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Segregati a casa loro, cronache dalla Cisgiordania

Valle del Giordano. «La strada è chiusa, l’esercito non fa passare». Una telefonata e Nasser fa retromarcia: impossibile raggiungere la comunità nel profondo nord della Cisgiordania dove eravamo diretti. «Stanno demolendo delle case, se ci avviciniamo ci bloccheranno per qualche ora», ci dice. Nasser, la nostra guida, è un insegnante, ha poco più di 30 anni. È di origine beduina, come tanti palestinesi rimasti a vivere nella Valle del Giordano dopo il 1967 e il lento svuotamento della zona più fertile della Palestina storica.

Di abitanti, prima dell’occupazione militare israeliana, la Valle del Giordano ne contava 300mila. Oggi ne rimangono poco più di 50mila, la stragrande maggioranza è concentrata a Gerico e in una manciata di cittadine che dagli Accordi di Oslo del 1993 tra Israele e Olp ricadono in area A, sotto il controllo civile e militare dell’Autorità nazionale palestinese. Il resto, il 95% della Valle del Giordano, è area C (sotto il totale controllo israeliano) e in buona parte zona militare chiusa. Qui il divieto di costruire è assoluto: è Israele che decide chi costruisce e cosa, ma i permessi rilasciati ai palestinesi sono una chimera.

«Mai visto un permesso, chissà com’è fatto». Scherza Abu Riadh, dall’alto della sua lunga esperienza con i bulldozer israeliani. Con la famiglia…

Il reportage di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 16 novembre 2018


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Katja Kipping: Costruiamo un’Europa solidale e una sinistra transnazionale

DRESDEN, GERMANY - JUNE 15: Katja Kipping, co-Chairwoman of the left-wing Die Linke political party, speaks at the party's federal convention on June 15, 2013 in Dresden, Germany. Die Linke, Germany's main left-wing political party, are meeting to decide on their policy program for German federal elections scheduled for September. (Photo by Joern Haufe/Getty Images)

Incontriamo Katja Kipping, classe 1978, nel suo ufficio al Bundestag. Nata nella Germania dell’Est, nonostante l’età, Kipping ha un curriculum di tutto rispetto: in Parlamento dal 2005, guida la Linke dal 2012, riconfermata già negli scorsi tre congressi. È una fase delicata, per la Germania, con l’annuncio di Angela Merkel di non ricandidarsi, e per la sinistra tedesca.

Frau Kipping, cominciamo con Germania. Le elezioni in Baviera e in Assia sono state un terremoto politico: Cdu/Csu e Spd in crisi, i Verdi volano, la Linke non sembra approfittare della situazione.
La Linke cresce, nelle urne e tra gli iscritti, in particolare tra i giovani. Tuttavia anch’io sono impaziente, penso che dovremmo crescere di più. All’inizio di quest’anno ho proposto una strategia perché la Linke diventasse più grande. Puntavo al 15%. E questo non è ancora successo.

Perché?
I Verdi approfittano molto meglio di noi della crisi della socialdemocrazia. Appaiono più capaci di noi di imporre il loro programma in una coalizione al governo e di fermare il populismo di Alternativ für Deutschland. Ecco perché dobbiamo continuare a combattere per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone e per questo è necessario un cambio dei rapporti di forza nel Paese. Dobbiamo essere in grado di…

L’intervista di Fernando D’Aniello a Katja Kipping prosegue su Left in edicola dal 16 novembre 2018


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Matthew Caruana Galizia: L’Europa dei poteri forti non tollera i giornalisti seri

Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger maltese, è stata uccisa il 16 ottobre 2017. Erano circa le tre di un lunedì pomeriggio, quando la sua Peugeot 108 è stata fatta saltare in aria, con una bomba radiocomandata, a pochi metri di distanza dalla sua abitazione a Bidnija. Doveva andare a risolvere «una questione» in banca, il suo conto corrente era stato congelato dal ministro dell’Economia Chris Cardona, per un articolo che lo riguardava. Uscendo, aveva rassicurato l’unico dei suoi tre figli che in quel momento era in casa che sarebbe rientrata verso le cinque. Pochi minuti dopo un’esplosione. Matthew è corso fuori. Di fronte a lui una palla di fuoco e una torre di fumo nero. Sua madre era stata uccisa.

