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Il privato? Pensa solo al profitto

PONTE MORANDI AUTOSTRADA A CORNIGLIANO DISASTRO CROLLO DEL DANILO TONINELLI LUIGI DI MAIO

I profitti prima delle persone
«Il Cda di Atlantia ha avviato la valutazione degli effetti delle continue esternazioni e della diffusione di notizie sulla società, avendo riguardo al suo status di società quotata, con l’obiettivo di tutelare al meglio il mercato e i risparmiatori». Dentro questa nota, diffusa dal gestore dopo solo nove giorni dal crollo del viadotto Morandi a Genova, che ha provocato 43 morti e centinaia di sfollati, c’è l’evidenza di come le politiche liberiste abbiano mutato in profondità la nostra società.

Saranno le inchieste della magistratura a stabilire le responsabilità penali e civili, ma un dato è tanto certo quanto rimosso: sotto quel ponte è crollato il sistema delle privatizzazioni, che per decenni ha disegnato – dietro l’ideologia della “modernità”- una società interamente affidata al mercato e plasmata nell’orizzonte della solitudine competitiva. Un processo senza pari in Europa per intensità e concentrazione nel tempo, che ha ridisegnato drasticamente la modalità dell’intervento pubblico nell’economia.

Un processo guidato con pervicacia dai governi di centro-sinistra, il cui allora ministro Vincenzo Visco, così significativamente introduceva nel 2001 la presentazione del Libro bianco sulle privatizzazioni: «Questo Libro bianco sulle privatizzazioni vede la luce al termine di una legislatura nel corso della quale tutti gli obiettivi di dismissioni che erano stati stabiliti sono stati raggiunti e superati. La legislatura si conclude, infatti, con la pressoché totale fuoriuscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare».

Privato, voce del verbo privare
Oggi, trent’anni dopo e di fronte a una strage eclatante, i sostenitori delle privatizzazioni, pur in difficoltà, si comportano da adepti religiosi, cercando di salvare il dogma di fede – le privatizzazioni – e scagliandosi contro le esperienze “secolarizzate”, attraverso la teoria delle “privatizzazioni fallimentari”. Secondo i cantori del mercato, le privatizzazioni fallite sarebbero quelle fatte solo per “fare cassa”, senza creare una liberalizzazione del settore e il conseguente mercato concorrenziale. Inutile controbattere loro che, in particolare nel caso di monopoli naturali, quali ad esempio il servizio idrico e le autostrade,il passaggio dal pubblico al privato non ne modifica la caratteristica di monopolio. Ma proviamo ad…

L’articolo di Marco Bersani prosegue su Left in edicola dal 31 agosto 2018


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Pane resistenza e fantasia. I villani in Laguna

