, pensionistico e lavorativo) e ora addirittura sul suo punto forte, su quella difesa della Patria che invece si sbriciola per una barchetta di migranti.

https://twitter.com/SeaWatchItaly/status/1116430292795953152

Preso alla sprovvista il buon Salvini, a cui nemmeno la visione di Dumbo ha acceso una scintilla di umanità, ha promesso che verranno rimpatriati immediatamente. Ha detto proprio così, immediatamente. Peccato che dovrebbe sapere che anche questa è una balla colossale visto che i rimpatri (sempre che si trovino i soldi) richiedono mesi e soprattutto non è certo lui a decidere chi siano queste persone, quali siano le loro storie, da cosa scappino e cosa dicano i trattati internazionali.

Insomma. Nel complesso una gran brutta figura. Da sminuire, di sicuro, con la portata che si gusterà oggi, twittato con il colletto sporco di sugo e la bava che scende dal labbro.

Buon venerdì.

Abbattiamo i muri del pregiudizio

Mimmo Lucano durante una conferenza stampa per presentare la conclusione della campagna di raccolta firme per candidare il Comune di Riace al Premio Nobel per la pace 2019, Roma, 30 gennaio 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

C’è un baratro tra l’Europa e il Sud del mondo in cui scompaiono migliaia e migliaia di persone. Quel baratro è il Mediterraneo che per millenni è stato mare di scambi, di commerci, di relazioni, non solo di conflitti.

L’Europa che nel 1989 festeggiava la caduta del muro di Berlino e sognava un mondo senza più barriere è diventata sempre più una impenetrabile fortezza che ha esternalizzato i propri confini pagando autocrati come il turco Erdoğan perché bloccasse il flusso dei migranti, e facendo accordi con i capi clan libici che torturano i migranti e che ora accendono la guerra civile in quel che resta della martoriata Libia.

Da Schengen (1990) a Maastricht (1992), a Dublino (1990, la prima firma) i trattati europei non sono stati passi avanti nella creazione di una Europa come unità politica aperta, inclusiva, solidale.

Muri, barriere, fili spinati, confini sorvegliati da forze armate sono ferite brucianti in questa Europa che non è quella che sogniamo e vorremmo continuare a costruire: un’Europa della cultura, laica, democratica, progressista, meticcia, cosmopolita, aperta alla ricerca, che guarda al futuro.

Un sogno infranto a Melilla, enclave spagnola incastonata col filo spinato in Marocco.

Un sogno che svanisce a Calais e a Bardonecchia vessate dalla gendarmeria francese che usa il pugno duro contro i migranti, come chiede la politica di Macron, osannato dai neoliberisti nostrani, (da Calenda a Renzi a Della Vedova e oltre).

E ancor più muore al confine ungherese e nei Paesi del gruppo di Visegrad che applicano politiche dichiaratamente fasciste di difesa della nazione e della religione cristiana, come da noi pretende di imporre il governo a trazione leghista, sul modello di Putin e Trump.

Ma come ci ricorda il bel libro di Carlo Greppi, L’età dei muri (Feltrinelli) anche nelle stagioni più buie della storia c’è chi ha il coraggio di alzare la testa e dire no. Il suo lavoro non tratteggia figure titaniche di eroi, ma ci racconta di esseri umani che anche in situazioni disperate hanno saputo opporsi, restare umani, come lo storico Emanuel Ringelblum, rinchiuso nel ghetto di Varsavia e vittima dell’Olocausto, che non smise mai, fino alla fine , di raccogliere i documenti, le testimonianze e i numeri di quell’orrore organizzato lucidamente dai nazisti. Quel muro di Varsavia, su cui nel 1941 si arrampicò il soldato della Wehrmacht Joe J. Heydecker per scattare le foto che furono una inconfutabile denuncia, non era stato costruito solo per imprigionare gli ebrei deportati dai villaggi, ma anche per separarli dal resto della società, per additarli come non polacchi, come estranei al consesso umano, per segnalarli e renderli un bersaglio.

