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Costi-benefici: la Tav è bocciata. E il governo trema

Operai a lavoro nel cantiere della Torino-Lione a Saint Martin la Porte, 6 maggio 2015. Il cantiere è stato aperto nel gennaio scorso e dovranno essere scavati ancora 9 km nella direzione di Torino, ANSA/ GUIDO MONTANI

Si andrebbe verso una analisi tecnica negativa sui costi-benefici per la Tav. L’analisi è contenuta nella relazione consegnata al governo, definita ancora una «bozza preliminare». La notizia arriva da fonti dell’esecutivo, al termine del vertice svoltosi nella notte tra il 9 e il 10 gennaio a Palazzo Chigi sul tema dei migranti. Le stesse fonti precisano che nessuna decisione è ad oggi presa: si prende ancora tempo. Nel governo si confrontano le linee del M5s, che ufficialmente vuole lo stop dell’opera, e della Lega, che è invece è favorevole alle grandi e devastanti opere, in buona compagnia del Pd e Forza Italia, amplificati dai rispettivi giornali di riferimento. Su questa e altre questioni si accende, dopo l’approvazione della controversa manovra, la conflittualità fra il giallo e il nero della tavolozza di governo a uso e consumo della campagna elettorale per le europee di maggio. Entrambi i partner di maggioranza sono impegnati, in parallelo, nella ricerca di alleanze continentali per la tornata del 26 maggio.

Dal mattino presto le dichiarazioni dei vicepremier: «Al governo si discute, anche sulle infrastrutture. Io sono a favore di nuove strade e ferrovie. La Tap, ad esempio, è in corso di lavorazione. Sono a favore della Tav e affinché vada avanti. Se l’analisi dei tecnici sulla Tav fosse negativa, nessuno di noi vorrebbe né potrebbe fermare una richiesta di referendum», dice il vicepremier, Matteo Salvini, a Rtl 102.5. E l’omologo Di Maio, prima di lui a Radio Anch’io: «Non ho letto la relazione sulla Tav, che è preliminare e per ora è stata consegnata solo al Mit. Ci sarà un contraddittorio con le associazioni e con i comitati pro e contro l’opera. Aspettiamo, saranno i tecnici a parlare. Aspettiamo il dato ufficiale, i tecnici dovranno parlare e dire se quell’opera è un buon investimento». Il Movimento, ha aggiunto, «è contro quell’opera» e quelle risorse potrebbero essere utilizzate per migliorare la mobilità cittadina.

Insomma, è un giallo la conclusione dell’analisi costi-benefici sulla Tav Torino-Lione, la scappatoia utilizzata nell’impossibilità per i grillini di inserire il no all’alta velocità nel contratto di governo. È stato uno degli esperti nominati dal governo nella commissione, il professor Marco Ponti, ad aver anticipato, ieri pomeriggio, che la documentazione era stata consegnata al governo. Ma il ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, quello di Toninelli, è subito intervenuto per precisare: «Il documento ricevuto dal professor Ponti e dalla sua task force è una bozza preliminare di analisi costi-benefici sul Tav Torino-Lione e che è allo studio della Struttura tecnica di missione del Mit per un vaglio di conformità rispetto alle deleghe affidate ai consulenti del ministero». Ma il Mit ha precisato, inoltre, «che l’analisi di carattere tecnico-economico e la parallela analisi giuridica andranno doverosamente condivise con la Francia, la Commissione Ue e in seno al governo, prima della loro pubblicazione».

«Abbiamo consegnato l’analisi, auspico che i dati escano e siano criticati il più presto possibile», ha detto Ponti, esperto di Economia e Pianificazione dei Trasporti, in un confronto televisivo, a SkyTg24, con il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino (Pd), che sul sì alla Tav vuole giocarsi la cifra della campagna per le imminenti elezioni in Piemonte alla testa di un fronte che potrebbe spaziare da Confindustria a Sinistra italiana e pezzi di Cgil, passando per le madamine. Sabato prossimo il fronte favorevole al Tav tornerà a manifestarsi a Torino stavolta con Chiamparino stesso in testa. «Io parlo con i numeri – ha sottolineato Ponti – non sarò mai No Tav a priori per motivi ideologici, altrimenti perderei totalmente la faccia. E l’analisi costi-benefici vale per tutta la collettività, per questo sono stati considerati anche i costi in carico alla Francia: oggi l’opera intera costa tra i 10,5 e gli 11 miliardi di euro». Chiamparino ha ribadito il costo per l’Italia: «Sulla base dell’accordo aggiornato nel 2017 – ha detto il presidente del Piemonte – è di 4 miliardi e 739 milioni, di cui 1,7 per la tratta nazionale. In ogni caso, dopo l’annuncio del professor Ponti non c’è più motivo di differire ancora la decisione sulla Torino-Lione».

«La decisione deve essere di carattere politico e strategico e guardare ai benefici che porterà al territorio per i prossimi 100 anni e al ruolo che si vuole assegnare al trasporto su rotaia», chiede Confindustria piemontese. L’Api Torino, capofila del sistema di imprese che sostiene la realizzazione della nuova linea ferroviaria, accusa il governo di tenere «un comportamento vergognoso. Continua ad allungare il brodo. C’è una legge dello Stato che va applicata – rimarca il presidente Corrado Alberto – se decidono di non fare la Torino-Lione, vadano in Parlamento e votino una nuova legge. Tutto il resto sono chiacchiere e fuffa». E se Chiamparino già tempo fa ha detto che il Piemonte è pronto a farsi carico di realizzare la Tav nel caso esca una fumata nera da Palazzo Chigi, sulla stessa lunghezza d’onda è Forza Italia Piemonte: «Se sarà no, siamo pronti alla Piemontexit delle infrastrutture. E si decreterà una frattura insanabile tra lo Stato e il Piemonte». Mino Giachino, leader dell’associazione SìLavoro, punge il professor Ponti: «È evidente che non ha conteggiato i benefici, anche perché non ha esperienza di logistica e turismo. Se l’esito dell’analisi sarà un No, manifesteremo ovunque».

Lo scontro sarà durissimo, ma il movimento No Tav, dopo «un altro anno della nostra storia. Un altro anno senza un centimetro di Tav», ha incassato il successo della manifestazione dell’8 dicembre scorso quando decine di migliaia di persone (molte, ma molte di più di quante risposero all’appello delle madamine) hanno festeggiato la Giornata mondiale contro le grandi e devastanti opere. La reale analisi costi-benefici è stata realizzata da tempo, con un lungo lavoro di ricerca che ha accompagnato la costruzione del movimento e la lotta alla durissima repressione che la Procura di Torino, spesso smentita dalla Cassazione, conduce senza esclusione di mezzi contro la cittadinanza della Val Susa.