I Villani sono i miei politici di riferimento, gli unici in cui credo. Per questo ho deciso di farne un film. Sentivo che ormai nessuno, se non loro…e Left, fosse capace di raccontarmi come andasse il mondo, come fronteggiare e riconoscere le bruttezze, come cercare le proprie piccole coerenze, come rielaborare un pensiero di sinistra in fondo.
Per fortuna ho incontrato loro, camminando indefessamente per cinque anni le campagne, i porti, i boschi, negli anfratti più reconditi di un’Italia dimenticata, omessa e negletta: contadini, allevatori, pescatori che sfidando la grande distribuzione, producono rispettando la natura, l’alimentazione dei figli, in modo biologico e talvolta fuori dalle norme sanitarie, per la sola ragione che se devono produrre cibo, devono farlo nel rispetto della terra, del lavoro e della loro libertà.
Il cibo è un prisma perfetto per osservare come vanno le cose nel mondo e le cose vanno male: ingiustizie crescenti, alimentazione malata, produzione industriale e velenosa, schiavizzazione dei raccoglitori migranti, contadini che scompaiono. Ne viene fuori un progresso distruttivo. Poi c’è la semantica del cibo, che fa ancora più male, perché rincoglionisce la gente. Programmi come Masterchef sono contestabili perché raccontano una idea di cucina falsa, fuori dalla storia.
Per anni le riduzioni di scalogno, le julienne erano parole confinate nel loro luogo di competenza: la cucina dei cuochi. Ad un certo punto scoprirono il vaso di Pandora e divennero imperanti.
Il fatto di far credere che la cucina si basi su prodigi tecnici ribaltava la realtà. Uno può divertirsi con una cosa così, ma non può credere ad una informazione falsa. Bene, lo hanno fatto credere.
Perché uno arriva con una stronzata grande quanto una casa e tutti gli credono? Perché non si è resistito abbastanza? Significa che il sistema è talmente marcio che arriva uno con una palata di soldi, fa tanta pubblicità ed è in grado di cambiare i pensieri della gente? Ma se è uno è capace di incidere nel pensiero collettivo con una cosa falsa, significa che le persone non hanno più nulla in testa? Significa che ciò che era rimasto non serviva più a nulla?
Una cosa che mi turbava nei ricettari, nelle tv, nei giornali era che la cucina diventava il luogo dei precetti: ti dico come preparare il tuo piatto, dove comprare bene i tuoi prodotti, come produrre.
Ma dai miei Villani non funziona così, lo dicono chiaro e tondo: tu non mi dici quello che io devo fare, io so quello che devo fare.
La cucina popolare è codificata e tramandata oralmente da gente che apprende attraverso la capacità di osservare, dedurre, trasformare, che tutti gli esseri umani hanno. Non è che arrivi tu, mi dici una minchiata e io ti credo. Queste persone nel fare pesca, agricoltura, cucina in quel modo, che sembra così antico, così fuori dal tempo, hanno uno spirito critico verso la società contemporanea di rara sagacia, ironia e pertinenza.
Faccio un esempio: il pescatore tarantino del film che raccoglie le nasse non può usare boe (rubano tutto altrimenti). Arriva in alto mare, alza lo sguardo, cala un gancio in profondità e recupera la nassa. “Come hai fatto scusa?”. ”Faccio gli allineamenti, non posso sbagliarmi”. Questo funzionamento del pensiero è definibile come sistema cognitivo empirico-deduttivo.
Tutti possono far funzionare il cervello in quel modo. Ma non lo si fa più. Ma la cucina italiana così nacque, per questo è democratica, perché concepita dall’uso della fantasia in una situazione di emergenza. Nata da persone comuni, spesso analfabete, che si mettono assieme e codificano un piatto attraverso una convenzione e un canovaccio che ciascuno poi segue e rielabora, senza allontanarsene troppo. Esistono varianti di parmigiana tante quanti siamo in Italia. La stessa ricetta, ma ognuno a suo modo. Certo, tutto si è interrotto quando la modernità ha pensato di spiegare come si fa un piatto di pasta al sugo scrivendolo su un ricettario, quando ha dato loro i semi delle multinazionali e i fitosanitari per far crescere rapidamente le cose, senza spezzarsi la schiena con la zappa.
Marx l’aveva chiarito bene: se togli la zappa, alieni non un oggetto, ma un saper fare le cose, un saper intravedere, un conoscere. Noi non abbiamo modo di essere come queste persone, abbiamo una storia diversa, e loro sembrano venire da un’era prima di Matrix. Ma come loro, abbiamo l’obbligo di porci in modo critico rispetto a una idea di cibo che è nei fatti distruttiva dell’ambiente, della storia e delle identità.
Non esiste a mio avviso una resistenza sana al capitalismo agroindustriale che non passi dalla storia di queste persone, che con intelligenza hanno costruito un patrimonio millenario di ricette accessibili a chiunque. Non bastano, gli scienziati, gli intellettuali, i cuochi, gli attivisti per resistere. È un pensiero monco della borghesia illuminata pensare di poter bastare a se stessa con le sue buone pratiche, il suo essere dalla parte giusta. È un pensiero elitista, non democratico, razzista.
Serve il sapere universale del popolo in cucina perché loro hanno conservato un elemento di informazione dell’idea di essere umano non scisso ed in rapporto con la natura. Non mi si fraintenda, non dico che bisogna ritornare indietro, al precapitalismo, alla premodernità. L’uomo va sempre avanti.
È nella sua natura trasformare, contaminare, reinventare la propria storia. Ma non si può trasformare una storia che si è cancellata. Perché altrimenti poi arriva uno che ti racconterà una storia falsa e tutti crederanno che sia vera. Che stavo cercando quindi da loro, dai miei Villani?
Che ogni essere umano su terra saprebbe cucinare, rielaborare, trasformare, contaminare, riconoscere, perché dotato di intelligenza (capacità di osservazione delle cose della terra e della vita) e di fantasia (capacità di interpretare a suo modo quelle date informazioni).
Chi sono dunque i miei Villani?
Delle persone comuni che come Antigone scelgono che una legge umana è più importante della legge del re, se questa è ingiusta.
Delle persone comuni che se arriva Faust che gli dice: più comodità e meno sacrifici, ma la passata di pomodoro farà un po’ cacare, loro… lo mandano affanculo.

Il film I villani di Daniele De Michele aka Donpasta sarà presentato lunedì 17 settembre (ore 20) al cinema Farnese di Roma per la rassegna “Venezia a Roma”. Il film, su sceneggiatura di Daniele De Michele e Andrea Segre, è stato presentato alle Giornate degli autori alla mostra del cinema di Venezia e ha ricevuto la menzione speciale Federazione italiana Cineclub-Il giornale del cibo.

L’articolo di Daniele De Michele è stato pubblicato su Left n.35 del 31 agosto 2018


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Stefano Vella: «Come medico dissento dal governo. E mi dimetto dall’Aifa»

Mentre parliamo, mi giungono via e-mail reazioni da tutta Europa. Sì, la notizia sta facendo il giro del mondo. Sto avendo attestati di solidarietà dagli Stati Uniti come dall’Africa». Chi parla è Stefano Vella, e la notizia è quella delle sue dimissioni dalla presidenza dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, rassegnate nella notte di venerdì 24 agosto, mentre alla nave della Guardia costiera Diciotti veniva impedito dal governo italiano di entrare in porto e sbarcare il suo carico di migranti, molti dei quali ammalati.

No, non capita tutti i giorni che una persona che si trova in una posizione apicale e di grande prestigio scientifico si dimetta, in polemica con il governo del suo Paese.

Perché si è dimesso, Stefano Vella?
Perché ero in conflitto di interesse. Un conflitto tra la mia coscienza e quello di civil servant, qual è il presidente di un’agenzia che opera sotto la direzione di due ministeri, quello della Salute e quello dell’Economia. La mia coscienza di medico mi pone in una condizione di forte dissenso rispetto all’operato del governo sul problema dei migranti. La mia coscienza di medico mi ricorda che tutte le persone che si trovano sul territorio italiano hanno il diritto costituzionale ad accedere alle migliori cure. Il governo nel caso della Diciotti e non solo, ha negato quel diritto. Io sento il diritto di dissentire. E questo dissenso è incompatibile con la carica di presidente di un’agenzia come l’Aifa. Se dissento in maniera così radicale non posso fare altro che dimettermi. Anzi, prima mi dimetto e poi manifesto il mio dissenso.

