Primo giorno per fare richiesta del reddito di cittadinanza presso l'ufficio postale centrale in via Alfieri, Torino, 6 marzo 2019.
ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
Il cattivismo può avere diverse forme. Ciò che lo accomuna è comunque prendersela con i disperati, strumentalizzare i loro bisogni e altezzosamente giudicare le loro mancanze come una colpa inestinguibile. Prima che arrivassero questi barbari la cosiddetta sinistra ha dato lezioni di cattivismo che chiamavamo piuttosto snobismo oppure più bonariamente distacco dalla realtà ma che aveva alcune caratteristiche peculiari di chi preferisce sprecare una battuta piuttosto che ascoltare un bisogno.
E così è accaduto, per gran parte del giorno, tutto ieri mentre i primi beneficiari del cosiddetto Reddito di cittadinanza hanno urlato tutta la loro delusione appena hanno scoperto che no, quello che avevano sentito dai loro leader politici in televisione è molto diverso dalla realtà e così gente che pensava di avere guadagnato grazie al proprio voto un quasi stipendio ha scoperto che in realtà la coperta è corta per tutti e diventa difficile inventare soldi lì dove non ce ne sono.
Se posso dare un piccolo consiglio, piccolo e personale, mi verrebbe da dire che non è un’idea geniale prendere per il culo la disperazione di chi sperava di avere trovato soluzione alla propria disperazione ma sarebbe anzi il momento opportuno per spiegare ai molti cittadini avvezzi agli slogan già che alla politica, che questo Paese ha bisogno di riforme strutturali piuttosto che elargizioni che rischiano di scontentare i creditori e gli stessi beneficiari. Sembrava facile dire “aboliremo la povertà” perché in effetti è facile davvero, anzi facilissimo, basta aprire la bocca e sperare che nessuno ficchi il naso dentro ai numeri (sarà per questo che non è un buon periodo per i giornalisti?).
Ma quelle persone che sono state tradite dalla propaganda sono elettori. Sono gli elettori che non hanno trovato mai una sinistra in grado di migliorare il proprio tenore di vita. Farsi beffe di loro è il gesto più stupido e antielettorale che si possa mettere in campo.
Roma come epicentro di un malessere diffuso. Periferie abbandonate, imbarbarimento delle relazioni, fanno da sfondo ad una cronaca ossessiva. L’abitazione popolare assegnata ad una famiglia di “stranieri”, l’apertura di un centro di accoglienza, diventano il pretesto delle organizzazioni xenofobe per fomentare la protesta indirizzando il malcontento verso l’ultimo arrivato. A queste proteste seguono, più come propaganda che come pratica continuativa, l’assistenza alle famiglie italiane povere. «Prima gli italiani» è il motto con cui si impongono distruggendo quel che resta della cultura solidale di sinistra rovinata dai cedimenti al neoliberismo. Roma è sotto l’occhio dei riflettori, ma qui come nel resto del Paese si incontrano nuove forme di resistenza. E partendo da Roma, da Torre Maura, quartiere assurto agli onori della cronaca, abbiamo incontrato le prime sorprese. Qui il disagio di vivere fra strade piene di buche, scarsità dei mezzi di trasporto e di luoghi di aggregazione ha creato rabbia e malessere a cui le diverse amministrazioni comunali e municipali, di centro sinistra, di destra e oggi pentastellate, non hanno offerto risposta. Le famiglie rom sono state cacciate, i fascisti hanno cantato vittoria ma la vita a Torre Maura non è migliorata. La risposta, al di là di quella del ragazzo quindicenne