Era stato un Matteo Salvini furioso a invocare un «chiarimento». Per questo il vertice a notte fonda: così, lamentano dalla Lega, il governo rischia di non durare ancora a lungo. Il ministro dell’Interno è stato scavalcato da Giuseppe Conte – in asse con Luigi Di Maio – e dal suo impegno ad accogliere una parte dei migranti sbarcati a Malta dopo 19 giorni in balia delle onde. E ora è determinato a farlo pesare agli alleati. Lo ha fatto capire mettendo anche in discussione il reddito di cittadinanza, misura tanto vitale per il M5s quanto indigesta ai leghisti: il decreto era pronto e ora invece rischia di slittare. Così come torna al centro di un braccio di ferro durissimo la Tav: fermare l’opera ha costi troppo elevati, avvertono i leghisti, e il prezzo che si rischia di pagare con la Francia è lo stop all’operazione Fincantieri-Stx.

Tra i pentastellati si teme però che l’irritazione di Salvini sui migranti diventi la leva per scardinare il reddito di cittadinanza e magari pure frenare la nomina di Marcello Minenna alla Consob su cui Di Maio vorrebbe chiudere. M5s prova a tenere i dossier separati. Alla Lega, che al tavolo del “decretone” su reddito e pensioni chiede un intervento per alzare le pensioni di invalidità e rendere più vantaggioso il reddito alle famiglie numerose, gli uomini di Di Maio replicano che il meccanismo già prevede per i disabili «sotto la soglia di povertà» l’aumento delle pensioni. Un passo in più, aggiungono, si farà grazie al «tesoretto» ricavato dalle limitazioni del reddito agli stranieri. Ma la trattativa tra i sottosegretari di M5s e Lega è proseguita per tutto il pomeriggio di ieri a Palazzo Chigi. Le risorse sono scarse e rimettere mano a un aspetto del decreto si ripercuote a cascata sugli altri. È difficile che il testo arrivi in Cdm giovedì pomeriggio, domani, come programmato: più probabile che slitti a venerdì (o alla prossima settimana).

Nel braccio di ferro con la Lega, M5s ritiene di poter incidere sulla legittima difesa in Parlamento. Inoltre, aver inserito “quota 100” sulle pensioni nel decreto sul reddito fa sì che se la Lega blocca, si ferma tutto. Dalla sua Salvini deve fare i conti con i dubbi e le resistenze del Nord e del fronte guidato dai tre governatori leghisti di Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia, che scendono in campo per incitare il loro leader a non mollare, a partire dai migranti, per non archiviare la Tav e non rischiare una ritorsione francese su Fincantieri: la battaglia tra alleati sul dossier si annuncia durissima.

Salvini assicura che il governo non cadrà. Ma è in un’atmosfera gelida, da pre-crisi, che in nottata Conte, Di Maio e Salvini si sono seduti al tavolo di Palazzo Chigi. Basta anche con iniziative, del tutto propagandistiche ma necessarie come il pane per una forza politica che si sta caratterizzando per i voltafaccia, come la proposta di legge M5s sulla legalizzazione della cannabis: «Non è condivisa e sembra una provocazione», si infuria il ministro Lorenzo Fontana, ultras cattolico e ultras del Verona, di cui Left s’è occupato alla fine di settembre.

“È Stato il Vento”, nasce la Fondazione che farà ripartire i progetti di accoglienza di Riace

Garantire la ripresa dei progetti di accoglienza di Riace. È questo lo scopo della Fondazione nazionale di partecipazione “È Stato il Vento” che – per consentire a Domenico Lucano di essere presente – sarà presentata in una conferenza stampa il 12 gennaio a Caulonia (RC) presso la Biblioteca in via Brigida Pastorino alle 10.30.

In questi mesi grazie all’apporto di tanti amici presenti in tutta Italia, associazioni, volontari, grazie all’impegno di Recosol, dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), del comitato promotore per il Nobel per la pace 2019 al comune di Riace (di cui Left fa parte), del medico Felicetta Parisi, di Alex Zanotelli e altri è stato possibile costruire un’importante rete di sostegno ramificata in ogni angolo d’Italia, una vera task force operativa che intende mettere le basi per una ripartenza a Riace, strutturata nel miglior modo possibile per garantire la ripresa dei progetti. Dopo l’arresto di Mimmo Lucano e il successivo divieto di dimora tutta la comunità riacese ha visto i progetti di accoglienza e tutte le attività collaterali che avevano garantito al paese una buona qualità della vita, via via spegnersi. Riace tuttavia rimane al centro di un’elevata attenzione mediatica grazie all’enorme lavoro svolto in quasi vent’anni di attività; un lavoro che ha permesso di dimostrare come l’accoglienza può essere un fattore positivo di rilancio delle comunità locali. Riace continua quindi ad essere un importante riferimento non solo in Italia che va sostenuto e difeso facendo ripartire i programmi di accoglienza, le attività di artigianato e il turismo solidale. Grazie al grande sostegno popolare che si è stretto attorno a Riace in Italia e in tutta Europa è quindi stata ideata la costituzione di una Fondazione nazionale di partecipazione quale strumento operativo in grado di sostenere l’avvio dei nuovi progetti per il rilancio di Riace. Nel corso della conferenza i fondatori del Comitato promotore della Fondazione illustreranno i contenuti e le strategie.

Rassicurare, più che bastonare

Una foto di archivio(1991) che ritrae Ferdinando Aiuti mentre bacia una donna sieropositiva. ARCHIVIO /ANSA

Ieri è morto Fernando Aiuti. Laureato in medicina presso l’Università La Sapienza di Roma all’inizio degli anni Sessanta, Aiuti si batté per anni per evitare che i malati di Aids fossero emarginati dalla società in Italia. Furono gli anni in cui l’Aids era sventolato con facile terrorismo per continuare a rimestare nel torbido che spaventa ma che allo stesso tempo permette di vendere copie, di aizzare le folle e di ritagliarsi uno spicchio di visibilità nella folta schiera degli spaventatori.