Le sue dimissioni sono dunque il frutto dell’indignazione del medico per il diritto violato alla salute delle persone che sono state tenute molti giorni sulla Diciotti? Ma alcuni dicono che quelle persone non stavano poi così male…
È assolutamente sbagliato. Persone che hanno attraversato il deserto, che sono state torturate e violentate nel Paese da cui sono partite, che sono state tanti giorni in mare in condizioni precarie, non stavano bene. E infatti alcuni hanno…

L’intervista di Pietro Greco al presidente dimissionario dell’Aifa prosegue su Left in edicola dal 31 agosto 2018


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Salute e vaccini, scuole nel caos

ROME, ITALY - JULY 05:The Minister of Health Giulia Grillo and the Minister of Education Marco Bussetti during the press conference on compulsory vaccinations at the Ministry of Health, during which she announces that she is pregnant and that she will vaccinate the baby, on July 05, 2018 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images,)

«Semplificare senza pregiudizio per la salute». Così una slide del ministero della Salute sintetizza il contenuto della circolare che autorizza, da settembre, l’iscrizione dei bambini ai nidi e alle materne senza l’obbligo da parte dei genitori di dimostrare con un certificato che i propri figli sono stati vaccinati. «Semplificare con dichiarazione sostitutiva», recita un’altra slide. Basta quindi un’autocertificazione in cui si scrive che i vaccini sono stati fatti o che è stato preso l’appuntamento alla Asl. Semplificare è l’ossessione del governo legastellato ma nel caso dei vaccini tutto diventa più complicato. Non solo. È a rischio il diritto alla salute. Altro che «snellire i compiti di scuola e famiglie»: la circolare congiunta Miur-ministero della Salute, necessaria – secondo il governo – perché ancora non esiste l’Anagrafe vaccinale nazionale, preannuncia un inizio di attività nei nidi o nella scuola materna all’insegna della più totale confusione.
La circolare interviene sugli effetti del decreto Lorenzin convertito nella legge 119/2017, che ripristinava l’obbligo dei vaccini per la fascia 0-6 anni pena l’esclusione dai servizi educativi e dalle scuole dell’infanzia, prevedendo poi sanzioni per chi non fosse in regola nella fascia dell’obbligo. Secondo la legge 119, dopo un anno di tempo per mettersi in regola, i genitori entro il 10 luglio avrebbero dovuto esibire il certificato della Asl comprovante la vaccinazione. Ma ecco che il 5 luglio è piombata la circolare Grillo-Bussetti che prevede la procedura semplificata per tutto l’anno scolastico 2018-19, anche nelle regioni in cui esiste l’anagrafe vaccinale. Immediata la rivolta dei presidi, dei direttori di servizi educativi e dei pediatri. Con l’appoggio di eminenti giuristi come Amedeo Santuososso, presidente della prima sezione civile della Corte d’appello di Milano e direttore scientifico del centro di ricerca Ecit dell’Università di Pavia in materia di scienza e diritto. Una circolare non può prevalere su una legge, questo il parere del giurista. Ma non è bastata l’iniziativa di Grillo-Bussetti…

L’articolo di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 31 agosto 2018


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1932, l’annus mirabilis di Picasso

Un anno vissuto intensamente. Nonostante la gabbia dorata del matrimonio con la ex ballerina Olga Khochlova con cui conduceva una vita salottiera nel jet set di Parigi, dove i surrealisti continuavano a “fare la corte” a Picasso. Un anno di innamoramento e fantasia, il 1932, nonostante le nubi che si addensavano sulla storia. Era l’anno della grande depressione. Poi nel 1933 la presa del potere da parte di Hitler, il discorso nazista all’università tedesca di Heidegger, mentre il giovane Sartre non trovava di meglio da fare che trasferirsi proprio allora in Germania.
Il mondo culturale parigino appariva fatuo a Picasso e quello domestico asfissiante. Per sfuggire alle feste e ai riti di famiglia nel lussuoso appartamento arredato da Olga, Picasso si rifugia al piano di sopra, nel suo studio caotico e polveroso, dove pochissimi amici sono ammessi. Achim Borchardt-Hume curatore con Nancy Ireson del catalogo (edito dalla Tate Publishing) della bella mostra in corso a Londra ricorda che durante le feste di Natale del 1931 Picasso realizzò un inquietante quadro di ispirazione surrealista, La Femme au style, in cui una donna aggredisce la rivale. Benché sia una tela quasi astratta, nella composizione si intravede un’eco del braccio di Marat assassinato dipinto da David. Poi giorni dopo, su una tela più grande, sboccia l’immagine di una giovane donna seduta sulla poltrona, un ritratto onirico, dolce e delicato, in cui però il volto appare cancellato. Ciocche di capelli biondi fanno pensare a Marie-Thérèse Walter, la giovane amante di Picasso che allora aveva 22 anni. La relazione era nata quando lei ne aveva solo 17 e lui 45 e aveva sempre cercato di tenerla segreta. Passata la soglia dei 50 anni, mentre il successo pareva avvolgerlo in una coltre soporifera, nel rapporto con quella giovane donna, così diversa da Olga, Picasso trovò…

L’articolo di Simona Maggiorelli prosegue su Left in edicola dal 31 agosto 2018


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Una mano lava l’altra

La foto scattata il 14 giugno 2018 alla cerimonia di chiusura dell'anno accademico della Scuola di perfezionamento per le forze di polizia, e tratta il 15 giugno 2018 dal sito del Viminale, mostra il ministro dell'Interno Matteo Salvini mentre stringe la mano al cardinale americano Raymond Leo Burke. ANSA/ SITO VIMINALE +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

