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Alla sinistra serve il rifiuto

È veramente curioso osservare quello che accade nella politica di questi tempi. Non voglio parlare della devastazione culturale che sta creando questo governo “del cambiamento”. In un Paese in cui dilaga l’analfabetismo funzionale, il governo invece che contrastarlo lo alimenta. Si creano problemi invece di risolverli, perché se c’è un problema è molto facile accusare e non fare niente. Vedi per esempio il caso Diciotti, un problema inesistente creato ad arte per tenere alta la fiducia nelle doti del capitano Salvini senza che egli faccia nulla.

La cosa invece da approfondire è il perché improvvisamente e inaspettatamente, è iniziata nell’house organ del Pd (la Repubblica) un dibattito su cosa dovrebbe essere la sinistra e un tentativo di analisi della sconfitta del marzo scorso.

Viene da chiedersi perché adesso. Apparentemente non è cambiato un granché rispetto a tre mesi fa.

Certamente la vicenda Diciotti e quella del Morandi, con i fischi al Pd, hanno senz’altro contribuito a scuotere la politica di sinistra o sedicente tale, che la situazione è grave. Certo potevano anche accorgersi prima, eh! A ben vedere in realtà in ambito Pd nulla si è veramente mosso.

Quello che è accaduto lo avete visto e letto.

Repubblica ha iniziato a pubblicare pezzi sull’argomento in uno sfoglio dedicato che ha chiamato “le idee”. E poi un lunghissimo articolo di Walter Veltroni il 29 agosto. Seguito il giorno dopo da un editoriale di Scalfari di elogi per Veltroni e da una chiamata alle armi a Gentiloni, Minniti, Zanda e Mattarella a scrivere su Repubblica per contribuire con le loro idee a ricostruire la sinistra.

Dell’articolo di Veltroni posso dire solo che è imbarazzante. Come ha ben scritto Christian Raimo nemmeno un briciolo di autocritica o perlomeno di analisi di possibili errori personali quando era il leader del maggior partito di sinistra. Nemmeno un’ombra di dubbio che forse il problema è proprio di costruzione del Pd come fusione dei resti del Pci e dei resti della Dc. Macché.

Ma al di là di questo, la cosa grave è Repubblica.

Perché insiste a voler imporre personaggi vecchi che hanno ricette vecchie che non funzionano?

Evidentemente non si vuole in nessun modo che possa esistere una sinistra.

Credo che si siano combinate due cose.

Da una parte la ribellione degli elettori di sinistra. Di quelli che magari non votano più Pd da un pezzo ma si sentono ancora di sinistra. In particolare per la manifestazione di Milano e quella di Catania. Accanto a questo un altro evento che è passato sui media mainstream non con il dovuto risalto: la Chiesa cattolica che sta inesorabilmente e rapidamente scomparendo a seguito dei tantissimi scandali e denunce di pedofilia. Lo stesso papa parla di “fallimento”. I preti pedofili, si scopre che sono sempre più numerosi, ma non solo perché ci sono nuovi crimini ma perché si scoprono i crimini del passato. Migliaia di casi scoperti e gli stessi inquirenti che parlano di molti e molti altri che sicuramente sono stati cancellati. Si scopre che la Chiesa cattolica è l’organizzazione ideale per un pedofilo che voglia agire indisturbato. Organizzazione strutturata per proteggere i pedofili che se scoperti vengono sistematicamente spostati in posti lontani e le prove disperse. Quanti sono i crimini che sono stati insabbiati e cancellati dalla Chiesa nel corso dei duemila anni della sua storia? Eppure Veltroni fa riferimento al papa. Zingaretti candidandosi alla guida del Pd fa riferimento al papa. E sappiamo quanto Scalfari e Repubblica siano fan del papa. Le parole e le idee del papa, il capo di un’organizzazione che copre e aiuta pedofili, organizzazione che quindi favorisce il reato di pedofilia, sarebbero le parole di riferimento della sinistra.

La Chiesa è finita. Passeranno ancora degli anni ma è evidente anche al papa stesso che la Chiesa è destinata a concludere la sua esistenza per “fallimento”. Se si vuole fondare una Sinistra che sia veramente nuova la prima cosa da fare è liberarsi dalle idee violente. Liberarsi dai tanti scheletri che riempiono gli armadi della politica di sinistra e che ne hanno determinato il fallimento.

Quindi tanto per cominciare basta con il papa! Smettetela di parlare della Chiesa e del papa come riferimento ideale! È il capo di un’organizzazione che copre criminali pedofili. E se la risposta è “si però ha fatto la commissione contro la pedofilia, lui è buono ed è contro i pedofili” beh, vi ricordo che né il papa né la Chiesa cattolica hanno mai denunciato un prete pedofilo per farlo arrestare. MAI. Nemmeno una volta che sia una.

Perché essere d’accordo con la Chiesa significa odiare i bambini. Volerne la distruzione. È questa l’idea di sinistra che avete, caro Veltroni e caro Scalfari? O forse più semplicemente siete voi che odiate i bambini? Liberiamo una volta per tutte il pensiero da queste schifezze e poi possiamo discutere di cosa possa e debba essere veramente la sinistra.

Che sicuramente non è odiare i bambini ma amarli profondamente.

PS: il motivo per cui ho voluto denominare Left “Unico giornale di sinistra” è perché noi di Left siamo gli unici a non scendere a compromessi (ideali e pratici) con la Chiesa cattolica.

Chi fa patti di qualunque tipo con la Chiesa, per esempio pubblicandone i libri, non può definirsi di sinistra. Nemmeno un po’.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Di Maio e Salvini alla prova dei conti

Leader of the League party, Matteo Salvini, right, and Luigi Di Maio, leader of the Five-Star movement, during the swearing-in ceremony for Italy's new government at Rome's Quirinale Presidential Palace, Friday, June 1, 2018. (Alessandro Di Meo/ANSA via AP)

Prove tecniche di flat tax e di reddito di cittadinanza, ma la manovra del governo giallonero si preannuncia della stessa pasta delle leggi di bilancio che l’hanno preceduta. La caccia alle coperture non sta risparmiando tensioni tra i due colori del governo. «È una fase confusa e convulsa», avverte Gianna Fracassi, segretaria confederale Cgil, anche perché l’economia italiana rallenta, unico caso nel G7.

