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L’altra Milano, il Giambellino così resiste all’abbandono

Sabato 5 gennaio, 10 del mattino. A Milano il cielo è insolitamente limpido e il sole tagliente come la temperatura che si aggira intorno allo zero. In una città ancora mezza deserta per le vacanze, più di un centinaio di persone si sono date appuntamento in via Lorenteggio 181, quartiere Giambellino, periferia sud-ovest. Ci sono giovani e meno giovani e anche una piccola fanfara, tutti volontari, molti delle associazioni di quartiere. Il gruppo di tute bianche è venuto per ripulire il caseggiato di proprietà di Aziende lombarde per l’edilizia residenziale (Aler), lasciato dalla proprietà da più di un anno in completo stato d’abbandono. Il cortile è invaso da cumuli di immondizia maleodorante e da una colonia di ratti.
L’edificio dovrebbe essere vuoto perché destinato all’abbattimento, come previsto dal piano di riqualificazione sottoscritto nel 2015 da Aler, Regione Lombardia e Comune di Milano. Ma al momento ci abitano circa quaranta persone, che hanno occupato le case a cavallo o dopo gli sgomberi avvenuti in ottica demolizione. Tra queste, anche una decina di famiglie, alcune con minori che frequentano le scuole della zona. Non se ne vanno perché attendono di sapere dal Comune se hanno diritto a un alloggio popolare. «La loro situazione è nota – ha spiegato Gabriele Rabaiotti, assessore ai Lavori pubblici e alla casa di Palazzo Marino – con la Prefettura stiamo analizzando sia i loro documenti sia la loro necessità socio-economica. Noi, come Comune, ci siamo, Aler, invece, tende un po’ a lavarsi le mani e ad uscire di scena. Quello che sto chiedendo è…

L’articolo di Laura Filios prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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La rinascita al femminile del Paese delle mille colline

KAYUMBU RWANDA-OCT 11: A group of women in the Rwandan countryside. Rwanda is the most densely populated country in Africa. There are an estimated 352 people per square kilometer. 35 percent of the population engage in subsistence agriculture and live under the poverty line. But with a growth rate of 6-8 percent since 2003 the poverty rate is declining. (Photo by William Campbell-Corbis via Getty Images)

A guardarla da vicino, Kigali, capitale del Rwanda, con le strade quasi tutte asfaltate e la pulizia scintillante ai bordi delle rotonde decorate, ha l’aspetto di una donna in rinascita. Gli odori, i sapori, le sartorie nascoste alla fine delle scale di palazzi vivi e colorati e un via vai di gente in continuo movimento accompagnano il percorso.
Alle otto di mattina dell’ultimo sabato di dicembre la terra ha il colore del sole. Un arancione acceso che illumina ogni cosa e punge appena gli occhi. Nel settore di Niboye, distretto di Kicukiro, situato nella parte sud-ovest della capitale ruandese, gli esercizi commerciali sono chiusi e ogni attività è sospesa. Proprio come in tutti gli altri distretti della città, decine di persone si sono riversate per le strade principali e secondarie per il rito dell’Umuganda, una pratica portata avanti dal popolo ruandese a partire dagli anni successivi all’indipendenza dal Belgio, avvenuta nel 1962.

Il giorno dell’Umuganda le comunità si riuniscono con il fine di organizzarsi in lavori socialmente utili. Dalla pulizia delle strade e riunioni decisionali sul futuro del proprio distretto, a occasioni per stare con la famiglia, gli amici, i vicini di casa. Tre ore di assoluto impiego pubblico obbligatorio e sentito. Un esempio di lavoro collettivo, senza alcuna distinzione di ceto sociale, sesso, provenienza, confessione religiosa, che contribuisce all’economia e allo sviluppo dell’intera città e provincia, rendendo il Rwanda, un Paese che in alcune carte geografiche è così piccolo da sembrare un puntino, uno degli esempi virtuosi mondiali in termini di rigenerazione urbana, economia circolare e coscienza civica.

