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La Sinistra alle europee, perché ci sono anche i diritti degli animali nel programma di Podemos

Riconoscere gli animali come essere senzienti. È uno dei punti del manifesto dedicato agli animali predisposto da Podemos. Al primo punto il no alle corride che invece sono sponsorizzate dalle destre. Poi servizi veterinari più convenienti e accessibili. Evitare sofferenze agli animali destinati alla alimentazione. Cura degli animali domestici. Ed altri punti che si possono leggere sulla versione integrale. Il benessere animale è un punto importante nella relazione tra specie viventi che caratterizza la nostra Terra. La specie umana dovrebbe avere responsabilità particolari ed invece usa ed abusa degli animali in modi crudeli ed anche autodistruttivi sia dal punto di vista dei cicli ambientali che della salute. Gli allevamenti massivi e senza terra; galline e polli in batteria deprivati dell’imprinting e con una vita ridotta a niente come tempo e destinati a produzione seriale e per parti. D’altronde la specie umana è l’unica che pianifica la distruzione di suoi appartenenti e dunque sa essere particolarmente crudele verso altre specie. Nacque come cacciatrice e raccoglitrice ed è diventata allevatrice e coltivatrice. Così si è moltiplicata ma ha anche prodotto forme che si sono fatte distruttive e che vanno ripensate.

PER APPROFONDIRE

Il campione nazionale, che però è sempre quarto

Eduard Cristian Timbretti Gugiu ha sedici anni. È nato a Cuneo ed è un tuffatore. Dicono che sia uno di quei tuffatori che qui in Italia ci sogniamo da anni, capace di figure incredibili che gli hanno fruttato 16 titoli nazionali italiani. O meglio, che avrebbero dovuto fruttargli 16 ori nei campionati nazionali ma Eduard non esiste. Non esiste. I suoi genitori rumeni lo costringono a sparire sul più bello e quindi nella classifica scivola al quarto posto. Come se non esistesse. Come se avesse una singolare penalità che qui, dalle nostre parti si chiama cittadinanza. Finora gli è successo sedici volte, nei campionati giovanili, in attesa che le carte risultino a posto e finalmente possa essere cittadino, atleta e italiano a tutti gli effetti.

È solo una delle tante storture di una legge retrograda e vergognosa ma forse questa storia fa ancora più rumore perché le penalità, il mancato riconoscimento del talento sono reali, tangibili, ben segnalati sul tabellone dei concorrenti come se l’onta sia un avversario che no, non si può sconfiggere nemmeno con il tuffo perfetto.

«Ho chiesto la cittadinanza nel 2016 ma prima servivano 24 mesi mentre con le nuove regole del decreto Sicurezza (che è un disastro anche su questo fronte, segnatevelo, nda) ce ne vogliono 48», spiega Eduard, e quindi il primo treno da prendere, che sono le Olimpiadi di Tokyo del 2020 in realtà potrebbe già essere perso. Perché Eduard per ora non può partecipare nelle gare internazionali (non esiste, appunto) e il padre può solo rammaricarsi per essere nato dalla parte sbagliata del mondo.

Eppure Eduard frequenta il liceo scientifico (con una media di sette e mezzo) e tutti i giorni dall’una è già pronto per andare in piscina. Dico, cosa gli manca per essere un buon cittadino nei suoi sedici anni? Una politica aperta, inclusiva e moderna: merce rarissima di questi tempi.

E anche se il suo allenatore ricorda come Eduard faccia tuffi con coefficienti di difficoltà inimmaginabile per lui (Claudio Leoni, oggi poliziotto, è stato membro della squadra nazionale) ciò che conta è la frase conclusiva: «Eduard è un ragazzo italiano in tutti e per tutto», dice.

Ma evidentemente no, non basta.

Il fantasma di Franco e l’incubo di Sánchez

Con il loro no alla finanziaria per il 2019, i partiti indipendentisti catalani, Pdecat e Esquerra Republicana, parte decisiva della maggioranza che sosteneva il governo socialista di Pedro Sánchez, hanno di fatto deciso di portare la Spagna ad elezioni anticipate, il prossimo 28 aprile. Sarà una vera e propria primavera elettorale, dato che, giusto un mese dopo, il 26 maggio, si torna a votare sia per le europee, sia per rinnovare gran parte dei Consigli comunali e dei governi delle Regioni autonome. Non sfugge l’importanza delle scadenze, ma fare previsioni è difficile. Mai come questa volta gli esiti sono incerti e destinati a segnare profondamente il futuro e la qualità della democrazia, non solo in Spagna.