Il 1 dicembre 1991 Ferdinando Aiuti baciò Rosaria Iardino, sieropositiva, per abbattere il falso mito riguardante la via di trasmissione del virus HIV attraverso il bacio. Poche ore prima Il Mattino aveva pubblicato l’ennesima bufala sulla trasmissione della malattia (non c’erano internet e pure proliferavano le bufale, anche se in molti l’hanno dimenticato) e all’immunologo bastò un semplice gesto per mettere a tacere i ciarlatani ma soprattutto per rassicurare un’intera nazione. E infatti quella foto fece il giro del mondo.

Fernando Aiuti non ha avuto bisogno nemmeno delle parole per allontanare i miasmi di un pregiudizio infondato eppure drammaticamente popolare e questa mattina pensavo che la sua lezione, a pensarci bene, è di un’attualità quasi imbarazzante: la rarità di chi si occupa di rassicurare piuttosto che demolire, demonizzare,  bastonare (blastare, si dice in termini internettiani) i pregiudizi sbagliati, occupandosi di smontare le false credenze pezzo per pezzo con pazienza artigianale piuttosto che rivendicando la superiorità delle proprie posizioni.

Rosaria Iardino, la donna di quella foto, oggi ha cinquantun anni e ventisei anni dopo quel bacio alla Fiera Campionaria di Cagliari vive a Milano con sua moglie Chiara e le sue figlie e ancora oggi si batte per un corretta informazione sui temi dell’Aids. Ricorda come ai tempi l’equazione Hiv uguale Aids fosse automatica: «Oggi – ha raccontato in un’intervista al Corriere – la qualità della nostra vita è migliorata tanto, trent’anni fa era difficile prevedere il futuro. All’inizio la mia principale preoccupazione era di arrivare alla stagione successiva, adesso è di conservare l’ottima salute che ho.»

Come disse Marie Curie: «Niente nella vita va temuto, dev’essere solamente compreso». E quanto ne abbiamo bisogno di uomini di scienza e di cultura che si prendano cura (nel senso più potente, mica solo quello sanitario) di un Paese che marcisce tra le sue paure.

Buon giovedì.

 

Yurij Castelfranchi: Con il fascista Bolsonaro riprende il genocidio degli Indios

Sono circa 900mila gli indios che vivono in Brasile in 462 riserve in un’area pari al 12,2 per cento del territorio nazionale, per lo più in Amazzonia e da oltre trent’anni la gestione di queste terre era in mano al Funai (Fondazione nazionale dell’Indio). Con questo cambio di rotta, sale la preoccupazione per il lavoro di agricoltori, minatori e allevatori nonché per gli effetti sull’ambiente dovuti alla costruzione di dighe e centrali. Questo significa via libera alle multinazionali che potranno gestire a loro piacimento le terre ancestrali distruggendo foresta e biodiversità, nonostante nella Costituzione brasiliana sia esplicitata la tutela dei popoli indigeni. Riproponiamo qui l’intervista all’antropologo e divulgatore scientifico Yurij Castelfranchi dell’Universitade federal de minas Gerais in Brasile.

«Lo scenario che si apre dopo l’elezione di Bolsonaro è più che preoccupante. Si prospetta una feroce repressione. Colpirà i movimenti sociali, i lavoratori. Forte sarà l’attacco ai diritti sociali degli indios e all’ambiente. Ed è già in atto un attacco senza precedenti alle scuole, alle università, ai docenti. Stiamo provando ad articolare delle proposte per resistere» denunciava già Yurij Castelfranchi, all’indomani delle elezioni in Brasile. Autore di libri di divulgazione scientifica in Amazzonia. Viaggio dall’altra parte del mare (Laterza), con efficacia narrativa racconta lo choc culturale di un europeo che si innamora del Brasile (nonostante le feroci contraddizioni di oggi), ripercorrendo la storia dell’incontro fra i bianchi e gli amerindi ovvero la storia del più grande genocidio della storia. Nei primi cento anni della conquista furono uccise, con le armi e con le malattie 70 milioni di persone, ha scritto Todorov. «Senza contare che la cronaca è quella parziale stilata dai conquistadores», chiosa Castelfranchi che insegna all’Universitade federal de minas Gerais, dove svolge un’intensa attività di ricerca sulle epistemologie indigene, in collaborazione con i rappresentanti di quelle comunità. All’università «sono accolti come Nobel, come grandi statisti e capi di Stato e invitati a fare lezione», ci racconta al telefono, dall’altro capo dell’Oceano, lo studioso e ricercatore, impegnato sul fronte dell’opposizione. Gli intellettuali, gli scrittori, ma anche gli accademici in Brasile si sono schierati apertamente contro Bolsonaro, dice Castelfranchi non lasciandosi intimorire della minacce ormai esplicite. «Il clima che si vive è di forte intimidazione, di paura e di paranoia crescente. Vedo che molti colleghi ora lasciano sopravvivere sulle loro bacheche facebook soltanto spiagge, fiori e cagnolini – dice sorridendo -, hanno già tolto ogni riferimento alle battaglie politiche». «La faccenda è seria ma le sono accuse surreali. Un collega che studia il movimento sindacale ha una denuncia penale sulle spalle. è stato accusato di violare la Costituzione perché studia solo il filone di sinistra. Un altro professore, decano della ricerca, è stato accusato di istigare all’uso delle droghe perché studia gli effetti della marijuana». Ma per quanto ci siano già state perquisizioni e avvertimenti, «i rettori ribattono che i poliziotti possono entrare in facoltà ma solo per studiare».

La vittoria di Bolsonaro, che inneggia a Pinochet e alla tortura, è anche figlia dell’ignoranza?

La questione è complessa. Il punto è che il Brasile non ha mai davvero affrontato aspetti cruciali della propria storia, come la schiavitù, l’oligarchia e la dittatura. Il dramma è che la schiavitù ancora oggi struttura le relazioni sociali segnate da una forte contrapposizione fra ricchi e poveri, fra bianchi e neri. L’oligarchia, erede della schiavitù, ha mani pasta in politica e nelle mafie.

Ma i brasiliani negano tutto questo, non lo vedono. Per i brasiliani la schiavitù non è l’equivalente di quello che è il nazismo per gli europei. Pensano che sia colpa dei portoghesi, degli altri.

Pesa ancora molto essere stati sotto la dittatura militare dal 1964 al 1984?