A venticinque anni di distanza (aprile 1994) da uno dei genocidi più atroci della storia, che in soli cento giorni ha visto morire quasi 800mila persone appartenenti alla minoranza etnica Tutsi, oggi il Paese delle mille colline è…

Il reportage dal Rwanda di Martina Di Pirro prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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Il narciso Fuffaro, icona dei sovranisti, disegnato da Spataro

Benedetto pensiero renano! Che temperature ariane, oggi!». Maestro, che piacere! esclama il cronista incontrando il noto filosofo per le strade di un quartiere studentesco della Capitale. Il luogo più vicino possibile all’accademia, alla facoltà di Filosofia. Così s’era pensato quando abbiamo dato l’appuntamento al peggior nemico del turbocapitalismo apolide, che si frega le mani e batte i piedi visibilmente infastidito dalla tramontana che ha abbattuto la colonnina di mercurio dei barometri. Maestro, incalza il cronista, ci spieghi: mica sarà pensiero debole avere un debole per il pensiero debole?

Ma il “proprietario del 90% della fuffa mondiale” (cit. Lercio) sembra non aver sentito la domanda, si guarda intorno infastidito dalla variopinta fauna studentesca e si dilegua imprecando – ma con forbita eloquenza – contro l’Erasmus, tentatore della gioventù, corruttore di codici genetici italici, e contro la svilirizzazione genderista evidente negli stili di vita esibiti nel quartiere. Per non parlare della presenza migrante, chiaro indizio dell’attuazione del Piano Kalergi per la sostituzione degli europei con immigrati africani. «Tocco con mano – dice alzando i tacchi visibilmente disgustato – che esiste oggidì siffatta abitudine di sprecare la propria esistenza con l’edonismo fedele al multiculturalismo radical chic mentre invece sarebbe d’uopo starsene nella propria magione a sorseggiare una tisana mentre si studiano le opere dello Hegel o dello Aristotile».

E ora che si fa? Volevamo intervistarlo perché potrebbe correre per i Cinque stelle a sindaco di Firenze sebbene sia torinese, sembra che abbia già in mente una bozza di programma per ripartire dalla Firenze ficiniana (nel senso del neoplatonico Marsilio) contrapposta al «bazar post-identitario».

Non ci resta che ripiegare su Alessio Spataro, non altrettanto noto disegnatore satirico ma biografo ufficioso del nostro, autore di Le avventure rossobrune di Ego Fuffaro (ShockDom): segno quasi disneyano con venature underground che…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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La nascita meticcia degli Italiani

Lewis Hine, a social activist and photographer, took more than 200 photographs of immigrants at Ellis Island in the early 1900s. (Lewis W. Hine/The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Photography Collection, New York Public Library)

Coloro che oggi parlano come se gli Italiani fossero da illo tempore di un’unica natura, stirpe e origine, forse non conoscono in che modo l’Italia si è formata. Come i genetisti Luca Cavalli-Sforza e Alberto Piazza hanno documentato, il popolo italiano possiede una «eterogeneità genetica di fondo» costituitasi nei secoli a partire dagli «apporti genetici di Piceni, Liguri, Veneti, Etruschi, Celti, Sardi, Greci, e Albanesi, Arabi, Normanni…», ma non solo. La “biodiversità”, essi ci ricordano, è proficua, salutare e necessaria, ed ha alimentato tutte le civiltà. Quanti evocano oggi i “veri Italiani” sembrano ignorare il continuo sedimentarsi di apporti confluiti nel costituirsi della “italianità”.