L’uso politico dei muri purtroppo continua ancora oggi, come ci ricordano e documentano i reportage contenuti in questo numero, dall’Ungheria, dall’Austria, dal Medio Oriente, fino al Sahara occidentale. Emblematico e feroce è il caso del muro voluto da Trump fra Stati Uniti e Messico.

Ma c’è chi non si arrende. Storie di ordinaria e straordinaria umanità e resistenza dei migranti centroamericani, lungo quella barriera, innervano Solo un fiume a separarci il libro di Francisco Cantù pubblicato in Italia da Minimum Fax. Pronipote di immigrati, messicano di origine ma statunitense di nazionalità, Cantù si è arruolato nella guardia di frontiera per poter vedere la realtà da quel lato e denunciare. Ancor più potente è stata la denuncia che è venuta dal pianto inconsolabile di una bambina che la disumana legge di Trump voleva separare dai genitori immigrati “clandestini”. Nel silenzio assordante di una opposizione politica vasta e organizzata, sono le voci di strada, quelle delle singole persone a farsi sentire.

È il coraggio della pendolare che sul treno della Circumvesuviana di Napoli si ribella al razzista di turno che insulta un immigrato di origine pakistana.

È il coraggio di Simone che non ci sta, e va a dire quello che pensa ai fascisti che aggrediscono i Rom a Torre Maura. Lo dice in romanesco, con parole semplici, dirette, che colpiscono al cuore, perché dicono che non è accettabile il razzismo, non è accettabile l’ostracismo delle minoranze, non è accettabile la violenza contro chi è considerato “diverso”, non è accettabile l’odio verso chi è spinto ai margini della società.

«Non è normale il razzismo», dice con parole altrettanto semplici ed efficaci il sindaco di Riace Mimmo Lucano che la Corte di Cassazione ha riconosciuto innocente. Non risultano frodi in appalti, Lucano non favorì matrimoni di comodo. Ma l’accanimento persiste. E mentre il giudice dell’udienza preliminare lo tinvia a giudizio (il processo inizierà l’11 giugno a Locri, in Calabria) noi siamo al suo fianco.

In questo numero di Left che denuncia il proliferare di muri, visibili e invisibili ma altrettanto oppressivi come il pregiudizio, il razzismo, la misoginia, abbiamo scelto di mettere in copertina un muro speciale, quello dipinto a Riace dall’artista Carlos Atoche. Il suo Sogno del guerriero è un invito fortissimo a pensare con la propria testa, a guardare lontano per incontrare l’altro senza pregiudizi, ad andare incontro allo sconosciuto.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Labirinto Europa

Migrants look to shore as they wait to disembark from the Italian rescue ship Vos Prudence run by NGO Medecins Sans Frontieres (MSF) as it arrives in the early morning of July 14, 2017, in the port of Salerno carrying 935 migrants, including 16 children and 7 pregnant women rescued from the Mediterranean sea.(Photo by Paolo Manzo/NurPhoto via Getty Images)