«La mia posizione è un po’ difficile. Come dire, non era nei miei programmi diventare un attivista», riflette Matthew durante il nostro incontro allo Espace Niemeyer a Parigi, dove partecipava al secondo summit mondiale dei difensori dei diritti umani, che si è svolto dal 29 al 31 ottobre. «Io e la mia famiglia siamo l’esempio di quello che succede quando in un Paese il sistema giuridico è compromesso a tal punto che i giornalisti non possono più fare il proprio mestiere. Non sono più in grado di offrire quel servizio che si suppone venga svolto all’interno di uno Stato democratico. E, invece, sono costretti a passare la maggior parte del tempo a giustificare la propria esistenza, affrontando attacchi, intimidazioni, difendendo il diritto di fare il proprio lavoro. Quando un giornalista si trova in questa posizione è il segno che…

L’articolo di Laura Filios prosegue su Left in edicola dal 16 novembre 2018


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I quarantamila di Torino, storia di un falso che si ripete

I partecipanti alla manifestazione Sì Tav in Piazza Castello a Torino, 10 novembre 2018. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

«La questura non dà i numeri», mi spiegano gentilmente all’ufficio stampa della questura di Roma. I numeri delle manifestazioni. Poi viene precisato: «Non c’è una regola precisa. Decide il questore». La “cifra della questura” è solo la stima che gli organizzatori devono fornire quando richiedono la piazza e, di solito, viene resa nota dalla polizia a ridosso dell’evento. La scientifica filma tutto e calcola le presenze ma l’analisi è quasi sempre a uso interno. Con poche eccezioni. Ad esempio nel 2010, quando Berlusconi pretendeva di aver portato un milione di persone a piazza S. Giovanni, o tre anni dopo, che Grillo diceva di avercene stipate 800mila, via Genova comunicò che c’erano, rispettivamente, 150mila persone e 100mila.

Il metodo più utilizzato è quello di stimare quattro persone per metro quadro che si dimezzano in inverno quando l’abbigliamento è più ingombrante, e S.Giovanni è ampia “solo” 42mila mq e può contenere – strizzate – tra le 120 e le 150mila persone, più altre 50mila nelle strade adiacenti in caso di adunate davvero oceaniche. La guerra dei numeri, tuttavia, riguarda tutti: anche Pd e Cgil – come si dice a Roma – ci hanno “giobbato”, spacciando milioni immaginari di manifestanti al Circo Massimo, e continueranno a farlo. I numeri li dà chi la racconta e certe volte è un messaggio cifrato. Proprio come la cosiddetta marcia dei 40mila di Torino, nel 1980 come trentotto anni dopo. Non erano 40mila né allora (12mila) né sabato scorso, quando in parallelo con la marcia antirazzista a Roma, in Piazza Castello, sono arrivate bandiere olimpiche, dell’Ue ma anche britanniche (allusione alla Brexit) per la chiamata del comitato “Sì Torino va avanti”, sostenuto da costruttori, bottegai, sindacati confederali, industriali.

Secondo la questura (che stavolta si è espressa) la manifestazione…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 16 novembre 2018


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Nouri Al Jarrah: La mia lunga lotta per la libertà di pensiero

«Il poeta è un essere umano universale, non nazionale. Per questo sono contro il concetto di “patria” che strumentalizza l’identità: sono per la diversità, non per l’identitarismo». Nouri Al Jarrah è puntuale. L’occasione per incontrarlo è l’uscita in Italia di una sua raccolta di poesie, Una barca per Lesbo (ed. l’Arcolaio, traduzione di Gassid Mohammed). Lui, Al Jarrah, si fa trovare fuori dalla stazione della metropolitana di Hammersmith, a Londra.

Nato nel 1956 a Damasco, in Siria, ha passato due terzi della vita fuori dal suo Paese, costretto all’esilio. «Non ho particolari problemi con questa condizione» spiega Jarrah, mentre ci avviamo verso il suo ufficio nella redazione del quotidiano panarabo al Arab. «L’esiliato è sicuramente un essere scisso a metà che guarda da dove viene e verso dove va. Ha un doppio sguardo. È una condizione privilegiata. Io mi sento cittadino del mondo, per questo non sono mai straniero». Quando entriamo nella redazione di al Arab, primo quotidiano arabo fondato a Londra nel 1977, gli uffici sono vuoti.