«Era lei a prendere l’iniziativa». Così don Paolo Glaentzer ha pensato bene di giustificare la presenza nella sua auto di una bambina di 11 anni. Lui con i pantaloni abbassati, lei con la magliettina alzata. E ancora: «È stata una mia stupidata, mi ha fatto lo sgambetto il demonio, uno sgambetto un po’ pesante, ho commesso un errore, questo lo ammetto, ci penserà il nostro Signore. Lui è in grado». Parole fatue e agghiaccianti che non hanno messo al riparo il parroco 70enne, colto in flagrante, dall’arresto con l’accusa di violenza sessuale. «Con» la stessa bambina, stando a quanto il prete ha dichiarato alla stampa locale, era già «capitato altre poche volte». Infine l’ultima “coltellata”: «È stato uno scambio d’affetto, è stato esagerato, a volte le cose vanno in una certa maniera». Avete letto bene. Con una bimba di 11 anni, per un sacerdote, a volte le cose vanno in questa maniera. Ed effettivamente e tragicamente, è vero.
In quei giorni di fine luglio, rimbalzava dal Cile la notizia di un’inchiesta governativa con relativa messa in stato d’accusa di 158 tra vescovi, parroci, sacerdoti e laici dipendenti di associazioni religiose. «La stragrande maggioranza dei fatti riportati corrisponde a crimini “sessuali” commessi da sacerdoti, parroci o persone associate a istituti scolastici», scrive la Fiscalia generale cilena nel documento. Nel mirino dei giudici, con l’accusa di aver sistematicamente insabbiato le denunce ricevute e coperto i responsabili, sono finiti anche due ex capi della Conferenza episcopale cilena, mons. Errazuriz e mons. Ezzati, e l’ex arcivescovo di Osorio, mons. Barros. Non si tratta di ecclesiastici qualsiasi…

L’inchiesta di Federico Tulli prosegue su Left in edicola 31 agosto 2018


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Eppur bisogna andare

Ci sono storie che iniziano lontano, in Eritrea precisamente, e parlano di guerre, fame, carestie, sete, camminate di mesi in mezzo al deserto per arrivare nei lager libici e poi di nuovo in viaggio, per mare, stipati su mezzi di fortuna da scafisti/schiavisti.
Storie che raccontano di un rimpallo politico, che costringe 150 persone per giorni, ferme in un porto a Catania, all’aperto, sotto al sole, con due soli bagni chimici, senza docce e senza vestiti di ricambio, mangiando sul ponte.
Storie di violenze, abusi fisici e sessuali, trattamenti inumani e degradanti
Quella che voglio raccontare oggi però non è la storia dell’accoglienza in Italia, del ministro degli interni che continua a fare campagna elettorale, sulla pelle dei migranti, mesi dopo le elezioni, dell’accordo di Dublino e la latitanza italiana quando si è trattato di modificarlo, delle strizzate d’occhio ad Orban e degli accordi con la Libia.
La storia di oggi è a lieto fine ed inizia con il viaggio di ore di due pullman che, da Catania, portano 100, delle persone bloccate sulla nave Diciotti, fino ad un centro religioso alle porte di Roma, dal profetico nome di “Mondo Migliore”.
Anche in questa storia però, come in tutte quelle che si rispettino, ci sono i cattivi.
Cattivi deboli, che se la prendono con i disperati, che chiamano rinforzi da tutta Roma, spingendosi fino a noti personaggi della destra estrema di Ostia, per sventolare nella notte le loro bandiere sulla faccia dei migranti e dire loro che non sono accetti, che devono tornare indietro, non importa dove e come, perché quello che importa è che vengano “prima gli italiani”.
Ma nelle storie ci sono anche gli eroi e qualche volta arrivano addirittura prima dei cattivi.
Glie eroi hanno facce sorridenti e cartelli con scritto WELCOME.
Nessuna bandiera, perché quello che li unisce non è un vessillo ma l’umanità.
E l’umanità vince e viene ripagata.
Vince le ore di sonno perse; la sete; il darsi il cambio per non far sentire i fratelli dentro il centro soli; il caldo; i microfoni delle TV messi sotto il naso di gente che non è abituata a questo, perché non è li per farsi pubblicità o per strumentalizzare una vicenda terribile e disumana, è lì per dire che un’altra strada è possibile.
Un’altra Italia, quella dei 60.000.000 meno uno, quella che ai metodi di Salvini dice “no”, quella che il 28 e il 29 agosto, in modo spontaneo, si è organizzata per abbracciare, quella che, ai Castelli Romani, ha una storia di antifascismo solida e profonda, una storia che vuole rivendicare e difendere.
Le lunghe giornate finiscono con un premio, con i migranti che sollevano i bambini oltre la recinzione di Mondo Migliore, con mani che si stringono, “grazie” gridati oltre il cordone di polizia ed un cartello che spunta da dentro il centro, con la scritta WELCOME ed il simbolo della pace al posto della O.
Ogni storia ha una morale, e forse, quella di questa che ho provato a raccontarvi oggi è che nel 2018, bisogna vivere ricordando le “scarpe rotte eppur bisogna andar”, anche se, le scarpe rotte non sono le nostre, ma quelle di qualcuno che viene da lontan…

*

Elena Mazzoni è responsabile nazionale ambiente Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea

 

 

 

L’Ue vuole abolire il cambio tra ora solare e legale

epaselect epa06606934 A new street art work by Banksy, the anonymous British street artist is of a rat In the inner portion of a clock above a closed former bank building on 14th Street and 6th Avenue in New York City, USA, 15 March 2018. EPA/JASON SZENES

«Scatta l’ora legale, panico fra i socialisti!». Ricordate l’indimenticabile copertina di “Cuore”, quando Michele Serra faceva ancora ridere? Bene, anche se l'”onestà va di moda” (come giurano i gialloneri di governo) e i socialisti si stanno assottigliando parecchio (il Ps francese, il Psi, il Pasok, il Pd…) e comunque sono ormai irriconoscibili dopo la mutazione genetica in senso liberista, forse il 28 ottobre potrebbe essere l’ultima volta in cui i possessori di orologi dell’Unione europea dovranno preoccuparsi di spostare le lancette. Ovvio che i socialisti sedicenti non c’entrano, ma l’orario estivo potrebbe valere per sempre.

