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Perché Bowie sorprende ancora

SOMERSET, ENGLAND - JUNE 25: (FILE PHOTO) Musician David Bowie poses backstage at the Glastonbury festival, in a coat designed by Alexander McQueen, at Worthy Farm, Pilton on June 25, 2000 in Somerset, England. Bowie was admitted to hospital yesterday for emergency heart surgery. (Photo by Dave Hogan/Getty Images)

C’è la “old wave”. C’è la “new wave”. E poi c’è David Bowie. Così recitava il poster promozionale di Heroes nel 1977. Ancora oggi messaggio più che attuale. Artista del Novecento e di questo inizio secolo, Bowie – al secolo David Robert Jones – ha rivelato al mondo la sua genialità attraverso lavori che sono diventati fondamentali per le arti: dalla musica alla moda, dalle soluzioni sonore alle innovazioni stilistiche arrivando poi al cinema e al teatro. «L’opera d’arte è compiuta solo quando il pubblico vi aggiunge la propria interpretazione» disse nel 1999. «È proprio in quel grigio spazio intermedio che risiede il senso dell’opera». Oggi, a tre anni dalla sua scomparsa stiamo cercando noi quello spazio per poter comprendere profondamente il significato dei suoi lavori.
Bowie è stato ed è tuttora “altro”. La sua opera e il suo essere poliedrico si distanziano da tutto il resto, sfuggendo ad etichette o a “generi”, proponendo immagini e identità diverse per ogni album pubblicato. Bowie che studiava nei minimi particolari lo stage e gli aspetti visual, le forme di teatro da portare al rock e viceversa, costruì nel tempo quell’aura di mistero e impenetrabilità, giocando sulla androginia e sul mondo degli alieni, forse personale rappresentazione della malattia mentale (il fratellastro era affetto da schizofrenia ndr), condizione spesso narrata nei suoi testi, inventando dapprima il personaggio di Ziggy Stardust e poi arrivando all’interpretazione dell’alieno Thomas Jerome Newton in L’uomo che cadde sulla terra, nel film di Nicholas Roeg.
La sua poetica è stata spesso lacerata ma coinvolgente, di ricerca e di provocazioni, presente nei personaggi che ha interpretato in tutta la carriera sfruttando al massimo, tra i tanti, gli insegnamenti di Lindsay Kemp o lo studio dell’espressionismo tedesco. Già a inizio carriera si presenta…

L’articolo di Stefano Frollano prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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Dopo Tap, Terzo valico e Ilva, ora tocca alle trivelle: da Movimento5stelle a Movimento doppia faccia

Attivisti di Greenpeace hanno aperto due grandi striscioni, sui quali si legge ?STOP TRIVELLE ? IERI, OGGI, SEMPRE?, nei pressi della piattaforma Fratello Cluster, posizionata poco a nord di Pescara, entro le 12 miglia marine dalla costa. Con questa protesta hanno voluto ricordare la data del 17 aprile 2016, quando 15 milioni e 800 mila italiani votarono per il referendum sulle ?trivelle?, con i ?Sì? che rappresentarono quasi l?86 percento dei voti validi. Gli attivisti dell?organizzazione ambientalista hanno inoltre voluto ribadire che l?opposizione di allora allo sfruttamento dei mari italiani per l?estrazione di fonti fossili è la stessa di oggi, ed è la stessa che sarà pronta a risollevarsi presto se l?Italia non cambierà rotta in materia di energia. ANSA/UFFICIO STAMPA GREENPEACE ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

«Da quando sono Ministro non ho mai firmato autorizzazioni a trivellare il nostro Paese e i nostri mari e mai lo farò», giura su Facebook il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. «Ma non dice che i suoi uffici invece hanno dato pareri positivi per le trivellazioni in Adriatico e ultimo alla Shell nell’area del parco di Lagonegrese, se il ministro pensa di non avere la responsabilità politica di ciò che i suoi uffici fanno allora siamo messi molto male», ribatte il verde Angelo Bonelli. «I permessi rilasciati in questi giorni dal Mise (dicastero in mano a Luigi Di Maio, ndr) sono purtroppo il compimento amministrativo obbligato di un sì dato dal ministero dell’Ambiente del precedente governo, cioè di quella cosiddetta sinistra “amica dell’ambiente”», si discolpa Costa. «È vero – incalza Bonelli – che le istanze vengono da lontano, ma si sono concluse in questi ultimi mesi e nessuno al governo ha verificato la conformità di queste con alcune disposizioni di legge, vedi la Via, o sono state introdotte modifiche alla legge per individuare zone dove garantire una moratoria dalle trivellazioni considerato che il punto dove sono state autorizzate le trivelle è passaggio strategico dei cetacei: ribadisco il M5s ha usato l’ambiente solo come strumento di propaganda elettorale. Ora il Re è nudo!».

