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Onu, nessuno, centomila

Demostrator holds a banner with a Salvini phot and write Not in my name" during the demonstration "Apriamo i porti. Garantiamo il soccorso in mare" (Let's the harbour open. We guarantee rescue at sea) against migrants policy of the Government, in Milan, Italy, 12 June 2018. After the demonstration of solidarity with the migrants that took place yesterday at Palermo harbour to reiterate that the ports must be open to relief, today demonstrations were held in many other cities. ANSA / MATTEO BAZZI

C’è questa favola molto conosciuta di Esopo (ma davvero lo spero che sia conosciuta, almeno Esopo) che racconta di uno scorpione che chiede a una rana di poterle salire sulla schiena per attraversare il fiume. La rana inizialmente rifiuta temendo di essere punta, e quindi uccisa, durante il tragitto. Lo scorpione la tranquillizza dicendo che non sapendo nuotare se l’avesse punta sarebbe morto anche lui, sicuramente annegato, e alla fine la convince. La rana si carica lo scorpione sulla schiena e a metà tragitto quello la punge. Lei prima di morire lo guarda e gli chiede perché quel gesto folle e suicida e lo scorpione risponde: «È la mia natura!». E muoiono entrambi.

La natura degli uomini si mostra quando hanno l’occasione di prendere delle decisioni. Qualcuno dice che si veda soprattutto nei momenti di enorme potenza o profonda disperazione. C’è chi, per natura e per calcolo politico, ha bisogno di sempre nuovi nemici per tenere alta l’adrenalina e per quella sua fottuta paura di scomparire: qualcuno in questo governo continua imperterrito ad attaccare presunti poteri più o meno forti per aspirare al brivido dell’altezza, secondo quel vecchio adagio che insegna che ci sono due tipi di persone: chi cerca di costruire il grattacielo più alto lavorando giorno per giorno a posare i mattoni e chi invece butta giù i grattacieli degli altri.

L’ultimo nemico in ordine di tempo è l’Onu, colpevole di voler monitorare l’incremento di episodi razzisti nel nostro Paese (ma va?): dice il ministro dell’inferno che l’Onu dovrebbe preoccuparsi dei diritti negati negli altri Stati membri. Non risponde nel merito, butta la palla in tribuna, spalma un po’ di benaltrismo (una forma evoluta di e allora il Pd?) e gongola nell’avere un nuovo nemico. Anche oggi ha dato da mangiare alla stampa per non esserne mangiato. Ma arriverà il fiume. Arriverà il momento dell’azione. Agli imprenditori veneti interessa poco di qualche decina di migranti espulsi. Al ministro del fare verrà chiesto di fare. E lì uscirà la sua vera natura.

Intanto da ieri siamo un Paese più sicuro: a Rimini un barbone è stato finalmente beccato con le mani nel sacco. Rovistava nella spazzatura per cibarsi di avanzi ed è stato denunciato. Combattere i poveri fingendo di combattere la povertà del resto, da sempre, è la loro natura.

Buon martedì.

Mutualismo, l’alternativa è «far da sé pensando»

Riacquistare credibilità politica, a sinistra, rovistando nella cassetta degli attrezzi tardo ottocentesca del mutualismo. Rispolverare gli strumenti dell’autogoverno, del «fare da sé», della condivisione, con lo scopo di trasformare la società e non per rifugiarsi in «isole felici». Recuperare il concetto di solidarietà – a lungo ridotto e svilito da chi vorrebbe farlo coincidere con la carità cristiana -, da non intendersi come semplice «tendere la mano», bensì come ideologia che «implica una nuova rappresentazione del legame tra sociale e politico, che porta a una profonda trasformazione dei modi di gestione del sociale e delle forme di intervento pubblico». La definizione in questione, avanzata dal giurista Stefano Rodotà, rappresenta uno dei fondamenti della proposta politica che Salvatore Cannavò, ex deputato di Rifondazione e direttore centrale news de Il Fatto quotidiano racchiude in Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018).

