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Non si può dire sempre no. Quindi sempre sì

People take part in a demostration of the SI-TAV movement in favor of the controversial TAV high-speed rail, in Turin, Italy, 10 November 2018. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

È una riflessione che mi rimbalza in testa da un po’ di tempo e che in questi giorni mi si è acutizzata: nel campo delle semplificazioni, in quel banale prato verde in cui tutto è bianco oppure tutto è nero, galoppano felici da qualche anno quelli che lamentano l’esistenza del fronte del no. Li chiamano quelli che dicono no a tutto e nella definizione tengono dentro collettivi diversi, siano loro cittadini o partiti o associazioni, che decidono di contestare un’opera pubblica. Una qualsiasi.

Non scervellatevi troppo: non conta quale sia il progetto, l’importante è dividere l’umanità in due scaglioni immediatamente riconoscibili, sempre per quella storia del tifo come unico motore del consenso di cui mi è capitato spesso di scrivere. Vorrebbero farci credere, questi innovatori che si intestano qualsiasi cambiamento come una vittoria indipendentemente dal fatto che sia in meglio o in peggio, che esista un partito del no contro le opere pubbliche, tutte le opere pubbliche, che va combattuto con un partito del sì a favore delle opere pubbliche, tutte le opere pubbliche.

Sia chiaro: non si tratta solo della manifestazione Sì Tav di Torino (a proposito: in prima fila campeggiava uno striscione, proprio nella prima fila davanti a tutti, in cui si leggeva No ZTL a pagamento, roba da film neorealista) ma in generale della bassissima densità del dibattito sulle opere pubbliche. Sembrano esserci in campo solo due partiti: quelli del sempre sì e quelli del sempre no? Ma non vi sembra una cagata colossale?

Dico: è possibile che tutte le Grandi Opere (che è un marchio che meriterebbe di essere registrato come la Coca Cola o Babbo Natale) siano totalmente giuste o totalmente sbagliate? Davvero i nuovi progressisti sono coloro che cambiano per il gusto di cambiare e i presunti conservatori sono tutti quelli che hanno qualcosa da ridire? Ma la banalità della discussione non vi fa esplodere il cervello?

Va bene fare opposizione, per carità, ma un corsivo di Repubblica di ieri rende bene l’idea:

“Siamo qui per dire sì al futuro, sì al lavoro”, ha detto Mino Giachino, che ha parlato dall’autobus scoperto utilizzato come palcoscenico di fronte a Palazzo Reale. Tanti i cartelli Sì Tav e i tricolori, le uniche bandiere ammesse dagli organizzatori della manifestazione. Giachino, sottosegretario ai Trasporti nell’ultimo governo Berlusconi, ha dedicato l’iniziativa a due “imprenditori lungimiranti”, Sergio Pininfarina e Sergio Marchionne. Ed ha espresso solidarietà alle forze dell’ordine che “per vent’anni si sono presi gli sputi e le botte in Val Susa”. “Ce ne hanno fatte di tutti i colori – ha concluso – ma dopo vent’anni siamo ancora qui a dire sì”.

A posto così? Approfondire, argomentare, magari?

Buon martedì.

Viareggio, la lunga battaglia per la verità e la giustizia

«Viareggio è una città strana, a volte sembra rimpiangere il passato come una nobile decaduta, altre è un corpo ribelle nel quale scorre una vena libertaria. Così il 2 maggio del 1920 quando l’uccisione di un tifoso da parte delle forze dell’ordine provocò una rivolta, guardie rosse improvvisarono barricate per impedire l’accesso all’esercito e sul Municipio sventolava la bandiera nera dell’anarchia. O il 3 febbraio del ’67 quando la polizia caricò senza motivo un corteo di studenti e tutta la città assediò il commissariato», ricorda Tiziano Domenici, uno dei viareggini solidali con l’associazione dei familiari delle vittime del 2009. Ed è proprio quell’anno che cambia tutto.

«C’è una data e un’ora, tuttavia, che segnano un prima e un dopo: le 23.48 del 29 giugno 2009 quando un treno carico di Gpl deragliò nei pressi della stazione innescando un gigantesco incendio che provocò la morte di 32 persone. Da allora niente è come prima. Ogni 29 giugno si grida la voglia di giustizia mentre i treni azionando le sirene ci ricordano che ci sono anche i ferrovieri a portare avanti questa battaglia», continua Domenici ricordando come i familiari delle vittime siano «persone normali che di queste cose non si erano mai occupate. Sono diventate esperti di sicurezza ferroviaria ma questo non sarebbe stato possibile senza la mobilitazione dell’intera città».

Daniela Rombi e gli altri ricominceranno il 13 novembre il via vai in tribunale, per il processo di appello, stavolta a Firenze. Anche la prima volta, sei anni fa, era iniziato un 13 novembre. Anche…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 9 novembre 2018


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La lotta contro l’apartheid rivive con il film “The State against Mandela and the others” e le voci degli eroi sconosciuti

Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Nelson Mandela. La genesi dell’acclamato documentario The State against Mandela and the others, di Nicolas Champeaux e Gilles Porte, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes e riproposto al 59esimo Festival dei Popoli a Firenze, in prima nazionale, aggiunge umanità alla storia delle lotte contro l’apartheid. Ricostruendo il processo di Rivonia, avvenuto tra il 1963 e il 1964, il documentario svela che Mandela non era solo a lottare. Come lui, altri otto affrontarono il processo per crimini punibili in Sud Africa con la pena capitale. Uniti nella determinazione di non ricorrere in appello in caso di condanna, i nove riuscirono, con questa grande coesione tenuta durante il processo, a far conoscere al mondo i soprusi dei bianchi sui neri, e ad evitare la pena di morte.