È domenica, Al Jarrah è capo-redattore delle pagine culturali del giornale. Ma lui si definisce solo un poeta. «Il giornalismo è un mezzo per vivere, non c’è un giornalismo arabo libero – sottolinea, seduto alla sua scrivania – perché i quotidiani sono finanziati dai governi e così diventano il diffusore scritto delle politiche dei regimi. Non esiste un giornalismo arabo, ma giornalisti che scrivono in arabo» critica senza mezze misure. «Le pagine culturali sono le uniche dove si riescono a trovare spiragli per superare la censura delle idee, criticando».
E la vita di Al Jarrah è stata tutta una critica: prima, da giovane, contro il partito comunista siriano – di cui era membro – e poi contro il governo di Hafez al Assad.

Così, a 25 anni, in pericolo di vita, è costretto a…

 

L’intervista di Shady Hamadi a Nouri Al Jarrah prosegue su Left in edicola dal 16 novembre


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La satira è sovversiva perché fa pensare

Non amo parlare di Satira. Preferisco farla. Non mi piace nemmeno parlare di censura. Preferisco rifiutarla. Non accettarla. Mai. E la più insidiosa e pericolosa delle censure è l’autocensura. Opportunità, buon gusto, correttezza, senso del limite… in una sola parola: conformismo. Il conformismo è, per chi fa satira, come la kryptonite verde per Superman o peggio come il congiuntivo per Di Maio, micidiale.

Nella mia produzione, le vignette che preferisco sono quelle sulle quali non sono d’accordo nemmeno io. La satira può essere: tagliente, graffiante, pesante, amara e tutti gli altri aggettivi che di solito le vengono attribuiti da chi non la fa. Per me è un gioco, proprio come quello dei bambini, a volte rischioso, spesso chiassoso, fastidioso alle orecchie degli adulti ma mai monotono e sempre ricco di fantasia. E i bambini (almeno quelli di un tempo lo erano) sono immuni al conformismo.

Potrei stilare un elenco dei tentativi di censura, dei licenziamenti ed espulsioni, delle denunce e dei processi, assoluzioni e condanne che, negli anni, questo gioco mi ha procurato. Ultima l’ossessione compulsiva di Salvini di querelarmi ogni venti minuti. Non lo farò perché è noioso e pure un po’ triste.

Non ho la vocazione né al martirio né all’autocommiserazione. Ho la vocazione all’allegria del gioco. È l’allegria in fondo quella che potenti e prepotenti temono più dell’invettiva. Il potere è cupo per definizione. L’allegria è sovversiva perché ciò che rende allegro l’animo è la Libertà. Chi coltiva ostinato l’allegria cerca la Libertà. L’agguanta, la ruba, l’addenta. La rifiuta quando gli viene concessa, una libertà autorizzata non è Libertà.

«Questo mondo non è attrezzato per l’allegria, la gioia va strappata a viva forza», diceva Majakovskij. Qualcuno potrebbe obiettare che però Majakovskij alla fine si sparò un colpo. Beh, forse anch’io lo farò se la «viva forza» un giorno mi venisse a mancare. Mi sparerò con una pistola giocattolo.

Per gioco e per allegria.

L’articolo di Vauro Senesi è tratto da Left in edicola dal 16 novembre 2018


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Ecco dove e come la Chiesa nasconde i preti pedofili

Pope Francis (C) stands in front of prelate auditors, officials and advocates of the Tribunal of the Roman Rota during an audience for the occasion of the solemn inauguration of the judicial year at the Clementine Hall of the Vatican Apostolic Palace on January 23, 2015. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO (Photo credit should read OSSERVATORE ROMANO/AFP/Getty Images)