Non abbiamo mai fatto veramente i conti con la dittatura. Il risultato è che oggi decine di milioni di brasiliani considerano la dittatura militare un’alternativa assolutamente legittima e possibile. E in situazione di crisi economica, perfino auspicabile. Il dipartimento di studi sulla democrazia della mia facoltà ha fatto una ricerca nazionale e i risultati sono stati impressionanti. Purtroppo la democrazia è sempre stata molto fragile in Brasile, molto poco apprezzata, poco assimilata. Ma c’è anche un altro grosso problema: il fondamentalismo cristiano. è cresciuto moltissimo negli ultimi dieci anni e spesso assume toni molto violenti.

Dunque passare dalle parole ai fatti sarà facilissimo per Bolsonaro.

Non è ancora detto. Bisogna capire se fa il gradasso annunciando progetti che lui stesso sa di non poter portare a termine. Dovrà trovare un equilibrio fra i suoi enunciati di tipo neofascista che gli hanno portato voti e la necessità di avere l’appoggio dell’alta borghesia liberale. Non può collocare militari in tutti i ministeri chiave suonando la gran cassa del nazionalismo autarchico e poi privatizzare per assumere il potere della Petrobras. Dovrà trovare una mediazione fra le affermazioni autoritarie da Stato fascista e la liberalizzazione economica che ha promesso ai suoi alleati. L’altro ostacolo siamo noi. Fino a che punto il tessuto democratico della società civile riuscirà a resistere? Fino a che punto noi intellettuali riusciremo a fare opposizione con i sindacati, con i partiti di sinistra che necessariamente devono riorganizzarsi, con chi vive nelle periferie, con gli indigeni? Dobbiamo funzionare da contrappeso in modo che non sia così facile per lui agire. Questo Parlamento è fra i più conservatori di tutta la storia recente del Brasile, ma non sufficiente per cambiare la Costituzione. A ben vedere ci sono piccoli segnali di diffidenza anche in alcuni settori conservatori e liberali. Ma se diventeranno opposizione alla sua manovra autoritaria lo sapremo solo fra sei mesi

Fernando Haddad, candidato del Partito dei lavoratori (Pt), ha ottenuto il 44,71 per cento, non tutto è perduto?

L’opposizione ha preso bei voti ma non sono sufficienti per resistere a questo tsunami autoritario, che si alimenta anche di fake news e di odio sociale. Un aspetto nuovo e molto importante è stato il protagonismo delle donne, in forme inedite, si stanno facendo avanti anche nella politica nazionale. Il problema è che il Parlamento è modulabile rispetto a interessi specifici, se chi è al potere ha il 70 per cento dei parlamentari li può comprare per arrivare all’80.

I giornali di opposizione hanno voce e circolazione?

C’è un buon giornalismo di opposizione e un eccellente giornalismo indipendente, giovane, di data journalism e di inchiesta, ma è molto di nicchia. Il giornalismo di opposizione orbita intorno al Pt ma ha un impatto limitato, non fa parte del mondo dei media mainstream dominati dalle Chiese evangeliche e dagli interessi dell’alta borghesia conservatrice, come ad esempio Tele Globo. Il 95 per cento dei brasiliani ha ancora come unica fonte di informazione la tv o al più le radio dominate dalle Chiese. Ora si tratta anche di vedere fino a che punto il giornalismo classico, conservatore, quello più legato al ceto imprenditoriale e alle grandi corporazioni, si schiererà. Il Folha de São Paulo sembra già prendere le distanze da Bolsonaro.

Il mondo degli intellettuali, fin qui schieratissimo, rischia di essere imbavagliato?

L’atmosfera di minaccia è molto seria, le persone si spaventano. In generale l’intellighenzia brasiliana si è schierata contro. Perfino alcuni attori delle telenovela di Tele Globo, fra i personaggi più amati del Brasile, hanno preso posizione apertamente e questo ha un suo peso. Dopodiché c’è una minaccia concreta alla libertà di pensiero e di espressione, diretta proprio alle università e alle scuole, ci sono già casi espliciti di violenza, con controlli di polizia federale, fioccano denunce. Siamo tutti accusati di essere comunisti. Mentre ti porta all’università il tassista già ti aggredisce chiedendoti perché vai all’università dei comunisti, cosa ci vai a fare. Il clima è pessimo. Serve attenzione internazionale per garantire libertà di pensiero e di espressione.

A Left la madre di Marielle Franco, da avvocato, ha detto di voler continuare la lotta di sua figlia, ma ora avere giustizia sarà più difficile.

Il suo lavoro e la sua testimonianza sono importantissime. Che Marielle sia stata vittima di un caso di terrorismo di Stato ormai è chiaro. Probabilmente è stato comandato a livello locale, a Rio, con il coinvolgimento di militari, polizia, politici della zona. Se c’è una forte attenzione internazionale dei media c’è speranza che vada avanti l’inchiesta federale. Certo, con i militari in tutti i ruoli chiave sarà difficile. Se usi la retorica militare come linguaggio di Stato è davvero difficile bloccare queste cose. Tuttavia Marielle è stata il seme. In Brasile oggi abbiamo un proliferare di donne coraggiose, straordinarie, che vengono dalle periferie, che sono state nostre studentesse all’università, che tornano nelle periferie come leader comunitarie e poi diventano assessori comunali deputate, ecc. C’è un’onda crescente di ragazze e di donne che hanno grinta e intelligenza politica. In Brasile le poche cose positive che ho visto negli ultimi cinque anni sono tutte frutto delle grandi battaglie delle donne, che hanno dato vita a nuove articolazioni politiche e in difesa delle minoranze discriminate.

Salvini si è subito congratulato con Bolsonaro. Come vede questa onda nera e clerico-fascista?

Qui in Brasile c’è un forte dibattito – come immagino in Italia -, ci si domanda se si possa parlare di fascismo o meno. Secondo alcuni usare il termine fascismo sarebbe una banalizzazione, un anacronismo, una distorsione storica. Nel caso di Salvini lo dovete dire voi, ma riguardo alla nuova destra brasiliana io non ho dubbi: tecnicamente sono fascisti, non si tratta solo di una destra autoritaria, reazionaria o statalista. Hanno il mito del grande Brasile: dicono che potrebbe essere il Paese più potente del mondo se non ci fossero i comunisti, un nemico endemico che è maligno di natura, tossico, contagioso. Questa è la retorica di Bolsonaro. Ed è fascista la soluzione che viene proposta: vanno sterminati. Dobbiamo spazzare via i rossi dal Brasile dice il neo presidente. Un aspetto tipico del fascismo era l’olio di ricino ai professori, oggi è presentissimo l’anti intellettualismo estremo, l’odio verso chi studia, le università descritte come covi di sovversivi. Bisogna pensare a una vera resistenza.