Nicolas Champeaux non nasce regista. Lo è diventato per girare questo film. Da giornalista, corrispondente per Radio France Internationale da Johannesburg , fra il 2007 e il 2010 aveva intervistato the Others, tornati in libertà con Mandela dal 1990, senza però poter utilizzare quel materiale nei suoi reportage, perché allora sembrava che i media dovessero parlare unicamente del leader. Del processo di Rivonia non era stato fatto nessun filmato. Esisteva solo una registrazione audio su supporto analogico, rimasta a lungo “a prender polvere” negli archivi del tribunale del Sud Africa. Solo nel 2016 il francese Henry Chamoux inventò una macchina per digitalizzare, senza rovinarlo, il documento analogico. Henry ricercò , per ascoltarne insieme a lui alcune parti, proprio Champeaux, avendo trovato in Internet le sue interviste ad Ahmed Kathrada, uno degli otto imputati, indiano, figura di spicco del movimento.


Di fronte alle 256 ore registrate divenute ascoltabili, vera miniera d’oro, Nicolas ha capito che ne doveva fare un film. Essendo totalmente inesperto di regia, si è cercato un regista vero che lo affiancasse nell’impresa. Gilles Porte, il prescelto, a sua volta, ha trovato il grafico adatto. Già, perché, in assenza di riprese video, ben 40 minuti del documentario sono illustrati da Oerd van Cuijlemborg (nella foto una sua illustrazione), scelto per la capacità di dare immagine ai suoni e corpo alle vive voci del processo, giudice, accusa, avvocati e imputati. Lavorando a stretto contatto con i due fin dall’inizio, Oerd è riuscito ad unire le esigenze di Nicolas e Gilles per il film – di creare un figurativo per l’aula del tribunale, il giudice, gli avvocati e e le persone che venivano interrogate – alla sua propensione per le immagini astratte quando si è trattato di tradurre gli altri suoni del documento audio. Oerd ha fatto composizioni di grande novità e potenza, per un totale di 40 minuti. Niente a che vedere con un cartone classico. Splendida, in particolare, la narrazione della vita di Kathrada. Al bisogno, il disegno di Oerd si è fatto pura metafora, con campi bianchi e neri separati da una linea netta, a richiamare la ragione dello scontro drammatico in atto al processo.

Gilles, prima di accettare l’incarico, aveva chiesto a Nicolas se c’erano dei sopravvissuti, perché sentiva l’esigenza di intervistarli per il film, a più di 50 anni dal processo. Per fortuna erano viventi ancora in tre, di età compresa fra 87 e 93 anni. I due registi hanno cominciato il lavoro proprio filmando questi sopravvissuti, anche se non c’erano ancora finanziamenti, pressati dalla fretta di fronte all’età avanzata di questi personaggi. Le frasi con cui questi tre “Others” commentano l’ascolto delle risposte da loro stessi date al processo, insieme con le voci di allora e i disegni di Oerd, ricreano tutta l’emozione di quello storico processo. Per scelta erano sempre stati all’ombra di Mandela, considerandolo il migliore di tutti come divulgatore. Finalmente qui per la prima volta era data loro l’opportunità di comunicare il loro pensiero. Nicolas è riuscito a ritrovare, per questo film, anche due avvocati della difesa, uno dei quali era quello personale di Mandela.
«Questo, più che un documentario – dice Nicolas – è un film di Hollywood. Ne ha tutti i requisiti: l’accusa, razzista e aggressiva, è ovviamente il cattivo. Il giudice, con quella voce affaticata, crea una grande suspence perché non indovini dove vada a parare. Creano atmosfera pure le buffonate supereroiche degli avvocati. Non abbiamo dovuto inventarci nulla, era la realtà dei dialoghi a farci creare lo spettacolo». Aggiunge Gilles: «Nel nostro film, come in quelli di Hollywood, non mancano le storie d’amore, grazie a testimonianze di alcune delle compagne dei protagonisti che le hanno condivise con noi come parte della storia dei loro uomini».
Completa Oerd: «Mi auguro che faccia pensare. Questi uomini, non lo dimentichiamo, hanno combattuto per il nostro futuro. A dimenticare la storia si corre il rischio di cadere nelle stesse trappole e di fare gli stessi errori».

«They are killing us»: a Palermo il grido d’aiuto dei migranti nei lager libici invade la città

Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli. ANSA/ZUHAIR ABUSREWIL

Fare risuonare un’intera città delle grida e delle chiamate di soccorso dei migranti detenuti in Libia, in concomitanza con la conferenza internazionale per la Libia che si apre a Palermo il 12 e 13 novembre. Il collettivo artistico Stalker invita la città siciliana, i suoi abitanti e tutte le organizzazioni culturali, politiche e sociali ad una azione collettiva e pubblica per dar voce insieme al disperato grido di aiuto che centinaia di migliaia di migranti, soggetti quotidianamente a violenze e torture, stanno lanciando dalla Libia. La città è invitata a diffondere e amplificare con ogni mezzo possibile, dalle case, dai locali, dagli uffici, dalle macchine in circolazione, gli accorati appelli dei migranti. Oltre che già da anni da Ong e agenzie delle Nazione Unite, le grida sono state raccolte via Whatsapp nell’ultimo anno dai documentaristi Michelangelo Severgnini e Piero Messina in Exodus, fuga dalla Libia.

Le voci rotte di persone terrorizzate, tra spari, abusi, detenzioni e rischio di essere uccise; anche solo mandare un messaggio audio è un atto di coraggio; e per quelli in Italia che credono ancora che riportare i migranti in Libia sia un successo di politica estera, quelle voci dai lager vanno ascoltate. Voci provenienti dalla violenza estrema, dal non diritto, dagli stupri e dal buio. Abusi e torture di cui l’Italia è direttamente responsabile con l’addestramento e la forniture di motovedette della guardia costiera libica. L’Italia si macchia infatti direttamente di respingimenti illegali già condannati dalla corte europea di Strasburgo nella sentenza nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia (del 23 febbraio 2012). A distanza di 6 anni, nel 2017, l’Italia ha trovato un modo più sofisticato di agire, con la stipula del Memorandum d’intesa con uno dei leader libici, Al Serraj: gli abusi però sono gli stessi e dai racconti peggiorano ogni giorno. «Have mercy, I need to live this country. They are killing us. Libya is a deadly country. I am on my knees. Let me move out». E come sintetizza un ragazzo della Nigeria dal campo di Zuara: «We need help from the higher orders, we need help from the hierachies, the high people, the people who can speak for us. You can not keep quiet. These are lives». Un’intera generazione africana, migliaia di persone costrette invece a vivere orrore su orrore per l’inerzia e la complicità della comunità internazionale.