In realtà, dopo le indiscrezioni di ieri sera e delle prime ore di oggi, sembrava che sarebbe stata l’ora legale a sparire, poi le parole di Juncker, presidente della Commissione europea, avrebbero chiarito: «L’orario estivo sarà quello usato tutto l’anno in futuro». Va detto che spesso lo statista lussemburghese ha conquistato le prime pagine per le sue doti di gaffeur oltre che per i favori fiscali concessi quand’era capo del governo del suo granducato. E forse anche questa incertezza è all’origine della popolarità di entrambi gli hashtag su Twitter: #oralegale, #orasolare.

Solo nel primo pomeriggio, infatti, la stessa commissione europea scioglierà il dubbio, facendo spiegare a un portavoce che presenterà «prossimamente» una proposta legislativa «per abolire il cambio d’ora due volte l’anno» da quella solare a quella legale, in modo che possa essere mantenuta la stessa ora tutto l’anno, senza però dare indicazioni di scelta fra una o l’altra. Oppure si possa continuare a spostare le lancette ogni sei mesi. «Spetta» però «agli stati membri decidere se restare all’ora solare o all’ora legale», in quanto «la scelta del fuso orario resta una competenza nazionale», prosegue il portavoce.

La Commissione europea, comunque, proporrà di abolire il cambio d’orario in tutta l’Unione, ha annunciato Jean-Claude Juncker in un’intervista al canale televisivo tedesco Zdf. «C’è stato un sondaggio pubblico, hanno risposto in milioni e c’è la volontà che l’orario estivo sarà quello usato tutto l’anno in futuro. Quindi sarà così». La proposta definitiva della Commissione Ue, ha quindi spiegato, arriverà oggi, poi la misura dovrà essere approvata successivamente dal Parlamento europeo e dai capi di Stato e di governo, il Consiglio europeo.

La consultazione aperta a tutti i cittadini (non si tratta di un referendum), ha ricevuto una valanga di risposte, ben 4,6 milioni, il numero più alto mai ricevuto da un sondaggio pubblico Ue. Il dibattito è stato acceso a Bruxelles dai governi di Finlandia, Svezia e alcuni Stati membri dell’Est come la Lituania che chiedono di abolire l’ora legale ritenendone superate le ragioni quale il risparmio energetico e adducendo anche motivi di sanità pubblica come i costi dei disturbi del sonno provocati dal cambiamento orario ma non è stata registrata una maggioranza a favore. A febbraio, l’Europarlamento aveva bocciato l’ipotesi di abolire il cambio semestrale dell’ora.

I risultati della consultazione, secondo indiscrezioni della stampa tedesca dove lo stop allo spostare le lancette è anche da mesi al centro del dibattito, vedrebbe una schiacciante maggioranza delle risposte, pari all’80%, favorevole all’abolizione dell’ora legale. Allo stesso tempo però, i rispondenti, secondo altre fonti, sarebbero per quasi due terzi (3 milioni) solo tedeschi. Hanno preso parte alla consultazione on line ben il 3,79% della popolazione tedesca, il 2,94% di quella austriaca e solo lo 0,04% degli italiani.

Il governo tedesco non ha commentato l’annuncio del presidente Juncker, sulla futura eliminazione del passaggio dall’ora solare a quella legale: «Aspettiamo che ci siano concrete proposte da Bruxelles. E poi prenderemo una posizione», ha affermato la portavoce di Angela Merkel, Ulrike Demmer, rispondendo a una domanda in proposito in conferenza stampa. Demmer ha sottolineato che il governo «ha visto positivamente» la procedura, che ha coinvolto milioni di cittadini europei. Scontato il commento del vicepremier Salvini che, nemmeno oggi vincerà il premio per l’originalità: «la Commissione europea lavora tanto per eliminare l’ora legale, ma se ne frega di lavorare per ottenere finalmente un’immigrazione legale. Non ho parole, gli Italiani pagano miliardi per cambiare lancette agli orologi…». Contrari, invece Scalfarotto e Gribaudo all’abolizione dell’ora legale, quindi anche loro scettici sulla dichiarazione di Juncker secondo cui sarà in vigore l’orario estivo tutto l’anno.

Il sito della Commissione europea ha pubblicato proprio oggi l’esito della consultazione online, svoltasi dal 4 luglio al 16 agosto, parlando genericamente di “cambio dell’ora”, nella traduzione esatta dell’ufficio stampa. Per Violeta Bulc, Commissaria europea per i Trasporti, «il messaggio è molto chiaro: l’84% è contrario al mantenimento del cambio dell’ora. Ci organizzeremo di conseguenza e prepareremo una proposta legislativa per il Parlamento europeo e il Consiglio, che poi decideranno insieme». In base ai risultati preliminari, inoltre, più dei tre quarti dei rispondenti (76%) ritengono che il cambio dell’ora due volte l’anno sia un’esperienza “molto negativa” o “negativa”. Per giustificare un’eventuale abolizione del cambio dell’ora i rispondenti hanno avanzato considerazioni legate agli effetti negativi sulla salute, a un aumento degli incidenti stradali o all’assenza di un risparmio energetico.

I risultati definitivi della consultazione pubblica saranno pubblicati nelle prossime settimane; la Commissione redigerà a questo punto una proposta per il Parlamento europeo e il Consiglio in vista di una modifica delle disposizioni vigenti sul cambio dell’ora. Le consultazioni pubbliche sono uno degli strumenti che la Commissione utilizza per realizzare le valutazioni sulle politiche, insieme ad altri elementi come gli studi scientifici. Tra le precedenti consultazioni più importanti si ricordano quella sulla legislazione in materia di uccelli selvatici e habitat (più di 550mila risposte) o quella sulla modernizzazione della politica agricola comune (più di 322mila risposte).

