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Se vengono e se vanno, l’importante è tatuarli con lo sputo

Migrants waiting to be disembarked from the Italian Coast Guard ship "Diciotti" in the port of Catania, Italy, 25 August 2018. ANSA/ORIETTA SCARDINO

Questa mattina fate un esercizio di ecologia intellettuale, come l’innaffiare i fiori sul balcone o concedersi una meditazione prima di buttarsi nel traffico cittadino: se vi capita tra le mani un giornale o un sito o un tweet o un urlatore al bar o un livoroso cronico che ha come priorità quotidiana quella di strapparsi i capelli per qualche decina di migranti che sarebbero scappati secondo l’inquinamento morale e lessicale sappiate fin da subito che è un sabotatore morale a cui bisognerebbe dare il poco peso che merita, il poco peso che merita anche la notizia in sé che non è una notizia e non è nemmeno una novità se non fosse che hanno bisogno di parlarvi di questo perché non sanno che altro dire, come quelle stanche conversazioni che virano sul meteo.

Non temetelo, però, no. Spiegategli, con calma, che i migranti migrano, tutti in tutto il mondo, e pochissimi vogliono fermarsi in Italia, quasi nessuno. Ditegli, se riuscite a farvi ascoltare, che da anni ormai approdano in Italia per posizione geografica solo per transitare verso nord, dove molti hanno parenti e amici che normalmente lavorano e si sono integrati. Dovrebbe rilassarsi nel sapere che il flusso (che a molti interessa fingere di non vedere) spiega come dei 35 euro o del wi-fi o del cibo marcio dei nostri centri di accoglienza a questi interessino meno di un tweet di Salvini. I teorici dell’invasione ci rimarranno malissimo nello scoprire che la pacchia italiana non è considerato un approdo. No. E chissà come gli ribolle il sangue, ai teorici del niente, nel sapere che gli eritrei come quelli della Diciotti hanno diritto di ottenere asilo politico quasi in ogni Paese europeo e chiedetegli perché dovrebbero farlo qui, dove sono diventati carne da macello per il dibattito pubblico di qualche affamato feroce cialtrone.

Ditegli, mentre vi spiega che sono scappati, che si scappa da un posto in cui si è costretti a stare e invece questi, come tutte le persone del mondo, si spostano. Se vi parla della scabbia spiegategli che no, gli è andata male, ma quelli sono ancora in cura. E poi che volete che sia la scabbia per gente che ha visto la guerra, che ha dovuto sotterrare i propri figli frutti degli stupri. Ma secondo voi, davvero, possono avere paura di questo patetico baccano italiano?

Se vi dicono che sono scomparsi senza documenti rispondete con calma che la legge prevede di prendere le loro impronte digitali e inserirle nella banca dati Eurodac e che di sicuro il ministro addetto alla sicurezza nazionale avrà avuto la premura di farlo. Non ci crederà ma voi provateci. Se vi dice che muore di paura nel non sapere dove sia qualche decina di ragazzotti spiegategli la differenza tra i latitanti e coloro che potenzialmente potrebbero delinquere, ovvero tutti, italiani tedeschi bianchi o neri, o peggio ancora dei delinquenti che qui da noi diventano addirittura classe dirigente.

Se vi dice che è colpa della sinistra ditegli che governano gli altri. Se vi dice che questo dimostra che l’indagine contro Salvini è una burla spiegategli che è proprio il contrario: le persone sono libere di spostarsi, per quello il ministro dell’inferno è indagato. Se vi dicono che li rimanderanno in Italia perché gli altri li rispediranno indietro ricordategli delle 22 riunioni in Europa che servivano proprio per questo e a cui Salvini non ha mai partecipato, raccontategli del trattato di Dublino.

Se insiste, insistete. Se resiste, resistete. E poi parlate ad altro, dedicatevi ad altro, pretendete che ci si dedichi alle priorità urgenti davvero perché il nostro Paese si rialzi. Non cadete nella tentazione di introiettare le false paure degli altri, non desistete. E chiedetegli, prima di salutarlo, com’è questa storia che sia se vengono e sia se vanno ciò che conta, per questi, è sempre e solo sputargli addosso.

Buon giovedì.

Bruxelles sostiene la lotta dei centri antiviolenza e delle Case delle donne sotto attacco in Italia

Inascoltate in Italia, le donne delle Case delle donne e dei Centri antiviolenza di Roma, Pisa, Arezzo e Viareggio non si sono scoraggiate ma hanno guardato oltreconfine chiedendo aiuto al Parlamento europeo dove hanno trovato il pieno sostegno dell’europarlamentare Eleonora Forenza e di Malin Bjork, capogruppo del Gue/Ngl, che hanno portato il “caso Italia” in audizione plenaria della Commissione Femm (Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere) .


Una immagine dell’audizione alla Commissione Femm

«Ho portato argomentazioni convincenti in sede di segretariato della Commissione e della conferenza dei capigruppo, in particolare la denuncia dell’attacco in corso in questo momento in Italia ai luoghi di libertà delle donne» ha spiegato Forenza. Per la prima volta, nell’emiciclo delle audizioni del Parlamento europeo, è risuonata alta la denuncia delle donne italiane attraverso la voce di Francesca Koch, presidente della Casa internazionale delle donne di Roma, seduta a fianco della presidente della Commissione, Villja Blinkeviciute, di Simona Ammarata della Casa della donna Lucha y Siesta e di Daniela Volpe del Centro antiviolenza Donna L.I.S.A. Tre voci che hanno presentato le attività che i luoghi svolgono e denunciato l’attacco del Comune di Roma rispettivamente per la revoca della convenzione, la minaccia di sgombero e la minaccia di sfratto.