Il botta e risposta tra il ministro Costa e l’ex segretario del Sole che ride è solo l’ultima schermaglia seguita alla denuncia, da parte del costituzionalista abruzzese e No Triv Enzo Di Salvatore, di una nuova concessione di coltivazione su terraferma e tre nuovi permessi di ricerca di gas e petrolio in mare e la proroga di una concessione già scaduta da anni.

«Di Maio dice che lui non ha autorizzato niente – spiega Di Salvatore – ma che un funzionario ha solo ratificato quello che aveva già deciso il precedente governo. Non è così. I tre permessi (più la concessione e la proroga della concessione) sono stati firmati dal suo ministero. Non dal funzionario, ma dal dirigente competente. Se questo governo non ha responsabilità politiche perché la firma su quei permessi ce l’ha messa un dirigente, allora neppure il governo precedente ha alcuna responsabilità politica per aver avviato i procedimenti come prevede la legge quando arriva una richiesta. Se invece si sostiene che il governo precedente sia politicamente responsabile per aver consentito l’avvio dei procedimenti allora lo è altrettanto il governo in carica per aver consentito che venissero firmati a dicembre i tre permessi per cercare idrocarburi nello Ionio». L’ultimo paradosso, segnalato da Di Salvatore, è che Di Maio si è detto contento che il governatore Emiliano faccia ricorso al Tar e che il Tar bocci quei permessi, rilasciati dal suo stesso ministero.

Insomma, dopo avere dato via libera a Tap e Terzo valico, dopo il sì all’Ilva, dopo aver votato e presentato norme come il condono edilizio, i fanghi tossici da spargere sui suoli agricoli con presenza di diossine, i grillini, versione di governo, rinnegano anche la loro biografia al capitolo No Triv. Proprio mentre a Roma, con un blitz d’aula, i pentastellati – Campidoglio edition – si rimangiano le promesse sullo stop alle privatizzazioni. Come quello appena finito, anche il nuovo anno inizia con storie di voltafaccia a cinque stelle.

Nel dettaglio fornito da Di Salvatore figura una nuova concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, denominata “Bagnacavallo”, in provincia di Ravenna, rilasciata alla società Aleanna Italia per la durata di 20 anni. Il progetto estrattivo prevede cinque pozzi (tre dei quali nuovi) proprio dove gli scienziati hanno stabilito che trivellare e prelevare idrocarburi peggiori la subsidenza, l’abbassamento del suolo. La concessione di coltivazione “San Potito”, contigua a Bagnacavallo, scaduta da anni, è stata prorogata per 15 anni in favore della Società Padana energia Spa. Anche in questo caso, il programma dei lavori prevede la realizzazione e la messa in produzione di cinque pozzi (due esistenti e tre nuovi). I tre permessi di ricerca interessano lo Ionio e sono stati rilasciati in favore della Società Global Med: si tratta dei permessi F.R 43.GM (729 kmq), F.R44.GM (744 kmq) e F.R45.GM (749,1 kmq). I permessi prevedono che la ricerca sia effettuata con la temibile tecnica dell’airgun (con un mezzo che genera onde compressionali emettendo bolle di aria compressa nell’acqua, molto rumorosa e ad alto impatto con effetti negativi del rumore sottomarino di origine antropica sui cetacei e sugli ecosistemi marini).

«Per ben sei mesi il governo non ha autorizzato alcuna ricerca petrolifera né alcuna (nuova) attività estrattiva – spiega Di Salvatore – ora ha ceduto. Il bello è che tutto ciò che si opponeva ai governi precedenti è riproposto dal governo attualmente in carica: il fatto che sia autorizzata la ricerca con l’airgun (prima il M5s avrebbe voluto che l’utilizzo di tale tecnica fosse reato ora nelle autorizzazioni il ministero specifica che “l’airgun è ad oggi considerata la tecnica più efficace per lo studio delle caratteristiche geologiche del sottosuolo marino, non solo ai fini della ricerca di idrocarburi ma anche a scopi scientifici e di protezione civile”, ndr); il fatto che siano prorogati titoli già scaduti (quando il governo Monti e il governo Renzi furono aspramente criticati proprio per questo); il fatto che il limite dei 750 kmq previsti dalla legge sia, nei fatti, aggirato dal momento in cui si accordano ad una stessa multinazionale due permessi contigui, ciascuno dei quali non è superiore ai 750 kmq (ma la somma fa quasi 1.500 kmq). E non si venga ora a dire che la responsabilità è dei governi precedenti: in sei mesi non è stata presentata alcuna proposta di legge in Parlamento (né il governo ha adottato in proposito un decreto-legge). L’unica proposta presentata si è concretizzata in un emendamento alla legge di stabilità (dichiarato poi inammissibile) con il quale si sarebbe voluto abrogare una previsione legislativa dello Sblocca Italia… già abrogato nel 2016! Sarebbe questo il cambiamento?».