Sono passati 42 anni da quando David Bowie, folgorato sulla via di Berlino, raccontava dei due amanti che si incontravano sotto una torretta nei pressi del muro per baciarsi, nella canzone “Heroes”. Il crollo di quel muro che aveva spezzato l’Europa portò molti a immaginare un mondo senza frontiere, uno spazio nuovo in cui il diritto di muoversi venisse considerato fondamentale. Eppure già nel 1985, quattro anni prima del fatidico crollo, in una città al confine fra Germania, Francia e Lussemburgo, Schengen, si era disegnato un futuro affatto roseo. Si definiva quello che appunto venne chiamato “Acquis di Schengen”, un insieme di norme volte a rimuovere gli ostacoli alla circolazione fra gli abitanti dei tre Paesi, più Belgio e Olanda.
Negli anni successivi, man mano si sono aggiunti i restanti Paesi Ue e alcuni neanche interni all’Unione come Svizzera, Islanda, Norvegia, con modalità fra loro diverse. Via le dogane allora? Neanche a parlarne. Questa libertà di movimento era ed è valida unicamente per chi è cittadino di uno dei Paesi in questione, o per chi ha i «titoli di viaggio necessari». Per chi arriva da fuori si sono creati negli anni strumenti restrittivi tanto da parlare sin dai primi anni 2000 di “Fortezza Europa”. E, col passare del tempo, con l’alibi delle instabilità crescenti e dei disordini soprattutto nei Paesi vicini, Nord Africa, Medio Oriente, Est Europa, accanto alle frontiere esterne si è realizzato un reticolo perennemente in evoluzione di barriere interne, fra singoli Paesi Ue, che selezionano in base al colore della pelle, al grado di benessere mostrato, al punto da far immaginare oggi la stessa Europa, vista dall’alto, come un gigantesco zoo per esseri umani, con una parte che può tranquillamente e senza ostacoli transitare da una gabbia all’altra e una parte che viene perennemente controllata e spesso respinta. Muri veri e propri, reticolati, fili spinati, guardie che controllano per 24 ore al giorno chi transita da un posto all’altro e poi leggi o regolamenti che sovradeterminano il tutto. E, ironia della sorte, il primo ostacolo, quello più invisibile ma ostativo a chi arriva in Europa è un regolamento (non lo si chiami trattato) che porta il nome della capitale di un Paese, l’Irlanda, che non è mai entrata nella cosiddetta “area Schengen”, ci si riferisce al Regolamento di Dublino. Proposto originariamente per impedire che un richiedente asilo facesse domanda per ottenere tale status in diversi Paesi, per poi accettare il responso più favorevole, è divenuto immediatamente…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Verso le europee 2019, continuiamo a ripassare la storia: il Trattato di Maastricht

È il 7 aprile del 1992 quando arriva in aula del Parlamento europeo la risoluzione (relatori un popolare e un laburista) che dà il proprio via libera al Trattato di Maastricht. È un Parlamento di 518 seggi perché i Paesi sono 12 e vede una netta maggioranza dei socialisti che hanno 180 eletti contro i 122 dei popolari. Il Trattato di Maastricht arriva dopo un lungo percorso durante il quale le spinte democratiche e federaliste espresse in particolare da Spinelli e che hanno vissuto anche nel Parlamento sono state sostanzialmente svuotate in nome di un percorso fortemente intergovernativo e che ha messo al centro l’unione economica. Che peraltro si è fatta molto ideologica, liberista, e, su impulso tedesco, assai monetaristica.

Di fatto lo scambio tra Francia e Germania fu accelerazione in cambio di rigidità di parametri. Quello che arriva in aula è un testo ben lontano da quanto si era proposto da parte di Spinelli. Ed è un testo che mostra come la politica sia destinata a cambiare proprio in questi passaggi. Al momento del voto che invita gli Stati membri alla ratifica i favorevoli sono 235, i no 64, gli astenuti 32. Colpiscono anche le molte assenze (anche di italiani compresi gli eletti della Lega) per un testo così storico. A favore si esprimono socialisti, popolari e liberali. Si astengono alleanza democratica europea e democratici europei. Confluiscono nel sì i parlamentari italiani eletti nella Dc e nel Psi ma anche i parlamentari del Pds che erano stati eletti come Pci e che avevano un gruppo proprio di sinistra unitaria in attesa di passare al gruppo socialista. Non li seguono i parlamentari che avevano scelto il Prc.