Un attacco, hanno spiegato, che coinvolge tante altre Case della donna e centri antiviolenza d’Italia dove le istituzioni locali vogliono «annullare l’autonomia politica delle donne e svuotare le pratiche di autodeterminazione e democrazia dal basso» nonostante che tutti i documenti e le Risoluzioni del Parlamento europeo insistano sull’importanza di propri luoghi per garantire empowerment e autonomia delle donne. «Molte amministrazioni – ha insistito Koch – stanno mettendo in atto politiche sessiste e reazionarie, si pensi ad esempio al caso di Pisa dove è stato nominato assessore alla Cultura Andrea Buscemi nonostante sia colpevole di stalking, una nomina indecente e oltraggiosa contro la quale le donne di Pisa e di tutta Italia si sono mobilitate». Alla denuncia, forte e appassionata, che è stata trasmessa in streaming e tradotta in tutte le 24 lingue ufficiali dell’Ue, è seguita una richiesta precisa al Parlamento europeo. Quella di sostenere le donne italiane nella loro lotta di resistenza per il riconoscimento politico dell’autodeterminazione e dell’autorevolezza dei luoghi che costruiscono relazioni di pace e combattono la violenza maschile sulle donne proprio secondo i principi statutari dell’Unione europea e della Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia. Perché #La Casa siamo tutte.

Un grande successo. La testimonianza delle donne italiane ha colpito le deputate presenti che si sono schierate al loro fianco confessando di essere all’oscuro dell’allarmante situazione italiana dove vengono violati i principi fondativi di quella Unione Europea di cui anche l’Italia è Stato membro. Concorde la presidente della Commissione che ha preso ufficialmente due impegni. Quello di sollevare la questione nel prossimo incontro dei capigruppo per valutare come proseguire nel sostegno alla lotta delle Case delle donne in Italia anche, eventualmente, attraverso una Risoluzione del Parlamento europeo e quello di portare la delegazione di eurodeputati che andrà a Roma in dicembre a visitare i tre centri presentati in audizione.

Intanto, Forenza si è fatta promotrice, a livello parlamentare, di una lettera ufficiale di supporto agli spazi di libertà delle donne che sarà inviata al presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ed alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per denunciare che l’attacco alle Case delle donne è un attacco agli stessi principi dell’Unione europea e per chiedere che «sia riconosciuto un valore sociale e politico all’esistenza di questi spazi» ed al ruolo che svolgono «nella prevenzione alla violenza di genere e nella garanzia dell’uguaglianza di genere, autodeterminazione delle donne e dialogo interculturale».

Sulla vicenda Buscemi vedi qui e qui

Io, Lise Meitner: fisica, ebrea e sfuggita ai lager nazisti

Chemist Lise Meitner with students (Sue Jones Swisher, Rosalie Hoyt and Danna Pearson McDonough) on the steps of the chemistry building at Bryn Mawr College. Courtesy of Bryn Mawr College. (April 1959)