È possibile spoilerare che non ci saranno «investimenti pubblici per la creazione di posti di lavoro, né ammortizzatori sociali adeguati alla crisi che non è finita, né le flessibilità annullate dalla Fornero o un piano di assunzioni straordinarie nella pubblica amministrazione (con buona pace della retorica sui vigili del fuoco “eroi” ma sotto organico) e abbiamo già visto che intervenire sul mercato del lavoro non ha determinato un aumento dell’occupazione», spiega Fracassi.

Ecco allora le principali misure annunciate e i loro costi. Nemmeno quest’anno scatterebbe la…

 

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Angela Davis, a viso aperto contro l’oppressione

Non ero ancora nata quando la mia famiglia, negli anni Sessanta, lasciò Haiti per sfuggire alle persecuzioni del regime di Duvalier. Arrivati in Italia come richiedenti asilo, ottennero tutti lo status di rifugiato politico. Compresa mia nonna, italiana di nascita, ma che in quanto donna, secondo la legge allora vigente, aveva perso la sua cittadinanza per aver sposato uno straniero, uno che di cognome faceva Moïse. Insieme alla cittadinanza, nonna perse tutti i diritti ad essa connessi, da quello di voto alla possibilità di esercitare la sua professione di insegnante. E se oggi quella legge è stata abolita è grazie alla tenacia di nonna e della marea di donne che scesero in piazza in quegli anni alla conquista dei propri diritti.

Così, sono nata con un “privilegio”: quello di ereditare da una parte la cittadinanza italiana, e dall’altra il cognome dei Moïse, ovvero il nome trasmesso a me attraverso i secoli da una famiglia di schiavi d’origine africana. Com’era consuetudine ai tempi tratta transatlantica degli schiavi, i colonizzatori del cosiddetto “nuovo mondo” usavano sostituire il nome d’origine dei loro schiavi con un nome biblico (Moïse significa Mosè in francese) per sradicarli definitivamente dalla loro terra e dalla loro storia.

La schiavitù e il razzismo così come la violenza sulle donne e lo sfruttamento di classe si nutrono di un lavoro quotidiano di appiattimento della storia sul presente, un’operazione che rescinde i nessi tra i fenomeni sociali e le loro origini. Nella tabula rasa di un presente senza tempo e sempre uguale a se stesso, le ingiustizie ci appaiono come ostacoli perenni e insormontabili a cui non resta che abituarci nel momento in cui calano come un sipario su ogni orizzonte di cambiamento.

È questo il tempo della crisi economica contemporanea: la crisi che ha generalizzato la condizione di precarietà, impennato le cifre di femminicidi e violenze sessuali, moltiplicato le aggressioni razziste e il lavoro semi-schiavile dei migranti spinti ai margini della società.

Eppure, in questo presente disperante, un movimento sociale di…

L’articolo di Marie Moïse prosegue su Left n. 35 del 31 agosto 2018


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Straziami ma di rimborsi saziami

Che un partito rubi soldi non è una novità. Basta fare un salto ai tempi di tangentopoli (con tutte le storture che ha comunque lasciato come macerie) o ricordare i 25 milioni di euro che il tesoriere della Margherita, Lusi si intascò meritandosi anche una condanna per calunnia nei confronti di Rutelli. La politica italiana (e questo sì sarebbe un tema di cui discutere) ha sempre esercitato il potere nella forma malata legata a doppio filo con l’arricchimento personale. Ci siamo abituati, anche. Io lo trovo terribile: non è forse l’abitudine al delitto o alla bassezza morale il primo passo per l’insensibilità verso il presente e le persone che lo abitano? Anche di questo, sarebbe il caso di prendersi il tempo di parlare.

Però dei 49 milioni di euro che ieri il Tribunale del Riesame ha autorizzato a sequestrare alla Lega mi interessava ascoltare soprattutto la risposta politica. Anzi le risposte: quella di Salvini (che con la sua comunicazione tutta emotiva si ritrova a mettere la magistratura tra le repulsioni che i cittadini hanno il diritto di ostentare e ha gioco facile) e quella dei suoi compagni di governo.

Salvini, appunto. Dice il leader leghista che questa sentenza riguarda il passato e a lui non interessano i processi alla storia. Peccato: a noi sì. Perché il giochino della storia vecchia non funziona nemmeno nelle più sbrindellate compagnie da birreria e non si vede perché dovremmo concederla a un dirigente del Paese. Ma c’è un passo in più: quella storia vecchia non è stata né rinnegata né elaborata. Il protagonista Umberto Bossi è senatore voluto, fatto eleggere proprio da Salvini e la Lega (questa volta di Salvini) non si è costituita parte civile, quindi non si sente parte offesa. Non solo ci interessa il processo alla storia ma addirittura ci piacerebbe sapere quali siano i fili che la tengono ancora legata al presente, quella storia. I processi alla storia, tra l’altro, servono perché non si ripetano gli stessi errori e gli stessi orrori. Capisco che questo turbi un po’ il ministro dell’interno. Dice Salvini che gli italiani sono con lui. Sarebbe da battergli il ditino sulla spalla e ricordargli l’altro Matteo, ben più alto (nei voti) rispetto ai suoi sondaggi.

Ma Salvini non si batte con questa sentenza e sarebbe il caso che questa (blanda) opposizione lo capisca in fretta. Non si cancella Salvini sperando che qualcuno gli impedisca di fare politica: è stupido e anche inefficace. Il tintinnare di manette è antipolitica tanto quanto l’indignazione da scontrini. Non se ne esce così. Non si entra nel campo avversario (vale per i rimborsi ma vale anche per la svolta a destra sull’immigrazione) introiettando le stesse paure e finendo per legittimarle. La gente non smetterà di votare Salvini per questa condanna e soprattutto non voterà quegli altri nel caso in cui dovesse farlo. I voti di sponda, quelli volatili e biliosi, sono troppo friabili per ricostruire un Paese.

Buon venerdì.

I cani da guardia del neoliberismo

Sul tavolo del ministro del lavoro Di Maio ci sono dossier che parlano di 144 aziende in crisi, a rischio chiusura. Davanti ai nostri occhi si para il dramma dei lavoratori dell’Ilva, specchio della storia e della attuale situazione italiana.