Una proposta che – in tempi in cui la «solidarietà» viene trasformata in reato, da usare come clava contro chi salva i migranti dalla morte in mare – suona subito come degna di nota. E che, secondo l’autore, si è fatta sempre più indispensabile se si vuole oltrepassare la crisi della sinistra e del movimento operaio. Una crisi che Cannavò fa risalire al 1976, data simbolo, l’anno del «compromesso storico» e della «politica dei sacrifici» inaugurata dalla Cgil di Luciano Lama. E che è legata a doppio filo al declino di quel “modello tedesco”, divenuto egemone a inizio Novecento, che ha individuato nei partiti e nei sindacati tradizionali gli strumenti base dell’intervento politico nella società. Strumenti che, oggi, perdono colpi e girano a vuoto.

«Se vogliamo trovare una soluzione, dobbiamo andare a ritroso, per recuperare ciò che chiamo “codice sorgente” del movimento operaio. Bisogna ritornare lì dove tutto è cominciato», spiega Cannavò a Left. Una riscoperta delle origini che porta a dismettere – quantomeno parzialmente – la forma partito, e valutare con attenzione la storia delle società di mutuo soccorso e delle cooperative della seconda metà dell’800 (che con l’odierna Legacoop hanno davvero poco con cui spartire). Dalle società operaie italiane, fino alle esperienze oltre confine. Nella Casa del popolo di Bruxelles nel 1905 – solo per fare un esempio – si «producevano dieci milioni di chili di pane all’anno», con cui sfamare i lavoratori e sostenere gli scioperi. Nelle realtà come queste, la «fraternità» era la miccia per attività di sostegno economico per l’istruzione dei figli, la malattia, l’accesso al credito, ma anche fulcro di relazioni umane, di vita vissuta insieme dopo il lavoro, di spensierato tempo libero e di confronto intorno alle comuni condizioni di sfruttamento. Una esperienza che, in Italia, si è sviluppata a cavallo tra filantropia mazziniana e socialismo marxista.

E che, negli ultimi anni, è tornata vitale grazie alla fioritura, solo per fare qualche esempio, di movimenti contadini, cooperative di distribuzione, collettivi di migranti, sindacati di base, cliniche legali, occupazioni abitative, cucine popolari. Strutture che, in tempi di atomizzazione delle esperienze di lavoro, rendono meno utopica l’ipotesi di una ricomposizione di classe.

Trenta di loro, dalla Lombardia alla Sicilia, si sono da poco riunite allo spazio sociale Scup di Roma, per fare rete e darsi una strategia comune. Perché numerosi rischi, per il raggruppamento che si muove sotto la bandiera del mutualismo, sono dietro l’angolo. Il timore più sentito, è quello di scivolare nelle secche dell’assistenzialismo, del volontarismo, del pauperismo, della sussidiarietà. «La nostra pratica non deve diventare il “pannicello caldo” della carità cristiana – chiarisce Cannavò -. E per evitare questa deriva bisogna innanzitutto saperla riconoscere, essere consapevoli che c’è una ideologia del mutualismo che non fa altro che privatizzare i servizi. Poi c’è un altro aspetto, ossia che questa attività deve restare legata ad una prospettiva politica in termini di progetto di società». Non può ridursi, insomma, a gruppi di acquisto solidali che ripuliscono la coscienza di chi può permettersi di fare la spesa spendendo un po’ di più.