Vede possibili alleanze fra Trump e Bolsonaro, Salvini, Bannon, nella costruzione di una internazionale nera?

Ci sono stati contatti immediati fra loro. Hanno similitudini e differenze. Una differenza riguarda alcune dinamiche del neoliberismo. Trump, per esempio, vuole chiudere le frontiere al commerci, imporre dazi, proteggere l’industria americana, in questa fase invece per Bolsonaro sarà probabilmente indispensabile allearsi con i settori neo liberali del capitalismo internazionale, consegnando le ricchezze brasiliane all’estero, per privatizzare tutto. Ma dal punto di vista della pratica repressiva sono molti simili.

Bolsonaro minaccia gli indios. Nonostante secoli di persecuzioni e tentativi di annientamento la cultura indigena è ancora viva?

La repressione genocida avrà un nuovo colpo di frusta. E ha a che fare con quel che accennavo all’inizio. Il Brasile è fondato sulla schiavitù, sull’idea che tu devi e puoi sterminare. La mobilità sociale, l’ascensore sociale dei poveri, il protagonismo politico degli indios non sono assolutamente previsti dall’oligarchia bianca brasiliana. Ancora oggi, una tranquilla signora bianca della middle class può dire cose che si possono leggere solo nei libri di storia della schiavitù. Le domestiche devono mettersi l’uniforme da schiava in casa. La dittatura ha contribuito allo sterminio degli indios, ha colonizzato l’Amazzonia, mandandoci i poveri delle periferie e dell’agricoltura del nordest per cancellarli dalle carte geografiche. Sono ancora in atto le repressioni degli indios e dei senza terra e più recentemente anche del movimento nero, delle femministe e lgbt. L’oppressione si è inasprita nel momento in cui questi gruppi cominciavano ad avere i propri leader, la propria visibilità, però io nutro molta speranza.

In che modo, visto il quadro?

L’altro giorno un leader indigeno mi diceva: «Noi abbiamo retto 500 anni contro bombardamenti, veleni, infezioni che ci venivano per le vostre coperte intossicate, avvelenamento dei pozzi d’acqua, mitragliatrici, cannoni, mi viene il dubbio se voi bianchi sopravviverete a questa fase». Noi bianchi siamo specialisti nel tagliare il ramo su cui ci sediamo, produrre catastrofi che apparentemente uccidono solo gli altri e che invece ci tornano indietro come un boomerang.

Abbiamo molto da imparare da queste culture…

C’è una fortissima coscienza oggi dell’importanza delle altre epistemologie come quelle indigene. In facoltà dialoghiamo con i loro rappresentanti, li proteggiamo politicamente, stiamo costruendo insieme corsi interdisciplinari e ci stiamo sempre più rendendo conto che i concetti più importanti della nostra cultura e di quelle amerindie non sono traducibili: non hai la parola Stato, società, religione, legge, non hai la parola capo. Questo non significa che debbano essere per noi un modello. Come l’ antropologo Eduardo Viveiros de Castro penso che non possiamo usare le società amerindie come utopia, come idealizzazione di quello che avremmo potuto, dovuto, essere. Ma possono essere per noi un esempio di un menù del possibile, di quante possibili biforcazioni, composizioni possiamo avere per pensare altre maniere di fare Stato, società ecc. Le loro realtà sono così molteplici, così diverse, che ti fanno capire che non c’è un’unica soluzione. È un patrimonio straordinario che rischiamo di perdere, mentre potrebbe offrirci guide preziose anche per girare il volano del nostro futuro in un momento in cui la terra dà segnali di collasso. Se non riusciamo a difendere gli indios è perché abbiamo già perso la battaglia su tutti gli altri fronti.

L’articolo è stato pubblicato nello “Speciale Brasile” su Left del 9 novembre 2018


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Quell’autostrada di metano «è una bomba ecologica». I No Triv di Licata contro il gasdotto Eni

Il mare tra Gela e Licata è ricco di pesci e di vita, sulle sue coste si affaccia la riserva naturale orientata del lago di Biviere, di cui Plinio il Vecchio cantò i riflessi lunari e che è punto di sosta dell’aviofauna in volo dal Nord Africa. Qui, tra un sarago e un tonno, un airone e un cavaliere d’Italia, un martin pescatore ed una volpe; in mezzo a cooperative di pescatori, bambini che giocano a palla e persone che si tuffano tra le onde cristalline, l’Eni, multinazionale tra le prime dieci compagnie petrolifere al mondo, ottenne, nel 2013, i permessi per il programma “Offshore Ibleo”.

Lo scopo era la riapertura di due giacimenti marini già esistenti, Argo e Cassiopea, profondi 600 metri e a distanza di pochi chilometri dalle coste. Un progetto completo: esplorazione, estrazione, trasporto e raffinazione del gas metano contenuto in quei giacimenti. Costo dell’operazione? Un miliardo di euro per produrre, in circa 15 anni, oltre dieci miliardi di metri cubi di metano, gas che Eni progettava di portare per la raffinazione nell’impianto ex-petrolchimico di Gela.

Evidenti gli impatti sul territorio, denunciati anche da Greenpeace nel 2014 in un dettagliato rapporto in cui traspare l’assenza di una seria valutazione dei rischi ambientali e delle conseguenze socio-economiche. Il progetto ricade sull’area di riproduzione di acciughe, gambero bianco e nasello, ma questo ad Eni e Commissione Via non sembra essere interessato. Bocciati, in seguito, anche i ricorsi dei comuni, dell’intera Anci Sicilia e dei comitati ambientalisti.

Poi il progetto si arenò, sostituito da altri più convenienti, ma oggi Eni torna a battere cassa, con tutta la forza del padrone e del capitale, con il ricatto del lavoro e del progresso, con la promessa della – già ampiamente fallita – green energy.

Torna e chiede la posa di un gasdotto, che vada dai pozzi off-shore al centro di collettamento di Gela. Il tutto riconvertendo il dismesso petrolchimico – che nel 2014 ha lasciato a casa 10mila persone tra addetti ed indotto, in un territorio dove si lavora per paghe inesistenti, dove la disoccupazione giovanile supera il 60% e quella femminile è al 57% – in una raffineria di gas metano.