Votano contro i comunisti della coalizione della sinistra. E votano contro anche i verdi (in cui c’era anche Democrazia proletaria), più legati al progetto democratico. E poi le destre. A distanza di 20 anni arriva l’austerity che fa pagare il conto più salato delle scelte fatte con Maastricht. Si vota prima il six pack, poi il two pack e infine il Fiscal Compact. Sono il complesso delle norme che danno una stretta fortissima sulle politiche e stabiliscono una ferrea vigilanza. I rapporti di forza sono cambiati anche a seguito delle scelte fatte (sebbene c’è chi si dà l’alibi dell’allargamento) e i popolari sono i più forti. Il six pack vede un poco di polemica che porta i socialisti a votare contro 4 misure e astenersi su una. Ma votano a favore di quella più pesante che riguarda il monitoraggio e la correzione dei bilanci nazionali. Fanno “peggio” i verdi che mentre avevano votato contro ai tempi di Maastricht ora si sono “allineati” e approvano tre norme, si astengono su una e votano no a due.

Ma non è che a destra siano molto diversi, anzi. La Lega si astiene su tutto nonostante stia in un gruppo che vota contro. I sovranisti del Pis polacco e gli ungheresi di Orban addirittura votano a favore. Sul two pack che va a completare la governance dell’austerity, i socialisti rientrano del tutto e votano due si come i verdi. Lo stesso fanno sul Fiscal Compact che completa il quadro. Su two pack e Fiscal Compact la Lega si smarca. Ma poi in Italia vota a favore del pareggio di bilancio in Costituzione che ne è l’epicentro.

Considerazioni un poco tristi. C’era una Europa in cui i socialisti erano maggioranza ma che ha deciso di costruirsi secondo criteri che con i valori europei, e delle sinistre, non c’entravano niente. Questa Europa è andata a destra e purtroppo si capisce perché.

Ratzinger e la pedofilia: «Il collasso spirituale è cominciato nel ’68». Della serie, scherzi della memoria in Vaticano

Il primo papa pedofilo di cui si hanno tracce storiche fu s. Damaso, è vissuto nel IV secolo. Dopo di lui, fino al XVI secolo se ne contano altri 16: l’ultimo dei quali è Giulio III. A metà del XVI secolo, con l’Inquisizione, la Chiesa inizia a insabbiare tutti i crimini di natura “sessuale” compiuti da ecclesiastici. Una prassi che prosegue con ‘successo’ ancora oggi, seguendo le stesse efficaci ‘regole’ di segretezza o, all’occorrenza, di mistificazione della realtà attraverso pubbliche dichiarazioni nel caso in cui la segretezza fosse stata in qualche modo violata. In “Chiesa e pedofilia” (L’Asino d’oro edizioni, 2010), avvalendomi del contributo di storici, sociologi, avvocati, magistrati, psichiatri e psicoterapeuti indago sulle radici culturali della pedofilia per cercare di capire come questo crimine orrendo e violentissimo – la pedofilia è l’annullamento della realtà umana del bambino – sia riuscito ad attraversare praticamente indisturbato 25 (venticinque) secoli di storia nelle società “occidentali”. Come se il bambino non esistesse. Già perché ovviamente lo stupro di un bimbo prepubere non è “invenzione” della Chiesa, né i suoi primi teorici vanno ricercati tra i suoi padri fondatori. Diciamo qui in estrema sintesi che Platone ha avuto in questo grandi responsabilità. È nella razionalità “greca”, nel logos occidentale, che si annida l’idea che il bambino non sia un essere umano (perché come la donna non è dotato di pensiero razionale). Quindi in sostanza esso, tavoletta di cera, va plasmato dal maschio adulto affinché diventi uomo: anche attraverso lo stupro. E il violentato a sua volta diventerà violentatore…

Anche per il pensiero religioso cattolico il bambino non ha identità umana, esso è addirittura il diavolo impersonificato. L’identità umana gli viene data nel tempo attraverso i riti del battesimo (che è il primo esorcismo) e della comunione. Anche per l’ecclesiastico, dunque, il bambino prepubere non è un essere umano e gli si può fare qualsiasi cosa. Decine di testimonianze di stupri avvenuti nell’ambito del sacramento della confessione (sono la maggior parte tra quelli di matrice clericale) raccontano che ancora oggi il prete si presenta alla vittima come il suo purificatore (qui ogni commento è lecito, nda).