La maggior parte degli Stati membri ha una lunga tradizione di disposizioni relative al cambio dell’ora, molte delle quali risalgono alla prima e alla seconda guerra mondiale o alla crisi petrolifera degli anni settanta. Dagli anni 80 l’Unione europea ha progressivamente adottato norme in virtù delle quali tutti gli Stati membri si impegnavano a coordinare il cambio dell’ora, unificando i diversi regimi nazionali. Dal 1996 tutti gli europei spostano le lancette avanti di un’ora l’ultima domenica di marzo e indietro di un’ora l’ultima domenica di ottobre. Lo scopo delle norme dell’Ue non era quello di armonizzare le disposizioni sul cambio dell’ora nell’Unione ma di affrontare i problemi, soprattutto per i settori della logistica e dei trasporti, che nascono dalla mancanza di coordinamento nell’applicare le variazioni dell’ora nel corso dell’anno. Più schiettamente, il viceportavoce capo della Commissione europea Alexander Winterstein, durante il briefing con la stampa a Bruxelles, ha ammesso che «in determinati periodi dell’anno, l’orario europeo di apertura e di chiusura delle Borse Usa, il cui andamento influisce sulla direzione delle altre piazze finanziarie». Parallelamente alle disposizioni dell’Ue relative all’ora legale, gli Stati membri applicano tre diversi fusi orari. La scelta del fuso orario è di competenza nazionale.

In base all’ora legale, gli orologi avanzano di un’ora nei mesi estivi, in modo che la luce del giorno duri più a lungo nella sera e, alle latitudini più settentrionali questo comporta che il sole tramonti a cavallo delle 22 con stravolgimenti, pare, per l’organizzazione della vita quotidiana e con una sorta di jet lag di cui si stanno studiano gli effetti. La maggior parte del Nord America e dell’Europa segue l’usanza, mentre la maggior parte dei Paesi altrove non lo fa.  La Russia l’ha abbandonata nel 2014, gli Usa la chiamano Dst, daylight saving time, “risparmio diurno di luce”.

L’ora legale nella sua forma attuale fu introdotta in Germania nel 1980 – e molto prima in altri Stati membri dell’Ue – allo scopo di risparmiare energia. Dal 2002, con il passaggio all’Euro è stato uniformemente regolato in tutto il blocco.

Fu Benjamin Franklin, in una lettera scritta nel 1784 a un giornale di Parigi, a lanciare l’idea. Abolita nel 1920, era stata introdotta con la I guerra mondiale, in Italia l’ora legale è stata nei decenni successivi più volte introdotta, sospesa, abolita e di nuovo adottata. Ora funziona dal 1966 per sfruttare meglio la luce del sole nel tardo pomeriggio e alla sera. Fino al 1980 restava in vigore da maggio a settembre. Dal 1981 è invece entrata in vigore dall’ultima domenica di marzo.

A detta di Bruxelles, i numerosi studi «non sono riusciti a giungere a conclusioni definitive» ma l’avvento dell’ora legale e il ritorno all’ora solare avrebbero effetti sul sonno e sulla concentrazione: si dorme meno e il sonno sarebbe più disturbato, secondo uno studio visto su Neuroscience Letters. In pratica l’organismo si confonderebbe finendo per “sballare” il ritmo circadiano, l’orologio interno che regola le funzioni cicliche. Il solo sorge più tardi e tramonta dopo, quindi sia le modalità “veglia” che quelle “sonno” ne risulterebbero alterate anche per tre settimane.

Un sonno peggiore – stando a uno studio del 2012 letto Journal of Applied Psychology – vuol dire perdita di concentrazione e di produttività. È un periodo, quello del passaggio, in cui le persone perderebbero il 3% del tempo in più a “cyberoziare”: i ricercatori lo hanno scoperto analizzando i dati sulle ricerche di siti della categoria “intrattenimento” forniti da Google per il lunedì successivo all’entrata in vigore dell’ora legale negli Usa. E, nel medesimo periodo, gli studenti ottenevano punteggi del 2% più bassi nel test per l’ammissione al college. Diminuiscono, però, gli incidenti automobilistici mortali nel periodo in cui è in vigore l’ora legale, probabilmente perché c’è più luce quando si rientra dal lavoro. Ma il lunedì in cui l’ora legale entra in vigore se ne registrano di più e aumenterebbero anche gli infortuni sul lavoro per colpa del sonno e della distrazione quando le lancette vengono messe in avanti.

Nella prima settimana di ora legale ci sarebbe anche un picco di attacchi di cuore. Il risveglio è il momento più a rischio per chi rischia l’infarto e i medici suggeriscono di adattarsi a ritmi di un quarto d’ora al giorno. Uno studio australiano ha perfino riscontrato un aumento dei suicidi nelle prime settimane di ora legale, e in quelle successive al ritorno all’ora solare. Secondo i ricercatori, anche un piccolo cambiamento nei ritmi cronobiologici può portare a effetti devastanti nelle persone più vulnerabili.

Buonisti? Siamo molto più cattivi di voi

Un momento della manifestazione 'Europa senza muri' organizzata in piazza San Babila per ricordare il valore della solidarietà, dell'accoglienza e dell'integrazione, in occasione dell'incontro in Prefettura tra il primo ministro ungherese, Viktor Orban, e il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini, Milano, 28 agosto 2018. ANSA / MATTEO BAZZI

Il ministro dell’Inferno dice che è ora di smetterla con gli scippi, le ruberie e le rapine dei negri.