A seguire il loro ragionamento, dovremmo omettere dalla nostra storia figure patriottiche quali Francesco Crispi, di antica famiglia arbëreshë, come lo erano Gramsci, il tenore Tito Schipa e altre e altri ancora. Dovremmo altresì ignorare la reggia di Caserta e il suo architetto, Luigi Vanvitelli, il cui vero cognome olandese era Van Wittel, artisti come Massimo Campigli (pseudonimo di Max Ihlenfeld), scrittori come Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz), o, ancora, Pietro Vieusseux, Ulrico Hoepli, Elsa Merlini (nata Tschellesnig), Giorgio Strehler, Alida Valli (nata Altenburger), Leone Ginzburg, Anna Kuliscioff, Dino Buzzati, Hugo Pratt, Vittorio Gassman, Alexian Santino Spinelli, Moni Ovadia, Margherita Hack e tante altre figure dall’intreccio genealogico cosmopolita (incluso Alberto Moravia) che hanno contribuito al mondo della cultura, arti, scienze, politica, e così via. Nonché a quello dello sport e dell’atletica, del giornalismo, dell’impresa, dell’artigianato e del lavoro. E perfino, con un consistente numero di stranieri (alcuni sono raffigurati tra i garibaldini nelle Erme del Gianicolo a Roma), uomini e donne che parteciparono ai fervori risorgimentali per l’indipendenza d’Italia.

Secondo quanti parlano di “Italiani veraci” dovremmo forse non considerare coloro che avevano, o hanno, un genitore straniero? Sono innumerevoli; da…

L’articolo di Toni Maraini prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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Uomini e no

Il messaggio scritto su un cartello in cartone da alcuni triestini che hanno lasciato vestiti caldi e trapunte, in segno di solidarietà, sul luogo dove il senzatetto romeno - a cui il vicesindaco di Trieste, Paolo Polidori, due giorni ha gettato alcune coperte - aveva l'abitudine di cercare riparo, Trieste, 6 gennaio 2019. "Caro amico, speriamo che questa notte tu soffra meno il freddo. Ti chiediamo scusa a nome della città di Trieste", si legge sul cartello. "P.s. in caso di mancato ritiro da parte dell'interessato non gettare nulla. Provvederemo al recupero entro domani. Grazie", si legge su un altro cartello. ANSA/ PER GENTILE CONCESSIONE DEL QUOTIDIANO 'IL PICCOLO' DI TRIESTE