È solo il 9 maggio 1938 che Lise Meitner si rende conto che, anche per lei, tutto è cambiato. Definitivamente. Meno di due mesi prima, il 12 marzo 1938, c’è stata l’Anschluss: la sua Austria è stata annessa da Adolf Hitler. E lei è diventata a tutti gli effetti cittadina tedesca. E, quindi, senza più diritti. Perché lei, anche se di religione cristiana protestante, è ebrea.
Lise è una signora di 60 anni che vive e lavora a Berlino. E da quando Marie Curie è morta, quattro anni prima, è la donna che meglio conosce, in tutto il mondo, la fisica nucleare. Sta appena approntando un esperimento decisivo per capire davvero cosa succede nel nucleo di uranio quando lo bombardi con neutroni lenti.
Ma la storia incombe e non c’è più tempo. I nazisti stanno diventando sempre più feroci ed è ora di lasciare la Germania. «Posso venire?», chiede al nipote Otto Frisch che lavora con il grande fisico e grande amico Niels Bohr a Copenaghen, in Danimarca. Ma certo che puoi, risponde il nipote. Ma, si sa, spesso gli scienziati vivono sulle nuvole. E quei tre non si sono accorti che i paesi liberi e democratici di tutto il mondo stanno elevando barriere insuperabili per gli ebrei che vogliono fuggire dalla Germania. Lise e il nipote camminano, appunto, sulle nuvole. Così lei, spensierata, l’indomani si reca all’ambasciata danese a Berlino e chiede, come ha sempre fatto, un visto per andare a Copenaghen.
Ci dispiace, le dicono, gelandola: il suo vecchio passaporto, quello austriaco, non è più valido. Ma io non ho un altro passaporto. Allora ci dispiace, lei non può ottenere il visto per la Danimarca.
Gelata, esce dall’ambasciata. Poi decide: chiedo un nuovo passaporto, tedesco. In fondo sono una scienziata e devo rispondere a numerosi inviti che mi vengono continuamente dall’estero. Si reca così nella sua città natale, Vienna, dove conosco quel tale funzionario … Niente da fare. Anche a Vienna una doccia gelata: occorre aspettare, vedere, verificare. Sai, tu sei ebrea di nascita e non puoi ottenere il passaporto. Però magari se le autorità, lì a Berlino.
Lise mette in campo tutte le sue conoscenze di grande e riconosciuta scienziata. Ma niente da fare: anche se arriva indirettamente a Wilhelm Frick, il ministro degli Interni del Reich, non ottiene risposta. Intanto i giorni passano. E lei e i suoi amici sono sempre più preoccupati. Presto sarà troppo tardi.
Magari sarà più facile uscire se dimostri di avere un lavoro in un paese straniero. Chiediamo a Bohr. Risposta: mi dispiace, cara Lise, ma la Danimarca non può offrirti nessuna posizione E senza un lavoro anche se esci dalla Germania sarai respinta alla frontiera. È quanto potrebbe accadere anche alla frontiera Svizzera. Troppo pericoloso. E con l’Olanda? I suoi colleghi olandesi interpellano le autorità. Ci dispiace, senza un posto di lavoro non accettiamo nessuno, neppure gli ebrei che hanno bisogno di lasciare la Germania. Alcuni amici olandesi cercano di racimolare 20.000 fiorini per darle una posizione di almeno cinque anni in un qualche centro privato. Niente da fare: ne raccolgono appena 4.000.
Infine anche Wilhelm Frick, il ministro degli Interni nazista, risponde alle sollecitazioni degli amici tedeschi di Lise. La signora è ebrea e non può avere il passaporto. Tanto più che il Reich ha varato una norma specifica, che vieta agli scienziati “non ariani” di lasciare il Paese.
Lise è intrappola. Non c’è via d’uscita. Il suo caso sta per passare nelle competenze di Heinrich Himmler, il capo delle SS.
Finalmente la buona notizia. Manne Siegbahn le offre una posizione in Svezia, presso l’istituto che sta creando a Stoccolma. Poi, l’11 luglio, finalmente la seconda e decisiva buona notizia: le autorità olandesi chiuderanno un occhio e non la rimanderanno indietro alla frontiera, se lei in Olanda metterà piede solo per un transito veloce verso la Svezia.
Bene, nel muro dei paesi liberi e democratici si è aperta una breccia. Ma ora si tratta di attraversare la frontiera. Come impedire che la polizia tedesca la controlli alla dogana? La soluzione è, per così dire, all’italiana. Lei tenterà di attraversare la frontiera in un luogo poco frequentato. E i doganieri olandesi parleranno con i colleghi tedeschi, con cui hanno familiarità, perché quel giorno non ci siano controlli.
Il rischio è altissimo. Ma è l’unica opzione possibile. Il 13 luglio Lise parte con un amico olandese da Berlino e, dopo sette ore in treno, con il cuore a mille raggiunge la frontiera. Il treno rallenta. Si ferma. I tedeschi non controllano. Si riparte. È in Olanda. La migrante clandestina Lise Meitner ce l’ha fatta.
È stata fortunata.
Molti altri ebrei, in quei mesi, in quei giorni, non ce la fanno. Nei Paesi liberi e democratici sanno bene i pericoli che corrono. Si organizza persino una conferenza internazionale per discutere che fare con gli ebrei in fuga dalla Germania. In tutto, gli ebrei in Germania, sono mezzo milione. Il mondo è grande e potrebbe certo accoglierli.
La conferenza internazionale per assumere una decisione si chiude a Evian-les-Bains, in Francia, il 15 luglio: due giorni dopo la fortunata fuga di Lise. I cuori sono duri. E la decisione è raggelante. Nessun Paese, tranne la Repubblica domenicana e la Bolivia, è disposto a rivedere i propri limiti sulle politiche di immigrazione. Chi non rientra nelle regole – pericolo o non pericolo – è rispedito indietro. In Germania.
Non sono solo proclami. Succede alle frontiere di molti Paesi. Non solo europei. Pochi mesi la fortunata fuga di Lise, il 13 maggio 1939, salpa da Amburgo un transatlantico, il St. Louis che ha a bordo 937 profughi, quasi tutti ebrei, e un comandante eroico, un tedesco, Gustav Schröder, che li vuole salvare. La nave attraversa l’Atlantico e arriva a Cuba. Respinti. Solo in 22 riescono a scendere.
Si fa rotta verso gli Stati Uniti. Respinti.
Si fa rotta verso il Canada. Respinti.
Sono clandestini, non hanno diritti.
Si ritorna in Europa. Il Belgio concede l’attracco nel porto di Anversa. A patto che ci sia un’equa ripartizione dei profughi. Il 17 giugno 1939, un mese e quattro giorni dopo la partenza, i “clandestini” possono sbarcare. L’Inghilterra ne accoglie 288, la Francia 224, l’Olanda 181 e il Belgio stesso 214. Di questi sopravvivono alla guerra solo in 365. Il resto muore. Molti nei campi nei campi di concentramento di Auschwitz e a Sobibor.
Questa e altre macchie pesano ancora sulla coscienza dei Paesi liberi e democratici.
Quanto a Lise la sua rocambolesca vicenda si chiude come in una grande tragedia greca. È appena sbarcata in Svezia, che, nei giorni di Natale del 1938, le giunge notizia che il suo collega, un chimico, Otto Hahn ha portato a termine l’esperimento che lei aveva progettato. Ha bombardato il nucleo di uranio con neutroni lenti e ha ottenuto strani risultati. Tra i prodotti di reazione c’è il bario, un elemento molto più leggero dell’uranio. Hahn non sa darsi una spiegazione. E, via lettera, chiede lumi a Lise.
L’austriaca, insieme al nipote Otto Frisch che l’ha raggiunta, la spiegazione la trova. Hai ottenuto la fissione dell’atomo: hai spaccato il nucleo di uranio. E hai liberato una quantità enorme di energia.
In capo a pochi giorni i fisici nucleari dei paesi liberi e democratici, che si trovano per caso tutti a New York, comprendono che è possibile applicare quella scoperta per ottenere un’arma di distruzione di massa di inusitata potenza.
Verrà realizzata, quella bomba. Ma Lise, interpellata, si rifiuta di partecipare alla sua costruzione. Fosse anche vero che è un deterrente verso i nazisti, che l’hanno perseguitata e a cui è sfuggita per un pelo, lei non può piegare la fisica alla logica militare. Non può contribuire alla creazione di un’arma di distruzione di massa.
Nel 1945 a Otto Hahn verrà conferito il premio Nobel per la scoperta della fissione dell’atomo. Alla clandestina che è riuscita a trovare un buco nel muro con cui i Paesi liberi e democratici hanno risposto alla domanda disperata dei profughi ebrei non va alcun riconoscimento.