Sempre in “Chiesa e pedofilia”, per ricostruire la storia cito fonti ufficiali come i rapporti investigativi del governo di Dublino dai quali emerge inequivocabilmente l’endemicità del fenomeno criminale della pedofilia nella Chiesa d’Irlanda: stupri, violenze, abusi, maltrattamenti su decine di migliaia di bambini hanno attraversato tutto il XX secolo nelle parrocchie, scuole, oratori etc. Lo stesso è stato provato negli Stati Uniti da una indagine commissionata dalla Conferenza episcopale Usa. In “Chiesa e pedofilia, il caso italiano” (L’Asino d’oro ed., 2014), riscontro la medesima situazione. Senza soluzione di continuità, dal 1870 in poi, la pedofilia è presente – e come se è presente – anche nel clero cattolico italiano. E gli esempi potrebbero continuare. In “Giustizia divina” (Chiarelettere, 2018) con Emanuela Provera raccontiamo come oggi la Chiesa italiana si è organizzata per nascondere i sacerdoti violentatori, continuando a sottrarli impunemente all’azione penale della magistratura “laica” anche in virtù del Concordato con lo Stato italiano. E già quanto detto fin qui basterebbe per chiedersi come fa Joseph Ratzinger a pensare che la pedofilia prima del 1968 – anche all’interno della Chiesa – non esistesse: «Il collasso spirituale è iniziato nel ’68. Fu teorizzata l’idea che (la pedofilia) fosse giusta». Questa sua affermazione è in bella mostra sulla home page del Corriere della sera in cui si fa riferimento a un lungo articolo che il papa emerito ha scritto per una rivista tedesca e che il quotidiano italiano propone ai suoi lettori in anteprima. Ed è fatta da una persona che notoriamente è un grande estimatore di Platone, e dalla stessa persona che per 34 anni è stata il capo dell’ex Inquisizione – e sappiamo bene quanto Ratzinger dal 1981 al 2005 abbia contribuito da “ministro” della giustizia vaticana a insabbiare di tutto (basti pensare al capo dei legionari di cristo: Maciel Degollado), e dalla stessa persona che nel 2001 ha firmato il De delictis gravioribus, il documento in cui si intima ai vescovi di non denunciare e di riferire tutto alla Santa sede, pena la scomunica, rinnovando così un altro documento, il Crimen sollicitationis del 1962 (cioè un po’ prima del 1968…), e dalla stessa persona che nel 2013 ha definito la pedofilia «un delitto morale». Dando così, il papa emerito – consapevolmente o meno – ragione a Foucault che curiosamente è anche il destinatario del suo strale. A lui, infatti, teorico con Freud del bambino sessuato e seduttore, il papa emerito si riferisce quando scrive che il collasso spirituale, cioè la deriva immorale, è avvenuto nel 1968.

Dietro la definizione ratzingeriana di “delitto morale” c’è infatti l’idea perversa che lo stupro di un adulto su un bambino sia in realtà un atto sessuale tra due persone. Per Ratzinger – come per Bergoglio e decine di ecclesiastici che incautamente lo hanno riferito in pubblico – il bambino è compartecipe se non istigatore: cioè ha una sessualità e dunque un desiderio. Come per Freud e Foucault. Ma la sessualità, per il pensiero religioso cattolico, è tale solo se finalizzata alla procreazione. E dunque per questo, e solo per questo, la Chiesa, Ratzinger, il suo collega papa, considerano la pedofilia un delitto. Si tratta per costoro un atto di lussuria (!), un’offesa a dio, cioè un peccato in violazione del sesto comandamento, commesso sia dal prete che dalla sua vittima. Ha tuttavia ragione Ratzinger che con il “Manifesto per la depenalizzazione della pedofilia” propagato da Foucault e altri pensatori del Sessantotto «fu teorizzata che fosse giusta».