Ha ragione. Anzi, peggio: noi buonisti siamo contro le ruberie, gli scippi e le rapine dei neri, dei bianchi, dei gialli, dei grigi, dei verdi e anche dei viola, nel caso in cui si palesino. Noi siamo per la giustizia e la certezza della pena per tutti gli extracomunitari ma anche per i comunitari. Non sopportiamo quelli che spennano i piccioni ai semafori ma se proprio dobbiamo scegliere preferiamo indignarci (ma tanto, proprio tanto, come piace ai cattivisti) contro un presidente della Lombardia come Roberto Formigoni che si professava seguace di Dio mentre accumulava almeno 5 milioni di euro (secondo la condanna in primo grado) oppure i 49 milioni di euro che mancano nei bilanci della Lega oppure (perché noi buonisti non guardiamo in faccia nessuno) lo scandalo di Banca Etruria e MPS.

Dice il ministro dell’Inferno che bisogna finirla con la mafia dietro agli sbarchi.

Dai. Sì. Ti diamo ragione. Magari faccia almeno la fatica di dimostrarlo ma se dovesse accadere siamo d’accordo con lui. Però noi buonisti abbiamo fiele da vendere, anche se ci dipingono come tonti, e ci piacerebbe vedere debellata una volta per tutte anche Cosa Nostra e ance la Camorra e anche la ‘Ndrangheta e anche la Sacra Corona Unita. Tutti. Applichiamo il socialismo della pena. E ci piacerebbe sapere se qualche scafista nella storia d’Italia abbia mai avuto occasione di firmare un patto o sussurrare all’orecchio di qualche pezzo di governo, com’è accaduto a Totò Riina. Ci piacerebbe occuparcene secondo una scala di priorità, diciamo. A meno che gli scafisti abbiano sconfitto i corleonesi e noi non ce ne siamo accorti.

Dice il ministro che vorrebbe essere prefetto di ferro che bisogna smetterla con gli islamici che sgozzano i capretti.

Questo, davvero, ci mette in difficoltà. Ma noi buonisti siamo per il rispetto della legge quindi se viene fatta la legge contro il dissanguamento siamo pronti ad arrestare tutti quelli che grigliano salamelle d’estate o agnelli a Pasqua. Non avremo pietà, promesso.

Dice il ministro dell’Inferno che bisogna smetterla con questi negri che stuprano.

Vero, bene, bravo, bis. Facciamo che puniamo gli stupratori, tutti, ma proprio tutti tutti, e i pedofili, tutti. Bianchi, neri, profughi, commercialisti, avvocati, gialli, produttori televisivi, registi cinematografici. Lui vi promette di arrestare tutti gli stupratori neri. Noi vorremo fermare tutti gli stupratori. Che dite? Siamo più cattivi noi.

Noi buonisti siamo molto più cattivi dei fascistelli del nuovo millennio: quelli scelgono di prendersela con un gruppo cromatico di cattivi e invece noi vorremmo giustizia con tutti, di tutti i colori. Mica per niente indossiamo l’arcobaleno. I difensori della patria dicono che bisogna onorare il nostro Paese e noi siamo d’accordo, solo che il nostro Paese è largo come tutto il mondo e proviamo una certa compassione per chi si preoccupa solo del proprio orto. C’è una differenza sostanziale, è vero: quelli rassicurano e presumibilmente possono farsi votare dai delinquenti bianchi, cattolici e italiani. A noi stanno sulle palle anche quelli. Non siamo razzisti, appunto: l’unica razza è quelli dei furbi e dei delinquenti. Quelli non li riusciamo a sopportare.

Da chi vi fareste difendere, senza scheletri nell’armadio, senza avere qualcosa da nascondere?

Buon venerdì.

Settimana della critica. Una scossa sul presente, lavorando sul futuro

Settimana della critica

La Settimana Internazionale della Critica (Sic) , sezione parallela della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, organizzata dal Sindacato nazionale critici cinematografici italiani (Sncci) in collaborazione con la Biennale di Venezia, si svolge quest’anno dal 29 agosto all’8 settembre. Nata nel 1984 per volontà di Lino Micciché, 30 anni di lavoro, competenze e ricerca sul linguaggio delle immagini. Obiettivo: selezionare le opere prime di registi emergenti.

A Giona A. Nazzaro, delegato generale dal 2016, chiediamo che tipo di esperienza sia.
Un’esperienza importante, complessa, perché coincide con una posizione di grande responsabilità; si tratta di individuare le tensioni che affiorano e si muovono nel mondo del cinema, avendo la possibilità di mettersi alla ricerca di nuovi talenti all’altezza di quelli che li hanno preceduti. Non sempre è facile cogliere dove si muova il nuovo. Tuttavia, mi sembra di poter dire, che la Settimana Internazionale della Critica vi sia spesso riuscita. Ancora ci si domanda come sia stato possibile che il Festival di Cannes si sia lasciato scappare Les Garçons Sauvages di Bertrand Mandico, presente nella selezione dello scorso anno, un film che ha alimentato un vivace dibattito in Francia sulla violenza e il mondo adolescenziale, o siano sfuggiti talenti del calibro del regista tunisino Ala Eddine Slim, proveniente dal mondo della videoarte che, con The Last of Us ha vinto il Leone Del Futuro – Premio Venezia Opera Prima e l’Oscar del cinema africano. Nel 1985, Kevin Reynolds presentò Fandango, poi divenuto un cult movie, ma sono molti i registi che nell’ambito della Sic si sono rivelati, mostrando nel tempo un profilo personale, coerente e originale. Da Olivier Assayascon il suo film d’esordio Désordre al regista e sceneggiatore britannico Mike Leigh con High Hopes. Da Peter Mullan con Orphans ecc. E, tra i registi italiani, non mancano voci autorevoli come Carlo Mazzacurati scoperto con Notte italiana, Vincenzo Marra, Roberta Torre…

Gioco di squadra con tutti i membri della Commissione, come vi orientate nelle scelte dei film?
I film, giudicati candidabili, prima delle decisione finale vengono discussi con l’intero comitato di selezione, ma prima dci sono viaggi, visioni, incontri, partecipazioni ai festival, confronti e soprattutto c’è un grande lavoro di ricerca . Senza peccare di presunzione, ma il giorno dopo la chiusura della Mostra di Venezia 2017, io già stavo progettando il lavoro per questa nuova edizione, visionando film, visitando laboratori, prendendo contatti… È necessario avere un’idea ampia di quello che si muove intorno ai film, a chi li realizza e contribuisce a realizzarli. Un lavoro più articolato del semplice vedere i film belli e finiti, perché sottintende la possibilità di capire dove va il cinema e in quale direzione. Il cinema non come semplice riflesso sociologico del mondo, ma come dialettica aperta con il mondo, cercando di comprendere come interagisce la forma del film con il presente, assicurando un’evidenza a ciò che si configura come primato poetico che, per noi, proprio in quanto poetico, è primato politico.