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Articolo pubblicato su Left del 13 luglio 2018. Pietro Greco è autore del libro Lisa Meitner, L’Asino d’oro edizioni

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 A San Rossore il 5 settembre, 80 anni dopo le leggi razziali in Italia

Negli stessi giorni in cui Lise Metner riesce a mettersi in salvo, in Italia arrivano le leggi razziali. E oggi, 5 settembre, nel luogo dove vennero firmate dal re Vittorio Emanuele III, la tenuta di San Rossore (Pisa), si tiene una iniziativa che coinvolge Comune, le università toscane, le scuole e la Regione. Non sarà solo ricordo e commemorazione ma anche impegno per un futuro senza discriminazioni. La Regione, assieme ai giovani della comunità ebraica, si confronteranno su diritti e integrazione con le seconde generazioni di immigrati che vivono oggi in Toscana.

«Il ricordo – si legge nella presentazione dell’evento – la memoria vigile che deve tenere insieme “l’impronta del passato (parole di Italo Calvino) e il progetto del futuro”, l’approfondimento accademico, l’incontro con chi da lontano è venuto a vivere in Toscana. Gli ingredienti della giornata del 5 settembre sono vari e cosa c’entrino i migranti che sono venuti a cercare in Italia la speranza di un domani migliore con la persecuzione degli ebrei e dei così etichettati ‘diversi’ ce lo insegna Evian. Siamo sempre nel 1938, a ridosso delle Alpi sul lago di Ginevra. Stati Uniti e Società delle Nazioni organizzarono nella cittadina termale francese una conferenza per decidere sulla sorte di decine di migliaia di profughi tedeschi e austriaci, per lo più ebrei ma non solo. Parteciparono trentadue diversi Paesi (nove dall’Europa) e nacque lì il diritto dei rifugiati, ma la conferenza si chiuse con un nulla di fatto. Non fu trovato infatti alcun accordo sulle quote di accoglienza e gli ebrei, gli oppositori politici e le persone che il terzo Reich considerava non omologabili e che già dopo l’Anschluss erano in fuga dalla Germania furono costrette a tornarsene a casa, rimpatriati. Come quella nave, tedesca, carica di profughi che arrivò fin nei Caraibi ma dovette tornarsene in Europa. Solo Santa Domingo dichiarò di essere pronta ad ospitare fino a 10 mila ebrei, mentre la Bolivia, fino al 1941, ne accolse ventimila».

San Rossore è il luogo dove nel 1938 sono state firmate le leggi razziali italiane. Ma è anche la tenuta dove dieci anni fa, nel meeting estivo internazionale organizzato per diversi anni dalla Regione Toscana, altri scienziati – Rita Levi Montalcini, Enrico Alleva e molti altri – hanno firmato nel 2008 il Manifesto degli scienziati antirazzisti: dieci punti del tutto opposti, a partire dall’affermazione che le razze non esistono. Ora sarà rilanciato il manifesto delle nuove generazioni italiane, scritto nel 2016 e che sogna una scuola capace di gestire la multiculturalità, di valorizzare la conservazione della cultura del paese di origine ma anche di rafforzare il legame con la cultura italiana e il sostegno di pari diritti civili e politici per tutti.

Il programma 
Il programma del 5 settembre 2018 prevede la mattina, assieme al Comune di Pisa, la deposizione di due corone di alloro prima al cimitero monumentale ebraico e poi alla tenuta di San Rossore, davanti alla lapide che ricorda la firma delle legge razziali e la persecuzione degli ebrei.

Alle 12 nella sala Gronchi delle Cascine Vecchie della Tenuta di San Rossore è prevista una conferenza stampa in cui saranno presentate le iniziative, i convegni, i seminari e gli incontri nelle scuole sulle leggi razziali – dal 20 settembre e nei prossimi mesi – , organizzate dalle Università della Toscana e finanziate dalla Regione.

Dopo la conferenza stampa è prevista l’inaugurazione della mostra “1938 – La storia” del Museo della Shoah di Roma a cura dell’ente parco San Rossore: un ricordo sull’esclusione e poi persecuzione degli ebrei attraverso, foto, documenti e giornali in gran parte inediti. La Toscana non è nuova ad iniziative sulla memoria. La Regione dal 2002 ha fatto partire dieci volte in quattordici anni un treno per Auchwitz, su cui complessivamente sono saliti settemila studenti e oltre seicento insegnanti, e negli anni pari dal 2006 ha organizzato una giornata con ottomila studenti in Toscana. Un format che ha fatto da apripista a viaggi di approfondimento analoghi in altre regioni.

Alle 13 ci sarà alla Sterpaia il pranzo con i giovani ebrei e i giovani rappresentanti delle comunità di immigrati presenti in Toscana, una cinquantina di persone in tutto. Dopodiché sarà la volta del ‘world cafè’, ovvero di un confronto partecipato sulla diversità come valore, la formazione come garanzia di rispetto delle diversità e su progetti efficaci per coinvolgere le nuove generazioni.

Sindacati in caduta libera, anzi no. Cgil e Cisl smentiscono la stima di Demoskopika

La manifestazione della CGIL, CISL e UIL in occasione dello sciopero generale per protestare contro le morti sul lavoro in piazza Castello , Torino, 13 Giugno 2018 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Fuga dal sindacato. Anzi no. Chi ha ragione, la società di rilevazione che ha diffuso i risultati di una sua ricerca oppure le segreterie di Cgil e Cisl che hanno confutato quei calcoli? Fatto sta che ci sono poche cose più complicate del calcolo degli iscritti a un sindacato. I dati – non si sa se commissionati o rilevati in autonomia dalla società che li ha diffusi – piombano sulla scena mediatica mentre il più grande sindacato europeo, la Cgil, sta per entrare nel rovente clima di un congresso nazionale e alla vigilia dell’ennesimo autunno drammatico se lo si osserva con gli occhi dei lavoratori e delle lavoratrici. Si tratta di numeri organizzati su scala regionale ma che prescindono dalle categorie.