Si voterà nel corso della più importante crisi di credibilità del progetto europeo, da quando è iniziato. In particolare in Spagna, alla crisi catalana si affianca una crisi economica e sociale durissima, provocata dalla cura liberista di sette anni del precedente governo del Partito popolare, tra austerity per fedeltà a Bruxelles, salvataggio di banche in default, corruzione e disoccupazione a livelli record. La fragilità della maggioranza che permetteva all’esecutivo socialista di governare era nota. Si sapeva cioè che il voto determinante degli indipendentisti catalani lo esponeva a difficoltà, se non a ricatti. Tuttavia, resta poco comprensibile il no delle due forze secessioniste sull’approvazione del bilancio.

Quindi perché far carta straccia di una manovra economica che finalmente invertiva la rotta neoliberista delle politiche economiche e sociali dei governi precedenti? E perché far saltare il tavolo di confronto, aperto da Sánchez, sulla crisi fra Catalogna e Spagna, che poteva trovare una soluzione politica al problema?

Non si comprende che utilità possa avere, per la stessa causa indipendentista, aver azzerato il confronto, riportandolo nel vicolo cieco dello scontro frontale fra due estremismi, quello degli indipendentisti, fermi a rivendicare la legittimità della dichiarazione unilaterale di indipendenza, e quello delle destre che pensano che la soluzione possa venire solo ricorrendo ad un uso permanente dell’articolo 155 della Costituzione, cioè sospendendo i poteri delle istituzioni catalane, con le buone o, meglio, con le cattive.

Intanto il confronto eletto…

 

L’articolo di Massimo Serafini e MarinaTuri prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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Il pasticciaccio brutto della direttiva sul copyright

Con 348 voti favorevoli, 274 contrari e 36 astenuti, il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright, che ha ricevuto poi semaforo verde dal Consiglio Ue (contrari Italia, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Finlandia e Svezia). Un provvedimento contestatissimo, che ha richiesto due anni per arrivare all’approvazione definitiva e che ha visto confrontarsi due schieramenti piuttosto bizzarri. Da una parte si sono schierate le associazioni che raccolgono gli autori e i grandi gruppi editoriali. Dall’altra i giganti di Internet, capitanati da Google, al fianco di attivisti per la libertà d’informazione e associazioni senza fini di lucro come Wikipedia. Al centro dello scontro due articoli della direttiva (15 e 17) che, secondo i detrattori della direttiva, potrebbero avere effetti devastanti sull’Internet che conosciamo. La verità, però, è che chi ha sponsorizzato l’approvazione dei due articoli in questione sta semplicemente cercando di giocare d’azzardo.

Partiamo dall’articolo 17, che prende di mira le piattaforme online (stiamo parlando in buona sostanza di YouTube e Facebook) e prevede una loro responsabilità nel caso in cui i loro utenti pubblichino contenuti protetti da copyright. L’articolato prevede per le piattaforme due possibilità: o impedire la pubblicazione del materiale coperto da diritto d’autore, o trovare un accordo per ottenere una “licenza” che si estenderebbe a ciò che viene pubblicato dagli utenti. Tradotto: gli autori stanno chiedendo che Facebook e YouTube gli paghino un risarcimento per i mancati introiti dovuti alla circolazione delle loro opere sulle piattaforme. Lecito? Teoricamente sì. Ma il meccanismo fa acqua da tutte le parti.

La norma, infatti, obbliga i gestori delle piattaforme a profondere il “massimo impegno” per impedire il caricamento dei contenuti illegali e, visto che è impensabile affidare questo compito a delle persone in carne e ossa, ci troveremo con una serie di filtri automatici che decideranno cosa possa essere caricato e cosa no. Il risultato sarebbe una sorta di censura preventiva sui contenuti pubblicati che potrebbe arrivare a livelli surreali. Per evitare guai Facebook potrebbe anche decidere, per esempio, di impedire la condivisione del saggio di danza della nipotina se la musica di sottofondo è protetta da copyright. Insomma: il rischio è di trovarci con una rete più povera di contenuti e una sostanziale stretta alla libertà di informazione.