che, con proprietà di linguaggio formidabili (malgrado il fastidio snob espresso da una nota scrittrice), ha affrontato a viso aperto gli adulti di CasaPound, si è espressa in un grande corteo promosso dall’Anpi ma con pochi abitanti del quartiere. Pur prendendo le distanze da gesti e strumentalizzazioni fasciste, in molti sono rimasti a casa, mentre altri – pochi – hanno affrontato esponenti noti della politica nazionale con un: «Dove eravate prima?». In compenso c’erano molti abitanti di periferie simili, come Elisa Fraschetti al terzo anno del liceo artistico Enzo Rossi, esponente dell’Unione degli studenti. Vive e studia a Tiburtino III, e di lei colpisce la combinazione fra freschezza e maturità. «Stiamo lanciando un progetto sulle “periferie pulite” – racconta -. Una campagna per le scuole, in cui trascorriamo almeno sette ore al giorno, e da cui dobbiamo uscire per “fare”. La pensiamo come Greta ma non solo. Ci siamo riuniti domenica per definire giornate in cui riqualificare i quartieri che abitiamo. Dobbiamo conquistarci risonanza mediatica “facendo”, così si allontanano i razzisti di CasaPound. Lo slogan “prima gli italiani” è inaccettabile, ma lo ha fatto suo anche il ministro dell’Istruzione». Secondo Elisa il modello su cui deve basarsi la scuola è la Costituzione e deve incentrarsi su antifascismo e rispetto delle diversità. «Non è la presenza di “stranieri” che rovina le periferie – osserva – ma l’assenza delle istituzioni che difendono solo i grandi interessi. Ho fa..
A “causa” di questo editoriale, il #25Aprile, in occasione dell’anniversario della Liberazione, la direttrice di Left, Simona Maggiorelli, è stata invitata a Tg3 Linea notte – ecco il video dei suoi interventi (9 min)
I partigiani che hanno lottato per la democrazia e la libertà, lasciandoci una splendida Costituzione, avevano in sé un’idea di uguaglianza, avevano il senso del collettivo, passione politica e civile. Avevano valori, ideali, coraggio, che si scontravano con la logica disumana e criminale dei nazifascisti che annullando la realtà umana degli ebrei, dei rom e degli oppositori politici, li sterminavano come insetti, cercando poi di cancellarne anche la memoria. Rossi e neri non sono uguali. Da una parte, pur fra mille errori, c’era la lotta per la liberazione dall’oppressione, dall’altra c’era un agghiacciante progetto di morte e di distruzione. La storia è storia. Gli antifascisti hanno liberato l’Italia dal nazifascismo. Il fascismo è un crimine. È fuorilegge. Contro questa verità si infrange il negazionismo del ministro Salvini che ama citare Mussolini e, incurante del senso delle istituzioni, mette sullo stesso piano fascisti e partigiani e annuncia di voler disertare la festa nazionale del 25 aprile. Contro i cattivi maestri che vorrebbero iniettare veleno nella mente dei più giovani, contro le fake news che hanno contribuito a costruire il mito degli italiani brava gente, contro il revisionismo che propone letture normalizzanti e auto assolutorie del fascismo proponiamo di tornare alla grande lezione dello storico e partigiano Marc Bloch, suggeriamo di rileggere i libri di Del Boca e di Focardi (Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, 2013) ma anche di approfondire importanti pagine di storia locale antifascista guidati da Portelli, De Petra e Gori dell’Anpi. Con testimonianze dirette e documenti alla mano mostrano bene come il fascismo non sia stato affatto una parata carnevalesca, sgangherata e grottesca.