Una casa qualunque, nella più scialba delle località di mare. Vi abitano da anni quattro sacerdoti anziani e una suora che apparentemente svolge la funzione di domestica, ma in realtà li controlla. I preti vi risiedono per volere della Chiesa, sono in punizione: devono riconoscere ed espiare i loro «peccati» – che vanno dalla cleptomania fino al vizio del gioco e all’omosessualità – il più lontano possibile da occhi indiscreti. Il tempo scorre lento in questo ambiente anonimo, i sacerdoti pregano a orari fissi, si scambiano qualche parola, guardano la tv: una vita normale, come se nulla fosse. Uno dei quattro sembra in stato catatonico, in realtà ascolta tutto ciò che viene detto tra quelle mura ingiallite. Siamo in Cile e questo è il set del film Il club, diretto da Pablo Larraín e vincitore nel 2015 del Gran premio della giuria alla Berlinale. In Italia, dopo la proiezione alla Festa del cinema di Roma, la pellicola è passata in poche minuscole sale, giusto il tempo di un respiro. Improvvisamente, nel film, la routine quotidiana è incrinata dall’arrivo di un quinto ospite, che si porta dietro una storia di abusi. Una delle sue vittime, ridotta a vagabondare e a delirare, lo ha seguito e si è accampata nei pressi della casa per tenerlo sotto controllo. Urlando da dietro una bassa palizzata, ricorda al suo aguzzino le violenze subite e lo fa nel linguaggio più volgare e con tutti i più crudi particolari, guardandolo negli occhi: il prete pedofilo, schiacciato dal senso di colpa, si toglie la vita. A quel punto compare padre García, un aitante religioso di nuova generazione, deciso, risoluto, inflessibile, dall’eloquio ipnotico. Un gesuita. Ha il compito di chiudere quel luogo ed evitare lo scandalo, ma la tragedia che si è appena consumata sembra solo un pretesto. García di questi siti ne ha già dismessi parecchi perché la «Casa madre» li considera fuori dal suo controllo. Questo è ciò che accade al cinema. Nella realtà, i siti di controllo, cura ed espiazione per sacerdoti problematici sono tenuti in grande considerazione dalla Chiesa cattolica, pur non essendo mai menzionati nei discorsi ufficiali delle sue gerarchie. È lo stesso diritto ecclesiastico a prevedere l’esistenza di «case destinate alla penitenza e alla correzione dei chierici anche extradiocesani» (can. 1337, §2). Ve ne sono ovunque nel mondo e, come abbiamo scoperto, anche in Italia, disseminate come piccole enclave vaticane lungo tutto lo Stivale, dal Trentino fino alla Sicilia. Siamo andati a scovarle, a visitarle e a parlare con chi ci vive, le gestisce e coordina. Nessuno lo aveva mai fatto prima. Qualche volta ci hanno aperto le porte, molto più spesso non ci hanno nemmeno risposto. Ne abbiamo censite diciotto, nel corso di un’inchiesta fatta di sopralluoghi, interviste, centinaia di mail e telefonate, e ancora incrociando e verificando dati e notizie estrapolati dagli annuari delle diocesi italiane, oltre che da articoli di giornale quasi sempre relegati in cronaca locale. Forse la mappa non è neppure completa, perché la discrezione che avvolge queste strutture spesso sfocia in segretezza, a causa dell’atavico timore del Vaticano verso lo scandalo pubblico. Il motivo è semplice: in genere questi centri sono una via di mezzo tra una clinica psichiatrica per sacerdoti in profonda crisi e un luogo di reclusione, poiché è tra queste mura che i preti che hanno guai con la giustizia italiana spesso chiedono di scontare le misure cautelari e gli arresti domiciliari. Ma c’è di più. Sono queste le strutture che la Chiesa utilizza per curare e tenere sotto controllo i sacerdoti riconosciuti colpevoli di abusi su minori dalla Congregazione per la dottrina della fede, e che la Santa sede non ha voluto segnalare all’Onu (a due diverse Commissioni delle nazioni unite che nel 2014 indagavano sul rispetto della Convenzione per la tutela dei minori e di quella contro la tortura, ndr) e quelli che spontaneamente chiedono aiuto a «colleghi» specialisti dopo aver scoperto di essere «attratti» dai bambini. Si tratterebbe in pratica di luoghi di reclusione – ma senza sbarre e carcerieri – paralleli a quelli dello Stato, dove sono trattenuti i presunti responsabili di reati compiuti in territorio italiano ma che non vengono denunciati alla giustizia civile dai loro superiori. Perché secondo la legge vaticana costoro sono prima di tutto dei peccatori, e come tali devono essere puniti ed espiare secondo i canoni della giustizia divina. Queste dimore costituiscono solo la punta di un gigantesco iceberg. Durante un colloquio con un sacerdote psicoterapeuta abbiamo scoperto che da almeno trent’anni esiste nel nostro Paese una rete ben organizzata di assistenza per preti in crisi, avvolta nella totale riservatezza, che attraversa la penisola come un fiume carsico. Una rete composta da centinaia di case parrocchiali, comunità di religiosi e abitazioni di famiglie laiche pronte ad accogliere, per periodi più o meno lunghi, quegli ecclesiastici che secondo i loro superiori hanno bisogno di «staccare la spina» a causa dei motivi più disparati, dai disagi interiori più o meno marcati alle crisi vocazionali. In ciascuna delle oltre duecentoventi diocesi italiane è presente almeno una struttura in grado di isolare dal mondo i «figli della Chiesa» che vogliono intraprendere un cammino di recupero, espiazione e penitenza. Da questa rete di assistenza residenziale sono invece escluse le suore, che hanno a disposizione solo servizi ambulatoriali e l’aiuto esterno da parte di equipe di psicoterapeuti. In alternativa c’è la «cura» da parte delle consorelle in convento.