Una struttura che diverrebbe il terzo gasdotto dell’isola insieme al Transmed algerino-tunisino e al Greenstream libico. La Sicilia si appresta a diventare il luogo di stoccaggio del gas metano, invasa da navi, centrali di raffinazione, cisterne, serbatoi, condotte, e il centro nevralgico di una vasta operazione economica per il capitale internazionale.

«Il nostro mare è di nuovo sotto attacco – scrive il comitato No Triv di Licata, in una nota -. Già siamo scesi in piazza e grazie alla lotta siamo riusciti a impedire la realizzazione della piattaforma Prezioso K, nell’ambito del progetto off-shore ibleo di Eni. Tuttavia, tale progetto, sebbene modificato, continua ad essere dannoso e rappresenterebbe, qualora realizzato, una potenziale bomba ecologica a due passi dalla nostra costa».

Un’autostrada di metano passerà nel mare.

Passerà in quel mare, sotto quei pesci, sfiorando pericolosamente le sacche di metano e i crateri di fango, che lo pongono a rischio vulcanico sedimentario. Passerà sotto le barche con le reti colme di tonni e i bambini che nuotano. Sotto le cinque piattaforme situate tra Licata, Gela e Pozzallo. Cinque moderne e mostruose palafitte che estraggono idrocarburi mettendo a rischio ambiente, economia, territorio, turismo.

Tutto questo tra l’immobilismo del Movimento 5 stelle e le rassicurazioni della Lega al mondo dell’Oil & gas. Contro tutto questo, contro la propaganda e le false promesse, mente nuove concessioni spuntano nello Ionio e a Ravenna, i comitati No Triv scendono in piazza a Licata sabato 12 gennaio, perché “u mari un si spirtusa!”.

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Elena Mazzoni è responsabile nazionale ambiente Partito della Rifondazione comunista-Sinistra europea

Le leggi fondamentali della stupidità umana

«È stato grazie al progresso che il contenibile “stolto” dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società ch’egli si compiace di chiamare “molto complessa” gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumerevoli poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per “realizzarsi”. Sconfiggerlo è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni (per lui, il cretino è sempre “un altro”); e comunque il riso gli appare a priori sospetto, sconveniente, «inferiore», anche quando − agghiacciante fenomeno − vi si abbandona egli stesso».

Se coltivassimo il vizio della memoria terremmo ben stretto questo scritto del 1985 di Carlo Fruttero e Franco Lucentini. In quegli anni doveva accadere ancora tutto il marasma politico più o meno recente (il berlusconismo, il leghismo, il renzismo, il salvinismo e tutti gli -ismi che possono venirvi in mente) eppure traspare già tutta la Storia recente. Erano chiaroveggenti? No, per niente. Si chiama memoria storica (i più arditi si azzardano ancora a chiamarla cultura) e serve per evitare nel presente gli errori del passato o, più semplicemente, serve per possedere chiavi di lettura collettive che si formino sullo studio e non sempre e per sempre sull’esperienza.

Il cretino, purtroppo per noi, è spesso uno stupido che ha avuto successo. Come scriveva Carlo M. Cipolla:

«È un gruppo non organizzato, non facente parte di alcun ordinamento, che non ha capo, né presidente, né statuto, ma che riesce tuttavia ad operare in perfetta sintonia come se fosse guidato da una mano invisibile, in modo tale che le attività di ciascun membro contribuiscono potentemente a rafforzare ed amplificare l’efficacia dell’attività di tutti gli altri membri».

Il professor Cipolla (che si aggiunse nel nome quella M puntata per non essere confuso con un suo collega omonimo) scrisse anche le “cinque leggi fondamentali della stupidità umana” (non inorridite, non fu uno studio, fu un divertissement) che recitavano:

  1. Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
  2.  La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.
  3. Una persona stupida è una persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.
  4. Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.
  5. La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.

Senza prenderlo (e prendersi) troppo sul serio. Ecco tutto.

Buon mercoledì.

Pourquoi nous présentons la candidature de la commune de Riace au Nobel pour la paix

« La véritable utopie ce n’est pas la chute du mur mais ce que plusieurs communes de Calabre, Riace en tête, ont réalisé ». Tels sont les mots que Wim Wenders a prononcés lors de la remise du Nobel de la paix à Berlin en 2009 pour son film qui raconte le modèle d’accueil des immigrés mis en place dans plusieurs communes de la Calabre. « Cette histoire, a dit le réalisateur, doit nous faire réfléchir sur la manière dont nous pouvons conjuguer accueil et développement local. Riace a prouvé que c’est possible et a ouvert des portes pour l’avenir. Cette expérience qui est certes locale a néanmoins une portée mondiale. C’est une leçon qui s’adresse au monde entier ».

Ces affirmations visionnaires d’il y a neuf ans, que l’on doit à une personnalité de renom du nouveau cinéma allemand et européen, résument de manière très efficace les raisons pour lesquelles nous présentons la candidature de Riace au Prix Nobel de la paix 2019. Il y a neuf ans, les effets de la crise financière de 2008 n’avaient pas encore touché l’ensemble de la planète. On ne percevait pas encore les effets néfastes de l’apartheid de la mondialisation, ses aspects d’exclusion et de pauvreté. La vague noire de la régression économique, politique, civile et humaine qui a investi le monde aujourd’hui n’était pas encore visible. Au contraire, en 2010/2011, on assisait dans la région nord-africaine de la Méditerranée aux révoltes pour la dignité, les « printemps arabes », qui allaient de là à peu avoir des répercussions en Europe (Espagne, Grèce, Italie) et jusqu’aux États-Unis avec Occupy Wall Street.

On aurait pu croire à ce moment-là qu’il y aurait eu une nouvelle poussée mondiale en faveur de l’affirmation de la dignité et des droits humains, à l’instar d’autres époques enflammées du passé. Mais cet élan était destiné à changer rapidement de camp. Les espoirs nourris par le vent d’Afrique du Nord ont bien vite été réprimés par les potentats dynastiques, économiques, géostratégiques, politiques et la caste ébranlée par les révoltes, donnant ainsi naissance à l’époque sombre et de régression que nous vivons. À présent, nous dit Riccardo Petrella (à l’origine du Contrat mondial sur l’eau/Contratto mondiale sull’acqua, et fondateur de l’Université du Bien Commun/Università del Bene Comune ), à l’occasion du 70ème anniversaire de la Déclaration universelle des droits de l’homme, « les droits des personnes, des communautés humaines, des peuples sont de plus en plus négligés, niés à l’échelle mondiale. L’humanité est réduite en miettes ».