Ma cosa c’è sull’altro piatto della bilancia? La speranza (neanche tanto nascosta) degli autori è semplicemente quella di riuscire a scu…

 

L’articolo di Marco Schiaffino prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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I neofascisti no pasaran, in Italia e in Europa

Mettere al bando le organizzazioni neonaziste e neofasciste in tutta Europa. Lo scorso 25 ottobre il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato una risoluzione comune dei principali gruppi politici (Gue, S&D, Verdi, Alde e Ppe). Nel testo di cui le prime firmatarie sono Eleonora Forenza, (Gue/Ngl), Ana Miranda (Verts/Ale) e Soraya Post (S&D), si chiede all’Unione europea e agli Stati membri di garantire che siano effettivamente bandite le organizzazioni neonaziste e neofasciste e qualsiasi tipo di fondazione e associazione che glorifichi il fascismo e il nazismo. La risoluzione è stata approvata con 355 voti favorevoli, 90 contrari e 39 astensioni. Solo un mese prima, il 21 settembre, Eleonora Forenza e il suo assistente Antonio Perillo erano stati aggrediti a Bari da un gruppo di CasaPound al termine di una manifestazione antifascista. E questo non è che uno tra centinaia di episodi simili che nel nostro e in altri Paesi Ue si sono verificati nell’ultimo anno. Il senso di impunità e di controllo “militaresco” di alcuni territori, specie nelle periferie urbane, da parte delle organizzazioni neofasciste è sempre più pericolosamente palpabile. Basti pensare per quanto riguarda l’Italia alla recente azione di forza organizzata da CasaPound per impedire che 70 persone di etnia rom, in gran parte donne e bambini, prendessero possesso degli alloggi popolari a loro assegnati dal Comune di Roma a Torre Maura. Le forze dell’ordine sono intervenute, non per disperdere i manifestanti che inneggiavano a braccio teso alla deportazione e ad altri orrori ma per portar via quelle persone inermi. Una sospensione dello stato di diritto che dovrebbe far riflettere. Di questi temi abbiamo parlato nella sede di Bruxelles del Parlamento europeo nel corso di una tavola rotonda a cui hanno partecipato l’ ideatrice della risoluzione, Eleonora Forenza con la collega Ana Miranda, e la direttrice di Left, Simona Maggiorelli.

L’atto dell’assemblea di Bruxelles, in cui si cita anche CasaPound, non ha valore vincolante verso i Paesi Ue. Da cosa nasce l’esigenza di coinvolgere l’Europa su questo tema?

E. FORENZA – L’idea della risoluzione è nata dopo l’aggressione che abbiamo subito al termine della manifestazione antifascista e antirazzista che si è svolta nella mia città, Bari, da parte di esponenti di CasaPound. Abbiamo sporto denuncia e 28 persone sono state indagate per ricostituzione del partito fascista. Mentre la sede di CasaPound a Bari è sotto sequestro. Dopo tutto questo è nata l’esigenza di portare quanto accaduto all’attenzione del Parlamento europeo. Perché ovviamente non si tratta solo di un episodio. È un fenomeno assai preoccupante: l’emergere della violenza neofascista in tutta Europa. E così con Ana Miranda e Soraya Post abbiamo lavorato a questa risoluzione. Devo dire che senza questa relazione fra tre donne, tre femministe, tre deputate molto determinate non sarebbe mai stata approvata. Sono molto felice e molto grata ad Ana e Soraya perché hanno fatto davvero un lavoro straordinario.

Grazie a tre deputate pasionarie, il Parlamento europeo ora ha una risoluzione che chiede esplicitamente la messa bando delle organizzazioni neofasciste.

E. FORENZA – Credo che sia un dato molto importante non soltanto perché ormai forze neofasciste si af…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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Cercasi medici disperatamente

UNIVERSITA' LA SAPIENZA TEST DI ACCESSO ALLA FACOLTA' DI MEDICINA STUDENTE STUDENTI UNIVERSITARIO UNIVERSITARI MANIFESTAZIONE PROTESTA CONTRO IL NUMERO CHIUSO MANIFESTANTE MANIFESTANTI

Le Cassandre avevano ragione. La carenza di medici, vissuta quotidianamente da anni quasi in ogni ospedale d’Italia, sta ora venendo alla luce anche su altri media nazionali. In realtà, dall’articolo di Lorenzo Fargnoli su Left del 21 dicembre 2018 la situazione è in rapida evoluzione a conferma che è un problema, è reale ed è serio. Il personale sanitario è la componente più pregiata e meno sostituibile della sanità ma anche di gran lunga la più costosa incidendo per oltre il 70% sulla spesa sanitaria; non a causa degli stipendi (in realtà meno elevati di tanti Paesi europei) ma semplicemente perché c’è bisogno di parecchio personale.