*

In libreria L’ex numeraria dell’Opus Dei Emanuela Provera e il giornalista di Left Federico Tulli hanno attraversato l’Italia visitando e raccontando in Giustizia divina, in libreria per Chiarelettere dal 9 novembre, i cosiddetti centri di cura per sacerdoti e suore “in difficoltà”. Come funzionano? Chi li finanzia? Da nord a sud, operano nella più assoluta discrezione e riservatezza. Ospitano sacerdoti e suore con le storie più diverse, alcuni dei quali sottratti alla giustizia. Di loro si occupa la Chiesa, come una “madre amorevole”. La violenza sui minori non è l’unico reato commesso da ecclesiastici. C’è la suora stalker, il sacerdote omicida, c’è l’omosessualità, che per la Chiesa resta un peccato da espiare lontano da occhi indiscreti. C’è il prete affetto da ludopatia e quello ossessionato dai siti porno. Una minoranza, certo. Ma molto numerosa. Tutta colpa del diavolo, dice la Chiesa, come documenta l’ultima parte di questa inchiesta, dedicata alle scuole di esorcismo in Italia e alle cerimonie di liberazione dal “maligno” a cui gli autori hanno partecipato di persona. Se questa è la realtà dietro agli appelli e alle battaglie di papa Francesco, se questo è il Vaticano, difficile che qualcosa possa davvero cambiare.

Libertà di stampa e diritto ad essere informati (video)

Libertà di stampa e diritto ad essere informati. Correttezza, approfondimento, pensiero critico sono la spina dorsale di tanti giornalisti in Italia, oggi insultati, attaccati, minacciati anche con querele temerarie. In occasione dell’uscita del nuovo numero di Left dedicato a questi temi e alla difesa dell’articolo 21, in redazione ne abbiamo parlato con Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana e con la giornalista Antonella Napoli che per Left ha scritto reportage dalla Turchia e da altre zone del mondo dove i giornalisti ogni giorno rischiano la pelle per crescere un’opinione pubblica informata e libera di scegliere. Parliamo anche del Rapporto Iheu sulla libertà di pensiero mondo che la UAAR Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti ha presentato alla Camera nei giorni scorsi. In quanto a tutela dei diritti degli atei, dei non credenti o di chi appartiene a minoranze religiose, basti dire che l’Italia si piazza al 159 posto su 196 Paesi.

