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Immigrazione, salute e fake news, facciamo chiarezza

Le migrazioni sono un elemento che ha caratterizzato la storia umana: la ricerca di migliori condizioni è connaturata nell’uomo e l’immigrazione, considerata un fenomeno “naturale” e spesso gradito per risolvere problemi legati allo sviluppo industriale, agricolo e di denatalità, è oggi divenuto oggetto di paure, disinformazione e di false credenze.

In occasione del convegno “Migranti e salute: tra prevenzione, cura e fake news”, che si è svolto a Palermo, si è voluto fare luce sui dati reali talvolta ben diversi dalla rappresentazione narrativa usuale costituita da una serie di luoghi comuni per cui anche gli aspetti sanitari relativi ai migranti sono considerati aspetti “politico-socio-sanitari”. Spiega Piernicola Garofalo, responsabile scientifico del convegno, Unità operativa di Endocrinologia dell’azienda Ospedali riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo: «Come medici il nostro operato non può muoversi da questioni politiche e suggeriamo di valutare il fenomeno migratorio partendo dai dati genuini che sono scaturiti a partire dal contributo di tanti operatori sanitari che quotidianamente si impegnano su tutto il territorio italiano». L’obiettivo è quindi esclusivamente etico e deontologico, prosegue Garofalo: «Fare buona informazione e far conoscere, anche nell’interesse di tutti, quali sono i bisogni e le opportunità di salute -tra prevenzione e cura- migliorando l’accesso alla fruizione del SSN, rimuovendo le barriere anche linguistiche che ancora esistono e che peraltro mettono in difficoltà anche gli italiani fragili. Ricordiamoci che la salute di una intera comunità non può prescindere dalla buona salute di ciascuno dei suoi membri».

Il convegno, promosso da Ame, Associazione medici endocrinologi, ha visto la partecipazione di gran parte delle istituzioni che studiano il fenomeno migratorio potendo quindi contare su dati, informazioni e un’esperienza approfondita sul tema. Dal contributo di tutti è nato un decalogo che cerca di dare qualche risposta e contrastare le fake news sui migranti.

Eccole in sintesi:

  1. Gli immigrati residenti in Italia sono notevolmente aumentati nel corso degli ultimi cinque anni. No l’incremento è solo dello 0,3%.
  2. Gli immigrati vengono principalmente dall’Africa. No, solo il 20%.
  3. Gli immigrati sono nella maggior parte musulmani. No, sono prevalentemente cristiani (52%), solo il 32% musulmani.
  4. Gli immigrati portano nuove malattie. No nessun dato statistico depone in tal senso. Di solito gli immigrati sono “sani”. L’immigrato è un progetto di vita e, per tale motivo, le persone che decidono di emigrare sono persone sane, sulle quali sono caricate aspettative di riscatto per sè stesso e per la famiglia che resta nel paese d’origine.
  5. Gli immigrati portano TBC, HIV, Epatiti. No, i tassi di incidenza sono stabili o in riduzione sia nella popolazione italiana che fra gli immigrati.
  6. Gli immigrati si ammalano di più. No, almeno non per cause pregresse ma solo durante il soggiorno in Italia, per mancato accesso alle cure.
  7. Gli immigrati sottraggono risorse economiche al nostro Paese. No, il saldo globale secondo i dati ISTAT è positivo per l’Italia. Il tema è piuttosto complesso, tuttavia, il fatto che mediamente essi siano concentrati nella fascia di popolazione in età lavorativa, unito al progressivo invecchiamento della popolazione italiana, fa sì che l’immigrazione provochi un aumento della forza lavoro, fondamentale risorsa produttiva per qualsiasi paese. Per la stessa ragione, l’apporto degli immigrati alle finanze pubbliche italiane, in termini di imposte e contributi sociali versati, eccede quello dei benefici da essi ricevuti, soprattutto perché molte delle spese relative alla salute in Italia sono strettamente legate all’età. Ne consegue che l’immigrazione offre un contributo netto positivo anche al nostro sistema di welfare, come recentemente ribadito nella relazione annuale del Presidente dell’Inps ed in numerosi studi e rapporti sul tema.
  8. Gli immigrati maschi si recano in Pronto soccorso per malattie infettive o sessualmente trasmesse. No la prima causa sono i traumatismi sul luogo di lavoro. Gli immigrati spesso trovano lavoro in situazioni non regolari, di lavoro nero dove le più basilari norme di prevenzione degli infortuni non sono attuate.
  9. Gli immigrati irregolari sono quelli che arrivano con i barconi. No il maggior numero è costituito da immigrati che perdono il diritto di soggiorno (75%). Spesso l’immigrato irregolare è una persona che ha perso il lavoro e di conseguenza perdono il diritto di vivere in Italia. La crisi economica non crea solo disoccupati, ma anche immigrati irregolari, Alla radice di tutto c’è l’impianto della legge sull’immigrazione, che lega indissolubilmente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Ora che il tasso di disoccupazione tra gli stranieri ha raggiunto il 17%, questa regola si è trasformata in una mattanza. Basti pensare che tra il 2014 e il 2015 ben 300 mila permessi di soggiorno non sono stati rinnovati: si stima che 100 mila immigrati se ne siano andati, ma altri 200 mila sono rimasti qui, senza un documento, obbligati a vivere e a lavorare in nero.
  10. La maggior parte degli immigrati residenti in Europa vive in Italia. No soltanto il 10%.