«M5s negli anni scorsi ha cavalcato le proteste No Triv di comunità e ambientalisti – ricordano con il costituzionalista, anche Maurizio Acerbo ed Eleonora Forenza, rispettivamente segretario nazionale ed eurodeputata del Prc – ma ormai la retromarcia stile Tap è generalizzata. Lo scorso 21 dicembre il Consiglio dei ministri ha deliberato di costituirsi in difesa del permesso di ricerca “Masseria La Rocca” in provincia di Potenza della Rockhopper contro la Regione Basilicata e quindi contro il Comitato No Triv. Il governo del cambiamento ripropone pari pari la politica di Renzi e Gentiloni. Un bel regalo ai petrolieri: si all’airgun, proroga dei titoli già scaduti e aggiramento dei limiti. In sei mesi questo governo che ha tradito l’ambientalismo non ha approvato una sola norma per chiudere con la stagione precedente. Pensano solo a perseguitare immigrati ma quando si tratta di scontrarsi con potere economico se la fanno sotto».

A Roma, intanto, il 29 dicembre, con un’inversione dell’ordine dei lavori votato dalla maggioranza assoluta del M5s, la Giunta Raggi ha fatto discutere e approvare all’Aula Giulio Cesare (25 favorevoli e un contrario) la delibera 181/2018 (“La razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche di Roma Capitale di primo e secondo livello”) che contiene il piano di riorganizzazione delle aziende partecipate da Roma Capitale. Le principali novità riguardano soprattutto Roma Metropolitane e FarmaCap (azienda che gestisce le farmacie comunali, ndr). La precedente delibera Colomban prevedeva che a maggio 2012 alla partecipata rimanesse solo la progettazione della metro C (mentre tutte le restanti attività sarebbero andate a Roma Servizi per la Mobilità, ndr), invece nella revisione approvata viene indicato ottobre 2019 per la cessione dei rami d’azienda e per il processo di riassegnazione del continuo dei lavori della metro C. «La dismissione definitiva di diverse società partecipate di secondo livello non è conclusa e quindi siamo costretti a modificare le date entro le quali questo processo dovrà essere portato a termine», ha spiegato l’assessore al Bilancio e alle Partecipate, il livornese Gianni Lemmetti. In particolare, «per Aeroporti di Roma la cessione delle partecipazioni è già stata fatta, mentre per Centrale del Latte sono ancora in corso le trattative per la determinazione di un congruo valore di cessione».

Su Farmacap Lemmetti ha spiegato l’intenzioni della Giunta: «Valutiamo la conversione della società in società benefit, che agisce secondo le regole del mercato ma porta avanti uno scopo sociale, e che ci consentirebbe il mantenimento della società nel gruppo Roma Capitale e la non applicazione della normativa sulle aziende speciali. La condizione necessaria è l’equilibrio di bilancio. Comunque non c’è alcuna ipotesi di cessione delle farmacie, ma è prevista questa conversione dell’azienda per portare avanti farmacie e assistenza sociale». Un voltafaccia preparato in quattro giorni, festività comprese, «e senza nessun passaggio preliminare in Commissione, di fatto impedendo a consiglieri, cittadini e lavoratori, di leggere e poter intervenire per tempo, provando ad apportare correzioni. Un vero blitz istituzionale alla faccia della trasparenza e della coerenza», denunciano le Rsa di confederali e Usi che non hanno dimenticato le levate di scudi di Raggi, quando c’era Marino (Pd) sullo scranno di sindaco, a difesa di Farmacap come Azienda speciale pubblica che però ora si vuole tramutare in “società benefit”, «una nuova forma di privatizzazione di importazione statunitense», spiegano i sindacalisti tenuti rigorosamente all’oscuro da Lemmetti che a ottobre li aveva incontrati in Campidoglio guardandosi bene dal rivelare l’orientamento filoprivatizzazioni che la Giunta stava per definire anzi «negando l’esistenza di progetti di trasformazione societaria, e fantasticando di un futuro radioso per l’azienda. Il gioco ora è scoperto».

E ora cosa ne sarà dell’acqua pubblica che gli stessi personaggi ora al Campidoglio e a Palazzo Chigi hanno giurato di voler ripubblicizzare?

Salvini e Goebbels sono arrabbiati con Left

Doveva accadere, prima o poi. A forza di allenarsi come rabdomante in cerca di nemici Matteo Salvini alla fine è arrivato fin qui, scagliandosi contro Left perché si è permesso (ma va?) di ricordare come molte delle sue parole (ma mica solo le parole: ci sono i giubbotti griffati Casapound, c’è la sua attitudine militaresca alla divisa, ci sono le foto con gli eversivi di destra, ci sono i nostalgici tra le frange del suo elettorato e tutto il resto) abbiano il sapore di quella che fu la propaganda nazista e mussoliniana.

Scrive il ministro dell’inferno nel suo tweet:

«I giornali di sinistra sostengono che avrei usato parole di… Hitler. Ma vergognatevi, cretini!»