I dati Istat, riportati dal giornale della confindustria, Il Sole 24 Ore dicono che «gli occupati sono diminuiti dello 0,1% (-28mila unità) rispetto a giugno, mese in cui si era già registrato un calo di 41mila unità». Precisando, come se fosse una rassicurazione, «che il calo riguarda solamente le donne e si concentra tra le persone di 15-49 anni». In flessione i dipendenti con contratto stabile (-44mila), mentre crescono lavoratori a termine e indipendenti (entrambi +8 mila). Aumentano al contempo gli inattivi (+89mila in un mese).

Qui ci fermiamo con le cifre che fotografano il drammatico status quo, a cui dedica un puntuale e analitico approfondimento Checchino Antonini in un articolo su questo numero di Left in cui anticipa alcuni contenuti della nota di aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza, che il governo giallonero deve completare entro il 27 settembre. Ma non c’è solo questo. Nei prossimi mesi ciò che ci aspetta è una manovra lacrime e sangue, stridente rispetto alle tante promesse fatte fin qui dall’esecutivo: dal reddito di cittadinanza all’abolizione della riforma Fornero sulle pensioni.

Nei fatti, da marzo a oggi, abbiamo visto le urgenze del Paese – disoccupazione, emigrazione degli italiani, povertà crescente ecc.- essere lasciate al palo, senza alcuna risposta mentre il governo a trazione leghista si accaniva contro l’emergenza immigrati (che non c’è), fino a prendersela con i 177 profughi a bordo della Diciotti (che oltretutto batte bandiera italiana), violando i principi della Costituzione e la Convenzione di Ginevra.

Fino a prendersela, come ha fatto il ministro Salvini pochi giorni fa con chi non ha un tetto. Lo ha fatto con una circolare ai prefetti che annuncia la stretta sulle occupazioni, al grido «la proprietà privata è sacra». La vita umana non conta niente?

Il presidente della Repubblica ancora tace. L’Italia intanto precipita, nel silenzio totale, mentre l’opposizione non sa o non vuole reagire. Anche la piccola crescita che sembrerebbe riguardare i Paesi europei non lambisce l’Italia: l’unico Paese del G7 che nel secondo trimestre dell’anno ha registrato un rallentamento della crescita (fonte Ocse). Ma nessuno si interroga seriamente sul perché. O almeno non si interrogano i partiti di governo, fautori di un neoliberismo di marca leghista e grillina interclassista, demagogico, che fa credere ai più poveri, ai disoccupati che aspirano a un reddito di cittadinanza, di avere gli stessi interessi degli imprenditori della Padania, per i quali il governo è pronto a varare la flat tax che mette tutti sullo stesso piano iniquamente. Non si interroga seriamente nemmeno il Pd che del neo liberismo ha fatto una religione tradendo le speranze e le aspirazioni di quella che un tempo era la sua ampia base. Il neoliberismo che predica l’austerity e il neoliberismo xenofobo e nazionalista si tendono la mano.

Per questo non ci pare utile tentare di resuscitare quel Pd che è nato su una aperta negazione dell’antifascismo, partito in caduta libera a cui Renzi ha inferto il colpo finale. Accanirsi in quella impresa significa negare la possibilità di far nascere una sinistra dalle lotte di donne e uomini dell’antifascismo, una sinistra senza dogmi, progressista, per la quale parole come libertà e uguaglianza hanno un senso pieno e profondo. In questo numero di Left abbiamo provato a tracciare una panoramica dei problemi più urgenti: disoccupazione, precarizzazione, caporalato.

Siamo tornati a raccontare la realtà italiana nella sua dimensione più dolorosa, realtà che tutti conosciamo ma che proviamo a leggere più in profondità. Rifiutando il mantra di chi ci dice che questa realtà ingiusta sia immodificabile. Pensando che una nuova sinistra sia ancora possibile, uscendo da vecchi schemi, guardando all’identità umana più profonda che ci parla di valori umani universali, a prescindere dal colore degli occhi e della pelle. Marx necessario ma non sufficiente. Di questo torneremo a parlare anche l’8 settembre a Firenze.

Risuonano le parole dell’ex presidente uruguaiano Pepe Mujica. «Noi pensavamo di cambiare il mondo cambiando solo il sistema di produzione. Ma poi abbiamo capito che se non cambi la testa e la cultura, il sistema non cambia».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Ilva, storia di un tradimento a 5Stelle

LUIGI DI MAIO, M5S CON IL CASCHETTO DELL'ILVA

Mirko Maiorino è un operaio dell’Ilva. Sono anni che lotta insieme al comitato spontaneo Cittadini e lavoratori liberi e pensanti. Vive al quartiere Tamburi, quello più vicino all’Ilva di Taranto. Qualche giorno fa ha ricevuto la telefonata di un amico in lacrime. «Ho bisogno di una mano – gli dice -. A mio figlio è stato diagnosticato un tumore al cervello. Bisogna andare a Firenze, ma non ho i soldi per andare». Il piccolo non ha nemmeno un anno. «Capisci cosa vuol dire vivere qui? Capisci perché quando in tv sentiamo numeri su lavoro e acciaio, qui a Taranto ci sentiamo offesi?».

Parla digrignando i denti, Mirko. Per la rabbia e la delusione a causa delle ennesime promesse andate in fumo. «Chiuderemo l’Ilva e bonificheremo», aveva promesso Luigi Di Maio. Ancora più espliciti erano stati gli allora candidati pentastellati: «La posizione del M5s su Ilva è chiara – dicevano a febbraio in un comunicato -: la riconversione economica passa ovviamente dalla chiusura delle fonti inquinanti, senza le quali le bonifiche sarebbero inutili. La linea del movimento per il futuro dell’Ilva di Taranto prevede una riconversione economica dell’area. La chiusura delle fonti inquinanti è la logica conseguenza». Stop. Non si menzionavano altre eventualità. Non c’era margine per strade diverse. Non si parlava di «delitto perfetto», come ha detto invece il ministro Di Maio per giustificare il passaggio della fabbrica ad Arcelor Mittal.