Negli ultimi due anni le principali organizzazioni sindacali avrebbero perso, a questo punto il condizionale è d’obbligo, complessivamente circa 450 mila iscritti. Dal 2015 al 2017, i tesserati hanno subito una contrazione di 447 mila persone, di cui ben 293 mila residenti nelle realtà regionali del Mezzogiorno. Lo dice l’Indice di appeal sindacale (Ias) ideato dall’Istituto Demoskopika, secondo cui è la Cgil a registrare il maggiore decremento con un calo di ben 285mila iscritti, pari ad una riduzione del 5,2% rispetto al 2015, seguita dalla Cisl con meno 188mila tesserati e pari ad una contrazione del 4,5%. In controtendenza la Uil con circa 26 mila iscritti in più nell’arco temporale osservato (+1,4%).

Due gli indicatori utilizzati: gli iscritti ai sindacati di Cgil, Cisl, Uil e le persone di 14 anni e più che hanno svolto attività gratuita per un sindacato. Con oltre 293mila iscritti in meno, pari al 65,6% del calo complessivo delle adesioni, sono le regioni del Mezzogiorno, nel 2017, a rinunciare prioritariamente all’appartenenza sindacale con una variazione negativa pari al 5,1% rispetto al 2015. A seguire il Nord con una riduzione pari a 114mila iscritti (-2,7%) e il Centro con una contrazione delle adesioni di poco meno di 40 mila persone (-2,5%). Piemonte, Valle d’Aosta e Campania si collocano in coda alla graduatoria delle regioni «più sfiduciate» dalle organizzazioni sindacali. Al contrario, sul podio delle regioni a maggiore appeal sindacale si posizionano Basilicata, Toscana e Sicilia.

Circa 574mila italiani over 13 anni, pari soltanto all’1,2% della popolazione di riferimento hanno dichiarato di aver svolto attività sociale gratuita per un sindacato nel 2016 con un decremento di oltre 9 punti percentuali rispetto all’anno precedente, viene sottolineato nel rapporto che, per il periodo in questione, ha tracciato una classifica delle regioni in relazione all’attrattività delle principali organizzazioni dei lavoratori sul territorio. «Tra le prime otto realtà territoriali – si legge nella nota stampa della società di rilevazione – a dimostrare più sfiducia, in termini assoluti, ben sette sono attualmente governate dal centrosinistra: Campania con una contrazione di 55,8 mila iscritti pari al 17,9% in meno rispetto al 2015, Puglia che ha registrato una decrescita di 54,1 mila iscritti pari al 18%, Emilia Romagna con una perdita di 46,5 mila iscritti pari al 5,7%. E, ancora, Calabria con una contrazione di 20,8 mila iscritti pari al 12,7% in meno rispetto al 2015, Umbria che ha registrato una decrescita di 20,2 mila iscritti pari al 17,2%, Marche e Lazio con un calo rispettivamente di 14 mila iscritti (-7,4%) e 12,4 mila iscritti (-3,7%).

«Sul versante opposto – continua la nota – il primato dei territori caratterizzati da un aumento delle iscrizioni spetta al Veneto con all’attivo ben 8,9 mila adesioni in più (+2,3%), al Trentino Alto Adige con 5,9 mila tesserati in più (+8,2%) e, infine, alle Valle d’Aosta con un incremento meno significativo di 718 iscritti (+5,9%)».

La Cgil ha voluto confutare le cifre, nel merito e nel metodo: nel 2017 spiega di aver chiuso il proprio tesseramento con 5.518.774 iscritti (+1,04% rispetto al 2016 e +0,66% rispetto al 2015), cui corrispondono altrettante deleghe sottoscritte. «Al contrario di altri – si legge in una nota del sindacato – la Cgil non computa, nel totale degli iscritti, gli aderenti alle associazioni da essa promosse, quali ad esempio Auser, Federconsumatori, ecc. (circa 400.000 associati). Pertanto, non risulta la flessione del 5,2% che ci viene attribuita relativamente al raffronto tra il 2015 e il 2017».

«Il dato reale – prosegue la nota – è di sostanziale tenuta del tesseramento alla Cgil con un’apprezzabile crescita tra i lavoratori attivi ed una leggera flessione tra i pensionati che si spiega con il forte rallentamento della dinamica pensionistica per effetto della legge Fornero». La Cgil inoltre definisce «molto discutibile dal punto di vista scientifico il calcolo che Demoskopika fa sul presunto appeal sindacale, indice sconosciuto a qualsiasi serio ricercatore. Siamo, infatti, in presenza di dati rapportati agli occupati regione per regione (operazione ardita data la generosa definizione di occupati data dall’Istat) e riferiti ad un’indagine Istat ancora in fase di stabilizzazione sulle istituzioni no profit».

Anche in via Po, quartier generale della Cisl, si rigetta l’ipotesi della fuga dal sindacato: gli iscritti certificati, associati alla Cisl, nel 2017 sono 4.040.823. «Pur perdurando la crisi economica ed occupazionale, la Cisl tiene in tutti i settori produttivi ed ha registrato nel triennio 2015-2017 un aumento dei propri iscritti tra i lavoratori attivi di 10.206 persone, grazie all’aumento registrato in importanti categorie come quelle del terziario, del settore agroindustriale e della scuola – scrive la segretaria confederale organizzativa della Cisl Giovanna Ventura, dopo l’indagine di Demoskopika – l’aumento degli iscritti si è realizzato nonostante l’operazione di verifica, trasparenza e certificazione degli iscritti nella nostra anagrafe, avviata negli ultimi anni dalla Confederazione sui dati forniti dalle nostre categorie e dalle strutture territoriali. La perdita di iscritti in alcune categorie è assolutamente fisiologica e si registra in particolare in alcuni settori produttivi dove la forza lavoro è sensibilmente calata negli ultimi anni e tra i pensionati per effetto della legge Fornero che ha innalzato l’età per il pensionamento, con effetti negativi peraltro sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro».