L’iniziativa di Stalker a Palermo, città della “Carta della mobilità umana internazionale”, mira a ricordare ai capi di Stati che è indispensabile e urgente mettere in salvo quelle centinaia di migliaia di persone che rischiano quotidianamente la vita e sono di fatto ridotte in schiavitù. Alla loro immediata liberazione va anche affiancata un’azione per cambiare la politica dei muri adottata da Italia ed Europa. I rimpatri forzati si stanno infatti moltiplicando dalla Libia verso un arco che va dal Sudan al Mali, ma le persone rimpatriate, come emerge da una recente indagine sulla Nigeria, sono pronte a ripartire e costrette a subire nuovi abusi. AddressLibya ha appena pubblicato un servizio su un alto ufficiale della guardia costiera libica che, tra le altre cose, riferisce che “l’Italia sta preparando il rimpatrio (dalla Libia ndr) di migliaia di migranti illegali nel loro Paese d’origine sotto il pretesto dei rimpatri volontari utilizzando i finanziamenti del fondo europeo destinato a supportare la Libia secondo l’accordo ratificato nel 2008”  tra i due Paesi (accordo tra Berlusconi e Gheddafi ndr). Ma non risolve le cause, guerra e abusi, delle partenze.

Così Palermo, città della “Carta della mobilità umana internazionale”, potrà far presente ai capi di Stato e di governo lì convenuti l’urgenza di mettere in salvo centinaia di migliaia di persone che rischiano quotidianamente la vita e sono di fatto ridotte in schiavitù. Dalle ore 20 di oggi, 12 novembre, nel complesso monumentale dello Spasimo di Palermo avrà inizio la diffusione cittadina delle testimonianze audio dei migranti in diretta dalla Libia. Verranno anche gettate dalle finestre della chiesa sconsacrata, come segnale di Sos, 10 scale di salvataggio realizzate da Stalker/On con l’equipaggio pakistano della Spirit II, nave sequestrata nel porto di Napoli nel 2004. Le scale sono appena state restaurate in tre giorni di laboratorio nei vicoli del “Villaggio globale”, nel centro storico di Riace che ha prodotto una nuova prospettiva di convivenza per l’Italia e dove in questi giorni molti dei suoi abitanti italiani e stranieri, si vedono costretti ad abbandonare lo splendido borgo da poco rinato. Scale di salvataggio per ricordare che il soccorso è un dovere universale.

Per uscire dalle secche del dibattito sul populismo

Luigi Fabbrini, docente alla Luiss, nel suo “Il populismo e i pericoli dei movimenti «contro»” pubblicato sul Sole24 Ore ha innescato un interessante dibattito. Molti altri si sono cimentati su questi temi ed argomenti.
L’articolo di Fabbrini, a mio avviso, ha il merito di mettere al centro del dibattito un tema quanto mai di attualità. Bisogna evidenziare alcune “carenze” – per non dire dell’origine, e della storia del populismo, nato in Russia, народничество, a cavallo tra XIX e XX secolo, ad opera di intellettuali e studenti che combatterono contro la dittatura zarista a favore delle masse rurali -, comprensibili, perché quello di Fabbrini non è un articolo storico-culturale, ma strettamente politico, riferito al solo oggi e alla sola Italia. E un certo grado di “populismo” è presente in ogni forza politica, italiana e non (perfino Obama è stato “accusato” di populismo).

Ma una rilettura, chessò, di McCormick Sulla distinzione tra democrazia e populismo, o una ripassata a Massa e potere, grande saggio di Elias Canetti, non avrebbero fatto male all’estensore del pezzo sul Sole 24 Ore, autorevole accademico della Luiss, peraltro, come dicevo. O anche solo la rilettura di qualche commento, in questi ultimi anni, di Nadia Urbinati. Esiste anche un “populismo democratico” o un “populismo di sinistra” (Rousseau e poi i giacobini; i movimenti e partiti “nazionali” in moltissimi paesi dell’America latina; il movimento degli indignados, sfociato poi in Podemos; France insoumise;…).

Da noi, dal lontano “uomo qualunque” degli anni Cinquanta, siamo arrivati al M5s e alla Lega nord, passando anche, però, per il movimento di Di Pietro; situazioni complesse, sostanzialmente (in alcuni casi oggettivamente e dichiaratamente) di “destra”; insomma, oltre al merito di cui dicevo sopra, l’articolo, pur denunciando reali pericoli e pessime prospettive per noi, è un tentativo, neanche tanto nascosto, di riportare in carreggiata («rafforzare i guardrails», scrive l’autore) il sistema politico e di potere in Italia: condivisibile, ma solo in parte, se questa carreggiata è gestita, poi, dalla Confindustria, così come sembra di fatto augurarsi l’autore del pezzo.

Un successivo intervento Alessandro Zampella “Può esserci anche un populismo di sinistra: una sfida da accettare” è “discutibile”, nel senso che si può e deve discutere, “accettare la sfida”, come brillantemente e sinteticamente suggerisce il titolo. Recente sviluppo ed esempi di populismo chiamano in causa il mutamento delle basi sociali della democrazia, della cittadinanza nazionale e della rappresentanza politica; la scomparsa dei cosiddetti corpi intermedi; la sfiducia che i sondaggi misurano ormai ogni giorno, ossessivamente, nel modo di gestire le istituzioni e nello stesso pluralismo e “democrazia” dei e nei partiti.