Gue/Ngl, la sinistra che c’è. In Europa

«For the many, for the 99%….another Europe is possible». Questo video, che riprendo, del Gue/Ngl, il gruppo della sinistra unitaria, sinistra verde nordica, non solo è bello ma dà bene il senso di cosa è il Gue.

Un gruppo, attualmente di 52 eletti, diviso tra 27 donne e 25 uomini, per 18 partiti di 14 Paesi in rappresentanza delle forze che in questi 25 anni si sono battute perché le cose in Europa andassero diversamente. Il gruppo nasce nel 1995 dalla confluenza tra le storiche appartenenze comuniste e di sinistra che rimanevano, e si rifondavano, dopo lo tsunami dell’89 e nuove formazioni che mano mano andavano provando a colmare il vuoto lasciato dalla nuova collocazione assunta dai socialisti europei che da Maastricht al Fiscal compact si facevano, insieme a popolari e liberali, costruttori dell’Europa del liberismo e dell’austerity che smantellava l’Europa sociale.

Da quel lontano 1995 ad oggi il Gue/Ngl è cresciuto nella vita parlamentare ma è stato anche sempre protagonista di battaglie sociali appoggiando sistematicamente i movimenti.

Il Gue/Ngl va in piazza, partecipa ai social forum ed ai forum per l’alternativa. Esprime una sensibilità ed articolata che spazia su tutti i temi su cui insistono i movimenti. Dal lavoro, al clima, ai diritti, alla pace il Gue c’è. Lo si vede anche in questo bel video che lo mostra con le sue immagini.

La mafia c’è, eccome

Un carabiniere in servizio presso la stazione di Cagnano Varano, in provincia di Foggia, e' rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco avvenuto nella piazza principale del paese, 13 aprile 2019. La vittima è un maresciallo di 45 anni. I carabinieri hanno bloccato e portato in caserma un uomo che sarebbe fortemente indiziato dell'uccisione e che si trova sotto interrogatorio. ANSA/FRANCO CAUTILLO

Mentre ci arzigogoliamo su presunte emergenze quasi sempre più percepite che reali (e lo dicono i numeri) avviene che nel giro di pochi giorni l’Italia sia attraversata da tre cruenti esecuzioni che ci ricordano il problema invisibile, quello di cui non fa mai troppo bene parlarne, quello che a parole vorrebbero sconfiggere tutti e invece cambiano i governi e loro stanno sempre lì: le mafie. Le mafie che ci sono, sono in ottima salute, mentre si discute di confini e di flat tax progressiva (che è un po’ come mia nonna che è anche mia nipote) e soprattutto si fanno sentire.

A Napoli un raid criminale uccide Luigi Mignano appena accompagna il nipotino a scuola. Scena da far west. Faida di camorra dicono i ben informati.

A Milano “Enzino” Anghinelli, nel pieno dei festeggiamenti del Fuori Salone e dei turisti tutto intorno, fermo a un semaforo, si ritrova la testa spappolata da un killer che lo avvicina mentre era fermo a un semaforo. Dicono sia roba di droga. E dove c’è droga c’è criminalità organizzata.

Poi c’è Foggia dove il maresciallo dei carabinieri Vincenzo Di Gennaro viene crivellato di colpi, il suo collega rimane ferito.

La mafia c’è. Eccome. E spara. Eccome. Ed è uno dei peggiori problemi di questa nostra malmessa democrazia che di mafia (chissà perché) non si appassiona mai. Eppure non se ne sente parlare (se non superficialmente e solo per dare prova di durezza parolaia di qualche ministro) eppure non ci sono progetti in essere, di mafie si parla quasi come se fosse un disturbo.

La mafia c’è. Eccome. Ed è una questione di sicurezza nazionale. Ma di quella tra noi, non di quella sventolata.

Buon lunedì.

La rivoluzione silenziosa e il Minotauro cieco

Brenton Tarrant è il suprematista bianco che il 15 marzo 2019 ha attaccato due moschee a Christchurch in Nuova Zelanda uccidendo 50 persone e ferendone altre 39 mentre riprendeva il tutto con una GoPro fissata sulla sua testa. «L’origine del mio linguaggio è europea, la mia cultura è europea, le mie convinzioni politiche sono europee, la mia identità è europea e, la cosa più importante, il mio sangue è europeo» ha scritto Tarrant, che in realtà è cittadino australiano, in un manifesto di 74 pagine che ha postato online prima dell’attacco.

Il testo dal titolo The great replacement redatto in uno stile che si ispira al mass-murderer norvegese Breivik, è di grande interesse sia dal punto di vista psichiatrico che politico-culturale e sociologico. L’autore rispondendo ad una serie di domande che lui stesso si pone, si definisce, con uno strano e ossimorico neologismo, un eco-fascista con simpatie per la repubblica popolare cinese (?!): nello stesso tempo egli ritiene sir Oswald Mosley la persona nella storia che ha espresso opinioni politiche più simili alle sue.

Mosley, ricordiamolo è stato il fondatore nel 1932 dell’Unione britannica dei fascisti, formazione politica di estrema destra, vicina al Partito nazionale fascista di Benito Mussolini, che ebbe una certa popolarità tra gli ambienti conservatori per la sua adesione all’anticomunismo e al protezionismo. Il 4 ottobre del 1936 i fascisti in camicia nera guidati dal baronetto marciarono sull’East End di Londra nel tentativo di intimidire e ridurre al silenzio le organizzazioni sindacali e i gruppi ebraici che soggiornavano in quei quartieri.