Face aux grands changements des équilibres économico-financiers et géostratégiques qui ont investi le monde pendant cette période de l’histoire, ajoute Petrella, « l’extraordinaire période de 1948, de renaissance de la conscience civile au terme de deux guerres mondiales, semble être aux yeux de ceux qui décident de l’avenir du monde trop difficile à imaginer et à mettre en œuvre, voire même inconvenante ».

Dans un tel contexte, l’expérience de Riace est un phare. Elle renverse concrètement la vision dominante et elle s’affirme, au nom de l’Humanité, comme une incroyable expérience de rencontre, d’inclusion, d’intersection entre accueil et développement local, et de relance sociale et économique. Elle se positionne et se développe dans la lignée de la Constitution italienne et de la Déclaration universelle du 10 décembre 1948 qui affirme que « tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits » et qui établit qu’ils « doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité », car « chaque individu a droit à la vie, à la liberté et à la sûreté de sa personne ». Que chacun « a droit à la reconnaissance en tous lieux de sa personnalité juridique » et « a le droit de circuler librement et de choisir sa résidence à l’intérieur d’un État ». Par conséquent, chaque individu a droit à une citoyenneté et a le droit « de chercher asile et de bénéficier de l’asile en d’autres pays ». Riace a su mettre en pratique ces principes.

En 20 ans, Riace a vu passer des milliers de migrants, de réfugiés et de personnes qui fuyaient des conditions de vie désespérées et elle a su prouver la validité des valeurs humaines et des avantages matériels réciproques que l’application de ces principes peut offrir. Des personnes désespérées et dépourvues de tout ont été accueillies dans l’esprit de la Charte de 1948 et ont été insérées dans un système urbain à l’abandon, comme beaucoup de ceux que l’on rencontre en Italie et dans d’autres pays d’Europe. Avec les habitants locaux, elles ont donné vie à un échange positif de cultures et de besoins, elles ont réactivé et relancé toute la communauté en s’inspirant de l’idée générale d’une nouvelle humanité et d’une renaissance matérielle. Une idée selon laquelle tous les habitants de la Terre font partie d’une communauté humaine dont les composantes doivent être reconnues comme détentrices du droit et d’une citoyenneté mondiale.

Tel est le sens et la portée de l’expérience de Riace qui est désormais l’expression de l’idée même de l’accueil, de l’inclusion, de l’hybridation et de la revitalisation des cultures, des systèmes socio-productifs et environnementaux, dont nous proposons la candidature au Prix Nobel de la paix 2019.

Traduit de l’italien par Silvia Guzzi

*Au sein du comité promoteur pour le Prix Nobel de la paix à la Commune de Riace, dans lequel il y a aussi Left,  Mimmo Rizzuti représente le réseau des communes solidaires (Rete dei Comuni solidali ReCoSol)

L’articolo di Mimmo Rizzuti è stato pubblicato su Left del 14 dicembre 2018


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Rischio elezioni anticipate in Gb. Il Labour si prepara e conferma la “linea Corbyn”

epa07215457 British Labour Party leader Jeremy Corbyn attends the XI Party of European Socialists Congress under the theme 'Fair, Free, Sustainable - The Progressive Europe We Want', at the ISCTE - University Institute of Lisbon, in Lisbon, Portugal, 07 December 2018. The PES congress will take place on 07 and 08 December in Lisbon where delegates from the PES Member parties across Europe will gather to debate key issues ahead of the 2019 European elections. EPA/MARIO CRUZ

La confusione regna sovrana in Gran Bretagna: siamo infatti a pochi giorni dal voto decisivo sulla Brexit che dovrebbe tenersi il 14 gennaio a Westminster (il condizionale ormai è d’obbligo visto che la May ha spostato già una volta la votazione), e a poche settimane dalla data prevista per l’uscita del Regno Unito dall’Unione (il 29 marzo, ndr). In mezzo a questo caos non si può certo escludere che il Primo ministro britannico proponga nuovamente delle elezioni anticipate, che sarebbero le seconde all’interno della teorica legislatura completa che era iniziata nel 2015 con la vittoria di David Cameron.

Il Partito Laburista si sta dunque preparando all’evenienza delle elezioni scegliendo i candidati dei cosiddetti seggi marginali e cioè di quei seggi in cui alle scorse elezioni il Labour perse per meno di diecimila voti. In questo modo, con candidati già scelti e che comincino a fare campagna sul territorio e a farsi conoscere nella propria costituency, il Partito guidato da Corbyn spera di portarsi avanti con il lavoro in vista della possibilità di strappare ai conservatori la maggioranza nella Camera dei Comuni, dove il Labour non è in testa dalle ormai lontane elezioni del 2005. Sono ben novantasei i collegi che, alle elezioni del 2017, sono risultati marginali, inclusi quelli di importanti membri (attuali o passati) del governo come Boris Johnson e Amber Rudd.

Il processo di selezione di questi quasi cento candidati ha confermato ancora una volta la salda egemonia conquistata dalla sinistra del Partito laburista. La quasi totalità dei candidati è stata infatti sostenuta da Momentum, l’organizzazione nata attorno alla campagna congressuale di Corbyn e ora di fatto la sua corrente, o dallo Unite, il più grande sindacato Britannico guidato da Len McClusckey, uno dei principali alleati di Jeremy Corbyn. In alcuni casi le due realtà hanno sostenuto lo stesso candidato, in altri si sono “scontrati” sostenendo candidati diversi. Ad ogni modo il peso di queste due organizzazioni ha garantito la selezione di una stragrande maggioranza di candidati molto vicini all’attuale leader laburista che, se dovesse vincere le elezioni, potrebbe dunque contare su un gruppo parlamentare sempre più omogeneo all’attuale leadership.

Questi risultati ci permettono anche di fare la tara a sondaggi e commentatori che, in queste settimane, paventano una perdita di consensi all’interno del proprio partito per Jeremy Corbyn, a causa delle sue ambiguità sulla Brexit. Una perdita di consensi che, almeno per il momento, non sembra sostenere la prova dei fatti.