Il governo Salvini-Di Maio ha ormai consolidato una propria linea di indirizzo. Prima gli italiani, che significa sostanzialmente calci metaforici e non solo a chi italiano non è. Ricordando sempre l’immortale massima di Larry Holmes: «Ero nero una volta. Quando ero povero». Essere italiano è infatti una questione di immaginazione, o se preferite di classe. Non sono italiani i rom, anche se lo sono da secoli. Non sono italiani i senzatetto, che puoi insolentire e derubare persino di una coperta in gennaio. Non sono italiani gli oppositori politici, a cui mandare bacioni come se fossero manganelli.
Sono invece italiani i ricchi, di ogni ordine e grado, e persino i poveri, se votano bene, accettano l’elemosina, imparano a odiare i più deboli e non rompono le scatole. Ovviamente non sono italiani gli islamici, i neri, e qualunque cosa abbia a che fare con la sponda Sud del Mediterraneo.
Loro sono clandestini e si preparano a essere il bersaglio continuo dei prossimi mesi di campagna elettorale. Come ha detto il Capitano, «chi aiuta i clandestini, odia gli italiani».
È normale, dato che come ci ha ricordato un assessore leghista di Monfalcone i migranti rubano, accoltellano e non pagano dazio.
Quindi si parte da qui, da una gigantesca operazione manipolatoria, che ha offerto un bersaglio facile da odiare ad un elettorato incattivito da anni di inversione dell’ascensore sociale.
Noi siamo quelli che a questa operazione non ci pieghiamo, perché vorremmo invece tornare a salire tutti insieme. Noi infatti amiamo gli italiani, quando lavorano, pagano le tasse, fanno il loro dovere e si battono per i propri diritti. Vorremmo che lavorassero meno ore e per meno anni, che la maggior parte pagasse meno tasse perché una piccola parte ne paga di più, che l’articolo18 tornasse a garantire libertà nelle fabbriche e negli uffici. Noi non crediamo che sia un colore della pelle a rendere italiani, né una religione e nemmeno un luogo di nascita.
Piuttosto la scelta di vivere secondo lo spirito della Costituzione antifascista e di essere fino in fondo cittadini di questo Paese. Né pensiamo di essere troppi, dato che saremo piuttosto troppo pochi. Se qualcuno muore in mare perché cerca una vita migliore, proviamo dolore e indignazione. Questo non ci rende buoni, ma semplicemente umani. Riteniamo che aria pulita, cibo salubre, acqua potabile e un ambiente non inquinato dovrebbero essere un diritto di tutti, anche perché sappiamo che già sono un privilegio di pochi. Non ci illudiamo di poter ottenere nulla se non lottando, ma abbiamo la memoria di quanto si possa raggiungere con l’impegno collettivo. Noi e quelli che stanno con Salvini e i suoi servi sciocchi siamo due Italie, e non è una novità. Ora il punto è che la loro è organizzata, si sente forte e si riconosce in una parte, se non in un partito. La nostra è costantemente impegnata nella contemplazione delle proprie presunte debolezza, insufficienza e incapacità.
Sta persino cominciando a pensare che il nemico abbia qualche ragione, quando invece mai come ora ha torto marcio su tutto.
Allora io dico che è il momento di rialzarci.
Se sindaci coraggiosi come Mimmo Lucano e Luigi de Magistris ci hanno segnalato che è possibile disobbedire a costo di pagare un prezzo, noi tutti abbiamo il dovere di batterci per riconquistare il nostro Paese.
Non so se all’inizio saremo tanti, ma certamente più di quanti molti di noi pensino, quando si sentono soli davanti allo specchio.
Le elezioni europee sono una prima occasione per metterci alla prova e battere un colpo.
Vedo attorno a me troppi distinguo, ritardi e timidezze, a partire dalla mia.
Non servono e non è più il loro tempo.
Serve una confluenza di tutte e di tutti quelli che vogliono cambiare un presente intollerabile senza alcuna nostalgia per un passato indecente.
Città per città: conosciamoci, incontriamoci, ragioniamo insieme, mettiamoci in rete, organizziamoci e lottiamo.
Il tempo è ora.

Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

L’editoriale di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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Quella libreria era un covo di fascisti

Il salone della Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana dopo l'attentato, Milano, 12 dicembre 1969. +++12 dicembre 1969: Attentato alla banca nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, 16 i morti. Ancora ignoti gli esecutori della strage. Tutti gli imputati finora processati sono stati assolti. Ignota ancora anche la dinamica della morte dell'anarchico Pinelli. ANSA

Oggi non c’è più nulla. Addirittura il civico 34 di via Patriarcato a Padova è stato cancellato, si passa direttamente dal 32 al 36. Una via lunga, in parte con porticati, a poco più di duecento metri da piazza dei Signori, in pieno centro. Eppure lì, al 34, un tempo c’era una libreria, aperta solo al giovedì dalle 22 alle 24, con al posto della vetrina una saracinesca sempre abbassata. Sul campanello la scritta “Ar”. Ad avviarla, il 9 dicembre 1963, Franco Freda, che prese in affitto i locali di un’ex rimessa. Assunse il nome di Libreria Ezzelino, in onore del signore e condottiero ghibellino del 1200, di origini germaniche, feroce e terribile. Dante Alighieri lo collocò, non a caso, all’Inferno, immerso in un fiume di sangue. Il termine “Ar”, da cui le edizioni omonime fondate dallo stesso Freda, non era altro che la radice di “ariano”, Ares o aristocrazia, a indicare guerra e razza superiore. Alle vicende che ruotarono attorno a questa libreria e alla figura di Franco Freda, lo scrittore padovano Ferdinando Camon, nel 1975, dedicò uno dei suoi romanzi, Occidente.

Quando parliamo della strategia della tensione, dell’escalation degli attentati che si susseguirono in Italia dalla primavera del 1969 fino alla strage di piazza Fontana, è da qui che dobbiamo partire. Era in questi locali, infatti, che si riuniva la cellula di Ordine nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura. A raccontarlo con dovizia di particolari furono più d’uno.