Leggo nella brochure che la rassegna Sic si pone come obiettivo l’esplorazione di un cinema che eviti il noto e il consolatorio, approfondendo il piacere della scoperta, la discontinuità, lo smarrimento, la sensualità, il rischio, l’ignoto… puoi spiegarci meglio il senso di termini così suggestivi?
Sono termini che evocano la proposta di quest’anno e in qualche modo sintetizzano la nostra visione di cinema. Non è vero che il cinema è tutto già visto e finito e non è vero che i Festival non servono a nulla. Servono molto, invece. Perché raccontano di materiali, idee, modalità di linguaggio ed espressione artistica che si stanno progettando e formando. I Festival sono una scommessa sul presente, lavorando sul futuro…

Dai discorsi di Barbera e dalla rinnovata vicinanza di Hollywood a Venezia sembra che la strada per riconquistare il pubblico o un pubblico di “nicchia allargata” sia l’“autorialità” che incontra il genere. Partendo dal presupposto che non c’è una via obbligata e tantomeno unica, tu che cosa ne pensa?
Non esiste più un pubblico del cinema, esistono pubblici diversi e diversificati, che a volte non comunicano tra loro. Sono numerose le specializzazioni dei pubblici e non sempre si tratta di pubblici disponibili al dialogo (ad esempio il pubblico del cinema fantastico non dialoga con il pubblico del cinema sperimentale). Chi ha il privilegio di lavorare in un Festival deve aver modo di dialogare con la complessa gamma dei pubblici esistenti e sollecitarne, quando è possibile, il dialogo. Il segreto è capire come si muovano le immagini e che cosa stiano proponendo le piattaforme  in termini di offerta. C’è una diversificazione continua molto interessante e il cinema nei Festival è un grande attore della ridefinizione del cinema tout court odierno date queste premesse. Il problema è come articolare la presenza di diversi soggetti economici forti con la presenza di soggetti economici meno forti, provenienti da realtà meno visibili o non conosciute. Quando sento dire che la Mostra del cinema di Venezia è schiacciata da Hollywood, a parte il fatto che non condivido il giudizio, credo si tratti di una questione vecchia e piuttosto inutile. Il cinema hollywoodiano è un cinema innegabilmente e storicamente importantissimo, con cui tutti siamo cresciuti e ci siamo formati. All’interno di una serie di dinamiche e valutazioni, che non escludono il mercato, la Mostra di Venezia ha il compito di mettere in campo un potere di contrattazione con soggetti forti senza assottigliare la sua attenzione e sensibilità verso soggetti meno forti.

Da critico e delegato generale, di fronte al proliferare di siti e blog di critica cinematografica, nei quali talvolta il gusto personale e la soggettività prevalgono sulla lettura analitica e i codici del linguaggio, può dirci quale sia oggi il ruolo della critica in Italia?
Domanda complessa. La critica in Italia si è diversificata. La diversificazione nell’approccio ha prodotto uno spettro molto ampio di voci critiche. Ovviamente bisogna capire quali sono i luoghi dove si produce il pensiero e si articola la riflessione critica. Quando parlo di luoghi ove si produce il pensiero, parlo di “spazi” in cui o “finestre” attraverso le quali si indagano le trasformazioni e le metamorfosi del cinema; la relazione cinema e immagine in movimento; le possibilità che il cinema (e il mondo, e il corpo) ancora offrono aldilà degli steccati innalzati per invocare identità limitanti. Il problema è sostenere quei luoghi ove si manifesta il pensiero. La critica sui giornali soffre di continui razionamenti e non è corretto pensare che tutti possano scrivere di Spielberg, come non è corretto pensare che tutti possano scrivere di Renzo Piano in relazione all’architettura o di Goffredo Parise in relazione alla letteratura. La conoscenza del cinema è ancora oggi vista con diffidenza…

E forse un pizzico di superficialità…
Sì, forse. Io credo che la selezione di film della Sic possa essere un interessante proposta di allargamento dell’orizzonte di comprensione critica…

E per vedere i film della selezione al di fuori del Festival?
Si tratta di un problema che esula il Festival e riguarda i limiti strutturali di altre realtà presenti in Italia.  Il festival non si deve preoccupare del problema della circuitazione. Oggi critica, distribuzione, sala sono realtà molto indebolite. Consideri che in Italia fanno fatica ad uscire i film italiani, ma bisogna ugualmente sfuggire agli assiomi “i Festival non servono a nulla” oppure “ i Festival sono trampolini di lancio per le opere che vi passano”, andrebbe fatto un ragionamento strutturale ed un progetto di ben più ampio respiro per uscire da queste secche. C’è un fatto di vitale importanza: i Festival, e i film che a Venezia le persone avranno l’opportunità di vedere, vengono mostrati, plauditi, criticati, e tanto altro, ma fanno anche qualcosa di più: sono uno snodo del processo creativo ed economico che alimenta la produzione e creano a loro volta opportunità di lavoro all’interno delle produzioni…