In molti ospedali e per alcune specialità la mancanza di medici è già oggi critica con turni e carichi di lavoro talmente ravvicinati e pesanti da mettere a volte a rischio anche la qualità e la sicurezza delle cure. E c’è il rischio concreto di chiusura di alcuni servizi. Già nel 2018 mancavano 10mila specialisti che, con l’impennata dei pensionamenti dovuti alla famigerata legge Fornero, diventeranno molti di più tra pochissimi anni. Accade così che i pochi concorsi, soprattutto nelle regioni malmesse e nelle sedi disagiate, vanno sempre più spesso deserti aggravando in tal modo precedenti criticità. Oggi nel Servizio sanitario nazionale lavorano circa 105mila medici (tutti specialisti) e 270mila infermieri, più altro personale per un totale nel 2017 di 647mila unità con una perdita dal 2009 di 46.500 unità. L’Eurostat ci dice inoltre che abbiamo i medici più vecchi d’Europa: ben il 54% di loro ha più di 55 anni. Secondo uno studio molto recente del sindacato medico Anaao le specialità più carenti, pur variando da regione a regione, nell’ordine sono: medicina d’urgenza (-4241), pediatria (-3394), medicina interna (-1878), anestesia e rianimazione (-1523), chirurgia generale (-1301), psichiatria (-944), ecc. In crescita anche un altro fenomeno: almeno un quarto dei preziosi neo specialisti preferisce il ricco privato rispetto ad un pubblico che, con bassi stipendi e molti disagi, è diventato molto meno attrattivo. Previsioni fosche anche per i medici di base; pure loro per esercitare devono aver superato un corso di formazione triennale cui possono però accedere solo circa 1100 medici ogni anno; numero del tutto insufficiente a coprire il buco di 34mila unità conseguente ai pensionamenti da oggi al 2028. Per quanto riguarda gli infermieri del Ssn la situazione è forse leggermente (si fa per dire) migliore: sono in tutto circa 270mila e secondo varie stime ne mancherebbero da 35mila a 50mila con una possibilità di pensionamento con quota 100 nei prossimi anni di altre 22mila unità circa; a differenza dei medici non ci dovrebbero essere grossi problemi a reperirli (se però venissero autorizzati i concorsi).

Una situazione quindi in cui c’è da stare davvero poco allegri.

Ma come si è giunti a questo punto? Le risposte, oltre alla storica incompetenza tecnica, l’inconsistenza politica e interessi di vario genere, sono diverse, partono da lontano e poggiano su due elementi strutturali: il blocco quasi completo delle assunzioni e l’incapacità, anche per carenza di finanziamenti, delle università di diplomare più specializzandi.

Solo 10mila ragazzi su 70mila riesc….

L’articolo di Quinto Tozzi prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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La rivoluzione rosa

Se la rivolta in Sudan fosse identificabile con un colore non v’è dubbio che il rosa prevarrebbe su tutti gli altri. Come quello dell’alba che giovedì 11 aprile è sorta illuminando i volti delle tante donne che hanno animato le proteste, iniziate il 19 dicembre, per chiedere le dimissioni del presidente Omar Hassan al-Bashir. Una mobilitazione potente, un fiume umano che si è inaspettatamente punteggiato di migliaia di minute figure gentili in thobe, una lunga striscia di tessuto e tipica veste sudanese quasi sempre in tinte sgargianti.

Dimostrazioni pacifiche represse nel sangue dalle forze di sicurezza del governo islamista al potere dal 1989, fatto che ha portato l’esercito a intervenire decretandone la caduta.

Una svolta attesa a lungo e caratterizzata da un elemento di novità assoluta, la significativa presenza femminile. In un Paese come il Sudan, dove osar indossare un paio di pantaloni può costare 40 frustate, è una rivoluzione nella rivoluzione. Gran parte del merito della deposizione di al-Bashir va a loro, alle donne sudanesi, che hanno svolto un ruolo di primo piano nelle rivolte diventando protagoniste del movimento nato per rovesciare pacificamente un regime che da trent’anni opprimeva il proprio popolo.