Martino Siciliano di Ordine nuovo di Mestre parlò della riunione in cui «Freda annunciò il programma degli attentati ai treni», poi compiuti nell’agosto successivo, una decina di bombe, di cui otto scoppiate, dodici i feriti. A sua volta Gianni Casalini, uno dei suoi frequentatori – poi reclutato come informatore dal Sid – nome in codice “Turco”, nel maggio 2000 a Milano, durante il primo grado dell’ultimo processo sulla strage di piazza Fontana, in un difficile quanto tormentato interrogatorio, fece cenno alla sua partecipazione agli attentati proprio sui treni. Una deposizione letteralmente caduta nel vuoto, senza che nessuno si ponesse neanche il problema di risentirlo successivamente. Sarà solo nel settembre 2008 che Gianni Casalini chiederà, tramite lettera, di poter conferire con il giudice Guido Salvini che si era occupato delle ultime indagini sulle bombe del 12 dicembre 1969.

Aveva molte altre cose da raccontare. In precedenza, bloccato dalla paura di ritorsioni da parte degli ex camerati, si era lasciato andare solo a qualche timida ammissione. Prima al giudice Salvini, poi un paio di mesi dopo, di fronte a un sostituto procuratore, Gianni Casalini disse con una grande quantità di dettagli del suo operato alla stazione Centrale di Milano nella notte dell’8 agosto 1969. Di come collocò due bombe su altrettanti treni in partenza, il numero del binario di uno dei due, la carta da regalo con cui erano stati avvolti gli ordigni per mascherarli. Riferì l’identità di chi era stato a reclutarlo alla Libreria Ezzelino. Fece anche il nome di uno dei principali collaboratori di Franco Freda, Ivano Toniolo, membro di Ordine nuovo ed esponente di una delle correnti più radicali dell’Msi, che dopo l’inizio delle prime indagini sulla «pista nera», annusando il pericolo, era fuggito all’estero, prima in Spagna, poi in Mozambico. Morì nel 2015 a Luanda in Angola senza che alcun magistrato, nonostante le sollecitazioni dei familiari delle vittime, lo avesse mai cercato.

La Libreria Ezzelino fu fatta perquisire il 23 giugno 1971 dal Giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stitz nell’ambito delle indagini sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana. Nelle carte sequestrate furono reperite molte missive scambiate da Freda con esponenti importanti del neonazismo, tra loro Adriano Romualdi e Pio Filippani Ronconi, arruolatosi nelle Waffen-Ss italiane, poi figura di riferimento centrale del neofascismo degli anni Sessanta e Settanta.

Ben ventidue furono gli attentati compiuti in Italia dal 13 aprile al 12 dicembre 1969. Il primo fu allo studio del rettore di Padova, Enrico Opocher, antifascista e partigiano, di origine ebraica, con cui Freda discusse la propria tesi per la laurea in giurisprudenza. Di lui Opocher dirà: «È un uomo fanatico su posizioni antisemite». L’ordigno in un involucro di metallo devastò i locali, che presero fuoco, distrusse carte e documenti, scardinò porte e infissi.

I processi hanno riconosciuto che tutti gli attentati furono compiuti da Ordine nuovo attraverso il suo braccio armato veneto, ovvero la cellula padovana di Freda e Ventura. Per quelli prima di piazza Fontana, Freda e Ventura furono ritenuti colpevoli e condannati a 15 anni di reclusione per associazione sovversiva. Per la strage del 12 dicembre 1969, nel 2005, la Cassazione scrisse che «il giudizio circa la responsabilità di Freda e Ventura in ordine alla strage di piazza Fontana non può che essere uno: la risposta è positiva». Ma la responsabilità non poté tradursi in condanna. Erano già stati assolti nei processi precedenti.