Eppure il M5s a Taranto ha avuto un plebiscito alle elezioni politiche del 4 marzo, raccogliendo oltre il 47% dei voti. Basta questo per capire che, anche se alla fine il governo dovesse strappare condizioni favorevoli, non saranno mai sufficienti per un popolo intero che si è sentito per l’ennesima volta preso in giro. Il ragionamento di Mirko è eloquente: «Se Di Maio dovesse ottenere 500 posti di lavoro in più da Mittal, per 56 milioni di italiani sarà una grandissima vittoria del movimento. Per 200mila italiani, i tarantini, sarà l’ennesima sconfitta. Avremo barattato la salute di centinaia di bambini per 500 posti di lavoro». E se ci fossero migliori…

Il reportage di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Quei giochi di guerra in Centrafrica tra Russia, Cina e Francia (con Trump alla finestra)

La Repubblica Centrafricana è ufficialmente, con la pubblicazione delle ultime graduatorie dell’Onu degli indici di sviluppo, il Paese più povero del mondo. Ed è un Paese cronicamente in guerra, guerra tribale che diventa guerra di religione, che ha reso praticamente impossibile garantire la sicurezza di chi ci vive. Uno scontro di civiltà che vede coinvolti, a fianco delle fazioni in campo, potenze mondiali come Francia – il Paese è tradizionalmente parte dell’Africa centrale francese -, Russia, Cina.

Perché, somma contraddizione, la Rep. Centrafricana – come del resto molte altre nazioni del Contintente e di quello che ancora si può definire Terzo mondo – è poverissima sì, ma ricca di risorse. Nella Repubblica Centrafricana si trova, sia pure su scala minore, tutto quello che si trova nel vicino Congo, la cui storia di conflitti è molto più nota, ma che del resto, quanto ad indici di sviluppo socio-economico, non se l’è mai passata un granché meglio: uranio, petrolio, oro, diamanti e quasi tutti i metalli pregiati, coltan.

Quanto detto sin qui, unito alle fosche brume dei mattini equatoriali, basterebbe per dire che la definizione di porto delle nebbie può attagliarsi a pennello alla Repubblica Centrafricana. Bene, in questo scenario da porto delle nebbie si è recentemente consumata la tragedia dei tre giornalisti russi Orkhan Dzhemal, Alexander Rastorguyev e Kirill Radchenko, uccisi nella notte tra il 30 e il 31 luglio da un commando di uomini armati, a 23 Km da Sibut, un centro che si trova circa 200 km a nord est della capitale Bangui, sulla strada per Bambari, altri 100 km circa di distanza, e per alcuni centri minerari controllati dalla milizia musulmana di opposizione Séléka.

I tre lavoravano ad un documentario per conto dell’Investigation Management Centre (Icm), un centro di documentazione per il giornalismo d’inchiesta legato all’opposizione interna al presidente russo Putin, presieduto da Andrey Koniachin e finanziato da Michail Khodorkovsky, il più famoso dei dissidenti russi. Si sa che stavano indagando su un presunto legame tra le recenti concessioni minerarie alla Russia e la presenza sul territorio del gruppo Wagner, un’armata di mercenari venuta agli onori della ribalta per il suo ruolo in discussi episodi nelle guerre nel Donbass e, soprattutto, in Siria. Secondo Khodorkovsky inoltre, i tre avrebbero dovuto incontrare, il 2 o il 3 Agosto, un rappresentante della MINUSCA, la missione dei caschi blu dell’Onu per la stabilizzazione del Centrafrica.

Le autorità locali indagano per rapina, i tre giornalisti sarebbero stati fermati ad un posto di blocco da una decina di uomini armati col turbante, che parlavano arabo- che l’autista locale dei tre non comprendeva, mentre Dzhemal e Rastorguyev sì-, avrebbero fatto resistenza ad un tentativo di rapina e sarebbero stati uccisi.

Ma Dzhemal e Rastorguyev erano veterani di teatri di guerra come l’Afghanistan e l’Iraq, Dzhemal era celebre in patria per il reportage sulla guerra in Georgia del 2008, era stato ferito in Libia, dove aveva rischiato di perdere una gamba, e persino sequestrato in Somalia. Insomma, come hanno prontamente rilevato i colleghi, mai e poi mai avrebbero rischiato la vita per resistere ad un tentativo di rapina. Come ha fatto notare Tatiana Denisova, esperta di Africa tropicale per l’Accademia delle Scienze di Mosca, le milizie locali hanno tutto l’interesse a sequestrare gli occidentali a scopo di riscatto, non certo a massacrare la gallina dalle uova d’oro per relativamente pochi spiccioli.

Da più parti inoltre, si mette in dubbio la credibilità dell’autista, che sarebbe stranamente stato lasciato vivo dal commando. Konyachin ha dichiarato di non capire perché i tre avessero deviato di una ventina di chilometri verso nord, dalla strada che collega Sibut a Bambari. A questo proposito, mentre tutti si sono concentrati sulla possibilità che i tre avessero scoperto qualcosa di compromettente sulla gestione dei centri minerari da parte di miliziani della Wagner, Novaya Gazeta, il giornale russo di opposizione per cui lavorava Ana Politkovskaya, la giornalista esperta di Cecenia uccisa nel 2006, ha scritto che forse i giornalisti avevano deviato verso Nord per seguire le carovane del traffico di migranti centrafricani, che sarebbero gestite anche dalla Wagner, e attraverso le quali la milizia organizzerebbe un traffico di foreign fighters reclutati in loco. Ipotesi.

Sull’inaffidabilità dell’autista è intervenuto lo stesso Khodorkovsky, che ha amaramente ammesso come il fatto sia sintomatico della cattiva organizzazione della trasferta, e delle misure di sicurezza che avrebbero dovuto tutelare i tre giornalisti. Khodorkovsky ha detto questo anche dopo aver constatato che le conversazioni sui cellulari dei tre erano in possesso di un canale televisivo di proprietà di Yevgeny Prigozhin, uno degli oligarchi russi più potenti oggi, e da tempo sospettato di essere il principale finanziatore, nonché l’uomo che controlla in realtà il gruppo Wagner. Khodorkovsky ha annunciato che smetterà di finanziare l’Icm, che sta già finanziando un nuovo team investigativo che si occupi di fare luce sul caso, e che si sente, come finanziatore del progetto, responsabile verso le famiglie dei tre, che si preoccuperà di sostenere. Da italiani, verrebbe da dire, un comportamento ben diverso da quello tenuto dall’Università di Cambridge nei confronti del povero Giulio Regeni.