Il duce non fu una macchietta fanfarona. Il fascismo fu un regime totalitario e criminale, corporativo, razzista, imperialista, misogino, ottuso, violento, sanguinario, spietato. E tale fu Mussolini, al quale Hitler si ispirò. Primo Levi diceva sempre che il cancro dei lager nazisti era nato da metastasi italiane. E allora ripetiamolo ancora: il regime fascista si rese responsabile di un genocidio in Libia. Fu il primo ad usare armi chimiche contro la popolazione civile in Etiopia. E non solo. Concepì e promulgò le leggi razziali che causarono deportazioni di massa e milioni di morti nei forni crematori. Si macchiò di assassinii feroci come quello del deputato socialista Giacomo Matteotti il 10 giugno del 1924. «Mussolini fu il maggior massacratore degli italiani della storia» scrive Francesco Filippi nella prefazione del suo incisivo Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (Bollati Boringhieri, 2019), libro che torniamo a consigliare, convinti che dovrebbe stare in tutte le scuole (e redazioni). «La base di un possibile futuro totalitario passa anche dalla riabilitazione del passato totalitario», avverte lo storico e presidente dell’associazione Deina che organizza viaggi di memoria e corsi di formazione. Un passaggio pericoloso in questo senso avvenne nel 1994 quando i neofascisti, con Fini, si presentarono alle elezioni come Msi-An, alleandosi con Forza Italia di Berlusconi e con la Lega Nord. Ma allo sdoganamento del neofascismo hanno concorso anche la tv invitando esponenti di Forza Nuova e CasaPound a parlare nei talk show, e scelte politiche come quella compiuta dal Pd che ha cancellato l’antifascismo dal proprio statuto.
Anche di questo abbiamo parlato al Parlamento europeo durante una tavola rotonda con le europarlamentari Eleonora Forenza e Ana Miranda che, con Soraya Post, hanno promosso una risoluzione Ue per lo scioglimento e la messa al bando di tutte le formazioni neofasciste. Dopo quell’importante voto il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha avuto l’ardire di affermare che «Mussolini ha fatto anche cose buone». Suscitando grande scandalo, tanto da essere costretto a ritrattare. E noi, con Francesco Filippi, torniamo a ripeterlo come un mantra: nemmeno i treni erano puntuali sotto il fascismo (tra le due guerre l’Italia aveva una rete ferroviaria del tutto inadeguata e arretrata). Contro le falsità che ancora girano in rete ricordiamo che il duce non ha creato le pensioni (la previdenza sociale nacque nel 1898 con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Mentre la pensione sociale viene introdotta solo nel 1969). Né tanto meno ha istituito la cassa integrazione, che fu varata nell’agosto 1947. Mussolini non inventò l’indennità di malattia (fu istituita il 13 maggio 1947 e nel ’68 fu estesa a tutti i lavoratori). E ancora: Mussolini non concesse il voto alle donne, che erano ammesse alle votazioni solo per piccoli referendum locali mentre erano del tutto escluse al voto per le elezioni politiche. La prima volta che le donne furono ammesse al voto fu al referendum del 1946. Contro le bufale che producono una pericolosa falsa memoria, contro i danni della memoria corta torniamo a studiare la storia. Come diceva la partigiana Tina Costa: Studiate per la libertà.
Un vero e proprio Manifesto per il clima è quello predisposto dal Gue/Ngl e di cui qui riportiamo l’immagine della copertina. Il carattere di sinistra rossoverde del gruppo viene fuori con chiarezza da questo testo che peraltro corrisponde ad un impegno permanente del gruppo stesso.
Il Manifesto dell’emergenza climatica parte dalla affermazione che non può essere il capitalismo verde ad affrontare e risolvere il problema climatico.
Quello che serve è la promozione di una «giustizia climatica» per la quale si chiede di costruire una vera e propria base giuridica che riconosca le responsabilità economiche e sociali, storiche e presenti, nella alterazione della biosfera. Precisamente il punto su cui si stenta a trovare la giusta strada per affrontare il dopo protocollo di Kyoto.
E poi il Manifesto propone punti di grande impatto politico e programmatico.
Il riconoscimento degli elementi naturali come beni comuni.
La fine dell’uso dei fossili.
La fine della austerity per avviare invece una stagione di investimenti verdi.
La responsabilità dei poteri e delle istituzioni pubbliche.
Dice Salvini che non aumenterà. L’IVA. Punto. Aggiunge tanto per essere più convincente. Come quando parlava delle accise sulla benzina (che sono aumentate di 130 milioni di euro all’anno per tre anni dal 2020 al 2022) o come quando ci dice che i porti sono chiusi e mannaggia a loro che attraccano lo stesso senza avergli fatto prima una telefonata.