Sorgono alcune considerazioni. Primo: il plurale i giornali di sinistra mentre invece sta parlando di Left indica tutto il suo infantilismo per cui esiste Lui, Lui solo, e tutti gli altri sono nemici, indistinguibili, con l’unica caratteristica comune di essere contrari alle sue politiche (che, guarda un po’, è tecnica retorica tipica del fascismo e uno dei punti cardine del “decalogo” di Goebbels sulla propaganda*, appunto). Secondo: di Salvini colpisce come al solito il tempismo e, badate bene, non è un caso che i suoi tweet grondanti di arroganza arrivino proprio nei giorni in cui iniziano anche per lui le contestazioni e in cui ha perso la pazienza dando dei “drogati” ai suoi contestatori (per di più indossando la divisa della Polizia, tanto per rendere il tutto più macabro e più patetico). Terzo: Salvini per attaccare Left riprende un articolo di un piccolo sito locale, come al solito frugando tra le macerie per rilanciare ciò che gli fa comodo dimenticando come gran parte della stampa internazionale lo stia massacrando.

Poi c’è il punto, quello delle parole inventate: in un documento del 16 novembre del 1941 apparivano i dieci comandamenti di Goebbels contro gli Ebrei (chissà se i neofascisti ne conoscono il ruolo, oltre alle dimensioni per il tatuaggio) che diceva letteralmente: «Se uno indossa la Stella di Davide ebrea che in tal modo è contrassegnato come nemico del popolo. Chiunque, nonostante ciò, ancora coltivi relazioni private con lui deve essere considerato e trattato come l’Ebreo». Forte, eh? Proprio simile simile a Salvini che scrive «chi aiuta i clandestini odia gli Italiani». Al massimo dovrebbe essere Goebbels ad arrabbiarsi, mica Salvini.

Intanto, mentre il social stercoraro di Salvini si diverte a scovare nemici del popolo, gli adepti di Salvini rubano coperte ai senzatetto in nome del decoro (come il vicesindaco di Trieste che poi, al solito, vigliaccamente dichiara di essere stato frainteso) e compongono filastrocche razziste contro gli stranieri (e poi, al solito, si scusano, non serve nemmeno dirlo).

Buon lunedì, ministro Salvini.

* 2. Principio del metodo del contagio: Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

Dopo vent’anni di gocce di veleno il colpo finale al Parlamento

Questa storia comincia quando due partiti che si sono presentati alle elezioni con programmi politici molto distanti decidono di stringere un’alleanza di Governo sulla base di un contratto.

Hanno in comune cinque anni di opposizione ai governi del Pd, la vocazione a rappresentare il nuovo, un’attitudine populista a ridurre la politica a rapporto fra leader e follower, senza alcuna mediazione, men che meno la propria. Nei primi tre mesi Salvini prende la leva del comando e impone a forza la sua agenda, fatta di caccia ai migranti e cattiveria esibita in veste di virtù. Di Maio insegue scomposto, tentando sortite confuse, che non lasciano alcuna traccia nell’immaginario, né riescono a coagulare interessi.

Si arriva così alla legge di bilancio, che diventa rapidamente una corsa al rilancio, dove deve entrare tutto e il suo contrario, in nome della frettolosa soddisfazione delle promesse elettorali. A parole si evocano cinque anni di governo, in pratica si agisce come se non ci fosse un domani.

La sintesi è semplice: si truccano i…

L’articolo di Giovanni Paglia prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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Il grande risiko mediorientale

Lebanese people walk past a poster bearing an image of the Palestinian flag and text reading in Arabic: "Palestine, a hundred years of struggle" in Beirut on December 8, 2017. Tens of thousands of people took to the streets of Muslim and Arab countries across the world Friday to protest against US President Donald Trump's recognition of Jerusalem as the capital of Israel, in a show of solidarity with the Palestinians. / AFP PHOTO / JOSEPH EID (Photo credit should read JOSEPH EID/AFP/Getty Images)

«La guerra è finita. Rimangono poche sacche di conflitto, compresa Idlib, ma lì c’è un cessate il fuoco negoziato». Amin Awad è il direttore dell’Unhcr per Medio Oriente e Nord Africa ed è un uomo ottimista. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, il 2019 sarà l’anno del rientro a casa di 250mila profughi siriani. Un quarto di milione su 5,6 milioni di rifugiati totali: l’ottimismo si scontra con i numeri. Ma si scontra anche con l’ennesima guerra, pronta a partire.
Se Idlib resta uno scontro cristalizzato, i venti di guerra soffiano a nord, nella curda Rojava. Da lì la gente scappa già, da mesi. Solo il cantone di Afrin, estremo nord-ovest della Siria, ha perduto 300mila persone, cacciate dall’occupazione turca che le ha sostituite con miliziani islamisti sunniti e le loro famiglie. Ora quell’occupazione intende allargarsi, oltre l’est dell’Eufrate.
Al presidente Putin la luce verde l’ha appena accesa la Casa bianca di Trump: il presidente ha annunciato il ritiro dei marines Usa dalla Siria e dalle basi in Rojava. Senza più il timore di un confronto militare con gli Stati Uniti, la Turchia aprirà il 2019 – con probabilità – con una nuova operazione militare da Afrin fino al nord dell’Iraq. Per stanare, dalle montagne di Qandil, la leadership del Pkk.
Erdogan ha bisogno di segnare punti dopo un 2018 devastante: il crollo della lira ha provocato una fuga di capitali e investimenti, una crisi economica che covava sotto la cenere di una campagna decennale di privatizzazione selvaggia e grandi opere appaltate al circolo familistico del presidente. Al 10 dicembre 2018, secondo il Financial Times, l’inflazione è al 25%, l’economia si è contratta del 5,3% e le importazioni sono calate dai 21 miliardi di dollari di luglio a 16 miliardi. Moody’s prevede un’ulteriore contrazione del 2% nel 2019, mentre i tassi di interesse per prestiti bancari restano stellari, al 30%. È con questo fardello che l’Akp di Erdogan si presenta alle elezioni amministrative del 31 marzo.
A peggiorare la situazione è…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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Tintoretto, il ribelle. Dopo la mostra, al cinema