Una su tutte l’immagine simbolo. Una foto iconica, divenuta virale sui social nel giro di poche ore, ritraeva Alaa Salah, una studentessa di 22 anni che sul tettuccio di un’auto tra migliaia di persone intonava canti inneggianti alla ribellione. A scattare la fotografia è stata un’altra donna, l’attivista Lana Haroun che insieme a tante altre giovani, ma anche meno giovani, si erano radunate davanti al quartier generale dell’esercito a Khartoum, la capitale del Sudan, per chiedere a gran voce libertà, giustizia e democrazia. Avvolta in un lungo strato di tessuto bianco scintillante, come gli orecchini color oro che le illuminavano il viso, Alaa ha preso la scena dominando la folla di manifestanti, portando su un dito con aria di sfida e intonando thowra, rivoluzione in arabo. Nonostante avesse ricevuto minacce di morte, la 22enne “incoronata” Khadara, regina nubiana delle proteste, ha continuato ad accusare sui social il regime di al-Bashir, prima, e a mettere in guardia dal nuovo Consiglio militare che lo aveva deposto, dopo, esortando i civili a non lasciarsi «ingannare dal colpo di Stato» e a chiedere che non fosse un esponente delle forze armate a guidare il governo di transizione. «Cantando quelle strofe non pensavo di diventare un simbolo, volevo solo impr…

L’articolo di Antonella Napoli prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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Se un ministro ha paura del 25 aprile

Italy's Interior Minister Matteo Salvini arrives at the French Interior ministry on April 4, 2019 in Paris for a G7 interior ministers preparatory meeting ahead of August's Biarritz summit. (Photo by KENZO TRIBOUILLARD / AFP) (Photo credit should read KENZO TRIBOUILLARD/AFP/Getty Images)

Difficile immaginare un omologo di Salvini, come ruolo istituzionale, che in Francia annunciasse di disertare le manifestazioni della giornata dedicata alla presa della Bastiglia, il 14 luglio, o negli Stati Uniti quelle in cui si celebra l’Indipendenza, il 4 luglio. Invece il ministro degli Interni non solo ha annunciato di non andare alle manifestazioni per il 25 aprile ma lo ha ridotto ad una storia di “fascisti e comunisti”.

C’è da dire che non è il primo, né il solo, a prendere le distanze da quella data e da quella storia. Fu già Berlusconi a proporre di cambiare nome alla festa della Liberazione per ribattezzarla festa della libertà. A cancellare il dato che la libertà fu una conquista della Liberazione e cioè di una lotta, anche armata, contro un regime. Una lotta partigiana, di donne e uomini che regime ed invasori nazisti chiamavano «banditi». Il fatto che le prese di distanza dal 25 aprile siano ripetute nel tempo fa capire il peso che ha la battaglia sulla memoria e sulla storia. Particolarmente in un Paese come il nostro dove accadono, come si diceva, cose impensabili in Francia o negli Usa. L’Italia si conferma una democrazia fragile ed esposta, non a caso uscita da un regime come quello fascista a prezzo di una guerra e grazie ad una lotta che richiese il massimo dei sacrifici, quello di dare anche la vita per la libertà. Non una storia di «fascisti e comunisti» come banalizza Salvini, ma la storia di un regime fascista, alleato con i nazisti, sconfitto non solo in guerra ma dalla Resistenza di cui furono parte comunisti, socialisti, popolari, liberali e democratici. Questo è l’atto fondatore della nostra Repubblica, il momento in cui nasce la democrazia. Se viene così pesantemente rimesso in discussione, in modi ripetuti, c’è però da chiedersi perché e perché sia possibile.

Una parte della risposta è sotto gli occhi di tutti noi. L’Italia in cui viviamo ormai da un trentennio e forse più si è andata sempre più allontanando da quella immaginata quel 25 aprile. È una Italia che ben difficilmente possiamo ancora dire che sia fondata sul lavoro, che cerchi l’eguaglianza, che ripudi la guerra, che bandisca le discriminazioni razziali. Purtroppo sta in una Europa e in un mondo che complessivamente hanno fatto girare indietro le lancette della storia col pretesto di considerarla ormai finita.