 

Per approfondire, Left in edicola dal 16 novembre 2018 oppure in versione digitale sul nostro sito


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Pietra tombale sul caso Magherini. Tutti assolti i carabinieri in Cassazione

Foto LaPresse/Lo Debole - Bianchi 02-11-2015 Firenze - Italia cronaca Prima udienza del processo Magherini, in aula sono stati convocati i primi testimoni Nella foto: Andrea Magherini Photo LaPresse/Lo Debole - Bianchi02 november 2015 Florence - Italy news Hearing process MagheriniIn the pic: Andrea Magherini

«Guido ed Andrea Magherini. Una famiglia distrutta. Quel video terribile che documenta la morte di Riccardo stretto al suolo mentre urla invano chiedendo aiuto. Quei calci ripetuti riferiti da 14 testimoni. La lesione al fegato. Due condanne pronunciate dai Giudici di primo e secondo grado improvvisamente annullate dalla Cassazione senza rinvio “perchè il fatto non costituisce reato”. È un momento difficilissimo ma se vogliamo essere vicini ed aiutarli non abbandoniamo la strada della civile indignazione. Quel che posso dire è che la vicenda giudiziaria non è da considerarsi chiusa. Attendiamo le motivazioni. Di più non dico».

Guido e Andrea, rispettivamente, sono il padre e il fratello di Riccardo Magherini. E chi scrive il post su facebook è Fabio Anselmo, il loro avvocato, parte civile in parecchi processi come questo. Processi di malapolizia, di abusi in divisa.

Il giorno dopo il clamoroso colpo di spugna, l’indignazione per l’assoluzione e la solidarietà per la famiglia Magherini attraversano la comunicazione nelle reti di quanti si battono contro la police brutality – da Acad (che proprio ieri presentava il Vlad, vademecum contro gli abusi in divisa) fino ai ragazzi delle curve, alle associazioni per i diritti umani – e la vicenda di giustizia negata avrà un eco, certamente, anche nelle mobilitazioni contro il decreto Salvini.

I fatti
Durante la notte fra il 2 e il 3 marzo 2014, nel quartiere di San Frediano, a Firenze, Riccardo moriva schiacciato sotto il peso di quattro carabinieri. Muore a quarant’anni, gridando e chiedendo disperatamente aiuto. Poco prima era, dall’altra parte dell’Arno, all’hotel St Regis di piazza Ognissanti. I testimoni diranno che alternava momenti di lucidità ad altri in cui sembrava preda di allucinazioni. All’una meno un quarto chiama un taxi dal cellulare. Chiede di essere accompagnato a Porta Romana ma al ponte alla Carraia, prende a urlare, inveisce, accusa il tassista: «Anche tu sei uno di loro, non puoi farmi questo…». Riccardo scende e inizia a correre, ormai è in preda al panico, sale su un’auto con 5 ragazzi che passa sul ponte, dice che è inseguito e che vogliono sparargli, poi corre verso San Frediano. A spallate rompe la porta a vetri di un locale ed entra. Vuole chiamare la polizia, strappa il telefono dalle mani del pizzaiolo, esce in strada e s’inginocchia chiedendo ai passanti di non sparare. Sale su un Doblò che passa per strada, poi fugge verso un’altra pizzeria ma sbatte la testa alla porta chiusa e finisce per terra. A quel punto arriva la prima gazzella. I carabinieri, al loro arrivo, avvertiranno l’ambulanza. Riccardo, senza opporre resistenza, restituisce il telefono al pizzaiolo. Arriva la seconda macchina dei carabinieri.

I carabinieri riescono a immobilizzare Magherini di fronte al cinema Eolo: braccia dietro la schiena e pancia a terra ma lui continua a scalciare e a chiedere aiuto. All’1.21 arriva la chiamata alla centrale dell’Arma: «Lo abbiamo fermato». Uno dei militari chiede del 118 e la centrale conferma: «Sta arrivando l’automedica». I testimoni diranno che uno dei carabinieri, capelli rasati, sferra calci sul fianco destro di Magherini. Alcuni raccontano di un un altro che tiene il ginocchio sul collo di Riccardo, piantato sulle spalle o sulle gambe. Altri tre testimoni che all’inizio avevano parlato di comportamento corretto dei carabinieri, cambiano versione e confermano i calci. Nove persone che raccontano la stessa scena. In un video si sente la voce di un giovane che dice al carabiniere di non dare calci e il maresciallo che risponde «non rompere i coglioni». Riccardo urla, qualcuno dice «no, i calci no, chiamate l’ambulanza». Riccardo urla «ti prego, chiama l’ambulanza. Salvatemi». Un appuntato è a cavalcioni sulle gambe di Magherini. Il carabiniere ferito alla fronte è in disparte a identificare alcune persone. L’appuntato più alto, anche lui senza capelli, si trova sulla destra, all’altezza del bacino di Magherini, il maresciallo con i capelli si trova a destra all’altezza della testa.