Questa la scena del crimine che si è consumato nel porto delle nebbie centrafricano. Nel quale c’è perennemente la guerra tra poveri, sponsorizzata dai ricchi, in cui sembra ora essersi inserita un’armata di mercenari che fa il bello e il cattivo tempo. Diamo qualche dettaglio in più sul contesto in generale.

La guerra innanzitutto. Il territorio della Repubblica Centrafricana è diviso, a grandi linee, tra i popoli del nord, detti Peule, sudanesi, presenti a macchia d’olio tra i paesi del Sahara centro meridionale e convertiti all’Islam, e i popoli del sud, animisti evangelizzati dalla penetrazione cristiana, durante la fase coloniale. Tra i due gruppi esistono rivalità e conflittualità storiche, che con la sovrapposizione del Cristianesimo e dell’Islam sono fatalmente diventate scontro di civiltà e guerra di religione. Il gruppo dirigente al potere appartiene tradizionalmente ai cristiani, e tale è il presidente attuale Faustin Archange

Touadéra, come pure i suoi predecessori Catherine Samba Panza e Francois Bozizé. Nel 2012-2013 c’era stato un colpo di stato, con cui Michel Djotodia, un politico centrafricano di formazione non a caso russa, alla testa dei ribelli Peule Seleka, aveva spodestato Bozizé. Poi la situazione è rimasta instabile, la parte cristiana, appoggiata dalla Francia e dall’Onu, ha riconquistato almeno il controllo della capitale- fino ad un certo punto, Bangui è spesso percorsa da violenti disordini – con la presidenza della Samba Panza, nel 2014, ma il Paese è rimasto sostanzialmente fuori controllo, in preda ad una moltitudine di gruppi armati e tribali.

Si è detto e scritto in passato che il colpo di stato Seleka fosse orchestrato dal Sudan, per interessi cinesi. I cinesi erano presenti in Repubblica Centrafricana dal 2007, quando una loro azienda cominciò a trivellare una concessione petrolifera. Il progetto si è interrotto nel 2017, nonostante la Cina abbia condonato miliardi di debiti alla Repubblica Centrafricana, e abbia anche avviato programmi di scambio per formare la classe dirigente del martoriato Paese. La Cina però non è mai riuscita ad ottenere qualcosa che invece la Russia ha ottenuto dall’Onu, all’inizio di quest’anno: la possibilità di “aggirare” l’embargo sulla vendita di armi al Paese africano. All’inizio del 2018, infatti, la Russia è stata autorizzata dall’Onu a fornire armi leggere, 5 addestratori militari e 170 formatori civili per le forze di sicurezza. A fine maggio c’è stato un incontro a S.Pietroburgo tra Putin e Touadéra. Più o meno in quei giorni il sito Africa Intelligence ha scritto che la miniera d’oro di Ndassim, che si trova nei pressi di Bambari, meta dei tre giornalisti uccisi, è stata data in concessione alla Lobaye Invest e alla Sewa Security Service di Yevgeny Prigozhin. Di nuovo lui. Attualmente la miniera è controllata da Seleka, che riesce a ricavarne, con metodi estremamente artigianali, non più di 350.000 dollari al mese.

Secondo un altro giornale, The Insider, un Cessna 182, noleggiato proprio dalla Lobaye Invest, è stato visto ripetutamente volare e atterrare, con a bordo sempre “formatori civili per forze di sicurezza”, in località minerarie del paese, come Alindao, Birao, Borar, Bria e Cabo. C’è chi insinua che anche all’Onu devono aver cominciato a fischiare le orecchie a qualcuno, quando si è cominciato a capire chiaramente l’interesse minerario di Mosca dietro la fornitura di armi, e che i 170 formatori civili potevano essere in realtà uomini della Wagner. Così la Russia sarebbe riuscita in un’impresa che non è riuscita alla Cina: ma la Russia, ricordiamolo, in questa fase appoggia quello che, secondo l’Onu, è il legittimo governo centrafricano, lo stesso che la Francia ha sempre appoggiato.

A ottobre e novembre 2017 ci sono stati due incontri politici importanti: il primo a Sochi, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e Touadéra, il secondo tra il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu e il presidente sudanese Omar al Bashir. In entrambi gli incontri si sarebbe parlato di forniture e assistenza militare in cambio di concessioni minerarie. Nel primo incontro sarebbero state decise le concessioni alla Lobaye e alla Sewa di Prigozhin, nel secondo sarebbe stato concesso alla M Invest dello stesso lo sfruttamento di miniere d’oro in Sudan, anche qui in cambio di competenze militari, per l’addestramento delle divisioni che si muovono proprio lungo il confine con la Repubblica Centrafricana. Shoigu avrebbe ottenuto in cambio da al Bashir la concessione di una base militare sul Mar Rosso, posizione strategica indubbiamente notevole, che dovrebbe difendere il Sudan da eventuali attacchi Usa.

In effetti in questi incontri si è parlato anche di installazioni militari, di forniture di macchine agricole e, per quanto riguarda il Centrafrica, anche di legname pregiato.

Mosca gioca su due tavoli, ma questo, in simili faccende, non deve sorprendere, quando si tratta di finanziare guerre civili per il controllo di risorse è sempre prudente, se si può, che una mano non sappia cosa fa l’altra. Il tutto inoltre, non è in contraddizione con quanto Putin ha sempre detto riguardo alle forniture militari di Mosca: si riforniscono in maniera equilibrata tutte le parti in causa, in modo da facilitare il raggiungimento di una posizione di stallo, che porti ad un compromesso.

D’altronde gli Stati Uniti di Trump, noto estimatore di Putin, hanno recentemente sdoganato il Sudan di al Bashir, togliendolo dalla lista degli Stati canaglia. Per dire che forse si sta determinando un equilibrio di cose che va bene a molti, se non a tutti.