Come quando diceva che non si sarebbe mai tirato indietro al processo e invece si è fatto salvare dal Parlamento frignando come un cagnolino a cui è stato dato il suo osso, tutto scodinzolante di felicità.
Così. Ora ci dice che l’IVA non aumenterà perché si è preso l’impegno, quello che è riuscito a silenziare una sentenza sulla sparizione di 58 milioni di euro come se fosse stato un raffreddore di passaggio.
Peccato per lui, ma soprattutto per noi, che nel DEF (documento, ricordiamolo, licenziato dal governo, mica scritto con le macchie di uovo da mia nonna Peppina) che dice chiaramente: «D’altra parte nel 2020-2021 l’effetto positivo dei due provvedimenti (Quota 100 e Reddito di Cittadinanza nda) viene in parte ridimensionato dagli effetti dell’attivazione degli aumenti dell’IVA così come previsti nella Legge di Bilancio 2019. Nonostante non venga ipotizzata una traslazione completa sui prezzi, l’aumento dei prezzi al consumo inciderebbe sul reddito disponibile reale con ricadute sulla propensione al consumo: il tasso di risparmio si ridurrebbe lievemente, attestandosi poco sopra l’8 per cento a fine periodo».
Stupisce lo stupore deli sovranisti alle parole di Tria che non ha fatto che dire ciò che sta già scritto. Ma questi ancora non hanno capito che la politica non si fa con le parole ma sta sugli atti di governo, non gli sono bastati nemmeno tutti questi mesi al governo. Volevano abolire la povertà e ci sarà l’aumento IVA, volevano velocizzare i cantieri e invece è tutto fermo ma di migranti e di rom siamo pieni quindi il problema non si pone. C’è ancora fieno da mettere in cascina per arrivare alle Europee. Poi si vedrà.
Centro Sperimentale di Cinematografia (MICHELANGELO ANTONIONI)
Durante il volo aereo egli impose delle condizioni: limitarsi esclusivamente ad alcuni schizzi preliminari a mano libera per il progetto, che andava sviluppato in modo compiuto solo dopo aver speso un po’ di tempo sul sito destinato ad accoglierlo; accettare inizialmente solo un rimborso spese, con la promessa di essere pagato da alcune personalità importanti al termine del lavoro; segretezza assoluta su tutti gli aspetti, in particolare divieto totale di fotografie o riprese durante e dopo il cantiere, sia per questioni di privacy, sia perché egli voleva riservarsi la possibilità di girarne un film o qualcosa di simile. Il tecnico accettò. Una volta arrivati sul sito, disse di fare attenzione all’ambiente. Di riconoscere quali erano i venti prevalenti e di osservare il mare che era di fronte e su cui era difficile non posare gli occhi; di ascoltare bene i rumori: le onde che si rifrangevano sulla roccia, il verso dei gabbiani, il fruscio della vegetazione; di assorbire profondamente i profumi del posto; di aspettare un temporale estivo per sentire l’effetto della pioggia sulla pelle e il suo suono; di annusare l’odore del granito.
La casa di Antonioni realizzata da Dante Bini
Questa del granito destò sorpresa: quale essenza può avere la roccia? Andarono a Santa Teresa di Gallura, in un sito sul mare dove il regista fece spaccare un frammento dallo scalpellino e lo porse all’architetto, dicendogli che nell’odore del granito poteva sentire la scia millenni di ere geologiche e farsi un’idea dell’universo. Egli constatò che effettivamente quella pietra appena spaccata aveva un suo carattere olfattivo. Al termine di questo lungo sopralluogo silenzioso, il committente disse al tecnico che nella sua nuova casa estiva voleva ogni aspetto dell’ambiente esterno che avevano esperito, voleva vedere il mare appena aperta la porta di casa per avere continuità di contatto visivo con l’elemento, voleva sentire tutti i profumi della vegetazione dall’interno, compreso il rumore della pioggia e gli odori che si sprigionavano in seguito ai temporali.