Quella che voleva essere un’imitazione della marcia su Roma passata alla storia come la battaglia di Cable street si risolse in un clamoroso disastro che spezzò la schiena al fascismo britannico per la violenta reazione popolare che suscitò. Dichiarandosi fascista, idealmente vicino a Mosley, Tarrant si identifica con un perdente che vantando amicizie come quella di Joseph Goebbels e Adolph Hitler, andò comunque incontro a una serie ininterrotta di sconfitte politiche conoscendo anche il disonore del carcere.

Nel suo delirante manifesto l’australiano pluriomicida, sostenitore di Donald Trump e della Brexit, è ossessionato dal problema della differenza dei livelli di natalità. L’invasione di musulmani che secondo il suprematista si realizzerebbe in Europa e in particolar modo in Francia, sarebbe la conseguenza di un tasso di crescita demografica particolarmente alto dovuto ad una caratteristica genetica e razziale che costituirebbe una superiorità rispetto alle popolazioni autoctone condannate invece alla denatalità.

L’incitamento alle azioni omicide e razziali come quella di Christchurch in Nuova Zelanda, vorrebbe alimentare una spirale d’odio e impedire il processo di sostituzione etnica a danno nell’Occidente: si vuole erigere una barriera, un muro fatto di paura e di violenza, di vendetta e risentimento che impedisca la convivenza pacifica e il multiculturalismo che favorisce l’aumento dei cittadini di fede islamica.

È chiaro il carattere delirante delle idee di Tarrant che si accompagnano ad un agire criminale schizofrenico come quello di Breivik. Però ciò che colpisce è l’analogia fra gli slogan contro l’immigrazione cui ci hanno abituato gli esponenti della destra nostrana ossessionati dalle culle piene di neonati stranieri ma non italiani e le farneticazioni del suprematista australiano. In entrambi i casi ci sono le reazioni paradossali, assurde che suscitano i fenomeni migratori con i loro rapido mutare dietro cui traspare una popolazione di centinaia di milioni di persone in tutto il globo: noi ci sentiamo nell’occhio del ciclone di quello che è stato definito come un vero e proprio continente migratorio in continuo e imprevedibile movimento.

Quest’ultimo con la sua esistenza proteiforme suscita uno stato d’animo di impotenza, di smarrimento per l’incapacità di comprendere la complessità di fenomeni e cambiamenti che agiscono su scala mondiale: siamo di fronte alla prospettiva di un tramonto dell’Occidente, di una mutazione radicale, di una trasformazione possibile per l’emergere delle forme di una inedita soggettività politica e culturale .

«Ora [i migranti] vengono dal mare – scrisse Massimo Fagioli nel 2009 – e costringono a una nuova cultura di esseri umani uguali. Una massa di forza lavoro che libera le donne da una procreazione forzata». Migranti e donne, tradizionalmente violentati, uccisi e sottomessi, diventano i potenziali protagonisti di un processo storico di lotta per l’emancipazione e la liberazione.

Ma qual è la reazione all’intuizione di una nascita, all’emergere di un’immagine nuova dall’incontro e dalla dialettica tra popoli, mentalità e storie diverse? L’Italia e la vecchia Europa si arroccano dentro confini che diventano demarcazioni fortificate e invalicabili, dietro strisce di mare che con i porti chiusi vengono usati come fossati di castelli medievali dove naufragano sempre più numerose le vittime di un nuovo olocausto.

Mura di silenzio circondano i centri di detenzione, come quelli libici dove si pratica la tortura alimentata da respingimenti cinici e insensati, dove i diritti umani vengono brutalmente calpestati davanti a occhi chiusi di persone cosiddette civili che, nell’Europa delle economie pensano di non poter trarre alcun guadagno dal vedere. Linee spezzate di recinzioni si moltiplicano per centinaia di km dal Nord al Sud, da Est ad Ovest dei territori degli stati europei presi dalla frenesia e dal falso mito del sovranismo e disegnano una figura caotica e intricata: nell’insieme del panorama geopolitico riappare in controluce l’immagine vetusta e frammentata del labirinto di Cnosso, dell’ibrido uomo-animale come il Minotauro che richiede ai giovani migranti un tributo di sangue. Il Minotauro è cieco e anaffettivo come nella celebre litografia del 1934 di Pablo Picasso dove è condotto per mano da una bambina.

I cittadini europei, gli italiani afflitti dalla denatalità, dall’impotentia generandi dietro cui traspare una drammatica incapacità di rinnovamento si rinchiudono da soli in recinti senza via di uscita, prigioni ideologiche dove si inneggia al passato con il saluto romano di CasaPound, si plaude al ritorno improbabile della famiglia tradizionale e patriarcale e alla negazione della donna che si vuole relegare ancora nel focolare domestico a fare ed accudire i figli.

È una strategia suicida che avvelena, senza che ce ne rendiamo conto, l’euforia delle vittorie elettorali della Lega e della destra in assenza di un’opposizione condannata dalle scelte neoliberiste all’inconcludenza e alla frammentazione. I dati dell’Istat ammoniscono: sempre meno residenti in Italia e sempre meno nascite. Nel 2018 ci sono state 449mila nascite, ossia 9mila in meno del precedente minimo storico registrato nel 2017. Tra i fattori collegati alla denatalità ha un rilievo particolare – si legge nel report dell’Istat sugli indicatori demografici – la riduzione delle nascite da madre italiana, 358mila nel 2018 e 8mila in meno dell’anno precedente.