Mosca poi, e la Cina con lei, sembrano aver rispolverato la strategia della guerra fredda, quando si parla di formare le classi dirigenti dei paesi amici. In Repubblica Centrafricana i cinesi, osteggiati dall’Onu e dalla Francia, sembrano aver fallito nell’intento, laddove sembrano ora poter riuscire i russi. Secondo il giornale Kommersant – citato da Micol Flamini del Foglio -, Prigozhin, che si occupa praticamente di tutto, avrebbe addirittura in mente di selezionare politologi africani, mandarli a studiare a Mosca, e farli rientrare in patria prima delle elezioni. Prigozhin, evidentemente, non è solo avido di ricchezze o potere, ma ha anche una fine e lucidissima mente politica. Vale la pena ricordare che è il primo dei tredici cittadini russi sotto inchiesta per il Russiagate. A lui fanno capo l’Internet Research Agency e la factory troll – così si chiamano le basi di falsi account internet che manipolano la pubblica opinione sul web – accusata di aver influenzato le ultime presidenziali americane.

Maria Zakharova, portavoce di Lavrov, ha dichiarato, a margine della vicenda dei tre giornalisti uccisi, che gli interessi russi e la presenza di istruttori militari nella regione non erano certo un segreto. Forse però, il fatto che tali istruttori siano arrivati con la copertura di un’autorizzazione dell’Onu, che ci sia un legame tra la loro presenza e lo sfruttamento di concessioni minerarie, e che facciano parte di una milizia privata controllata da un oligarca, può essere un fatto alquanto imbarazzante per tutti, Onu e Russia insieme.

Per dovere di cronaca, in questo porto delle nebbie e terra di nessuno che è la Repubblica Centrafricana, il primo maggio 2018 c’è stato un gravissimo attentato in una chiesa cattolica di Bangui, dove sono stati usati lanciagranate contro la folla riunita. Ci sono stati 30 morti e più di 100 feriti. Gli autori dell’attentato sarebbero miliziani islamici di un quartiere della capitale, il cosiddetto PK5, che il governo non controlla. «C’è una manipolazione in corso? Un’agenda nascosta? Il tentativo di far mettere il Paese sotto protettorato?» si è chiesto il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui. Le risposte probabilmente sono scritte nelle foschie dei mattini equatoriali.