Dopo l’interessantissima giornata di studio organizzata dalla società Ventisecondi a Roma su Michelangelo Antonioni dello scorso 16 febbraio, che ha indagato vita e opere del geniale regista ferrarese con grande profondità e precisione inedita, forse vale la pena raccontare alcuni aspetti della vicenda riguardante la dimora estiva del regista in Sardegna presso la Costa Paradiso, poiché si tratta di un’operazione particolare anche a livello architettonico. Per accontentare Antonioni, l’architetto Dante Bini, che aveva appena brevettato un sistema di costruzione a cupola in cemento armato sostenuta da un sistema di rigonfiamento ad aria compressa, ne realizzò una con un grande foro sulla sommità, in modo tale che sole, vento, pioggia, profumi e suoni della natura potessero entrare a sostentare un giardino interno che avrebbe restituito l’ambiente esterno dentro l’abitazione. Antonioni apprezzò molto questa soluzione. Di fronte all’ingresso, al termine del disimpegno, realizzò una porta a vetri per l’accesso al grande soggiorno, a sua volta dotato di una lunga e ampia vetrata affacciata sul mare, di modo che appena entrati in casa l’azzurro dell’acqua fosse immediatamente visibile. La scala a parete che dalla porta a vetri conduce in basso davanti al finestrone sul mare è formata da gradini tutti diversi tra loro, grezzi e realizzati in granito a spacco, che in molti punti sono giusto all’altezza del naso per una persona di media statura. Gli interni della villa sono scarni, pavimentati in lastre di pietra e con pareti bianche trattate ad intonaco grezzo e irregolare su cui è lasciato visibile il movimento della cazzuola.
Il regista volle realizzare questo suo rifugio d’amore insieme a Monica Vitti, in gran segreto e lontano da occhi indiscreti. Fu proprio l’attrice a suggerire al regista il nome di Bini, che all’epoca aveva appena brevettato il nuovo sistema costruttivo. Una volta sviluppati i disegni, Antonioni si rifiutò di vederli nella sua casa romana e volle osservarli direttamente sul sito in Sardegna. Arrivati in loco, l’architetto mostrò il suo lavoro, che venne energicamente e bruscamente cestinato per motivi di scarsa utilità degli elementi bidimensionali nella comprensione di un oggetto che doveva essere tridimensionale, e quindi gli venne chiesto di realizzare un modello plastico in modo da poter osservare concretamente gli spazi. Una volta pronto, il regista studiò l’oggetto in silenzio per molto tempo, osservandolo da ogni prospettiva e impedendo il tentativo di descrizione cui Bini si accingeva con un’apprensione che cresceva a dismisura. Alla fine disse che andava bene, voleva solo una modifica circa la svettante canna fumaria che era davvero brutta, che doveva quindi essere inclinata e direzionata in modo da seguire i venti prevalenti per l’allontanamento dei fumi. L’architetto la modificò prontamente e anzi la fece camminare sdraiata lungo la superficie della calotta. La distribuzione interna su due piani ha un andamento originale, praticamente non esistono stanze con angoli retti o geometria regolare, l’insieme richiama concettualmente un moderno nuraghe, come ha ricordato l’architetto più volte. I disimpegni sui due livelli si trovano di fatto all’aperto poiché girano intorno allo spazio-giardino illuminato dall’apertura centrale sulla cupola. Quest’ultima è rivestita all’esterno con un sottile strato di intonaco ottenuto polverizzando le rocce circostanti in modo da accordarsi ai colori dell’ambiente, e consiste in una soletta di cemento armato che in virtù della tecnica adottata è di spessore molto sottile, le cui aperture per porte, finestre ed oculo centrale sono state ricavate bucando successivamente la calotta ricavata con un unico getto.