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Saverio Ferrari dal 2000 dirige l’Osservatorio democratico sulle nuove destre

L’astrattismo lirico di Osvaldo Licini

Insolita figura quella del pittore Osvaldo Licini, a cui il Guggenheim di Venezia dedica una bella e ampia monografica ripercorrendo tutte le tappe della sua  ricerca nell’astrattismo fino al recupero dell’immagine femminile in forme fiabesche e immaginifiche. Come nella colorata serie dedicata all’«Amalassunta», immagine di fantasia, ispirata alla luna leopardiana, malinconica, elusiva ma, talora, anche impertinente, imprevedibile e giocosa, pronta a fare linguacce per poi perdersi nei propri pensieri, narcisista e fiera della propria bellezza. «È la luna nostra bella», scriveva il pittore al critico Giuseppe Marchiori, che è stato uno dei suoi più fini interpreti e interlocutori.

La pittura del marchigiano Licini assomiglia al suo autore, vitale, indomita, essenziale, ruvida, schiva, misteriosa. Anche quando rinuncia alla figurazione rivela radici profonde nelle linee e nei colori dei paesaggi di Monte Vidon Corrado, dove il pittore era nato nel 1894. Dopo essere stato ferito a una gamba in guerra e aver trascorso una convalescenza ricca di incontri a Parigi decise di tornare là per vivere e lavorare in un fertile esilio volontario. Scelse la provincia, i luoghi d’infanzia, dopo aver frequentato i protagonisti delle avanguardie storiche e i centri più attivi della cultura europea.

Ma anche dal suo silenzioso buen ritiro non smise mai di interessarsi a ciò che di più nuovo si muoveva sul piano internazionale dell’arte. Lui che all’Accademia a Bologna aveva avuto come compagno di banco Morandi, lui che a Parigi aveva frequentato Picasso ed era rimasto folgorato dalla pittura di Modigliani diventandone intimo amico, ad un certo punto decise di…

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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E intanto di notte ne sbarcavano 51

L'imbarcazione che si è incagliata lungo la costa nella frazione Torre del comune di Melissa, nel crotonese, 10 gennaio 2019. Cinquantuno migranti di etnia curda sono stati salvati da alcuni residenti della zona. ANSA/QUOTIDIANO DEL SUD - GIUSEPPE PIPITA

Se volete sorridere (amaramente) di quanto sia in mutande la propaganda del ministro dell’Interno (che sui migranti costituisce tutto il proprio capitale politico pur di non dover parlare della pessima manovra finanziaria e del renzianissimo salvataggio delle banche) allora riprendetevi il film della notte tra il 9 e il 10 gennaio, non molte ore fa, in cui Salvini ha incontrato il presidente del consiglio Giuseppe Conte e il suo omologo Luigi Di Maio.

Immaginateli attovagliati nelle stanze di Palazzo Chigi mentre affrontano la vicenda di una barca e 49 disperati con lo stesso piglio di una quarta guerra mondiale imminente, probabilmente anche con tutta la sana incazzatura di chi sa di avere montato un caso sul niente (49 persone su 500milioni che sono gli abitanti dell’Unione Europea) e ora si ritrovano a gestirlo fingendo che sia una cataclisma.

Immaginatevi Salvini che chiede di non accogliere nessuno principalmente per una questione personale, per non perdere quella patina di uomo forte che gli è indispensabile per rifocillare gli intestini incazzosi dei suoi seguaci. Immaginate Di Maio che chiede invece di accogliere donne e bambini secondo la prosopopea di quei film bellici americani in cui simulano un’etica della guerra per disinfettarsi agli occhi del mondo. Solo donne e bambini, e i padri magari rispediti nelle carceri libiche: la famiglia tradizionale vale solo per i bianchi, evidentemente. Immaginate tra i due litiganti il premier Conte (che non gode per niente) come al solito incastrato nel dover fare da mediatore a due egoriferiti con uno sguardo non più ampio del proprio cortile.