L’articolo prosegue nella Seconda e nella Terza parte

Salvini voleva scatenare la tempesta perfetta. Ma ha perso

Salvini ha perso. Bisogna dirlo con chiarezza, anche se la percezione popolare in queste ore sembra un’altra. Aveva promesso che l’Italia non avrebbe fatto sbarcare i 177 della Diciotti, aveva annunciato il rimpatrio immediato in Libia, aveva dichiarato guerra alle più alte cariche dello Stato, sbeffeggiando Fico e preavvisando Mattarella. Tutte chiacchiere e distintivo. Oggi si trova con una indagine a carico molto pesante e con il rilascio degli ostaggi, sequestrati con grande sconcerto dell’opinione pubblica internazionale per una settimana a Catania. I migranti li ha presi in consegna la Cei, ma saranno collocati sul suolo italiano, saranno curati da medici italiani, dormiranno, mangeranno, pregheranno nelle città italiane. Eppure grida vittoria, apre lo scontro forse definitivo con l’Europa, sfida la magistratura, ospita nella prefettura di Milano l’autocrate ungherese Orban. Non c’è dubbio che l’attuale ministro degli Interni sia un abile giocatore di poker, che con appena una coppia di assi tra le mani è abituato ad alzare sempre la posta per nascondere il bluff. Salvini sapeva che dalla nave Diciotti sarebbero dovuti scendere, anche perché la Guardia Costiera non poteva essere trattata, oltre un certo limite temporale, alla stregua di una qualsiasi “terribile” Ong. Persino la polemica preventiva con la Francia e la Germania si è rivelata subito prevedibile e scontata perché già ampiamente consumata negli ultimi due mesi con risultati abbastanza deludenti, compresa la capitolazione sul trattato di Dublino del premier Conte, l’avvocato del popolo di cui il popolo non ha ancora trovato le tracce. Insomma, Salvini aveva studiato tutte le mosse per scatenare la tempesta perfetta. Far girare a mille la macchina di propaganda, pur sapendo che la soluzione alla fine si sarebbe trovata in Italia. Ha tirato al massimo il rapporto con i Cinque Stelle, pesando la lealtà di Di Maio – in evidente debito di ossigeno – e facendo finalmente uscire allo scoperto il dissenso all’interno dell’azionista di maggioranza parlamentare dell’esecutivo. Da oggi il rapporto tra Lega e grillini sembra completamente riequilibrato a favore dei primi, come se le elezioni non ci fossero state. Non si è mai visto che il secondo partito della coalizione che governa il Paese abbia un tale potere di interdizione e di ricatto, dettando tempi e modi dell’agenda parlamentare. Questo sarà ancora più evidente quando a settembre – prima della legge di stabilità – arriveranno due mine sul cammino della maggioranza e che avranno entrambi il timbro del Carroccio nazionale. La richiesta al Senato di autorizzazione a procedere per Salvini dopo l’apertura dell’indagine per sequestro di persona, arresto illegale e abuso di ufficio e il decreto sicurezza, più volte annunciato, ma i cui contorni sono ancora nebulosi. L’inquilino del Viminale sembra non volere alcuno scudo anche per alzare la temperatura nei confronti del potere giudiziario, spettacolarizzando un duello annunciato dopo la sentenza sui 49 milioni di euro scomparsi del finanziamento pubblico. Sarà comunque difficile per i grillini affrontare una sfida all’ok corral con la procura di Agrigento con la destra che andrà sicuramente in soccorso. D’altra parte Meloni e Berlusconi non aspettano altro per rientrare in partita. Lo stesso accadrà sul decreto sicurezza, dove ai grillini verrà riconosciuta una sovranità limitata su norme che riducono il diritto di asilo, allargano a dismisura i centri di detenzione negli spazi e nei tempi, cancellano qualsiasi traccia di politica di accoglienza e integrazione, riducono il peso degli Sprar, trasformano le politiche migratorie in una questione di mero ordine pubblico inaugurando vere e proprie ronde di Stato. Cosa che non è accaduta per il decreto dignità dove invece la Lega ha inciso tantissimo nell’attutire le norme sul precariato e nella reintroduzione dei voucher. Anche lì la destra proverà a giocare una partita, mandando ulteriormente in difficoltà il blocco dei Cinque Stelle, provando a scatenare il dissenso interno guidato dal presidente Fico. Sarà davvero dunque un autunno caldissimo, ma non avrà il timbro dello “statista” di Pomigliano d’Arco. Infine, c’è la dimensione delle alleanze internazionali, dove Salvini sta giocando la partita più importante in termini strategici. La strada è abbastanza chiara: se Putin e Trump definiscono l’Ue come il nemico numero uno, lui prova ad applicare quella linea chiamando a raccolta tutte le forze, a partire dai Paesi aderenti al patto di Visegrad, interessate a far saltare il banco. Anche qui i grillini entrano in crisi: non hanno una dimensione europea di appartenenza (non possono andare con i liberali di Macron, con i socialisti, verdi e sinistra radicale meno che mai, i popolari sono nei fatti la Merkel e l’Ukip non sarà più presente in Parlamento dopo la Brexit ), nel rapporto preferenziale con Orban e Le Pen stanno stretti e la minaccia di ritirare il contributo italiano al bilancio Ue rientrerà nel novero delle sparate estive della politica politicante italiana. Finiranno inevitabilmente sotto pressione: si erano presentati alle cancellerie europee come i garanti di Salvini, quelli che ne avrebbero moderato le spinte eversive. Invece oggi si trovano costretti a inseguirlo, rischiando di perdere quote ingenti di elettorato affascinate dal vitalismo antiestablishment del leader leghista così lontano dalle grisaglie ministeriali e le mediazioni parlamentari. Il disegno è abbastanza chiaro: mentre Di Maio ha solo un Piano A – far durare questo governo -, Salvini ha moltissimi margini di manovra, su più tavoli e con alleanze variabili. Eppure, nonostante questa forza oggettiva, ha perso la mano sulla Diciotti. Gioca a fare il martire, aumenta il potere di ricatto, ironizza sui social media chiamando a raccolta i fan, eppure non l’ha spuntata. Perché? Ci sono tre cose che Salvini non potrà mai avere e che sono quelle che oggi garantiscono al nostro Paese ancora un equilibrio istituzionale e politico, per quanto fragilissimo. Innanzitutto, la nostra democrazia resta ancorata a una cultura costituzionale dei contrappesi. Un ministro non è legibus solutus, non può fare tutto quello che vuole. La magistratura è autonoma e indipendente, il potere legislativo delle camere può limitare l’invadenza del potere esecutivo, il presidente della Repubblica non sarà mai un passacarte. In secondo luogo, la presenza di un radicamento del cattolicesimo sociale diffuso pesa ancora: mi ha colpito la presenza di tanti giovani scout al presidio di sabato scorso al porto di Catania a poche ore dallo sbarco. Persino i vescovi siciliani hanno minacciato iniziative clamorose come lo sciopero della fame per sbloccare l’impasse. Immaginare che la disumanità esibita come cifra politica non mobiliti questo pezzo di società è una dimostrazione di dilettantismo e di scarsa conoscenza delle nostre radici. Infine, un senso comune che non ama le esagerazioni spinte oltre un certo limite. Nella storia italiana ci sono stati passaggi drammatici che hanno unito tragedia e farsa, autoritarismo e teatro, carisma e comicità. Non è mai andata a finire bene. Salvini può mettere sotto stress il popolo italiano quanto vuole, ma a un certo punto il principio di realtà sulle favole populiste prenderà il sopravvento. E la ricerca del nemico permanente si scontrerà con una condotta cialtrona che ha già mandato in soffitta promesse mirabolanti. Se annunci urbi et orbi che abolisci la Fornero nel primo Consiglio dei Ministri e poi non lo fai nemmeno al decimo, qualcuno in tempi brevi verrà a ricordartelo. Per questo Salvini ha perso oggi e può perdere domani. Perché lo scarto tra gli annunci e i fatti concreti comincia ad essere già troppo ampio dopo due mesi di governo. Il punto è quando. Oggi ci appare inevitabile prediligere la fase della resistenza a quella del progetto. Ma questa gerarchia appartiene più alla sfera dei sentimenti che a quella della politica. Perché i bluff possono persino durare anni se non si costruisce rapidamente un’alternativa. La democrazia italiana ha retto questo turning point della Diciotti perché i tentativi di smontarne le fondamenta, anche per vie referendarie, non sono passati. Tuttavia, non basta. Perché il nucleo di verità presente anche nel messaggio dei populisti si è radicato nella testa delle persone e va guardato con attenzione, senza snobismi e semplificazioni. La crisi dell’europeismo democratico non scende dal cielo per colpa della destra. Diventa maggioranza nella parte più debole della società perché il lavoro in questi anni ha contato troppo poco e perché lo Stato sociale si è ritirato. Ed è accaduto anche sotto governi di ispirazione progressista. Le prossime settimane moltiplicheranno le occasioni di dibattito a sinistra (feste, kermesse, assemblee, costituenti, congressi) ed è un bene. Andranno sciolte finalmente alcune questioni senza tabù e pregiudizi: ricostruzione dello Stato, protezione del lavoro, investimenti pubblici. Una piattaforma di politica economica, non un elenco della spesa. Se questa alternativa decide di presentarsi invece come una sterile rivendicazione del recente passato non si va lontano. Si va solo a sbattere.

Agus Morales: «Quante frontiere per chi non trova rifugio»

Barcelona 14 06-2017 -Entrevista con Agus Morales autor del libro No somos refugiados Foto Carlos Montanes

Se avete soltanto intenzione di informarvi, non comprate questo libro. Perché Non siamo rifugiati. Viaggio in un mondo di esodi, di Agus Morales (Einaudi, traduz. di Sara Cavarero), con le foto di Anna Surinyach e da una prefazione di Martín Caparrós, è un libro per capire, per guardare dentro. Leggetelo subito se invece avete inseguito i temi cari ad Alessandro Leogrande e i suoi modi profondi, il suo non svicolare mai dall’analisi, dall’andare a cercare sul campo la realtà. Sarà il miglior modo di riannodare il filo della sua voce. Osservo Agus Morales per giorni, in attesa del suo arrivo a Festivaletteratura, mentre a sua volta osserva le operazioni di salvataggio lungo la “vecchia nuova rotta” del Mediterraneo; ne scriverà su 5W, il progetto nato da un collettivo di «giornalisti ambulanti con voglia di pensare».