Il sistema costruttivo elaborato da Bini si inserisce perfettamente nel panorama di ricerca futuristico degli anni del boom economico, che aveva prodotto in Italia edifici ed oggetti di indubbio valore, dalle sperimentazioni di Pierluigi Nervi al design di Giugiaro. La bellezza di questa costruzione è nella sua dichiarata intenzione di non volersi mimetizzare nello struggente panorama naturalistico della costa sarda, in quella rottura poetica con il contesto contrapponendo un volume metafisico alla variabilità dell’ambiente. La costruzione fu rifugio dei due amanti per tutta la durata della loro storia; in seguito venne frequentata dal solo Antonioni fino alla metà degli anni 80, e adesso è sorprendentemente in stato di abbandono, il che le conferisce paradossalmente un fascino ancora maggiore, apprezzabile nel film del 2016 Cupola, diretto dal regista Volker Sattel. Dal canto suo Dante Bini ha ricordato più volte nel corso degli anni quel particolare rapporto con un geniale committente che parlava poco e faceva richieste categoriche, costringendolo e esprimere meglio la propria originalità. Qualche tempo dopo l’architetto realizzò vicino a questa un’altra cupola, più piccola della prima, attualmente ristrutturata e affittata stagionalmente come casa vacanze, e da allora fece di questa sua invenzione un’attività su ampia scala, tanto che ad oggi possiamo contare nel mondo più di 1500 costruzioni in 23 diversi Paesi realizzate con il suo sistema. L’architetto premio Pritzker Rem Koolhas ha definito la cupola di Antonioni uno degli edifici residenziali più belli del Novecento. Attualmente ancora attivo, Dante sta portando avanti insieme al figlio Niccolò Bini la ricerca delle Binishells dalla sede californiana della sua società.
Praticamente in contemporanea con la campagna per le elezioni europee, a Berlino dal 6 aprile si stanno raccogliendo le firme necessarie per promuovere un referendum che chiede la costituzione di una azienda pubblica che acquisisca per esproprio gli alloggi di società immobiliari che ne posseggono più di 3mila. Il referendum è stato proposto dai movimenti che da anni si battono contro la bolla immobiliare che ha investito Berlino. L’83% degli abitanti della città sono in affitto ma da tempo ormai alcune delle più grandi immobiliari tedesche quotate in borsa hanno fatto incetta di alloggi. Al punto che si stima che gli alloggi da espropriare rispettando il requisito dei 3mila posseduti sarebbero tra 200 e 250 mila!
Queste grandi immobiliari acquisiscono gli immobili e li ristrutturano creando forti aumenti dei canoni, spostamenti massicci di persone e gentrificazione. Per arrivare a svolgere il referendum occorrono 20mila firme di partenza e poi l’accettazione dello stesso da parte del 7% degli abitanti e cioè circa 170 mila persone entro 4 mesi.
A Berlino c’è un Senato che regge la città ed è governato da una maggioranza tra Spd, Linke e Verdi. La Linke si è già detta d’accordo come anche i verdi. I sondaggi sono favorevoli. Per approfondire, ecco un articolo di Edoardo Paolinelli pubblicato sul sito di Transform Italia che racconta e spiega l’iniziativa.