La storia ci racconta dell’audacia, dell’esuberanza dell’ombroso Jacopo Robusti detto Tintoretto (Venezia, 1519-1594), nomignolo che gli derivava dal lavoro del padre, tintore di sete e dalla sua modesta statura fisica. Veloce e pungente come un «granello di pevere», sapeva imporsi sbaragliando la concorrenza dei grandi nomi dell’epoca a Venezia, da Tiziano a Veronese come accadde per la Scuola Grande di San Rocco, che alla fine divenne quasi una sua opera monografica. Diventare il pittore ufficiale della Serenissima era la sua massima aspirazione. Quando venne bandito il concorso per il soffitto della sala dell’Albergo in San Rocco, come di regola, molti colleghi si presentarono con schizzi, lui arrivò con l’opera bella e fatta, disposto a regalarla. Difficile rifiutare…Generosità interessata, la sua, ma bisogna dire anche che Tintoretto sapeva bene che il vero valore dell’arte è immateriale.

Ben integrato nella società del tempo, fra spettacoli e mondanità letteraria aristocratica, tuttavia, fu tutt’altro che un artista di corte. I pochi documenti superstiti che lo riguardano così come le opere rifiutate dai committenti ci dicono di un artista che non si faceva comandare, che non ripeteva mai pedissequamente l’iconografia tradizionale imposta, ma ogni volta la ricreava, interrogandosi su quale fosse il focus narrativo ed emotivo della scena, sacra o profana che fosse. Ne è un esempio l’opera che segna il suo passaggio alla maturità, quello spettacolare Miracolo dello schiavo (1548) che nella mostra Il giovane Tintoretto nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia suggella e conclude il percorso espositivo invitando il visitatore a proseguire in Palazzo Ducale con Tintoretto 1519-1594 (entrambe aperte fino al 6 gennaio) un’ampia mostra sul ricchissimo periodo della maturità accompagnata da un denso catalogo Marsilio.

Il miracolo di San Marco o dello schiavo indubbiamente rappresenta un salto di paradigma nel percorso di Tintoretto: è una summa di stili attraversata da molte correnti. Ci sono dentro Michelangelo, Raffaello, Parmigianino e molto altro. Ma allo stesso tempo è una creazione di immagine, un’opera del tutto nuova di un autore che ha già sviluppato un proprio originale e personalissimo linguaggio. In questa prima commissione pubblica destinata alla prestigiosa Scuola Grande di San Marco, Tintoretto usa colori acidi, la torsione e la fisicità di figure michelangiolesche, teatralità, scorci arditi: al centro il precipitare di San Marco in scena, visto da sotto in su, come un fulmine a ciel sereno che, d’un tratto, fa cadere di mano gli strumenti della tortura agli aguzzini. Fra grande concitazione il quadro racconta di un prodigioso miracolo popolare. L’immediatezza, il movimento che percorre la folla, ci dice della familiarità di Tintoretto con la vita umile e di piazza, nelle calli più povere, nei mercati, nei porti di pescatori. La pittura deve muovere, commuovere, turbare, parlare a tutti, lui l’aveva ben chiaro. E lo realizza mescolando alto e basso, stile elevato e umile, nudo realismo e raffinati effetti luministici, che orchestrava creando dei piccoli teatri con figurine, studiandone accuratamente luci e ombre.