A mio avviso, pur non condividendone alcune conclusioni, ritengo l’intervento di Zampella interessante ed importante perché spinge comunque (pro o contro che sia) ad analizzare il populismo, non utilizzando esclusivamente categorie manichee o catastrofiste. Pur evitando di avventurarsi in un saggio politologico e sociologico, occorre precisare che tratto caratteristico dei populismi sembra essere, in genere, un’idiosincrasia  per forme di rappresentanza elettorale, contrapponendo loro la volontà unitaria e collettiva del popolo.

Importante e decisiva, in questo caso, l’identificazione con un leader, la personalizzazione della politica. Il leader deve essere capace, questo è lo scopo della sua “creazione”, di mettere a tacere i conflitti dei vari partiti che escono fuori da elezioni; un leader ha bisogno della “fede” del suo popolo, non di una sua richiesta di rendiconto a fine mandato. In questo modo, le elezioni devono diventare uno strumento per “celebrare” il leader, per incoronarlo, ma, attraverso di esso, celebrare ed incoronare “il popolo”. A differenza di una democrazia rappresentativa, allora, il leader non si rivolge ad un intermediario, il parlamento, ma direttamente al popolo (tipico, ad esempio, l’uso preferenziale di referendum popolari, invece che di “elezioni”)

Ecco, già queste sole considerazioni suggerirebbero, dal mio punto di vista, “da che parte stare”. Però. Però io stesso dicevo di un certo populismo di sinistra; tralasciando i primissimi tentativi filosofico-moral-politici alla Rousseau (il filosofo, non la piattaforma software!), i primi esempi si sono avuti in America Latina, fin dallo stesso Peron, in certa misura. E più recentemente, una vera e propria stagione “progressista”, Chavez in Venezuela, Lula e poi Rousseff in Brasile, Morales in Bolivia, Correa in Ecuador, che dapprima contrapposti ai gruppi neoliberisti e conservatori dei rispettivi paesi, hanno poi trasformato i loro “movimenti” in vere e proprie forze di governo. Tutti hanno realizzato una straordinaria mobilitazione sociale e originali e specifiche forme di partecipazione politica, consentendo a milioni di cittadini di “tornare” a poter dire la loro nella vita politica dei rispettivi paesi. Uno dei caratteri principali dei “populismi”, il sovranismo, in questi casi è sfociato in un sovranismo molto allargato, fino a favorire incontri e alleanze con paesi con un orientamento simile, una sorta di pensiero transnazionale pan-sudamericano, in opposizione al pensiero filo-statunitense dominante dei precedenti governi. E tutti hanno inteso, in diverse forme e con diverse fortune, ed esplicitamente tentato, di affermare una società socialista, ovviamente di tipo nuovo, moderno, adattata alle loro “abitudini mentali”. Un “latin-american socialism”. Ad ogni modo, il loro “traguardo” è stata una democrazia partecipativa piuttosto che rappresentativa, alla quale invece noi guardiamo con più “abitudine”. Ma pur sempre di democrazia si tratta (anche se alcuni parlano di soft authoritarism per questi tipi di “regimi”).

In Europa, l’esempio che viene subito in mente è quello di Syriza e di Tsipras, e alle nostre latitudini il populismo si intreccia fortemente con un sentimento euroscettico. Syriza esprime ribellione nei confronti di un neoliberalismo europeo, e mira ad un ampliamento del welfare e della solidarietà europea, mentre movimenti dichiaratamente ed oggettivamente di destra predicano un ritorno alla sovranità nazionale e alla diminuzione di prerogative e poteri della Ue, e quindi del welfare e della solidarietà europea. Non c’è niente da fare, hanno voglia i cantori di “destra e sinistra” a sgolarsi per dimostrare che queste categorie sono obsolete e di fatto non esistono più (ormai consolidato, anche nell’immaginario collettivo italiano, il Renzi-pensiero, la requisitoria di Renzi, quasi una sorta di manifesto politico, in cui, discutendo del saggio di Bobbio Destra e Sinistra affermava che la “linea di demarcazione” ormai è tra conservazione, i vecchi della sinistra, e cambiamento, lui, e non più tra destra e sinistra. Cambiamento non è sinonimo di progresso e miglioramento, anche tra populisti ed euroscettici passa una demarcazione destra-sinistra.

Da un lato la critica economica, sviluppata dalle forze di sinistra, che denuncia la gestione ultraliberale, liberista addirittura per certi aspetti, dei problemi economici (e politici) europei, l’austerità, a senso unico naturalmente, la connivenza con “i più forti”. Chi “predica” queste cose spinge a mantenere alto il livello e le strutture di welfare nazionale e a sviluppare la solidarietà tra tutti gli stati ed i cittadini europei.

Da un’altra parte, i movimenti di destra puntano sul riscatto del sentimento di nazione, che stabilisca chiari confini, geografici, etnici, sociali. Non facciamo finta di non capire quale sia il pericolo.

In Europa ci dobbiamo stare, puntando a rafforzare in senso solidaristico le strutture istituzionali sovranazionali, combattendo invece le forze che in un nome di un populismo tradizionale, potremmo definirlo così, mirano alla conservazione delle differenze economiche e sociali tra gruppi socialmente o anche etnicamente diversi.
Bisogna riorganizzare una proposta credibilmente alternativa che riarticoli, in Italia e in Europa, le forze del socialismo, con una proposta di governo che sposti gli equilibri e gli interessi verso il Mediterraneo, che ponga quindi nuovamente il Mezzogiorno d’Italia, per portare acqua al mio mulino, al centro di una politica di sviluppo, che coltivi gli interessi generali non lasciando mai indietro chi più ha bisogno di aiuto e sostegno.