Davvero, non c’è bisogno di aggiungere altro. Riccardo Morpurgo amava tre cose su tutto: sua moglie, la sua famiglia e i suoi operai. Era presidente di una Srl di Senigallia proprietaria delle ex colonie Enel, un cantiere che è rimasto fermo per dieci anni sul lungomare. È stato strozzato dalle banche che, qui da noi, ancora, decidono se una ditta ha la dignità di rimanere in piedi o di fallire. Mentre loro non falliscono mai, le banche, così leggere nel prendere decisioni con i propri clienti eppure così puntuali quando c’è da accontentare quando c’è qualche socio importante o qualche amico che conta. Morpurgo ha provato a ritirare su il suo lavoro con il lavoro, ma in questo Paese il lavoro non basta se non hai qualche santo in paradiso, seduto su qualche poltrona da classe dirigente, E poi non ce l’ha fatta più. E si è tolto la vita scrivendo questa lettera:
«Una crudele, sfinente ed umiliante alternanza tra illusione e repentina disillusione, tra fiduciosa, e finalmente luminosa, speranza ed immediata cocente delusione, e così per anni, in attesa di una positività alla quale non credo più. […] Quando, ad una precisa domanda, ho risposto “ Mi spiace, ma non so più cosa fare”, ho letto nei suoi occhi un lampo di terrore e nelle sue parole “Ma come, ingegnere, tu, che sei la nostra speranza” lo sconforto assoluto.
Ho capito in quel momento che bisognava reagire: ed ho reagito, progettato, relazionato, mi sono umiliato sin dove non avrei mai creduto di dovere, potere e sapere fare, ancora progettato, ancora relazionato, ancora umiliato, ho sinanco ipotecato il futuro mio e della mia famiglia, ed inutilmente ho ancora proposto ciò che avrebbe positivamente risolto, solo lo si fosse voluto, e che ora, forse ma tardivamente, si dirà: GIUSTO!
[…] Con il tragico, e certo insensato, gesto, spero finalmente di riuscire a risvegliare coscienze intorpidite ed animi accecati: mi rivolgo dunque ai responsabili, assolutamente irresponsabili, degli istituti di credito, ma anche ai pubblici Amministratori ed a chi, abusando del suo infimo potere, si arroga il diritto, tralignando la verità, di divertirsi giocando con la necessità, le ansie, le emozioni del prossimo, senza capacitarsi (FORSE) che il suo divertimento può essere recepito tragicamente da chi lo subisce, ed ancora a coloro che subiscono questa iniqua situazione avvolti nella loro assordante apatia ed indifferenza o, peggio, a coloro che la aggravano con la loro cinica e supponente cupidigia».
«Il mio corpo non sarà più sessuale quando lo decidete voi, sarà politico quando deciderò io». Così Inna Shevchenko, leader ventottenne di FEMEN, ha spiegato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia la filosofia che c’è dietro al suo movimento. Nel 2019 FEMEN compie dieci anni di attività di protesta contro la società machista. Il movimento femminista di origine ucraina è passato alla storia per le foto che ritraevano le sue attiviste in topless, giudicate spesso dall’opinione pubblica come esibizioniste. Ma dietro FEMEN c’è di più, e Shevchenko l’ha spiegato chiaramente. La chiave per interpretare la scelta della nudità è da ricercare nella poca volontà di ascoltare ciò che le donne hanno da dire e la molta voglia, invece, della parte maschilista della società di osservare i loro corpi. Da qui l’idea: perché non utilizzare la propria figura e trasformarla in un “poster politico”? La nudità, sostiene Shevchenko, non è un fine ma il mezzo per rivendicare la proprietà sul corpo di donna che spetta solo alle dirette interessate. Un tema più che mai attuale, visti i ripetuti attacchi in Italia (ma non solo) alle leggi che regolano l’interruzione volontaria di gravidanza.
All’inizio, le proteste di FEMEN non prevedevano la scrittura di slogan sul proprio corpo, ma su normalissimi cartelli. Quando poi i fotografi di tutto il mondo hanno deciso di tagliare la parte politica dalla foto, lasciando solo l’immagine di giovani ragazze seminude con le braccia verso il cielo, Inna Shevchenko e le sue compagne di lotta hanno deciso di trasformarsi in poster umani. Visto che il corpo femminile è al centro di continui dibattiti, non sempre a beneficio delle legittime proprietarie, FEMEN ha deciso di provocare, appunto, non nel senso sessuale del termine. Lo scopo del movimento è quello di dar vita a una discussione su temi che troppo spesso vengono considerati secondari, come i diritti delle donne.