Iniziamo dal lessico, che è il fil rouge del suo libro. Il lessico geografico, che riguarda da vicino l’Italia, perché sta sulla “Frontiera Nord”, come lei la chiama. Ma soprattutto il lessico migratorio, perché definiamo profughi o rifugiati persone che non lo sono, o che non vorrebbero esserlo.
L’ultima crónica che ho scritto (la crónica non è semplice cronaca, e nemmeno reportage; narra il come, ricreando l’atmosfera in cui quel come si svolge, ndr) per Revista 5W, riguarda l’arrivo di persone via mare sulle coste spagnole. Quelle coste, in Spagna, vengono chiamate Frontiera Sud. Ho capovolto la definizione e ho titolato il pezzo “Frontiera Nord”, perché per chi arriva questa è la Frontiera Nord. Credo che cambiare prospettiva sia un esercizio sano. In quanto al lessico migratorio, non abbiamo un nome per definire uno dei grandi protagonisti di questo secolo: il cosiddetto – erroneamente – rifugiato.

O rifugiata, perché la metà di quelle persone sono donne. Volevo scrivere un libro sulle persone rifugiate, e mentre lo scrivevo mi sono reso conto che non lo erano. Innanzitutto perché non diamo loro rifugio, né asilo. In secondo luogo perché molte delle persone che scappano dalla violenza nemmeno escono dai confini del loro Paese, e quindi non possono essere considerate rifugiate. E, infine, perché loro stessi non si riconoscono in quell’etichetta. Non so se il nostro lessico ha bisogno di una revisione; di una riflessione critica senz’altro sì.

In Italia e in altre parti del resto d’Europa, un salvataggio non è più un atto umanitario ma un negoziato politico durante il quale la società si spacca.
Negli ultimi tre anni il numero di persone arrivate in Europa via mare è…

L’intervista di Monica R. Bedana ad Agus Morales prosegue su Left n. 35 in edicola dal 31 agosto


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Se vengono e se vanno, l’importante è tatuarli con lo sputo

Migrants waiting to be disembarked from the Italian Coast Guard ship "Diciotti" in the port of Catania, Italy, 25 August 2018. ANSA/ORIETTA SCARDINO

Questa mattina fate un esercizio di ecologia intellettuale, come l’innaffiare i fiori sul balcone o concedersi una meditazione prima di buttarsi nel traffico cittadino: se vi capita tra le mani un giornale o un sito o un tweet o un urlatore al bar o un livoroso cronico che ha come priorità quotidiana quella di strapparsi i capelli per qualche decina di migranti che sarebbero scappati secondo l’inquinamento morale e lessicale sappiate fin da subito che è un sabotatore morale a cui bisognerebbe dare il poco peso che merita, il poco peso che merita anche la notizia in sé che non è una notizia e non è nemmeno una novità se non fosse che hanno bisogno di parlarvi di questo perché non sanno che altro dire, come quelle stanche conversazioni che virano sul meteo.

Non temetelo, però, no. Spiegategli, con calma, che i migranti migrano, tutti in tutto il mondo, e pochissimi vogliono fermarsi in Italia, quasi nessuno. Ditegli, se riuscite a farvi ascoltare, che da anni ormai approdano in Italia per posizione geografica solo per transitare verso nord, dove molti hanno parenti e amici che normalmente lavorano e si sono integrati. Dovrebbe rilassarsi nel sapere che il flusso (che a molti interessa fingere di non vedere) spiega come dei 35 euro o del wi-fi o del cibo marcio dei nostri centri di accoglienza a questi interessino meno di un tweet di Salvini. I teorici dell’invasione ci rimarranno malissimo nello scoprire che la pacchia italiana non è considerato un approdo. No. E chissà come gli ribolle il sangue, ai teorici del niente, nel sapere che gli eritrei come quelli della Diciotti hanno diritto di ottenere asilo politico quasi in ogni Paese europeo e chiedetegli perché dovrebbero farlo qui, dove sono diventati carne da macello per il dibattito pubblico di qualche affamato feroce cialtrone.

Ditegli, mentre vi spiega che sono scappati, che si scappa da un posto in cui si è costretti a stare e invece questi, come tutte le persone del mondo, si spostano. Se vi parla della scabbia spiegategli che no, gli è andata male, ma quelli sono ancora in cura. E poi che volete che sia la scabbia per gente che ha visto la guerra, che ha dovuto sotterrare i propri figli frutti degli stupri. Ma secondo voi, davvero, possono avere paura di questo patetico baccano italiano?

Se vi dicono che sono scomparsi senza documenti rispondete con calma che la legge prevede di prendere le loro impronte digitali e inserirle nella banca dati Eurodac e che di sicuro il ministro addetto alla sicurezza nazionale avrà avuto la premura di farlo. Non ci crederà ma voi provateci. Se vi dice che muore di paura nel non sapere dove sia qualche decina di ragazzotti spiegategli la differenza tra i latitanti e coloro che potenzialmente potrebbero delinquere, ovvero tutti, italiani tedeschi bianchi o neri, o peggio ancora dei delinquenti che qui da noi diventano addirittura classe dirigente.

Se vi dice che è colpa della sinistra ditegli che governano gli altri. Se vi dice che questo dimostra che l’indagine contro Salvini è una burla spiegategli che è proprio il contrario: le persone sono libere di spostarsi, per quello il ministro dell’inferno è indagato. Se vi dicono che li rimanderanno in Italia perché gli altri li rispediranno indietro ricordategli delle 22 riunioni in Europa che servivano proprio per questo e a cui Salvini non ha mai partecipato, raccontategli del trattato di Dublino.

Se insiste, insistete. Se resiste, resistete. E poi parlate ad altro, dedicatevi ad altro, pretendete che ci si dedichi alle priorità urgenti davvero perché il nostro Paese si rialzi. Non cadete nella tentazione di introiettare le false paure degli altri, non desistete. E chiedetegli, prima di salutarlo, com’è questa storia che sia se vengono e sia se vanno ciò che conta, per questi, è sempre e solo sputargli addosso.

Buon giovedì.