Michel Foucault e a molti altri intellettuali francesi sono stati difensori della cosiddetta “pedofilia dolce”. Secondo l’icona del Sessantotto e padre della presunta “rivoluzione sessuale”, se il bimbo non si rifiuta non c’è violenza. Questo diceva in una tristemente nota intervista del 1977: «Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?… Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti. Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia». Il pensiero di Foucault ha inciso nella formazione di molti intellettuali delle generazioni successive. Tra i più noti c’è Daniel Cohn-Bendit che nel suo libro Le Grand Bazar, scrive: «Mi è successo che qualche bimbo mi aprisse la cerniera dei pantaloni e iniziasse ad accarezzarmi. Io reagivo in modo diverso a seconda delle circostanze. Il loro desiderio mi creava dei problemi. E chiedevo: “Perché giocate con me e non con gli altri?”. Ma quando loro insistevano, io li accarezzavo». Concetti ribaditi durante il programma televisivo “Apostrophes” del 23 aprile 1982. E poi l’11 marzo 2010 in un’intervista al settimanale tedesco “Die Zeit”, uscita nel pieno dello scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa cattolica in Germania, Cohn-Bendit ha commentato al giornale che le norme «repressive» in vigore prima del 1968 avevano provocato «danni», ma ha sottolineato che è necessario saper imporre dei limiti. Per poi concludere: «È giusto riconoscere ai bambini e agli adolescenti la loro forma di sessualità, ma il fatto che gli adulti impongano ai bambini le loro regole sessuali sotto delle apparenze libertarie va contro la stessa emancipazione». Come dire, se il bimbo è consenziente per di più istigatore che male c’è? È difficile comprendere come un minore possa essere complice di una violenza che subisce, salvo non ipotizzare come Sigmund Freud che i bambini siano polimorfi perversi quindi potenziali seduttori di adulti. In ogni caso dalle frasi di Foucault e Cohn-Bendit, intrise di mentalità freudiana, emerge un pensiero finalizzato a colpevolizzare la vittima, che viene ritenuta corresponsabile per attenuare la gravità del gesto dell’adulto. Un pensiero in sintonia con quello di molti gerarchi della Chiesa e di semplici ecclesiastici, dal papa emerito in giù passando per papa Francesco che ha chiuso l’ultimo summit in Vaticano sulla pedofilia dando tutta la colpa al diavolo.

L’abolizione delle accise e la potenza dei numeri

Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo Economico e Lavoro (s), e Matteo Salvini, ministro degli Interni, nell'aula della Camera dei Deputati durante il Question Time, Roma 13 febbraio 2019. ANSA/FABIOFRUSTACI

Ma ve lo ricordate Salvini tutto baldanzoso in televisione quando annunciava che avrebbe abolito le accise sulla benzina? Ve li ricordate i bar in cui si diceva “peccato che non abbia i voti perché lui è uno che farebbe veramente ciò che dice”? Bene, i voti li ha trovati dal Movimento 5 Stelle che da partito si è trasformato in trampolino di lancio per l’ultradestra e si è fatto ingoiare da Salvini (e infatti ora Di Maio imita il nuovo Pertini de’ noialtri) e allora mi sono detto andiamo a vederli questi numeri, no? I numeri hanno qualcosa di bellissimo: sono lì, monumentali, non scalfibili, non interpretabili, non condizionabili. Evviva i numeri.

Le accise dunque. Ci sono ancora. Tutte. Dal Belice al Vajont. Tutte, anche quelle della guerra in Abissinia e pesano circa il 40% del totale. Ecco tutto. Anzi, nel nuovo Def c’è un aumento delle accise per 130 milioni all’anno nel triennio 2020-2022. Forte, vero?