Alla questione dell’essere offensive nei confronti della religione, obiezione che spesso è stata rivolta alle attiviste di FEMEN, Inna Shevchenko ha risposto dicendo che si sente offesa ogni giorno dalle discriminazioni portate avanti dalla politica e dalle religioni nei confronti delle donne. Ma zittire chi ci disturba non è la chiave per far sparire l’elefante nella stanza. Non c’è nessun odio nei confronti della religione in generale, quindi, ma solo il desiderio di lottare contro le discriminazioni, anche all’interno dell’apparato religioso stesso. È stata citata la notizia della denuncia da parte di un gruppo di suore nei confronti di alcuni superiori maschi che hanno abusato ripetutamente di loro. Le proteste di FEMEN sono anche a loro beneficio, dice Shevchenko, perché il movimento appoggia tutte le donne che hanno il coraggio di ribellarsi ai soprusi.
FEMEN non è un’organizzazione femminista perfetta, ma si colloca nel più ampio scenario della lotta delle donne per non dover più combattere per vedersi riconosciute cose che per gli uomini sono scontate. La scelta di utilizzare uno strumento così d’impatto come il proprio corpo è stata di un coraggio disarmante, se pensiamo che FEMEN è nata nell’Ucraina del 2009, in un contesto a dir poco conservatore. Dopo il periodo di risveglio delle coscienze rappresentato dalla Rivoluzione arancione del 2004, forma di protesta non violenta contro gli abusi di potere, la giovane Inna ha deciso di studiare giornalismo e di attivarsi per fare la differenza. Una scelta, la seconda, che le è costata innumerevoli arresti e torture (considerando che all’epoca della nascita di FEMEN aveva solo 19 anni), fino all’esilio definitivo in Francia nel 2012. Ma questo non l’ha mai fermata, anzi. La lotta in Ucraina continua ad opera di quelle che ha chiamato “la nuova generazione di attiviste”, mentre lei parla emozionata del movimento che ha fondato. La rivoluzione delle donne è una lotta permanente, ha detto incoraggiante. In Italia la sfida è stata raccolta da tante organizzazioni femministe (e no, ci dice Inna, “femminista” non è un insulto come suggerisce la lettura machista), in un momento difficile in cui bisogna destreggiarsi tra il Congresso mondiale delle famiglie a Verona e la minaccia dell’approvazione del Ddl Pillon. Alla domanda se crede che la lotta alle discriminazioni possa avere successo, Shevchenko ha risposto che lei ne è convinta, perché bisogna essere un po’ dei sognatori per combattere (e vincere) queste battaglie. E allora sogniamo tutte insieme.
In questo video Alberto Garcon, leader di Isquierda unida e di Unidos Podemos, “celebra” la seconda repubblica spagnola, conosciuta come Repubblica spagnola, nata il 14 aprile del 1931 per iniziativa delle forze repubblicane. La Repubblica cadde nel 1939 a causa del franchismo che la sciolse de facto nel 1942. La dittatura franchista ha pesato nella storia spagnola ben oltre la fine del fascismo e del nazismo e, purtroppo, si può dire che la transizione democratica sia stata e sia ancora condizionata da quella storia. Si pensi che a Franco è dedicata una fondazione e che per lui c’è un intero mausoleo meta di pellegrinaggi. Peraltro ora tornano in auge forze che rivendicano l’eredità franchista. Anche a fronte delle responsabilità vecchie e nuove della monarchia Unidos Podemos ha riaperto da tempo il tema della Repubblica come prospettiva per il futuro, di cui qui Garcon ricorda i valori. La Storia dunque come terreno di lotta per una memoria giusta e condivisa. Questo anche ci dice come sia importante per noi il 25 aprile e come vadano combattuti tutti i tentativi di rimettere in discussione quella memoria, appunto, giusta e condivisa.