«I dati vanno sempre letti nel dettaglio e valutando la fonte. Io non ho elementi per valutare questi e il dubbio che siano strumentali mi viene – spiega anche in una nota Eliana Como, portavoce de Il Sindacato è un’altra cosa, l’opposizione interna in Cgil – da diversi anni la Cgil sta subendo attacchi pesanti da molte direzioni. Ma c’è un ragionamento più politico: francamente mi stupirei del contrario, come quando nei direttivi e nei congressi ci vengono a dire che abbiamo guadagnato iscritti. E non mi rallegra affatto pensare che potremmo essere un gigante dai piedi d’argilla.

La crisi globale ha fatto la sua parte ma viviamo da vent’anni dentro processi segnati da controriforme: c’è un malcontento sulle pensioni, c’è la trappola del Jobs act, il lavoro è sempre più precario, polverizzato. C’è crisi di partecipazione politica, figuriamoci se non c’è nel sindacato: non solo nelle tessere, quanto nella militanza, nel protagonismo, nelle assemblee dove siamo presenti la partecipazione ai congressi è davvero molto bassa. Faremmo male a mettere la testa sotto la sabbia e fingere che non sia così, quello che contesto alla maggioranza è proprio il fatto che dica che va tutto bene. E che lo abbia scritto nel documento. C’è bisogno di recuperare un rapporto con i lavoratori e le lavoratrici».

Le certezze dei nostri piccoli e gretti cortili

Vi racconto una storia.

Lei è una ragazza, che se ne scappa dal suo Paese, convinta di meritarsi altro rispetto al quasi niente che le si offriva. Mi dice “partita senza sapere la lingua, sapevo dire solo sì no, non spaevo cosa avrei trovato”. È rimasta otto giorni nella capitale, dormendo solo qualche ora: “ho dormito due ore a notte”, mi spiega. Ha conosciuto una donna, Paola, onesta e gentile. Buonista, direbbe qualcuno. Le ha dato consigli e l’ha aiutata. Poi la protagonista di questa storia è finita in periferia: stanza condivisa, otto persone dentro, di nazionalità diverse.

“Voglio descriverti le emozioni”, mi ha detto: pochi soldi in tasca, giornate passate a capire come muovermi e come imparare la lingua, giornate in cui usciva di casa solo per provare a superare la paura, la sensazione di non farcela. Trova un lavoro, umilissimo. Le serve comunque per pagarsi lo studio della lingua. Se lo fa bastare. Mi racconta del terrore di essere giudicata dai famigliari lontani, della sensazione di non poter risolvere gli accidenti che capitano alla sua famiglia e lei è così distante, la sensazione di vuoto in un Paese che non è il tuo e non sai dove appoggiarti.

La storia di questa donna finisce bene: trova un lavoro ma soprattutto incontra una persona con gli occhi puliti, senza il fumo e la rabbia, una di quelle che vede le persone per quello che potrebbero diventare piuttosto che per quello che sembrano, una di quelle che non giudica (o addirittura odia) la faccia impastricciata dai casi della vita. Ora lavora. È felice, anche se le manca il suo Paese.

Fermi tutti, però. Lei si chiama Annalisa. La capitale di cui mi parla è Londra. Ed era l’unica italiana in quella stanza di otto persone. La sua lettera è una spremuta di umanità: “Portare mamma in aeroporto, – mi scrive – una vecchietta di 70 anni, che ogni volta che prende l’aereo mi fa perdere anni di vita, tra preoccupazioni ed incazzature… ma viene qua per vedermi… non so se conosci quella sensazione quando va via, la guardi entrare nei tornelli e non sai se la rivedrai ancora, se l’hai abbracciata abbastanza, orgogliosa del suo coraggio, che è anche il tuo e triste per farle fare questo, farle subire la mia assenza… che un giorno sarà per me la sua… spiazza, fa pensare a tutto quello che perdi…”. Ha un cuore così Annalisa.

E stamattina mi viene da pensare a come l’avremmo accolta noi, se davvero abbiamo gli occhi puliti per vederle, le Annalisa che incontriamo. E mi assale pena e speranza. Pena per la fuliggine che ci ha fatto disimparare a scorgere quanto le storie e le persone siano universali ma anche speranza, sì speranza, perché ci salveranno i viaggiatori che squarciano la certezza dei nostri piccoli, gretti e falsamente benpensanti cortili.

Buon mercoledì.

 

Toh! C’è la guerra nel “porto sicuro”

Libyan security forces patrol on August 23, 2018 near the site of an attack on a checkpoint in the city of Zliten, 170 km east of the capital Tripoli. - An attack on a checkpoint between the Libyan capital and the town of Zliten killed six soldiers of the UN-backed unity government, an interior ministry source said. (Photo by Mahmud TURKIA / AFP) (Photo credit should read MAHMUD TURKIA/AFP/Getty Images)

C’è un problema, semplice semplice: l’Italia (e non certo solo con questo governo) probabilmente rischia di avere puntato sul cavallo sbagliato.

Tripoli è un campo di battaglia, titolano tutti i giornali. La Libia ormai è la cartina di tornasole dell’inefficienza dell’Europa e della feroce superficialità con cui si spacciano interessi economici chiamandoli vigliaccamente politica estera.  Il consiglio presidenziale libico guidato da Fayez al Serraj (quello riconosciuto dall’Onu e gran parte dell’Europa) ha proclamato lo stato di emergenza e ora si trova sotto attacco dell’iniziativa militare della Settima Brigata, guidata da Salah al Badi, insieme ad altri gruppi armati.