Il ritorno del fascismo non è un fuoco di paglia

Schiaffi, calci, minacce e documenti sequestrati. È ciò che nel pomeriggio del 7 gennaio a Roma hanno subito Federico Marconi e Paolo Marchetti, rispettivamente giornalista e fotografo de L’Espresso. Entrambi stavano seguendo la commemorazione dei morti di Acca Larentia quando mentre svolgevano il loro lavoro sono stati aggrediti da diversi militanti nostalgici di Avanguardia nazionale, Fiamme nere e Forza nuova che si erano radunati al cimitero monumentale del Verano per ricordare i militanti del Fronte della gioventù uccisi il 7 gennaio 1978. Tra i presunti assalitori era presente anche Giuliano Castellino, considerato il capo di Forza nuova Roma e attualmente sottoposto a un regime di sorveglianza speciale. Proprio Castellino, aiutato da un vecchio militante di Avanguardia nazionale, ha afferrato per il collo Marconi e successivamente gli ha strappato il cellulare per cancellare foto e video della giornata.

Pur essendo di fatto fuorilegge dal lontano 1976 grazie alla vecchia legge Scelba, Avanguardia nazionale si è ormai ricostituita da quasi tre anni nella più assoluta indifferenza delle istituzioni. Il simbolo, l’Odal, utilizzata a suo tempo anche da una divisione delle Waffen-Ss, è rimasto lo stesso. Così come i dirigenti, tutt’ora guidati dal signore oscuro del neofascismo italiano, ovvero Stefano Delle Chiaie, sospettato e poi assolto di essere il grande manovratore occulto dell’epoca delle stragi. Avanguardia si presenta senza filtri sui social network senza tentare affatto di nascondere la propria natura di organizzazione eversiva. Ogni ultimo giovedì del mese, a Roma e a Brescia vengono organizzate in simultanea delle cene sociali dove tra saluti romani e calici di vino si discute del programma politico attuale. L’idea è quella di aprire sedi ed effettuare formazione politica dei nuovi camerati.

Il 31 luglio 2018 su La Stampa ho raccontato per primo la rinascita di Avanguardia nazionale a Brescia, città della strage nera di piazza Loggia (8 morti, 102 feriti, 28 maggio 1974). L’ho fatto grazie a un intenso lavoro di inchiesta durato un anno. Da cronista ho cercato infatti di mettere in guardia l’opinione pubblica e le istituzioni sui danni che il ritorno del neofascismo può causare alla nostra democrazia. Quello di capire, raccontare e denunciare è il mio mestiere. E l’inchiesta su Avanguardia nasce quando da una semplice fotografia ho riconosciuto i volti di personaggi che hanno animato le cronache giudiziarie degli anni della strategia della tensione. Danilo Fadini e Kim Borromeo, entrambi condannati nel 1973 per l’attentato dinamitardo alla sede provinciale del Psi, sono tra questi. A loro, da almeno due anni a questa parte, si è inoltre aggiunta Laura Castagna, candidata sindaco con Forza nuova e Azione sociale alle ultime elezioni comunali.

Raccontare il ritorno del fascismo nella città in cui sono nato è stato un percorso delicato, difficile ma costruttivo. Sapevo che rendere pubbliche e descrivere le riunioni di un gruppo eversivo nero avrebbe avuto un prezzo pesante da pagare ed è andata proprio così. Sono stato minacciato di morte, insultato e diffamato probabilmente per non essermi voltato dall’altra parte. Purtroppo, a certe persone il dolore e le violenze degli anni Settanta non hanno insegnato nulla. Da qui dunque la volontà di alimentare nel nostro Paese un assurdo clima d’odio. Fuochi di paglia che rischiano poi di diventare dei bracieri incontrollabili proprio come quanto accaduto ieri pomeriggio al Verano.

venerdì 11 gennaio a Catania Federico Gervasoni è stato premiato per le sue inchieste su Avanguardia Nazionale. Gli hanno consegnato il premio giornalistico I Briganti del Librino Rugby, società antirazzista e antifascista. 

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Federico Gervasoni ha curato per Left un’inchiesta a puntate sul neofascismo a Brescia: Prima puntataSeconda puntata

I fascisti non esistono. Le loro vittime sì

Chissà che ne pensano tutte le simpatiche canaglie che arricciano il naso quando si parla di fascismo di ritorno, quelli che sorridono dicendo che noi vediamo “fascisti dappertutto” come se l’antifascismo fosse lui un estremismo da evitare. Anzi, mi correggo: per loro l’antifascismo è il “vero fascismo”, scrivono così mentre godono nel sentirsi sdoganati da un governo che non solo non li combatte ma, in alcuni suoi ministri, addirittura li cita, li liscia e li corteggia. Non sono solo topi usciti dalle fogne, no, questi si sentono al governo. Non sono semplicemente più liberi, no: si sentono i nuovi capi.

Così succede che un giornalista e un fotografo de l’Espresso vengano malmenati da un truce manipolo di nostalgici del duce durante la commemorazione di Acca Larentia. Quelli hanno preteso di cancellare tutte le foto e i video della cronaca della giornata e hanno voluto identificare i due malcapitati, colpevoli semplicemente di essere lì a fare il proprio mestiere.

Ma non è tutto, no. La manifestazione era organizzata da Avanguardia Nazionale, quella stessa organizzazione neofascista fondata il 25 aprile 1960 da Stefano Delle Chiaie e che avrebbe dovuto essere stata sciolta nel 1976 per effetto della legge Scelba e invece continua a mietere attivisti sul territorio nazionale.

E non è tutto, no: tra i picchiatori c’era anche quel Giuliano Castellino (capo di Forza Nuova a Roma) che dovrebbe essere in stato di sorveglianza speciale e invece pascola in giro insieme ai suoi amichetti neri.

Dei giornalisti pestati da fascisti sono l’immagine di un Paese che in pochi mesi sembra terribilmente tornato indietro di qualche decennio. Nonostante qualcuno si affanni, com’era prevedibile, a parlare di goliardata sarebbe utile sapere da quelli che si affannano a ripetere che “non esiste nessun pericolo fascismo” cosa debba succedere per ridestarli dalla loro narcolessia morale: non bastano i disperati alla deriva, il caso Traini a Macerata, il moltiplicarsi delle aggressioni, il rifiorire dei luridi nostalgici, l’ostentazione di un certo estremismo? No? Davvero?

Allora diteci quale dovrebbe essere il confine, sul serio. Ieri un giornalista de l’Espresso scriveva che nonostante i ripetuti “noi andiamo avanti” e “non ci faremo intimidire” sono mesi che uscendo dalla redazione si guarda alle spalle prima di tornare a casa. Immaginatelo, un lavoratore che esce guardingo nel tragitto per tornare dalla propria famiglia.

A me mette i brividi. Ma sarò sensibile io. O buonista.

Buon martedì.