Ma, aggiungerei per essere chiaro, non limitarsi a ragionare di Pse o di gruppo al Parlamento europeo S&D, ma allargare lo sguardo all’Internazionale socialista. E a tutti i movimenti democratici, di democrazia partecipata, alle esperienze “socialiste” diversificate, in ogni parte del mondo. Nelle recentissime elezioni di midterm negli Usa, ad esempio, sono stati eletti molti giovani appartenenti ai Democratic socialists of America, gruppo che si muove nell’orbita del partito democratico, che vedono Bernie Sanders come leader e ispiratore, e Alexandria Ocasio-Cortez come punta di diamante.

Tornando a noi, sono necessarie, in buona sostanza, nuove politiche pubbliche, un programma di governo che segni discontinuità netta con il presente e con il recente passato, rilanciando nel contempo un progetto europeista che cambi di 180 gradi la rotta della attuale governance continentale, costruendo una Europa davvero sovrana, con istituzioni democratiche, e che abbia a cuore la felicità ed il benessere dei suoi cittadini. Tutti. Per governare i grandi processi sovranazionali, garantire solidarietà e redistribuzione, contrastare le degenerazioni e gli egoismi localistici, retrivi, antidemocratici e, alla fine, pericolosissimi per i popoli d’Europa e del mondo intero.

Veniamo al contingente, le nostre disadorne cose. Per raccattare qualche voto in più non dobbiamo neanche pensare di snaturare le nostre idee di fondo, i nostri principi, per andare corrivamente insieme con un malinteso ’o popolo ‘o ‘vvo’. Ritirarsi sdegnosamente in uno sterile Aventino? Ma neanche per sogno. Rimboccarsi le maniche, ripartire a mio avviso da un sano principio (che ormai sembra talmente obsoleto e inutile), quello di studiare, nel senso di ascoltare richieste e problemi, e proporre soluzioni che abbiano l’obiettivo, lo scrivono ormai in molti, di proteggere ed emancipare i più deboli, in tutti i sensi, rendendo possibile una crescita complessiva di tutti i cittadini, consentendo loro di poter esigere in maniera consapevole e partecipata diritti, civili, sociali, economici; di far crescere la democrazia e la libertà, oltre che la giustizia sociale, rendendo possibile il realizzarsi di necessità, ambizioni, aspirazioni di tanti ragazzi, tante donne, tanti cittadini che non chiedono altro che poter vivere dignitosamente, potendo davvero contare nelle grandi scelte nazionali e sovranazionali, nei modi e nei limiti previsti dalla Costituzione.

Nazionalisti e sovranisti? Nazionalisti e sovranisti anche nelle singole Regioni? O, essendo quello “regionale” un concetto storicamente mai attecchito nel nostro paese, un sovranismo “comunale”, cittadino? La Lega ci prova (e, temo, riuscirà): parlo della richiesta di autonomia delle regioni Veneto e Lombardia. Se ne discuterà a breve nelle sedi deputate. Il docente di Economia all’università di Bari Gianfranco Viesti ha lanciato una petizione, No alla secessione dei ricchi, che invito a sottoscrivere. Deputati di Mdp, di M5s (nessuno del Pd, fin’ora) hanno aderito. Ha aderito anche Susanna Camusso, leader della Cgil. E molti accademici e professori universitari, quelli che conosco di più, me compreso.

Per la stima delle risorse che lo Stato dovrebbe trasferire alle Regioni per le nuove competenze, la Regione Veneto propone di calcolare i “fabbisogni standard” in modo inaccettabile, tenendo conto non solo dei bisogni specifici della popolazione e dei territori (quanti bambini da istruire, quanti disabili da assistere, quante frane da mettere in sicurezza) ma anche del gettito fiscale e cioè della ricchezza dei cittadini. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno come beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. Quindi, per averne tanti e di qualità, non basta essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca. Vogliamo impedire, per quanto possibile, questo attacco alla unità dello Stato italiano, alla solidarietà “costituzionale”? Anche questo è sovranismo. Parliamone, facciamolo sapere.

Il petrolio si estrae in Basilicata; le società interessate hanno sede in Lombardia; pagano tasse in Lombardia; vogliono tenersi il gettito fiscale prodotto da risorse del Mezzogiorno. Ecco, in soldoni, cosa potrebbe succedere! Un ulteriore moderno depredamento del Mezzogiorno. Dopo quello, storico e inconfutabile, del post-unità, dal 1861 in poi. Anticostituzionale, peraltro.

Anche questo è “sovranismo”. Lo ripeto. Se non si coniugano le necessità delle popolazioni di un territorio con la necessaria solidarietà, sociale, economica, civile, politica, democratica, di un territorio più vasto, pensando all’Italia unitaria, pensando ad una Europa solidale e democratica, non si fanno passi avanti per la realizzazione di un posto in cui vivere meglio, ma, al contrario, si lavora, coscientemente o inavvertitamente, ad uno stato di cose pre-moderno, in cui vige la legge del più forte, del più feroce. Ed in tale situazione milioni di cittadini, la parte più debole dell’Italia e dell’Europa, rischiano di andare a fondo.

Se “recuperare sovranità nazionale significa puntare a realizzare una vera Europa dei popoli, fondata sui valori di uguaglianza e solidarietà internazionale e su una piena legittimità democratica”; e, aggiungo, dotata di organismi democraticamente eletti, ai quali risponde un “governo europeo”, allora ci siamo. In questo caso, pour épater les bourgeois può anche essere accattivante dirsi populista e sovranista, ma non si è contro l’Europa. Con i suoi popoli, i suoi rappresentanti eletti, il suo governo, che scaturisce da libere e democratiche elezioni.