All’1.33 l’ambulanza comunica di essere sul posto ma senza il medico. Un volontario chiede alla centrale «un dottore per poter sedare» l’uomo che è per terra, «gli sono addosso in due per tenerlo fermo». Riccardo smette di urlare e muoversi nei cinque minuti che vanno dall’1.28 all’1.33, così come emerge dall’orario di registrazione dei video (all’1.28 si sentono ancora le grida di Riccardo). Quando arriva l’ambulanza Riccardo è immobile, ammanettato pancia a terra. Ha gli occhi chiusi. Una volontaria gli solleva le palpebre e vede le pupille dilatate. Chiede di togliere le manette ma il maresciallo risponde che le toglie solo se necessario specificando che lui non risponde di eventuali gesti violenti di Magherini. Viene applicato il saturimetro al dito ma non c’è alcun parametro vitale. Pensano che non funzioni, nessuno capisce che Riccardo sta malissimo. L’auto medica arriva all’1 e 44 ma si ferma 50 metri prima. Riccardo è in arresto cardiocircolatorio, da almeno 12 minuti non si muove. Le manette verranno rimosse su richiesta del medico che tenterà una vana rianimazione.

Alle 5.50 un uomo chiama il 113: «Buongiorno, mi scusi se la disturbo. Sono il papà di Riccardo Magherini. Mi hanno detto di chiamare voi perché è successa una disgrazia…».

La sentenza
La quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati dell’omicidio colposo di Riccardo Magherini. Il collegio, presieduto da Patrizia Piccialli, ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello perché “il fatto non costituisce reato”. Si conclude così il processo a Vincenzo Corni, Stefano Castellano e Agostino della Porta, che quella notte avevano ammanettato Magherini in preda al delirio. Una decisione che al momento la famiglia, il padre è stato un noto calciatore della Fiorentina, preferisce non commentare. Avevano sperato, dopo le due condanne, in primo grado e in appello, il 19 ottobre a Firenze, e dopo la requisitoria del procuratore generale che ne aveva chiesto la conferma, che il capitolo si chiudesse. «Hanno fatto di tutto per farlo apparire come un delinquente. Vogliamo che il suo nome sia rivalutato», aveva detto il padre lasciando il Palazzaccio al termine dell’udienza, assieme all’altro figlio, Andrea.

Nei due processi di merito la causa della morte del 40enne, ex calciatore, come suo padre, era stata individuata nell’intossicazione da stupefacenti associata all’asfissia. Le motivazioni della sentenza della Cassazione faranno luce sul percorso che ha portato i giudici a ritenere che il fatto imputato ai tre militari non è reato. Nella requisitoria il sostituto pg Felicetta Marinelli, aveva sostenuto l’opposto: «Se i carabinieri lo avessero messo in posizione eretta, avrebbero permesso i soccorsi e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata»: l’ha ripetuto per due volte, ricordando che Magherini era stato a terra col torace sulla strada, per un quarto d’ora, «lo stavano arrestando e avevano l’obbligo di tutelarlo».

«Il decesso di Magherini – ha premesso la pg – è stato determinato dall’elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress», stress, ha ripetuto, «dovuto all’assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri». «È pacifico – ha aggiunto – che i carabinieri erano ben consapevoli dell’alterazione psico-fisica e se l’avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno», l’uomo «avrebbe potuto essere soccorso e con elevata probabilità di salvarsi». I carabinieri, ha anche evidenziato il pg, «avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando e avevano l’obbligo di tutelarlo». Secondo la procura generale, che ha chiesto di rigettare anche il ricorso in tal senso presentato dai familiari di Magherini, si è trattato di un «reato chiaramente colposo» e non di «omicidio preterintenzionale»: i colpi e i calci contestati in ogni caso «non hanno avuto rilevanza nella morte».