A un certo punto trovano la soluzione da comunicare urbi et orbi in pompa magna: «In Italia ne arriveranno non più di dieci», dicono, come il salumiere che eccede con la mortadella e poi chiede “che faccio, lascio?”. E aggiungono, i tre moschettieri che eroicamente hanno vinto la battaglia contro 49 disperati: «Saranno affidati alla Chiesa Valdese, senza nessun onere per lo Stato». Una frase senza senso che non calma i razzisti incazzosi: loro vorrebbero impedire anche l’aria, ai migranti, e hanno votato Salvini perché li spedisse tutti a casa di Claudio Baglioni o del radical chic di turno. E infatti sono neri. Incazzati neri. I razzisti bianchi.

Bene. Ora immaginate che mentre i tre si spremono le meningi ben lontano da loro, a Torre Melissa, provincia di Crotone, intanto di migranti ne sono sbarcati 51. Eh, sì. Cinquantuno. Uomini, donne e bambini che sono stati salvati dal congelamento grazie alle cure di un Paese che per fortuna è molto diverso da quello che il ministro dell’Interno dipinge ogni giorno con la sua bava.

Quelli si spremevano per prenderne solo una decina e nello stesso identico momento 51 arrivavano di soppiatto senza nemmeno permettere al governo di costruirci un po’ di propaganda.

Chissà come se ne sono andati a letto tristi, i magnifici tre. E chissà quando si capirà che mai nella Storia è successo di poter fermare chi scappa dalla fame e dal piombo. Mai.

Buon venerdì.

Raccontiamo le Afriche che l’Occidente non vuole vedere

Left va in Africa. La scelta, che da sempre cerchiamo di perseguire è quella di affacciarci al mondo oltre i confini della nostra penisola con la voglia di sapere e di far sapere.
E già parlare di Africa è insufficiente. Come raccontare, semplificare, ridurre ad una, i mille volti di un continente abitato da una popolazione giovane, di oltre un miliardo e 300 milioni, quasi tre volte l’Europa (stando ai dati del 2017), destinata in breve a raddoppiare. Che almeno si parli di “Afriche”, laddove neanche la suddivisione in 56 Paesi è sufficiente a definire una diversità immensa che da occidentali non vogliamo riconoscere.
E nell’era in cui ogni informazione ci viene offerta ad una velocità mai così incredibile, ci si accorge di conoscere poco o nulla di quei mondi che partono da poche miglia delle coste spagnole e arrivano fino al limite dell’emisfero australe. Ne sappiamo qualcosa quando conflitti dimenticati riappaiono nella loro crudeltà nei volti degli uomini e delle donne che, in assenza di prospettive nel proprio Paese, rischiano la vita nel viaggio più pericoloso, attraversando deserti e mari, per poi trovare porti chiusi e istituzioni sorde ad ogni minimo senso di banale civiltà.
Riemergono nei volti di uomini e donne, ma anche di tanti minori, che hanno deciso che, per ora, questa è anche casa loro e che cercano di vivere dignitosamente nei quartieri delle città e nei paesi, crescono nelle scuole, aspirano a quel minimo di benessere che non può e non deve essere privilegio riservato a pochi.
In questo numero di Left leggerete di ribellioni, di guerre, di oppressioni, sentirete anche la voce di chi ha provato ad andare più a fondo, a scrollarsi da dosso quel colonialismo micidiale che la storia d’Europa trascina con sé per provare a guardare anche con occhi altrui.
Ma oltre le vicende durissime, c’è un mondo immenso, ricco, di risorse, di culture, di storie e di prospettive sociali e abbiamo provato a raccontarlo.
Provare a guardare significa smontare radicalmente la frase ritrita “aiutiamoli a casa loro” evitando anche di cadere nella logica della carità raccontata come accoglienza, del diritto ad entrare, solo per alcuni, basato sulla subalternità alle logiche del mercato.
“Accogliamo quelli che ci servono” magari per poterli sfruttare e poi rimandarli a casa, come un prodotto usurato.
Un’Europa che si fondi su questi “valori”, sull’indifferenza rispetto a 49 persone bloccate nel Mediterraneo puramente per una campagna elettorale, sulla propaganda di una inesistente invasione, sul silenzio rispetto ai campi di detenzione in Libia, alle miniere dell’Africa Centrale, da cui dipenderà il futuro energetico del continente, al controllo delle immense risorse petrolifere per cui, dietro agli eserciti, si combattono le multinazionali del petrolio, non è un’Europa che avrà futuro. E, viceversa, così facendo, si permette che un continente continui ad essere depredato. Con nuovi attori che entrano in scena, si pensi ai miliardi di dollari cinesi, 60 soltanto nel 2018, investiti in “aiuti” che si traducono in infrastrutture di cui la proprietà resterà sempre coloniale, in monoculture che in pochi decenni potrebbero rompere quel poco che resta dell’equilibrio ambientale. Fra un secolo, se non si ferma lo scempio, gran parte del continente sarà invivibile. Un ruolo negativo potranno continuare a svolgerlo i fanatismi religiosi di diverso orientamento, capaci di dividere, distrarre, disilludere, da un processo di reale riscatto e liberazione.
Nonostante ciò, questa voglia di liberarsi da ogni giogo si avverte. La raccontano i ragazzi che si incontrano nelle nostre periferie.
Ognuna e ognuno hanno un dittatore da abbattere, un sogno per una famiglia lasciata lontana. Le diaspore esprimono questo sentimento ma anche le voci che riescono a filtrare dal cono d’ombra in cui il neoliberismo le vorrebbe rinchiuse ci raccontano di una società civile che non si rassegna, che non si limita a voler sopravvivere ma che in maniera carsica, comincia a maturare una consapevolezza.
Il mondo del ventunesimo secolo non avrà un futuro se le Afriche, restituite ai loro uomini e alle loro donne, non saranno libere.