I nati da cittadine straniere sono stimati in 91mila, pari al 20,3% del totale e circa un migliaio in meno del 2017: senza di loro la situazione sarebbe ancor più drammatica. Il nuovo corso della politica in Italia con i legastellati al governo dal 2018, non solo coincide con la paralisi della produttività e della crescita economica ma vede aggravarsi il problema, ritenuto assolutamente prioritario dai leader della Lega, dell’invecchiamento e del mancato ricambio generazionale: segno che le politiche a sostegno delle nascite e quindi delle donne al di là degli slogan e dei tweet sono pura demagogia e strategia elettorale.

In un contesto del genere l’aver cercato di demolire, a quanto pare senza successo dopo il pronunciamento della Cassazione, un’esperienza positiva e un modello riuscito di integrazione riconosciuto in tutto il mondo come quella di Mimmo Lucano a Riace, è stato dissennato e “criminale” e denota un’incomprensione totale di quelle che saranno le tendenze future dei fenomeni migratori nel Mediterraneo.

Ne 2050 la Nigeria avrà una popolazione di 500 milioni di persone, pari se non superiore a quella europea in continuo declino. Alla fine di questo secolo l’Africa raggiungerà nel suo complesso 5 miliardi di abitanti. Dati anche i mutamenti climatici, i processi di desertificazione e la dislocazione delle risorse idriche, l’ineguale distribuzione della ricchezza e dello sviluppo economico fra Africa e Europa, davvero pensiamo di poter bloccare i flussi migratori con il falso ottimismo della volontà di politici che racimolano il consenso di un elettorato che sembra sempre più un gregge impaurito?

Le misure poliziesche di uno Stato autoritario e violento contro i deboli, che non tutela e non protegge le donne che continuano a essere vittime di “femminicidio”, non bloccheranno di certo un mutamento che si sta delineando nel corso della nostra storia. Il nostro futuro dipenderà da come e quando riusciremo ad affrontare la questione migratoria su scala globale, potenziando con adeguati investimenti economici i processi di integrazione, riconoscendo il valore del potenziale umano costituito dagli stranieri che giungono in Italia e in Europa. Essi costituiscono «una massa di forza lavoro» che ci costringerà a creare una nuova cultura, a realizzare, se vogliamo sopravvivere, una gigantesca rivoluzione non violenta.

L’articolo di Domenico Fargnoli è stato pubblicato su Left del 12 aprile 2019


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Mario Dondero, la storia dentro le immagini

Chi come me ha avuto la fortuna e il privilegio di lavorare con Mario Dondero, conosce la sua onnivora curiosità per le vite degli altri, che potevano essere quelle dello scontroso e fotofobico Samuel Beckett, del suo amico Pier Paolo Pasolini, che ritrasse più volte, oppure di un viaggiatore qualunque, conosciuto casualmente per le strade del mondo. Era un uomo gentile, empatico all’ennesima potenza, fotograficamente accerchiante, al quale era impossibile resistere per l’onda di affettuosa umanità che portava nei luoghi dove andava e nelle persone che incontrava, sempre pieno di colpi di scena, apparizioni e sparizioni improvvise. «Da giovane era un folletto», mi confessò una volta Giovina Jannello, la moglie di Paolo Volponi, descrivendo quello che anche per lei è stato una vera e propria leggenda della fotografia italiana, viaggiatore infaticabile, indomabile narratore dei grandi fatti della storia, declinati con lo sguardo umanistico di un classico capace di andare sempre oltre la soglia della cronaca, della testimonianza. Se chiudo gli occhi, vedo a memoria le sue fotografie, quella indimenticabile, rubata al processo Panagulis del 1967, le rivolte del maggio francese in pieno ’68, i blocchi della polizia, gli studenti in rivolta, Marcuse che parla all’università di Nanterre, Monod in quella di Parigi, il tour con il Manchester United di George Best, lo sciopero alla Renault, quelle scattate due giorni prima della caduta del muro di Berlino, poi gli artisti, attori, i tanti scrittori ritratti, che lui chiamava “coscienze critiche”, Gunter Grass, Jean Paul Sartre, Primo Levi, quella famosa del Nouveau roman, il volto severo e pensoso di Jean Genet, se chiudo gli occhi le vedo quelle fotografie, e mi commuovo. Gli scenari, il campo, la stagione, avevano sempre e prima di tutto per lui un valore e un interesse politico, Mario doveva esserci quando la storia accelerava, i fatti producevano conflitti, tragedie, liberazioni collettive, e c’era sempre, c’era con i diffusori de l’Unità nelle campagne emiliane, ancora negli anni Sessanta, sul set de La ricotta, di Comizio d’amore di Pasolini, a casa di Eugene Jonesco, dove per fare una sorpresa al maestro aveva portato con sé tutti gli attori de La cantatrice calva, in Africa, negli Emirati arabi, mentre la rivoluzione dei garofani abbatteva il regime di Salazar in Portogallo, su navi, treni, aeroplani, automobili di fortuna, negli ultimi anni nella Russia postcomunista come Ryszard Kapuściński, a fianco di Emergency nei teatri di guerra.
Arrivare stamattina ad Altidona, un paese di collina sopra il mare Adriatico a un tiro di schioppo da Fermo, dove ci siamo frequentati per anni, muove ricordi e stana insidiose nostalgie. Ora le sue “bobine” – i suoi “nastri”, come Beckett chiamava i frammenti di memoria del suo Krapp – sono conservate qui…

L’articolo di Angelo Ferracuti prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Invenzione e scoperta, le gambe della scienza