Giuliano Laccetti è ordinario Università degli Studi di Napoli Federico II e fa parte della segreteria regionale Articolo Uno-Mdp Campania. Inoltre è presidente del Comitato Scientifico dell’associazione e-Laborazione

Pennivendoli? Sciacalli? Un esercito di mediocri. Dappertutto

Agli incapaci di comprendere e governare la complessità, viene facile, come unica via d’uscita, categorizzare gli altri per banalizzare il quadro generale e poter alimentare lo scontro. Sia chiaro: questi che ora si scagliano contro i giornalisti (e che prima si schiantavano contro i politici finché alla fine politici sono diventati anche loro) non hanno proferito gli insulti contro la stampa per difendere la sindaca Raggi. Questa è la banale lettura che offrono all’esterno per continuare a barcamenarsi: in realtà erano prontissimi a scaricare la Raggi (che ora è diventata Giovanna d’Arco) con la stessa scioltezza con cui ora la incensano. Ciò che conta è avere uno scontro, uno qualsiasi, sempre in atto per poter soffocare la pacata analisi con le correnti del tifo.

Così per il Movimento 5 Stelle (anzi, per non cadere nello stesso errore forse sarebbe il caso di scrivere per alcuni di loro, purtroppo i più esposti pubblicamente) i giornalisti diventano sciacalli, pennivendoli e puttane come se la sentenza del tribunale di Roma avesse certificato l’abilità della Raggi nell’amministrare Roma e non invece semplicemente di non essere incorsa in profili penali nella sua azione politica. Dall’altra parte però i giornalisti (anche qui: non tutti, gli integralisti che si trovano bene a ruzzolare nel fango) generalizzano rivendendosi come i buoni legittimando di fatto lo scontro. Ne esce una categorizzazione perfetta per l’epica ma davvero di poca sostanza. Per dire: conosco giornalisti servi, pessimi politici di qualsiasi partito dell’arco costituzionale, ottimi giornalisti, ottimi politici e oneste persone di qualsiasi partito dell’arco costituzionale (di cui posso non condividere le idee ma a cui riconosco l’etica dell’azione) così come pessimi idraulici, pessimi scrittori, meravigliosi fruttivendoli e così via. Le categorie totalmente condannabili sono piuttosto i mafiosi, gli schiavisti, i guerrafondai. Sul resto ci andrei con cautela, con rispetto per la complessità, appunto.

Questo significa che non siano gravi le dichiarazioni di Di Maio e del subcomandante Di Battista? No, per carità. Sono attacchi gravissimi di un governo che ha bisogno di mostrarsi autoritario per aspirare ad essere autorevole: la difesa corporativa a favore della libertà di stampa è necessaria in un momento in cui le libertà sono messe in discussione da un pessimo ministro dell’interno, da un pessimo ministro alla Famiglia e da altri preoccupanti segnali. Ma dividere tra bianco e nero, buoni e cattivi per professioni mi pare un po’ enfatico, ecco tutto.

Magari se uscissimo dalla categorizzazione potremmo discutere del fatto che gli insulti raccontano chi li pronuncia e non chi li riceve. Potremo fare notare che per molti Virginia Raggi sia una mediocre sindaca anche da assolta. Potremo dirci che Salvini proprio ieri ha additato Berlusconi come un frustrato di sinistra proprio per lo stesso identico motivo: accorpare i nemici  è la tecnica battagliera dei mediocri. E di mediocri siamo pieni. Dappertutto.

Come scriveva William Shakespeare:

«Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi.»

Buon lunedì.

Quella discarica vista mare a due passi da Piombino

Per decenni avvolta nei fumi di una monocultura dell’acciaio, Piombino rischia di passare a una monocultura dei rifiuti. Rifiuti speciali, soprattutto, quelli derivanti dalle industrie e che possono essere spediti ovunque. A incombere, infatti, l’ipotesi di un raddoppio della discarica di Ischia di Crociano, appena fuori città, incastonata tra il mare, due fiumi e un’oasi del Wwf, in un’area a rischio idraulico. E ad appena 150 metri in linea d’aria dalle case del quartiere Colmata, un toponimo che svela come qui una volta fosse tutta palude colmata, anche dai residui delle lavorazioni dell’acciaio. Dove una discarica sarebbe fuorilegge però esiste dal ’96 con buona pace del giornale di Confindustria che non perde occasione per diagnosticare la “sindrome Nimby” a chiunque abbia l’ardire di mettersi di traverso. Perché quello dei rifiuti speciali, quelli che non vuole nessuno, è un piatto ricco e che non crea occupazione.

«Solo riempiendo 200mila metri cubi è stato dimezzato un debito di una ventina di milioni, figuriamoci dieci volte tanto», spiega Renzo Carletti del Csp, il Comitato di salute pubblica. Nell’area, intanto, stanno insediandosi imprese del ramo (Creo, trasformazione dei rifiuti in lignite-carbone; Wecologistic che stocca e spedisce rifiuti speciali pericolosi; Tyrebirth che fonderà pneumatici) e Rfi ha in programma lavori di ampliamento dello scambio ferroviario per 5,2 milioni. Nimby è un’etichetta che il Csp respinge con sdegno: «La Regione Toscana aveva definito la zona ad alto rischio ambientale già negli anni 90 – ricorda il presidente Alessandro Dervishi – ma la discarica fu fatta ugualmente, malgrado si possa documentare un criterio escludente. Non vogliamo bloccare lo sviluppo, vogliamo che siano tutelate la salute e l’ambiente».

Italsider, poi Lucchini e ora Jindal: la storia di Piombino ha ruotato intorno ai grandi marchi della siderurgia. Pagando un prezzo alto, durante e dopo. Se ci fosse un registro tumori pubblico si potrebbe anche misurare il costo umano dell’acciaio «ma

 

 

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 9 novembre 2018


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Wu Ming: Bogdanov, genio eclettico sfidato dai suoi marziani

Un rivoluzionario anomalo, scienziato e romanziere, compagno di lotta di Lenin divenuto poi uno tra i suoi critici più rigorosi. Una ragazza dai capelli «cosí biondi da sembrare bianchi», sedicente aliena, che sembra sbucata dalle pagine di una sua opera di fantascienza scritta venti anni prima, Stella Rossa. Un pianeta, Nacun, dove il comunismo pare si sia realizzato per  davvero. E i suoi abitanti, che hanno deciso di puntare gli occhi su di noi. Siamo nel 1927, in Russia, a dieci anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, e questi sono gli ingredienti dell’ultima fatica del collettivo di scrittori Wu Ming.