«Riccardo – ha detto Anselmo, lo stesso legale che ha seguito i familiari di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, Dino Budroni e altre storie simili – non è morto per la cocaina, la cocaina uccide ma lascia tracce, invece il cuore di Riccardo era perfetto. Non è morto per infarto, ma perché gli è stato impedito di respirare». Secondo la difesa dei tre militari, che su questo ha puntato parte della strategia difensiva, non poteva essere imputata loro un’omissione perché non avevano le conoscenze mediche per riconoscere i segni di una crisi respiratoria. «Riteniamo che i carabinieri non avessero elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente. Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire che era il momento di metterlo a sedere», ha osservato l’avvocato Francesco Maresca, che ha difeso due dei tre carabinieri. Uno di loro, Agostino della Porta, era in aula oggi, ha assistito in prima fila al dibattimento. «In attesa di leggere i motivi – ha detto l’avvocato Eugenio Pini, difensore di Stefano Castellano, uno dei tre militari imputati – ritengo che giustizia sia stata fatta. Dopo aver affrontato numerosi casi analoghi, spero che questa sentenza possa tracciare una nuova linea giurisprudenziale».

Ischia il vento

Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, e il ministro per il Sud, Barbara Lezzi (D), durante il voto sul Dl Genova al Senato, Roma, 15 novembre 2018. ANSA/ETTORE FERRARI

Non me ne vorrà l’amico Pippo Civati se gli rubo il titolo geniale che ha coniato come didascalia di Toninelli che esulta a pugno chiuso in Senato un decreto che sotto l’etichetta di Genova e della sua ricostruzione ci ha messo un bel condono edilizio per Ischia. Notate la grottesca drammaturgia: in un provvedimento urgente che dovrebbe ricostruire si inserisce di straforo un liberi tutti su una ricostruzione abusiva che sta dall’altra parte d’Italia. Se fosse la trama di un racconto, qualsiasi editore lo rimanderebbe indietro contestandone l’assurdità. E invece la realtà è un pessimo romanzo, talvolta, incredibile nel senso letterale del termine, di qualcosa che verrebbe naturale non crederci. Ma è così.

Ma non è tanto la scena di giubilo di Toninelli a turbare il sonno (gesti simili di esultanza sguaiata ci sono stati offerte da tutti, di tutti i partiti, nemmeno troppo tempo fa) quanto la continua banalizzazione del provvedimento su Ischia che viene ridotta a slogan d’accusa da parte di un’opposizione che legittima la rincorsa alla banalizzazione e che invece la maggioranza cerca di confondere.

Allora proviamo a capirne di più. Il punto fondamentale è nel primo comma dell’articolo 25 del decreto. Lo spiega bene il professore Giacomo Costa, già docente di Economia all’Università di Pisa: «Il provvedimento su Ischia inserito nel Decreto Genova è un condono? Tecnicamente no, sostanzialmente sì: in base al primo comma dell´art. 25 del decreto la platea delle domande di condono presentate in risposta alle leggi di condono dell´1985, 1994, 2003 viene ampliata stabilendo che tutte e tre le generazioni di domande siano valutate “applicando esclusivamente le disposizioni… della legge 47/85” proposta e approvata dal governo Craxi.  Questo voluto anacronismo consente di ignorare non solo nella valutazione ma anche nell´ ammissibilità delle domande di seconda e terza generazione i requisiti posti dalle leggi del 1994 e del 2003 in base all´evoluzione nella legislazione ambientale, antisismica, idrogeologica successiva al 1985.»

In pratica il governo ha deciso di appiattire la normativa alla regolamentazione più lasca, allargando le maglie di controlli e di doveri alla misura più comoda. Se fosse un dialogo sarebbe più o meno così:

«Facciamo una gara per vedere chi arriva prima?», «sì, certo, però adottiamo le regole di quella volta che trent’anni fa, ti ricordi, per qualche mese, valse anche arrivare secondi o terzi e quarti eppure dichiararsi primi!», «perfetto!», «via!».

Con la sanatoria del 1985 si poteva sanare tutto: case abusive in riva al mare, in aree franose, a rischio sismico, vincolate, demaniali, dentro ai Parchi.

Dicono quelli al governo che però se non fosse così a Ischia non si potrebbe costruire.

Quindi un’opera abusiva diventa una colpa solo se ci muore qualcuno? Così, solo per capire. Perché arriveremo sempre tardi, pensandola così. Sempre e solo dopo i morti. O no?

Buon venerdì.