Getty 77320977 Prof Peter Higgs Opens Collider Exhibition At The Science Museum LONDON, ENGLAND - NOVEMBER 12: A visitor takes a phone photograph of a large back lit image of the Large Hadron Collider (LHC) at the Science Museum's 'Collider' exhibition on November 12, 2013 in London, England. At the exhibition, which opens to the public on November 13, 2013 visitors will see a theatre, video and sound art installation and artefacts from the LHC, providing a behind-the-scenes look at the CERN particle physics laboratory in Geneva. It touches on the discovery of the Higgs boson, or God particle, the realisation of scientist Peter Higgs theory. (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

È l’invenzione intesa come «creazione e introduzione di un concetto, di un’idea o una tecnologia» il tema scelto per la 14esima edizione del National Geographic Festival delle Scienze che si svolge a Roma fino al 14 aprile. Lungo questo filo rosso, il festival si fa così anche occasione per celebrare tre importanti anniversari nella storia del genere umano: i 150 anni della tavola periodica, i 50 anni dal primo sbarco dell’uomo sulla luna e i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, forse il più grande inventore che la storia abbia mai conosciuto. Oltre ai diversi eventi a lui dedicati, l’intera struttura del festival sembra ispirarsi al genio creativo di Leonardo e alla sua interdisciplinarietà. Il programma si snoda infatti tra i vari campi della scienza, dall’astronomia alla biologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla matematica all’artificial intelligence, lasciando però ampio spazio anche alla letteratura, alla filosofia e all’arte, con spettacoli di musica, danza e teatro. Così, sullo sfondo del tema centrale “l’invenzione nella scienza”, si coglie l’invito ad una riflessione più ampia su quella che è una delle caratteristiche specie-specifiche più spiccate del genere umano. Se infatti l’invenzione è per la scienza il presupposto vitale per ogni sua evoluzione e sviluppo, essa permea tutte le attività umane, da quelle artistiche a quelle più direttamente legate alla sopravvivenza. Nella sua specificità, infatti, l’uomo non solo si diletta in attività creative, non-razionali e senza un fine utile immediato – dipingere nel buio delle caverne, costruire strumenti musicali, chiedersi di cosa sono fatte le stelle – ma trasforma anche i bisogni primari come il ripararsi dal freddo, l’abitare e il mangiare, in occasioni per realizzare le proprie esigenze di creatività e invenzione: dalla moda, all’architettura, alla cucina. Un tema davvero ambizioso e appassionante che in questa manifestazione viene investigato nel contesto della scienza da numerosi scienziati, filosofi, giornalisti, scrittori, artisti, tra cui anche due premi Nobel, un premio Pulitzer e la recente medaglia Fields italiana: il matematico Alessio Figalli. Un viaggio all’insegna dell’invenzione e allo stesso tempo un’opportunità per restituire alla scienza un’identità nuova, lontana dalla fuorviante associazione “scienza = fredda razionalità”.
A ben vedere le gambe su cui la scienza si muove, e si è sempre mossa fin dai suoi primi passi, sono due: la scoperta e l’invenzione. Due gambe che, come vedremo, hanno ben poco a che vedere con il cliché di scienza razionale, rigida e lucida. Nella scienza, scoperta e invenzione sono tra loro strettamente connesse, si alimentano l’un l’altra pur corrispondendo a due processi diversi: la scoperta è vedere qualcosa di sempre esistito, che non era mai stato visto prima, l’invenzione è creare qualcosa che prima non esisteva. La scoperta, quindi, di per sé…

L’articolo di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Luciano Canfora: Cosmopoliti di tutto il mondo unitevi

C’era nel pensiero degli anarchici («La mia patria è il mondo intero», scriveva Pietro Gori), ma c’era – in chiave ancor più rivoluzionaria perché collettiva – nel pensiero marxiano «proletari di tutto il mondo unitevi».
Provocatoriamente potremmo dire anche che il cosmopolitismo è sempre stato un tratto distintivo ed evolutivo di Homo sapiens. La nostra specie è da sempre naturalmente nomade. Non solo per bisogno. Ma anche per curiosità, per esigenza di conoscenza dell’altro e di ampliamento dei propri orizzonti, come ci insegnano gli antropologi. Ma in tempi di rigurgiti nazionalisti e sovranisti come quelli che stiamo vivendo, la parola cosmopolitismo ci appare sempre più necessaria, da riscoprire, nel suo senso più profondo. Anche per questo abbiamo chiesto al filologo e studioso del mondo antico Luciano Canfora che a questo tema ha dedicato la sua Lectio nell’ambito della sua rassegna genovese La storia in piazza, di aiutarci a ricostruirne l’origine e a comprenderne l’attualità.
Professor Canfora come leggere la parola cosmopolitismo in tempi di sovranisti al governo?
Intanto dobbiamo dire che il cosmopolitismo è l’esatto contrario del razzismo, poiché il razzismo si fonda (più o meno apertamente) sull’idea della supremazia di alcuni su altri, di un popolo, di un gruppo più o meno definibile rispetto a tutti gli altri. Le leggi razziali del 1938 si fondavano sulla premessa della difesa della razza da “inquinamenti”. La copertina di quel periodico ridicolo che si chiamava La difesa della razza raffigurava un italiano più o meno apollineo nei tratti, distinto, separato da un ebreo, ovviamente bruttissimo quanto nasuto, e da un nero, nerissimo. Questa era la “cultura”, il livello mentale dei vari Interlandi, Mussolini, Pende, e dei tanti cosiddetti intellettuali che si misero a scrivere sulla difesa della razza. E si badi bene questo razzismo ha radici remote.
Dove vanno rintracciate?