Il rivoluzionario protagonista, in Proletkult (Einaudi), è Aleksandr Malinovskij, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Bogdanov. Dopo le spericolate scorribande di gioventù – al fianco tra gli altri di Krasin, Litvinov, Stalin -, ora lavora in un centro trasfusionale avanzato, dove sperimenta il collettivismo fisiologico, un “comunismo del sangue”, che permetterebbe di curare le malattie grazie al mutuo scambio della vitalità di tutta la società. All’esterno, la rivoluzione è smorta e imbalsamata, al pari della salma di Lenin. Gli intellettuali come il filosofo marxista Bogdanov, additati come eretici, sono intimoriti. I Proletkult, fondati dal compagno Lunacarskij (anche lui bolscevico, non molto ortodosso), circoli che avrebbero dovuto diffondere una cultura alternativa proletaria, sono in declino. Così Bogdanov preferisce ritirarsi dalla vita pubblica e concentrarsi sulla sua professione. Ma l’arrivo di Denni, una giovane extraterrestre vagamente androgina alla ricerca del padre, lo costringerà a rimettere in gioco le certezze di una vita.

«Bogdanov è stata una personalità senza dubbio eclettica, che spazia dalla letteratura alla filosofia, dalla politica alla scienza. Potrebbe sembrare uno di quegli intellettuali del Rinascimento, un tipo alla Leonardo. Il suo non era un eclettismo bulimico, aveva un suo filo conduttore», ci spiega Wu Ming 4, al secolo Federico Guglielmi. Bogdanov e il suo Stella Rossa, per chi non lo sapesse, sono esistiti davvero.

«Ci ha colpito poi che avesse scritto questo romanzo – spiega -, capostipite della fantascienza sovietica, che narra di un’utopia molto particolare. Su quel pianeta, la rivoluzione socialista ha trionfato, ma si sono affacciate nuove contraddizioni. In particolare quella tra uomo e natura. Questa ci sembrava una analogia interessante coi nostri tempi, prima ancora che coi suoi».

Sul “pianeta rosso” narrato dallo scienziato, una volta, c’erano feudatari e capitalisti. Ma agli alieni la rivoluzione socialista è riuscita davvero. Non ci sono padroni né proprietà privata, e il benessere comune è l’unica ricchezza. La chiave di volta? Aver puntato tutto sulla conoscenza, che rendesse culturalmente autonoma la classe proletaria. Forse per questo Gramsci volle tradurre per primo in italiano il romanzo sovietico.

«Un altro aspetto del protagonista che ci aveva colpito – prosegue Wu Ming 4 -, era la sua critica al bolscevismo, da bolscevico. Il suo disaccordo con Lenin comincia come disaccordo filosofico e diventa politico, fondandosi su due diverse concezioni del ruolo del partito e della cultura. Per Bogdanov, l’azione rivoluzionaria doveva coinvolgere al tempo stesso condizioni materiali e culturali, riteneva che tra i due elementi non ci fosse un rapporto di filiazione diretto e che si dovesse agire su entrambe le sfere, per evitare che una rivoluzione solo materiale lasciasse i lavoratori legati al retaggio del passato».

Tesi che Bogdanov, in seguito al bizzarro incontro con Denni, è costretto a ripercorrere, a sottoporre a stress test. Lo vediamo nei flashback, che aprono squarci sulla sua vicenda personale e politica. E lo portano a fare i conti col suo passato. Un’operazione urgente. Anche perché, nel frattempo, su Stella Rossa, aka Nacun, la popolazione a stretto di risorse naturali, è spaccata tra chi vorrebbe colonizzare la Terra, e chi preferirebbe «fratellizzare» con noi.

«Lo chiamano interplanetarismo», dice Denni (notate qualche analogia col presente?). E proprio Denni è l’unica che, se inviasse un messaggio dove si rassicurano i nacuniani, spiegando che la rivoluzione è riuscita anche qauggiù, potrebbe evitare l’invasione.

«L’idea chiave del nostro romanzo – chiarisce Wu Ming 4 – è far incontrare all’autore di Stella Rossa un personaggio che è uscito dal suo romanzo. Aprendo così la questione del rapporto tra realtà primaria, il nostro mondo, e realtà secondaria, mondi creati attraverso fantasia e immaginazione». In che modo – questo è il punto – le utopie fantascientifiche possono relazionarsi e retroagire sul mondo reale?

«Il personaggio che Bogdanov incontra – riprende – è quasi una cosplayer antelitteram, che non riesce ad uscire dal personaggio. Ecco, di fronte a lei, come deve porsi il demiurgo del mondo da cui proviene? Deve farle prendere coscienza del fatto che è una follia? Che ha preso troppo sul serio il gioco? Oppure invece è proprio questo gioco che permette alla cosplayer di portare una serie di critiche assai ficcanti, alla realtà primaria, alla rivoluzione che lo scrittore ha vissuto?». L’autore e la sua creatura, nell’opera, si scavalcano a vicenda, in un rapporto che li lega anche nella dimensione padre-figlia.

«Denni – argomenta Guglielmi – porta alle estreme conseguenze il mondo inventato dal bolscevico, e partecipa lei stessa all’atto creativo.  Questo è l’aspetto interessante del costruire mondi. Ossia il fatto che non c’è un solo creatore, ma chiunque può proseguire la narrazione, addirittura trasformandola in arma critica nei confronti di chi l’ha iniziata». E proprio grazie allo sguardo alieno di Denni, che in Proletkult riusciamo a rivivere le vicende della Rivoluzione d’Ottobre, a cento anni di distanza, con occhio critico e appassionato al tempo stesso.