Potente dinamismo, estrema mobilità, spericolatezza dell’immagine gli servono per arrivare al massimo della tensione emotiva. In questo è un maestro assoluto. Il pathos, le sciabolate di luce, la drammaticità, quel suo modo semplice e diretto, si coniuga con il “sublime”. Questo fece di lui l’artista studiato da Rembrandt, da Delacroix e soprattutto prediletto dai romantici innamorati del “dionisiaco” Tintoretto, con le sue forme via via sempre più evanescenti, larvali, non finite, dal Trafugamento del corpo di San Marco (1566) alla finale Maria Egiziaca in meditazione, quasi appena accennata, in controluce. Sul lato opposto, l’apollineo Veronese che Tiziano indicò come suo erede ideale. Anche per questo Tintoretto è stato considerato antesignano del moderno, insieme a El Greco con le sue figure allungate e ardenti come fiamme, con le sue pale visionarie. Ben prima del pittore cretese (che divenne famoso in Spagna dopo essere stato a Venezia), Tintoretto si rifaceva a radici bizantineggianti, recuperando l’uso della polvere dorata (vedi la Presentazione di Maria al tempio, 1552-1556) che a Venezia non era più di moda nel XVI secolo. Lo racconta bene la mostra nelle Gallerie dell’Accademia offrendo, anche nel catalogo Electa, spunti nuovi per comprendere la formazione di Tintoretto di cui poco sappiamo, se non che fu capace di apprendere da tante e diverse personalità, da Tiziano a Pordenone, da Sansovino a Serlio e Schiavone. Per quanto fosse un pittore piuttosto stanziale (non sono documentati suoi viaggi a Firenze o a Roma) era aggiornato sulle novità più importanti, anche quelle che venivano dalla maniera tosco-emiliana, che era guardata con diffidenza in Laguna. A Venezia circolavano molte opere provenienti da fuori, soprattutto stampe e disegni. Il traffico si intensificò con l’arrivo dell’Aretino che aveva cercato nella Serenissima un riparo dopo il sacco di Roma del 1527. E poi con quello del Sansovino, di Salviati e di Vasari intorno al 1540.

Diversamente da grandi coloristi veneti come Tiziano e Bellini, Tintoretto non disdegnava affatto il disegno. La mostra ci offre esempi altissimi della sua arte grafica, capace di dare movimento, spessore emotivo e introspezione psicologica perfino a copie di busti della statuaria antica. Di sicuro studiò a fondo gli schizzi di Michelangelo per le cappelle medicee: il riverbero si nota nell’ancora acerba Sacra Conversazione Molin esposta nelle Gallerie dell’Accademia. Studiò i bassorilievi del Sansovino come si evince dall’assembramento di folla in piano nel Miracolo dello schiavo. Rivelano una profonda conoscenza di Michelangelo le quinte architettoniche in uno spazio ormai sregolato e la torsione delle figure nella giovanile Disputa di Gesù (1545-46), con un Gesù, ragazzino dialettico e infervorato in secondo piano. Mentre la figura costruita, quasi solo di giallo, che giganteggia in primo piano evoca il coraggio alchemico di Parmigianino, la cui opera, forse, Tintoretto conobbe a Mantova, dove viveva suo fratello, musicista di corte. In Palazzo Té ebbe modo di vedere anche la sala di Psiche opera del manierista Giulio Romano, allievo di Raffaello. Tutto questo ci racconta Tintoretto giovane, la mostra veneziana curata da Paola Marini, Roberta Battaglia e Vittoria Romani che ha il merito di proporre una selezione delle prime opere da lui realizzate, sfrondata dalle molte e incerte attribuzioni. Oltre al colorismo di tradizione veneta, oltre al disegno di marca tosco-emiliana, Tintoretto seppe guardare anche alla pittura fiamminga, da cui mutuò il tratto febbrile e nervoso. Anche quando con i figli pittori (Domenico, Marco e l’amatissima Marietta, che divenne pittrice molto nota all’epoca) mise in piedi una bottega assai quotata, la sua porta era sempre aperta ai giovani artisti che arrivavano dal Nord portando novità che riguardavano la tecnica, ma soprattutto lo sguardo e la visione. In epoca riformata quando si allungavano minacciose ombre controriformiste perfino nella laica e libera Venezia, Tintoretto non si lasciò irretire: dipingendo un soggetto biblico come Susanna e i vecchioni, ritrae Susanna come Venere, come una dea morbida e luminosa, attorniata di specchi, gioielli e suppellettili. Nel magnifico quadro proveniente da Vienna appare nuda con un filo di perle al collo come le cortigiane veneziane, raffinate dame di compagnia che si dilettavano anche di musica e poesia. Susanna, nel quadro ora esposto in Palazzo Ducale è in primo piano, in pena luce, con delicata ombra sull’incarnato che, come è stato notato, appare come la carezza dello sguardo del pittore.

Tintoretto fu dunque pittore storico, sacro, ma anche di mitologia e fine ritrattista. In Palazzo Ducale, due autoritratti, uno giovanile del 1588 e uno finale risalente agli ultimi anni, non a caso aprono e chiudono il percorso curato da Robert Echols e Frederick Ilchman che raccoglie più di 50 opere e una ventina di disegni autografi, fra i quali numerosi prestiti da musei europei e d’Oltreoceano. Se nel primo Tintoretto appare come un giovane pittore romantico, nel secondo si rappresenta incanutito e senza gli strumenti di lavoro. A latere, si legge la scritta «ipsius», indicando se stesso, senza orpelli. In questo autoritratto finale Tintoretto ci guarda negli occhi, quasi a proporci i suoi dubbi, le sue incertezze. Senza neanche il paravento di quella dimensione stoica che aveva proposto in tanti altri ritratti di vecchi qui ben rappresentati.