Imu e Tasi valgono 21 miliardi di gettito per la casse comunali. Sapete cosa ha proposto Salvini? Di accorparle? Ovvero? Ovvero non cambia niente. Cambierà forse il nome. Ma i numeri (ah, maledetti numeri) rimangono sempre gli stessi. Evviva.

Secondo un’inchiesta de Il Sole 24 Ore l’Imu è aumentata quasi in una città su dieci (9,4%) mentre l’addizionale Irpef è stata ritoccata nel 7,3% dei casi. Ah, il taglio delle tasse.

Il taglio delle tasse è un altro must imperdibile: da dieci mesi Di Maio e Salvini ci dicono che taglieranno le tasse e saremo tutti felici. Dopo l’abolizione della povertà arriverà la felicità di cittadinanza , dicono loro. Solo che sul Def che hanno licenziato sfortuna vuole che compaiano i numeri, appunto, e i numeri dicono che quest’anno la pressione fiscale salirà al 42,4 del Pil mentre l’anno scorso era al 42%. Strano, vero?

È che anche in politica, come nella vita, tocca fare i conti con la realtà: ho un amico che al bar offre da bere a tutti per risultare brillante e poi tira la cinghia fino al mese successivo. Noi lo sappiamo, lo trattiamo con distratta simpatia. Solo che, ci pensavo oggi, noi non lo eleggeremo mai, uno così.

Buon giovedì.

Giustizia sociale, ambientalismo e accordo con la Linke: così il Pcf punta le europee

L’8 maggio sarà l’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa e saremo ormai a due settimane dal voto europeo. In vista di queste due date importanti il segretario nazionale del Pcf e il copresidente della Linke firmano un documento congiunto che bene esprime l’essere entrambi i partiti aderenti alla Sinistra Europea e al Gue e ad una cultura alternativa a quella dominante.

Le differenze con le azioni congiunte dei loro rispettivi capi di governo, Macron e Merkel, sono fortissime a partire dalla rinuncia ad ogni logica di accordo tra potenze nazionali per una scelta a favore degli interessi dei popoli e popolari.

Nel testo si denuncia la volontà di potenza militarista di Macron così come l’esportativismo tedesco. Laddove questi due punti sono alla base anche del recente rilancio del duopolio franco-tedesco sottoscritto ad Aquisgrana in cui la convergenza “europeista” in realtà si basa sulle priorità delle politiche di forza e sul mantenimento dello status quo nell’egemonismo economico.

In realtà le due “potenze” assecondano la vera potenza che è quella del capitalismo finanziario globalizzato e delle banche. Al contrario in particolare il Pcf sta marcando molto la propria campagna contro gli arricchimenti che determinano impoverimento e quindi contro i grandi capitali e per una politica di forte redistribuzione sociale.

Si tratta del punto più significativo delle mobilitazioni francesi che non sono solo quelle dei gilet gialli ma del movimento sindacale. Eguaglianza e democrazia sono i temi che attraversano la società francese. Se ne è accorto anche Macron che aveva lanciato in mezzo alle mobilitazioni dei gilet gialli il cosiddetto grande dibattito e cioè una consultazione di massa della società francese. Proprio martedì il governo di Parigi ha dato conto della chiusura di questo ascolto che ha riguardato qualche milione di persone che chiedono appunto giustizia sociale e potere di decisione. Pressoché nulle le risposte di Macron che ha usato il gran dibattito per provare ad uscire dall’angolo e recuperare punti elettorali.

Il testo congiunto di Pcf e Linke indica invece una presa in carico di questa aspettativa e la volontà di collocarla sul terreno europeo. Per il Pcf la campagna non è certo facile vista la divisione con Melenchon e la frammentazione a sinistra. Ma prova ad affrontarla poggiando sulla propria collocazione europea, su una forte attivazione per la giustizia sociale e contro le ricchezze e su un nuovo profilo ambientalista raccolto anche nel nuovo simbolo.

PER APPROFONDIRE