I Wu Ming, dopo Manituana e L’Armata dei sonnambuli, parlano di una rivolta che spezza l’ordine costituito abbandonando la forma del romanzo storico, e imboccando quella, assai promettente, del crossover. «In Proletkult non c’è la partecipazione corale a più voci, il racconto della rivoluzione nelle sue fasi. Qui i fatti del 1917 vengono illustrati a partire da i ricordi del protagonista, che percorre la vicenda dalla sua angolazione». Una scelta di campo, parziale, netta, ribadita anche dall’idea di far scorrere la trama a dieci anni dalla presa del Palazzo d’Inverno. Facendo reagire il composto post-rivoluzionario con una buona dose di fantascienza. Un tipo di operazione che il collettivo, per il momento, non intende abbandonare.

«Posso anticiparti – rivela a Left Wu Ming 4 – che uno di noi è al lavoro ad un romanzo solista che in buona sostanza tenta un esperimento analogo. In una ambientazione diversa, non tanti anni dopo, ed è un crossover simile tra storia e fantascienza. Per il momento è un incrocio che ci interessa indagare».

 

L’intervista di Leonardo Filippi a Wu Ming 4 prosegue su Left in edicola dal 9 novembre 2018


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#Indivisibili I centomila che qualcuno fa finta di non vedere

Silenzio mediatico. Questa è la parola d’ordine dei media italiani senza esclusione alcuna riguardo la manifestazione #Indivisibili contro il razzismo, contro il governo e contro il Decreto Salvini. «Naturalmente l’evento avrebbe riempito le prime pagine di quotidiani di destra e ‘sinistra’ se vi fosse stata anche solo l’ombra di qualche incidente» scrive Rodolfo Baroncini un nostro lettore. E invece. Un lungo serpentone di persone in festa da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni ha sfilato per oltre cinque ore a Roma nel pomeriggio di sabato 10 novembre senza fare notizia sui siti delle principali testate giornalistiche. Dal Corriere, a Repubblica alla Stampa appiattite sul corteo ProTav di Torino. Stessa storia domenica, tranne per il Manifesto a cui probabilmente è giunta voce delle critiche ricevute dai manifestanti. Davvero dispiace. Anche se eravamo in centomila, tutti nel corteo abbiamo notato l’assenza della storica testata comunista, che oggi sembra voler mettere una pezza con un’intervista a Mimmo Lucano. Permetteteci questa affettuosa tiratina d’orecchie. Noi, per dire, il sindaco di Riace l’abbiamo intervistato sul numero uscito il 9 novembre con la storia di copertina dedicata alla bellissima manifestazione romana e disegnata da Gianluca Costantini. Ci è sembrato doveroso in un momento come questo esserci in tutti i modi. In edicola e in piazza. «Dobbiamo smetterla di dirci che non esiste una sinistra in Italia» scrive Simone. «Il movimento Non una di meno (e prima ancora se non ora quando), I sentinelli di Milano, le organizzazioni quasi spontanee di manifestazioni a Milano, a Riace, a Roma. Se non è sinistra questa, cosa lo è? In nessuna delle manifestazioni c’era una sigla a far da cappello, ma moltissime persone. Partire da là, dalle persone.
L’organizzazione coagulante ne è una conseguenza, non il contrario». Ecco, appunto.

 

Foto di Paola Fé, Emanuela Angelini, Francesca Zappacosta, Peppy Miller, Roberta Pugno, Clara Santini, Andrea Sintini, Arnolfo Verdi, Ilaria Usai, Rossella Carnevali

Così Roma reagisce all’emergenza ambientale. E culturale

Da tre mesi faccio l’assessore alla cultura al terzo municipio di Roma, in una giunta indipendente di sinistra (a giugno scorso si sono svolte delle elezioni suppletive perché la giunta Cinquestelle locale è andata in crisi; io non ho la tessera di nessun partito). Per chi non lo conosce, il terzo municipio è un’area a nordest di Roma, ampia quanto una città di media grandezza e abitata quanto e più di un grosso capoluogo di regione: 215mila abitanti (Trieste ne ha 205 mila, Cagliari 170mila).

In questa città nella città c’è in pratica un solo cinema (Taranto, 200mila abitanti, ne ha sei), un solo teatro con una programmazione stagionale (Parma, 195mila abitanti, ne ha sedici), una sola biblioteca (Perugia, 165mila abitanti, ne ha sei comunali). Però, nello stesso territorio, in mezzo a questo gigantesco vuoto, ci sono due pieni, due specie di mostri: un centro commerciale immenso, Porta di Roma, dove ogni anno entrano 14 milioni di persone (al Colosseo ne entrano 8); e un impianto di lavorazione dei rifiuti – un Tmb, trattamento meccanico-biologico in gergo tecnico – dove ogni giorno vengono portate mille tonnellate di rifiuti indifferenziati, ossia quasi un terzo di quelli che produce tutta la città.

Si può partire da questi semplici dati per capire che il disastro con cui ormai anche sui media viene rappresentata Roma non è un fenomeno recente né di superficie. Non si tratta di una questione di degrado, di caos dei trasporti, di malamministrazione; parliamo invece di una clamorosa emergenza culturale e sociale da una parte, ambientale e sanitaria dall’altra. Chi l’ha progettata una città così? Chi ha pensato di costruire un centro commerciale elefantiaco in una zona che negli anni si è deprivata di una vera rete sociale e culturale? Chi ha deciso di piazzare quella che è di fatto una discarica, dove sono accatastate 5mila tonnellate di immondizia indifferenziata in modo permanente, a cinquanta metri dalle case e a cinquanta da un asilo nido?

Se vent’anni fa mi fosse stato chiesto, da politico o amministratore, cosa avrei voluto fare per il municipio, avrei avuto una risposta semplice: non dare…

L’articolo di Christian Raimo prosegue su Left in edicola dal 9 novembre 2018


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