Sudan, si alza il vento della rivolta

La preghiera del muezzin si leva alta dal minareto della Grande moschea di Khartoum, risuona placida e armoniosa lungo Al Khalifa road. La accompagna il gorgoglio del fluire delle acque calme del Nilo Azzurro che si estende da Est fino ad abbracciare il Nilo Bianco nel punto di confluenza tra i due corsi nel più importante fiume dell’Africa. La capitale del Sudan si sveglia così, lentamente, ogni giorno. Con il passare delle ore, il traffico caotico tipico delle metropoli gonfia l’arteria che attraversa il blocco principale della città. I pescatori ritirano le reti, il mercato si anima, il business nei palazzi del potere riprende e continua come ogni giorno a dispetto dell’instabilità crescente. L’immagine che mostra la quotidianità della città simbolo del Paese africano è falsata da una calma apparente. L’ho provato sulla mia pelle. Nelle ore in cui mi apprestavo a seguire l’ennesima protesta, sono stata fermata da agenti dei servizi di sicurezza mentre scattavo fotografie a un assembramento di persone davanti a un edificio governativo e mi hanno cancellato il materiale raccolto intimandomi di non scattare altre foto.

Mi hanno lasciata andare via certi che non avrei continuato a testimoniare quanto stia avvenendo nel Paese. Non è così. Ed eccomi a voi a raccontarvi delle tre settimane di proteste contro il governo e della gravità della situazione. La polizia non ha esitato a reprimere con la forza le manifestazioni, iniziate pacificamente il 19 dicembre. Almeno 40 le vittime, anche se le autorità sudanesi ammettono “solo” 19 morti durante gli scontri. Quasi mille gli arresti. Gli ultimi domenica 6 gennaio quando in centinaia si sono ritrovati in quattro diversi punti della città per poi incamminarsi verso i palazzi governativi. Dura la reazione delle forze di sicurezza, con il consueto lancio di lacrimogeni e l’uso delle armi da fuoco. I dimostranti raccontano che…

Il reportage di Antonella Napoli da Khartoum prosegue su Left in edicola dall’11 gennaio 2019


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