Il mondo più razzista in assoluto è quello anglosassone, dall’Inghilterra agli Stati Uniti. La stessa Germania hitleriana imitava le modalità anglosassoni che erano state micidiali, basta pensare allo sterminio degli aborigeni e indiani nel Nord America. Cosmopolitismo vuol dire rifiutare tutto questo e affermare l’unità di tutto il genere umano, l’esistenza di un solo genere umano e non di razze. Ogni individuo è cittadino del mondo. Ciò non vuol dire che sia nato lo Stato universale. Ma che si sente parte del genere umano che è su tutto il pianeta.

Quando nasce e quando si sviluppa il pensiero cosmopolitico?

Secondo me – ma non credo di essere isolato nel pensare questo – l’origine si trova nella sofistica, corrente importantissima nel V secolo a.C., e poi nelle scuole post aristoteliche che hanno tutte origine socratica, come gli stoici e gli epicurei. Gli stoici in particolare, avendo una visione geniale della divinità come immanente nella natura, ritengono che tutti gli esseri umani siano parte di questa divinità che sta dentro il mondo, dentro l’universo. Da lì discendono una serie di concetti: uno di questi è che la storia umana ha un senso, non è un procedere senza alcun costrutto. Un altro è che anche la provvidenza è immanente nella realtà. La storia di questo concetto è lunga, arriva ad espressioni nobilissime durante la rivoluzione francese (molto contrastate da una parte di essa) e poi nel Novecento, allorché il termine “cosmopolitismo” è stato addirittura adoperato in modo sprezzante per indicare i nemici della nazione, quindi gli ebrei, a tutte le latitudini, non solo nell’Italia fascista.

Riprendere oggi a coltivare il cosmopolitismo potrebbe essere un antidoto rispetto all’ideologia suprematista e isolazionista alla Trump? È antistorica la sua visione condivisa da Salvini che dice: «Prima gli italiani»?

Non direi antistorica. È pre culturale, al di sotto della media minima necessaria degli esseri pensanti, è una forma sub umana di pensiero (o meglio di non pensiero), che ha una sua forza soltanto nella campagna ferocissima di cacciata dei migranti, di disseminazione della paura, di additamento di un nemico che non è un nemico, esattamente come durante il nazionalsocialismo tedesco si additava l’ebreo come l’affamatore del popolo. È lo stesso meccanismo.

Il cosmopolitismo è un antidoto?

È ben più che un antidoto, noi abbiamo scelto questo tema qui a Genova, proponendolo alla cittadinanza e alle scuole, perché riteniamo che il mondo tutto corra pericolo, dall’America di Trump al nostro Paese.

Cosa dire a chi anche a sinistra prospetta un ritorno a un’idea di patria seppur legata alla Costituzione?

Di curarsi la mente e di studiare la storia.

Le elezioni del 26 maggio sono alle porte, auspichiamo un’Europa più inclusiva, solidale, laica, aperta, cosmopolita. Questa idea rischia di essere spazzata via dall’onda nera?

Non conosciamo i numeri prossimi venturi, conosciamo quelli visti fin qui. Purtroppo è difficile parlare di sinistra nel nostro continente. In Italia non esiste più: il Pd è un partito di centro dilaniato al proprio interno, non mi dilungo su questo perché fa un po’ senso… In Francia il Partito socialista è stato stritolato dal neo imperialista Macron. In Germania per fortuna c’è ancora un partito socialista, ma gode di pessima salute. L’Inghilterra per ora non fa più parte dell’Europa, così il Labour – l’unico partito di sinistra in forze – non si trova nel nostro continente dal punto di vista delle istituzioni federali. Poi c’è da dire che questa cosiddetta Europa unita è apparentemente tale, perché non è davvero una unione. È un luogo dove gli egoismi dei più forti sono tutelati e si difendono gagliardamente e i più deboli rischiano di fare la fine della Grecia che è stata massacrata nel 2015 nell’indifferenza di tutti e in particolare degli italiani che avrebbero dovuto accorrere in difesa di un Paese così affine al nostro dal punto di vista della situazione economica concreta. Ovviamente io sono contro questi cosiddetti sovranisti, ignorantissimi e nefasti, ma vedo dall’altra parte una confusione mentale spaventosa.

In un quadro europeo e mondiale dove le disuguaglianze economiche e sociali sono sempre più feroci c’è chi dice che il cosmopolitismo sia un privilegio di pochi.

Non so chi dica che il cosmopolitismo sia un concetto elitario. Il compagno Marx disse «gli operai non hanno patria», nel senso che gliela hanno tolta. «Proletari di tutto il mondo unitevi». Spero che queste parole tornino a risuonare.

Dunque il cosmopolitismo si può legare a un’idea di uguaglianza fra tutti gli esseri umani?

Si deve legare a un’idea di uguaglianza! Il fatto stesso di concepire la caduta delle barriere nazionali e delle barriere sociali significa lavorare per l’uguaglianza. Un pensatore molto originale come il sofista Antifonte in un testo che si è conservato solo in parte, dice: «Noi siamo più barbari dei barbari perché crediamo alla differenza fra i Greci e i Barbari, tra gli schiavi e liberi».