L’uomo scelto dall’Europa insomma appare sempre più debole rispetto al generale Khalifa Haftar (sostenuto anche da Macron che in nome del meno peggio ora qualcuno vorrebbe incoronare come vessillo di certa sinistra).

Ma c’è un altro punto, su cui molti opinionisti sembrano piuttosto blandi: la Libia per l’Italia non sono i diritti umani come da anni fa comodo raccontarci. La Libia sono soprattutto i rapporti economici considerevoli che ci legano mani e piedi (i giacimenti dell’Eni, per citare una cosa a caso) a uno Stato che sembra ben lontano dal raggiungere una pacificazione democratica.

Hanno chiamato la Libia Stato nascondendo che si tratti di un Paese ostaggio di tribù di corrotti e corruttori che usano le milizie per spartirsi il potere. Insistono nel chiamare Guardia costiera libica un accrocco di briganti e assassini che hanno imparato a recitare (male) la parte degli uomini in divisa. Fingono di parlare di Europa o di diritti ma stanno con la calcolatrice in mano a calcolare i profitti. E ora, con il conflitto alle porte, per l’ennesima volta saremo vittime delle partenze dalle coste libiche usate da sempre come arma di ricatto.

Intanto l’Italia sta facendo rientrare con urgenza i propri diplomatici e lavoratori. In fretta e furia. Sarebbe da piazzarsi in mezzo al corridoio, quello dove corrono tutti terrorizzati, alzare la manina e chiedere: ma scusate, ma non era un porto sicuro, qui?

Buon martedì.

Ribellarsi è giusto. Alla festa di Rifondazione, una serata con Left dedicata ai 200 anni di Marx

Sabina Guzzanti, Francesca Fornario, Daniele Vicari, Angelo d’Orsi e Giovanni Mazzetti saranno alcuni tra gli ospiti della festa nazionale di Rifondazione Comunista, intitolata Ribellarsi è giusto, che si svolge da mercoledì 5 a domenica 9 settembre a Firenze, nella Casa del Popolo di Castello.
Oltre ai dibattiti con artisti e intellettuali, concerti e workshop, nel corso della rassegna si terranno momenti di confronto con le forze della sinistra politica e sociale, del sindacalismo e della militanza diffusa.

«Da Catania a Rocca di Papa, quella è la sinistra che vogliamo costruire, una sinistra capace di opporsi, concretamente, al razzismo di Salvini ma anche al Pd – dichiara Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – . Per questo vogliamo che la nostra festa nazionale sia un vero momento di confronto con tutte le forze sociali, i movimenti e le persone che dal basso vogliono opporsi alla deriva di questo governo osceno e a chi vuole riproporre il fallimentare centrosinistra».

Sabato 8 settembre, sulla scia di Marx reloaded il numero di Left dedicato ai duecento anni di Marx si parla dell’attualità del pensiero del filosofo di Treviri per ricostruire la sinistra e combattere la disoccupazione  e la precarizzazione.

Da riscoprire sono la sua analisi delle contraddizioni del capitalismo, le sue lungimiranti previsioni, la sua chiamata alle armi del pensiero critico e l’idea in un’ottica di liberazione non solo dallo sfruttamento, ma anche dall’alienazione, per una piena realizzazione umana. Marx fu certamente un uomo del suo tempo, non avrebbe senso farne un mito o un profeta, ma certamente il suo pensiero è ancora vivo e fertile di spunti in un’epoca in cui il neoliberismo è diventato “pensiero unico”,  il dogma del centrosinistra e delle destre, leghisti in testa.
Per approfondire questi temi, l’appuntamento è sabato 8 settembre alle 21 alla Casa del popolo è in via Reginaldo Giuliani 374, a Firenze. Ne discutono la parlamentare europea Eleonora Forenza, il vice presidente del partito della Sinistra europea Paolo Ferrero, autore di Karl Marx ( in uscita per Derive e Approdi), lo storico  Angelo d’Orsi, l’economista Giovanni Mazzetti , coordina Simona Maggiorelli, direttrice di Left. Vi aspettiamo.

Qui il programma completo :: https://www.facebook.com/events/494131507725220/

L’incendio al museo Nazionale di Rio, ecco cosa succede quando si tagliano i fondi alla Cultura

Sono le immagini del gigantesco incendio che ha devastato il museo nazionale di Rio de Janeiro in Brasile. Le fiamme sono divampate domenica 2 settembre in serata quando il museo era già chiuso al pubblico e hanno distrutto importantissime collezioni con reperti provenienti dall’Egitto, opere e artefatti di epoca greco-romana, e antichi fossili di origine umana scoperti in Brasile. Compreso il più antico, risalente a 12.000 anni fa e noto come Luzia.

«Il principale e più antico museo di storia, arte, scienza del Brasile ridotto in cenere, ma il fuoco è arrivato solo a completare l’opera. La distruzione ha il suo mandante nel governo golpista che ha tolto quasi tutti i finanziamenti necessari alla sopravvivenza di istituzioni culturali, di educazione e ricerca come questa. Nel suo ultimo anno di esercizio (2016) il governo di Dilma destinava per questo museo 415 milioni di reais (88mln di euro circa, ndr). In due anni il governo Temer ha tagliato tutto, lasciandogli appena 54 milioni (2018), altro da aggiungere? Il piromane ha nome e cognome, si chiama liberismo». Così ha commentato sul suo profilo ufficiale Fb,  Gianni Fresu, dottore di ricerca in Filosofia alla Università di Urbino, professore di Filosofia politica alla Universidade Federal de Uberlandia (MG/Brasil).

Essere donna in Palestina

Bethlehem, West Bank, Palestinian Territories - July 23, 2013: Four Palestinian woman walk down Paul VI Street in the center of Bethlehem, two wearing hijabs and two not. Other people are also on the street, and a man is visible through the window of his shop.