Tintoretto al cinema dal 25 al 27 febbraio

Tintoretto. Un ribelle a Venezia

L’articolo di Simona Maggiorelli è tratto da Left del 4 gennaio 2019


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Ischia, più che un condono è una condanna alla paura

Ci sono tre ordini di problemi relativi all’isola d’Ischia e ai tre Comuni interessati al terremoto del 21 agosto 2017 che l’approvazione definitiva, lo scorso 15 novembre, da parte del Senato del cosiddetto “decreto Genova” emanato dal governo non affronta e se affronta, risolve male.

Il decreto convertito in legge nasce male. Perché riunisce in un unicum il crollo del ponte Morandi a Genova e la ricostruzione delle aree terremotate sull’isola d’Ischia e nel centro Italia. Sono due temi che mal si legano insieme. Per quanto riguarda, nello specifico, l’isola d’Ischia, la legge stabilisce dei criteri che consentono la ricostruzione con fondi pubblici anche delle case abusive distrutte o danneggiate. Per poter aderire al finanziamento pubblico i Comuni interessati – sono tre: Casamicciola, Lacco Ameno e Forio – hanno sei mesi di tempo per “sbrigare le pratiche” di condono edilizio ancora sospese. Qui nascono i tre ordini di problemi di cui sopra che la legge non affronta e se affronta, risolve male. Ma, prima di ricordarli quei tre nodi, è bene fare una premessa. Nell’anno 2003 il Parlamento ha emanato una legge (il cosiddetto terzo condono) che, in buona sostanza, bloccava la messa in regola degli edifici abusivi costruiti dopo il 1985, anno di una legge nota come “del primo condono” e che portava la firma di Bettino Craxi e di Franco Nicolazzi.

La legge approvata il 15 novembre 2018 in via definitiva riporta le lancette dell’orologio al 1985, per questo è stata definita una legge permissiva. Il primo problema è: chi riguarda la nuova norma? La risposta a…

L’articolo di Pietro Greco prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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Cina, la “grande rinascita” alla prova della stabilità sociale

Beijing, ?hina - September 27, 2014: Crowd of people in Wangfujing, Beijing's most famous shopping district.

Nella tradizione cinese, i numeri hanno un’importanza primaria. Anche solo la scelta del numero di cellulare o della targa di una macchina può diventare una questione di massima delicatezza, in grado di determinare la fortuna o la sventura di una persona. Di numeri importanti e carichi di significati simbolici ce ne saranno molti nel 2019. Se saranno di buon auspicio è tutto da vedere. Il 1 ottobre 2019 ricorre il 70esimo anniversario della Repubblica popolare, fondata nel ’49 dopo la vittoria comunista sulle truppe nazionaliste. La data rappresenta un primo giro di boa verso la realizzazione dei cosiddetti “due obiettivi centenari”, annunciati dall’ex presidente cinese Jiang Zemin nel 1997 e rilanciati da Xi Jinping durante la Central conference on work relating to foreign affairs del 2014. Come suggerisce il nome si tratta di due traguardi storici che hanno molto a che fare con i concetti di “rinascita nazionale” e “sogno cinese” inaugurati da Xi appena assunto l’incarico di segretario generale del partito comunista due anni prima.
I due obiettivi sono: «Raddoppiare il Pil e il reddito pro-capite del 2010 nelle aree urbane e rurali, e raggiungere una società moderatamente prospera entro il centenario del Partito (2021); rendere la Cina un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, avanzato culturalmente e armonioso entro il centenario dalla fondazione della Repubblica popolare (2049)». La roadmap è stata ampliata durante il 19esimo Congresso del partito, con l’aggiunta di un’ulteriore precisazione: secondo i piani, la Cina non solo sarà…

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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A caccia di voti con i porti chiusi

TOPSHOT - A migrant is transferred at the Centre for Temporary Assistance to Foreigners (CATE) in San Roque, after arriving on board the Spanish NGO Proactiva Open Arms in the southern Spanish port of Algeciras in Campamento near San Roque, with 311 migrants on board,on December 28, 2018. - The Spanish NGO Proactiva Open Arms' ship which rescued 311 migrants in distress off Libya docked in Spain today after roaming the Mediterranean for days. (Photo by JORGE GUERRERO / AFP) (Photo credit should read JORGE GUERRERO/AFP/Getty Images)

Quale Europa per chi arriva nell’angolo più opulento del pianeta in cerca di futuro? Il pessimismo è d’obbligo. Non basta che gran parte dei Paesi Ue si siano pronunciati a favore prima a Marrakech del Global compact for migration e poi a New York per il Global compact for refugee. Si tratta di documenti pieni di buone intenzioni ma che non hanno alcun valore vincolante per i singoli Paesi. Il voto ostile di Usa e Ungheria, in materia di rifugiati e quello riservato agli immigrati, a cui si è aggiunta la posizione dell’Italia, del “gruppo Visegrad”, di altri Paesi europei e del Brasile, che o non hanno partecipato all’incontro o hanno dato parere contrario, ha soprattutto un valore simbolico e connesso alle campagne elettorali. Testi nati con la Carta di New York ma che difficilmente troveranno applicazione in Europa.