Quest’anno ricorre il trentennale della caduta di Berlino, ma ancora non abbiamo realizzato un mondo senza muri, anzi ne stiamo costruendo di nuovi…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Luciano Canfora prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Balibar: L’Europa va rifondata aprendo i confini

Agora Europe ha appena ultimato il manifesto Per un’Europa politica, incentrato su quello che definiamo lo spazio politico europeo, fondato sul principio della libertà di movimento e definito da confini porosi. Abbiamo sostenuto che le crisi che l’Europa sta affrontando (la cosiddetta crisi migratoria, la crisi economica, i cambiamenti climatici e così via), non solo mostrano il potere limitato delle istituzioni dell’Ue, ma mostrano anche che il sistema nazionale non offre soluzioni alle sfide attuali. Con Charta 2020, Agora Europe si è inoltre impegnata nella definizione di 20 beni pubblici europei. Riprendendo Machiavelli ed il “principio machiavelliano di una nuova fondazione”, Étienne Balibar ha invocato un «ritorno alle origini», che nel caso dell’Europa coinciderebbe con il Manifesto di Ventotene di Spinelli del 1941. Eppure, anche il presidente Macron ha parlato nel suo manifesto di un nuovo rinascimento europeo.
In che cosa il nuovo manifesto federalista di Agora Europe e il suo appello per una rifondazione machiavelliana del progetto europeo differiscono da quello di Macron? Quali sono i principi originari? Quale la nuova fondazione?
Le questioni da affrontare sono due: la “nuova fondazione” e il “federalismo”. È soprattutto per la sua prospettiva federalista audace ed esplicita, combinata con prospettive democratiche radicali, e una peculiare insistenza sulla dimensione sociale del progetto europeo, che ho voluto fare riferimento al Manifesto di Ventotene, un prodotto della lotta antifascista in Italia e oltre. Ciò che esiste in Europa oggi è un sistema di istituzioni pseudo-federali, che non concede ai cittadini europei una partecipazione comune alle deliberazioni e alle decisioni, che continua a preservare il potere di veto dei governi nazionali (e, di conseguenza, impedisce paradossalmente una seria riflessione sulle trasformazioni delle nazioni e della sovranità nella nuova era globale), e che respinge ogni idea di affrontare collettivamente le enormi disuguaglianze (finanziarie, sociali e territoriali) nell’Europa di oggi, e quindi è del tutto inappropriato a qualsiasi “nuova fondazione” in senso machiavelliano. Da questo punto di vista, l’idea centrale del manifesto di Agora Europe, quella dei beni pubblici europei, elaborata molto concretamente nelle sezioni specifiche del testo, è un’innovazione fondamentale nella discussione intellettuale transeuropea. È proprio ciò che è completamente assente dall’idea di Macron del “rinascimento”, che ha alcuni meriti (specialmente se non si guarda troppo da vicino il contrasto tra ciò che propone per l’Europa, e ciò che pratica in Francia), e quindi è brutalmente respinta sia da nazionalisti come Orbán o Salvini sia da rigidi “ordo-liberali” come il nuovo leader democratico-cristiano tedesco (che è in realtà anche lui un nazionalista), ma esclude la possibilità stessa di rompere con le istituzioni esistenti. Naturalmente non credo che sia facile, ma credo che diventerà l’unica alternativa alla dissoluzione se (e quando) la crisi attuale raggiungerà nuovi livelli.
L’Europa sta attualmente rimodellando la sua geografia immaginaria, attraverso un processo di esternalizzazione dei suoi confini, ratificato dagli accordi con la Libia e la Turchia. In che modo questo fenomeno differisce dal colonialismo?

“Il nuovo razzismo europeo. Tra nazionalismi e migrazioni”. Questo il tema che affronterà il filosofo Etienne Balibar, durante la conferenza che si terrà il 16 aprile alle ore 16.30 a Roma, al Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Roma Tre. Sempre il 16 aprile, alle ore 14.15, sarà presentata alla Sala stampa della Camera dei deputati Charta 2020 promossa da Agora Europe insieme ad altre dieci associazioni. Interverranno anche Etienne Balibar, Nadia Urbinati e Caterina Di Fazio, co-fondatori della rete europea. 

L’intervista di Caterina Di Fazio a Etienne Balibar prosegue su Left in edicola dal 12 aprile 2019


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Perché la patrimoniale è giusta ed equa

Patrimoniale è una parola che incute timore in un Paese come l’Italia, caratterizzato storicamente da una diffusa proprietà immobiliare e da una robusta propensione al risparmio. Da un lato le imposte sulla prima casa sono state sempre vissute come una vessazione, al punto da garantire forti dividendi elettorali a chi si facesse garante della loro abolizione. Dall’altro ricordiamo ancora con un brivido il prelievo forzoso imposto da Amato sui nostri conti correnti, alleggeriti in una notte per salvare il bilancio dello Stato. Tutto questo è assolutamente comprensibile e persino condivisibile.

I lavoratori italiani hanno investito nell’acquisto di un immobile parte significativa del proprio reddito, costretti peraltro a farlo da un mercato degli affitti penalizzante e dall’assenza di investimenti in edilizia residenziale pubblica di qualità. Allo stesso modo per molte famiglie i soldi lasciati sul conto corrente o investiti in titoli di Stato sono ciò che rimane dopo aver fatto studiare i figli e in attesa di doverli impegnare per garantire a se stessi e ai propri cari un’adeguata assistenza nella terza età. Il welfare studentesco è infatti carente come non mai, allo stesso modo di quello previsto per chi non sia più autosufficiente.