Una Europa in cui si è provato e si prova a considerare l’’89 e non il ’45 quale data di nascita, come a relegare fascismo e nazismo a una parentesi da rimuovere o almeno circoscrivere, facendo della caduta del muro di Berlino il vero inizio delle magnifiche sorti e progressive. Un mondo in cui la glob…

 

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 19 aprile 2019


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I detenuti con gravi patologie mentali si possono curare fuori dal carcere, via libera dalla Consulta

D’ora in poi, se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare «umanitaria», o «in deroga», così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico: è quanto ha stabilito oggi una importantissima sentenza della Corte Costituzionale (n. 99, relatrice Marta Cartabia), che ha accolto e risolto un dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla Cassazione, con una ordinanza del 22 marzo 2018. È da rilevare che il presidente del Consiglio dei Ministri aveva invece chiesto che la questione fosse dichiarata inammissibile. Con questa decisione, al contrario, la Corte Costituzionale ha stabilito che la malattia psichica venga considerata alla stregua di quella fisica al fine del differimento pena per motivi di salute.

I fatti

Un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso contro un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità, perché applicabile solo ai casi di grave infermità fisica. Invece in quel caso, il detenuto risultava affetto da «grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione borderline in fase di scompenso psicopatologico», accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici. Nel momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni. Per la Cassazione, trattandosi di una patologia grave e radicata nel tempo, la detenzione determinava un trattamento contrario al senso di umanità. Pertanto sollevava dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena”. Inoltre il detenuto non poteva essere allocato in una Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), posto che quest’ultima non può accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti nel corso dell’esecuzione della pena. In sostanza, per queste persone l’ordinamento non offre alternative al carcere.

La decisione

Tuttavia, secondo quanto stabilito dalla Consulta, la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto.

Si legge infatti nella sentenza: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela”.

Inoltre “la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti – si legge ancora nella sentenza – si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate”.

Da oggi, pertanto, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.

 Il vuoto politico

Per l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, “il provvedimento della Corte risolve finalmente il vuoto legislativo che non prevedeva per la malattia mentale la cura fuori dal carcere prevista dalla norma esclusivamente per quella fisica. Un intervento da tempo atteso che conferma l’importante ruolo della Corte Costituzionale, a cui l’Avvocatura dovrà rivolgersi con sempre maggiore frequenza per arginare l’attuale populismo legislativo sempre più lontano dai principi della nostra Carta”.

Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “in carcere tutti sanno che c’è un disagio psichico enorme. Il carcere stesso è produttore di sofferenza e di malattia psichica. Non è un caso che fra i farmaci più usati, secondo rilevazioni effettuate dagli stessi medici, vi siano gli psicofarmaci. Dunque ci sono tantissimi detenuti con una malattia psichica certificata che potrebbero finalmente essere curati in modo adeguato, fuori da un ambiente a così alto rischio per la salute psico-fisica”.

La Corte Costituzionale ha dunque colmato ancora una volta un vuoto lasciato dalla politica: infatti è doveroso ricordare come la questione dell’equiparazione della malattia psichica con quella fisica era stata già affrontata nel travagliato periodo di discussione della riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe potuto sanare la questione. Ma quel tentativo di riforma si è scontrato prima con la mancata attuazione della delega da parte del precedente del Governo e poi con l’esclusione del tema nel provvedimento approvato dall’attuale esecutivo.

Verso le Europee2019, che fine hanno fatto i verdi

Il leader e candidato alle europee dei verdi francesi, già europarlamentare, Yannick Jadot, si “smarca” dalla sinistra e dice che bisogna essere pronti in Parlamento europeo a fare alleanza con popolari, liberali e socialisti. E solleva molte polemiche.

Non sono solo i verdi francesi a presentarsi come altro dalla sinistra. In Germania i grunen sono in forte crescita e governano in alcuni land con la Cdu di Merkel.

Anche in Italia la lista verde ha marcato una differenza con la sinistra ma dicendosi intenzionata a collocarsi nelle elezioni nazionali col centrosinistra.

Aldilà dei posizionamenti politici il tema vero è se la trasformazione ecologica della società sia compatibile con gli attuali assetti del Mondo e dell’Europa o se richieda invece una rottura radicale e di coniugarsi profondamente col bisogno di giustizia sociale, come propongono le sinistre rossoverdi.

Di certo ormai le piazze sono tornate ad affollarsi ovunque in modi anche profondamente diversi come lo sono ad esempio coloro che raccolgono l’appello di Greta da un lato e i gilet gialli francesi dall’altro. Un grande movimento rossoverde, ambientalista e popolare, “intersezionato” con la mobilitazione femminista è ciò per cui lavorare.

PER APPROFONDIRE

Yannick Jadot