I due temi su cui si incentrerà la campagna per le elezioni del Parlamento europeo a maggio, invece che vertere sulle modalità di uscita dalla crisi si caratterizzeranno sulle spinte sovraniste (il recupero di un ruolo degli Stati nazionali rispetto all’Unione) e le modalità per respingere o cacciare migranti non funzionali al ciclo produttivo. Questioni legate che trovano un punto di snodo nella revisione, che dovrebbe definirsi ad aprile, della cosiddetta Direttiva rimpatri (115/2008). È deprimente constatare che, alla sua approvazione, negli ambienti più determinati a non far divenire l’Europa una fortezza, la si chiamava “Direttiva della vergogna”, per come riduceva i diritti dei migranti. Ogni Stato l’ha recepita a modo suo. In Italia, solo dopo tre anni e con una interpretazione restrittiva è stata applicata, con l’incremento della detenzione amministrativa negli allora Cie (oggi Cpr), costringendo sempre più persone alla irregolarità forzata, facilitando espulsioni con accordi bilaterali a volte neanche discussi in Parlamento.

Per comprendere i peggioramenti previsti bisogna partire dal discorso sullo stato dell’Unione fatto dal presidente Jean-Claude Juncker il 12 settembre scorso. Lì sono state presentate…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 4 gennaio 2019


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Emergenza freddo a Roma, dove dormiranno stanotte gli sfollati del Baobab Experience?

«La notte del 4 gennaio siamo stati testimoni dell’ennesimo abuso delle istituzioni romane sul corpo e sulla psiche dei migranti. Alla Stazione Tiburtina una rete divisoria separava alcuni migranti che dormivano in terra da altri sei stesi su delle brandine in mezzo ad altre 24 vuote». La denuncia è di Roberto Viviani, presidente di Baobab Experience che ha realizzato anche un video per documentare la situazione.

Siamo a Roma. In seguito all’allerta meteo diramata dalla Protezione civile per l’abbassamento delle temperature, il Dipartimento per le politiche sociali del Comune ha attivato nuove strutture per l’accoglienza delle persone senza dimora. Ottanta posti ripartiti tra i locali della Stazione Termini, della Stazione Tiburtina e presso la Casa di Riposo di via Gioacchino Ventura. Garantendo, anche, l’apertura delle fermate metro di Flaminio e Piramide. Fino alle sei di mattina. Ma alle 23.30 i posti disponibili – circa trenta – sembravano non essere sufficienti. Almeno stando a quanto osservato dagli attivisti del Baobab Experience. Erano 24 le persone bisognose di assistenza segnalate alle 2.30 ma solo a cinque di loro è stato assicurato il posto letto nella struttura allestita presso la Stazione Tiburtina. Per gli altri costretti a dormire per terra in sistemazioni di fortuna, i posti assegnati sono stati otto alla Stazione Termini e cinque a via Ventura. Posti lontani da raggiungere, specie con la metropolitana già chiusa e comunque senza soldi per pagarsi un biglietto dell’autobus e attraversare la città con il carico di coperte ed effetti personali.

Dalla Sala Operativa Sociale replicano che non c’è mai fine alle emergenze notturne. Ma alle due di notte, ventiquattro brandine erano ancora libere. Rimaste tali fino alle cinque e mezza, quando sono state ripiegate definitivamente. A Termini ne sono rimaste vuote circa quindici.

«Su 80 posti, 32 sono stati occupati e in via Ventura, dove erano state predisposte 20 brandine, abbiamo accolto quattro persone» dicono a Left dall’assessorato. «Le altre sono rimaste inutilizzate per il rifiuto da parte dei ragazzi del Baobab Experience. Che, invece, in quei locali avrebbero trovato pasti e docce calde». E riguardo la Stazione Tiburtina? «Quei posti erano stati assegnati a persone particolarmente vulnerabili, incapaci di spostarsi, come anziani e disabili senza tetto, segnalati da altre associazioni e dall’unità di strada».

«Viene da pensare a un accanimento (e anche contro il Baobab Experience per la schiettezza con cui fa emergere negligenze ed emergenze taciute altrove) sulla pelle dei più deboli», replica Roberto Viviani. «La spiegazione più naturale (e più umana) – aggiunge il presidente di Baobab Experience – è che non ci sia l’organizzazione competente per affrontare l’emergenza e che, dopo due anni dalla partenza di questa amministrazione, non ci siano ancora le capacità di gestire le questioni sociali e, soprattutto, quelle relative ai migranti e ai senza fissa dimora».

Venerdì in serata i ragazzi del Baobab Experience, che alle 21 saranno accompagnati alla Stazione Tiburtina dagli attivisti, (forse) verranno accolti tutti. Sino al riempimento dei posti disponibili. Per gli arrivi emergenziali, verrà valutata la disponibilità tra la Stazione Termini e via Ventura. Assicurando la visita dell’assessore alle Politiche sociali, Laura Baldassarre.