L’idea che lo Stato possa imporre ulteriori prelievi a chi ha già pagato fino all’ultimo centesimo tasse sul reddito e sui consumi, ricevendo spesso in cambio servizi carenti, è ovviamente impopolare. Deve quindi essere chiaro che noi parliamo d’altro. Oggi in Italia una serie di imposte sul patrimonio esistono. Lo sa bene chi possiede una vecchia utilitaria su cui paga il bollo, allo stesso modo di chi ha qualche risparmio, per non parlare di chi si trovi ad ereditare una modesta seconda casa, magari invendibile, subito gravata da un’Imu salatissima. Per non parlare degli artigiani, su cui la proprietà di un capannone rischia di pesare in modo insostenibile. È invece salva la prima casa di chiunque, fosse anche un attico di lusso nel centro di Milano, così come sono irrisori i prelievi sui grandi patrimoni finanziari e sulle rendite che ne derivino.

A queste disuguaglianze deve essere posto rimedio, in un Paese in cui il 5 per cento più ricco della popolazione ha un patrimonio pari al 90 per cento più povero, o in altre parole 10 persone “valgono” come 10 milioni. Quando noi diciamo “patrimoniale” intendiamo un’unica imposta progressiva sul complesso del patrimonio mobiliare o immobiliare, detenuto in Italia o all’estero, con una franchigia di un milione di euro. Significa che in tanti pagheranno meno di quanto paghino ora, e in pochi molto di più, con un saldo generale positivo per le casse dello Stato, ma soprattutto con un elemento decisivo di equità inserito nel sistema. Poi potremo discutere se le risorse aggiuntive debbano essere destinate al welfare, a maggiori investimenti o ad assunzioni nei settori chiave del pubblico impiego. Avremo tuttavia cominciato ad affermare il principio decisivo che mai come oggi il capitalismo determina l’accumulazione in poche mani delle risorse, e che quindi il compito della sinistra debba essere quello di intervenire per redistribuirle.

Chi si dichiara contrario dimostra solo di essere rimasto con la testa al secolo scorso, incapace di comprendere le gigantesche trasformazioni che la finanziarizzazione dell’economia ha determinato nel rapporto fra reddito e patrimonio, a tutto vantaggio del secondo. Rimane inoltre prigioniero della propaganda che impedisce di vedere quanto asimmetrica sia stata la crisi che ha colpito il nostro Paese, peggiorando drasticamente le condizioni di vita di tanti, ma a tutto vantaggio di un’esigua minoranza che ha lucrato sulla situazione. Mai come ora quindi una patrimoniale avrebbe un senso di riparazione e riequilibrio dei costi sociali degli ultimi anni.

La sinistra ha bisogno di obiettivi e di parole d’ordine: questa è la prima della lista.

Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

L’editoriale di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola dal 12 aprile 2019


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La lezione politica di Ada Colau

«Bisogna dare spazio alle migliaia di persone che stanno inventando, creando, proponendo e che sono speranza. In quanto sindaca, io mi chiedo, sempre, ogni giorno, non solo come gestire al meglio le risorse pubbliche, ma anche come dare potere a questa cittadinanza che ha tante buone idee e voglia di fare. Il mondo in cui viviamo è complesso, in questo periodo storico ci stiamo confrontando con l’ascesa dell’estrema destra e il ritorno del fascismo, però non ci possiamo deprimere, questo è vietato!». È una “lezione” di leggerezza politica quella di Ada Colau, l’alcaldesa di Barcellona. Che non significa banalizzare il discorso, come capita sempre più spesso ai politici di professione, ma approfondirlo, stimolando l’invenzione, per ridare alle parole e alla struttura democratica un nuovo senso e un significato al passo con i tempi. Leggerezza intesa nel senso calviniano del termine, autore che lei stessa cita. «Sono contenta perché abbiamo ridato prestigio ai municipi. Fino a qualche tempo fa la politica con la “P” maiuscola era prerogativa dello Stato. A noi sindaci toccava “solo” la normale amministrazione. Oggi invece vogliono diventare tutti “alcalde de Barcelona” – sorride – persino un ex primo ministro francese (Manuel Valls, sostenuto da Ciudadanos, ndr). Questo è ciò che conta, aver fatto capire a tutti quanto sia importante la politica delle città».
Anche di quelle piccole, come Riace, che per lei ha sempre rappresentato un modello a cui ispirarsi. A questo proposito, che significato attribuisce alle motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha smontato l’impianto accusatorio nei confronti del sindaco della cittadina calabrese?
Da una parte sono contenta, ma dall’altra continuo a rimanere stupita e indignata. È assurdo che Mimmo Lucano si sia trovato in una situazione del genere. Non poter vivere nel proprio paese, dove è stato eletto democraticamente, mi sembra veramente incredibile. Tutti noi che lo conosciamo, sappiamo che non è un criminale, anzi al contrario. Questa è una pratica che non deve essere normalizzata. Sto parlando della “giudizializzazione” della politica, usare i tribunali per fermare i cambiamenti e le innovazioni democratiche. Cosa che peraltro non sta succedendo solo al sindaco di Riace, ma anche in altre parti del mondo. La stiamo vivendo in Catalogna, ma è successo anche a Lula, in Brasile. C’è uno schema che si ripete in tanti Paesi. E visto che un colpo di Stato oggi sarebbe inaccettabile, per andare contro i governi democratici si fa leva sui poteri economici e giudiziari. E questo non può essere né accettato né tantomeno normalizzato. È necessaria una critica democratica forte.
In che modo, quindi, questa critica può essere declinata e rimodellata?
Secondo me…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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