Quanti volti ha una donna, quanti ne ha una città? Da quanti angoli è possibile guardarle e quanti di questi si contraddicono a vicenda, si negano al punto da saper convivere? Innumerevoli, come i frammenti di una storia. Quella palestinese è un mosaico apparentemente indistricabile, ma allo stesso tempo cristallino: una lotta di liberazione nazionale, ma fatta di individui con aspirazioni diverse, storie, sogni diversi.

Khulud Khamis, giovane scrittrice palestinese, ha provato a farli rientrare tutti in un romanzo. A fine luglio è volata a Roma, ospite della libreria delle donne Tuba al Pigneto, nelle stesse ore in cui, a Trastevere, altre donne – quelle della Casa internazionale – ricevevano dal Comune la notifica di revoca della convenzione.

Abbiamo raggiunto Khulud per parlare del suo libro, Frammenti di Haifa, edito in Italia da Fila37. Una storia composta appunto di tanti frammenti di una storia collettiva, quella palestinese, e di tante vite individuali che non narrano la natura di un singolo, ma quella di un intero popolo. Il tutto tenuto insieme da Maisoon, giovane palestinese cristiana e cittadina israeliana (tre “identità” in una da gestire), e dal suo appartamento ad Haifa, dove vive sola e dove coltiva la passione per l’arte.

Tra le pagine scorrono i tanti temi che fanno della questione palestinese una questione unica, ma anche universale: la necessità di mantenere un’identità politica e culturale, l’occupazione militare israeliana, la disillusione, l’amore, il rapporto con i genitori, l’indipendenza della donna. Centrale è la figura femminile, impegnata in una doppia resistenza e che l’autrice dipana attraverso le donne del romanzo.

Frammenti di Haifa è un un mosaico: ogni tassello – la relazione tra un musulmano e una cristiana, l’amore omosessuale, il rapporto con il padre, l’occupazione israeliana – è parte di un quadro più ampio. Chi è Maisoon e come la sua vita, fatta di tanti frammenti, è simile alle vite di ogni altro palestinese?

Come scrittrice, non è compito mio definire l’identità dei personaggi che creo. Sono i lettori che portano la loro esperienza di vita nel processo di lettura. Spero che possano avvicinarsi a Maisoon su piani diversi e attraverso diversi elementi della sua identità. Le persone sono esseri complessi: siamo fatti di tanti pezzi di identità e io mi sono battuta per rendere i miei personaggi il più reali possibile. Sicuramente l’identità di Maisoon…

L’intervista di Chiara Cruciati a Kulud Khamis prosegue su Left in edicola dal 31 agosto 2018


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Lo spacciatore di “spacciatori dal Gambia”

Italian Interior Minister, Matteo Salvini (C) smiles while speaking with two Scuderia Ferrari' mechanics during a visits at the Formula One circuit in Monza, in Monza, Italy, 1 September 2018. The 2018 Formula One Grand Prix of Italy will take place on 02 September 2018 ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

“Vendere droga da oggi è legale se sei disoccupato! Lo affermano i Giudici del Tribunale del Riesame di Milano! Condividi se sei indignato!!!”

E poi.

«Il pusher rimesso in libertà: “Si mantiene con lo spaccio”» titola quel quotidiano buono per incartare il pesce che sulle bufale e sul terrorismo si mantiene in vita.

E poi.

“Spaccia droga per necessità”

E alla fine, ovviamente, con il tempismo delle mosche arriva lui: «Roba da matti. Un immigrato del Gambia, con precedenti penali, beccato a spacciare morte, è stato scarcerato perché per i giudici del tribunale di Milano: “Vendere droga è la sua sola fonte di sostentamento”. Poverino…» ha twittato il ministro dell’inferno Salvini.

Ma davvero c’è uno spacciatore che è stato assolto e scarcerato in giro per Milano, graziato dal fatto che spacciare sia il suo unico sostentamento economico? No, ça va sans dire.

C’è un presunto spacciatore che è stato fermato con cinque pastiglie in tasca (e quindi nemmeno in flagranza di reato come scrive qualcuno). C’è un Tribunale del Riesame che ha valutato l’opportunità di tenerlo in carcere in attesa di giudizio. Avete letto bene: quest’uomo non è ancora stato giudicato. E, spiace dirlo a qualcuno che non se n’è ancora reso conto, non valgono Facebook e Twitter come giurie popolari (anche perché altrimenti Berlusconi sarebbe diventato Mandela, in tempi piuttosto recenti). La carcerazione preventiva è possibile solo se ci sono i presupposti stabiliti dalla legge e non è un vezzo del giudice di turno. Quando i giudici scrivono che il reo non ha nessuna fonte legale di reddito lo scrivono per avvalorare l’accusa, mica la difesa. Ci sarà un processo che accerterà le responsabilità e, nel caso, emetterà sentenza di condanna.

Ci sono però alcuni particolari su cui soffermarsi: il dibattito a cui avete assistito è spazzatura, le informazioni che vi hanno dato sono volutamente incomplete se non addirittura false.

E poi.

Salvini ci si è buttato perché il reo è gambiano. Come al solito. Ma Salvini è ministro dell’Interno, al governo, addirittura vicepremier: ogni volta che Salvini twitta indignato una presunta schifezza italiana sta rubando tempo a se stesso che è profumatamente pagato per studiarla e risolverla.

E infine: Salvini non ha rimesso in libertà il principale imputato del furto di 49 milioni di euro. Ha fatto di peggio: Umberto Bossi se l’è portato in Senato e si prepara a cambiare il nome al proprio partito per non restituire il malloppo. Vicepremier del governo finge di avere perso i documenti per passarla liscia, è finita la pacchia!, scriverebbe lui.

Buon lunedì.