«Mi sono permesso di definire la nostra alternativa come “mutualismo politico”, “conflittuale”. Del resto è quello di cui parlava anche Marx, nei suoi saluti alla Prima internazionale: quando fondi una cooperativa devi sempre legarla ad un progetto di rivolgimento della società». Il suggerimento del filosofo di Treviri costituisce un antidoto anche per l’altro grande rischio di queste esperienze, ossia quello di chiudersi – pian piano – ognuna nella propria nicchia. «C’è chi dice “fate attenzione” – prosegue Cannavò – perché così non fate altro che mettervi dentro ad un’“isola felice”, a gestire il vostro progetto, senza tenere in conto che i diritti bisogna conquistarli per tutti ed allargarli per tutti. Ecco, io credo che il mutualismo conflittuale sia una pratica del tutto diversa. Nel momento in cui si occupa una fabbrica, nel momento in cui si realizza un servizio autogestito, immediatamente ne deve venir fatta una battaglia politica, perché quel servizio, quello spazio, quel diritto, venga garantito, venga allargato, venga sancito».

In che modo mettere in rete le realtà mutualistiche, incrociare in modo proficuo le lotte, è – al tempo stesso – il punto debole e la sfida più appassionante di tale prospettiva. L’interrogativo che sprona a compiere uno sforzo creativo ancora tutto da elaborare.  «Senza pensiero, cultura, intelligenza politica – si legge nel pamphlet – il mutualismo e la resistenza ripiegano sull’esistente e si accartocciano come fiori spenti». Per questo motivo, «far da sé pensando», sono le parole d’ordine individuate per rispondere in un solo colpo alla crisi dello Stato, alla crisi del welfare e a quella del socialismo reale, e approdare a quella che viene presentata come «democrazia dell’autogoverno».

Qualche esempio di chi ha intrapreso questa strada (niente affatto in discesa)? «Penso al movimento dei Sem terra in Brasile – prosegue l’autore – un’esperienza tra le più organizzate e strutturate. Parliamo di 10 milioni di iscritti, di una realtà che ha permesso l’organizzazione dei senza terra attraverso lo strumento semplice dell’occupare i terreni, in un Paese a grande latifondo, dove gli spazi coltivabili sono sterminati, e ha fatto diventare l’occupazione un elemento di soggettivazione politica. Intorno a questo atto è stato costruito il cosiddetto “mutualismo pensante”, perché i Sem terra sono l’organizzazione che più di tutti ha costruito scuole popolari, ha investito nella formazione…». Ma, oltre ai Sem terra brasiliani e al Soc (Sindacato operaio agricolo, ndr) andaluso, Cannavò cita anche realtà di successo che crescono nel territorio italiano.

«Fino ad un paio di anni fa, di esperimenti di tal genere non se ne parlava minimamente. Oggi invece, alla Rimaflow (ex fabbrica di componentistica per auto, occupata e recuperata a Trezzano sul Naviglio, ndr) lavorano 85 persone, quando pochi anni fa c’erano i capannoni deserti. A SfruttaZero (progetto mutualistico legato alla filiera del pomodoro in Puglia, ndr) collaborano una dozzina di persone, a Sos Rosarno (omologo calabrese, legato alla lotta al caporalato nel settore agrumicolo, ndr) lavorano 10 persone. È molto difficile, certo, ma si vedono molti passi in avanti».

L’intervista di Leonardo Filippi a Salvatore Cannavò è tratta da Left n. 18 del 4 maggio 2018


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Lo scrittore curdo Bachtyar Ali: «Erdogan? È una copia di Saddam Hussein»

«Tutti gli Stati del Medio Oriente sono multietnici, composti da diversi popoli e culture», ci ricorda l’autore de L’ultimo melograno (Chiarelettere) che oggi vive a Colonia in Germania. «Tuttavia le etnie dominanti tentano da sempre di costringere le altre a rinnegare una parte della loro identità culturale. I governi di Iraq, Iran e Turchia hanno sempre cercato di creare (senza successo) Stati centralizzati con un’identità unitaria».

In questo quadro «i curdi sono sempre stati identificati come un fattore di instabilità perché hanno sempre difeso la propria lingua e la propria cultura. Qualsiasi processo di assimilazione era destinato a fallire. Gli Stati nazionali del Medio Oriente mirano a una sovranità assoluta: costruite su principi razzisti, queste società dell’odio hanno bisogno di nemici per sopravvivere e hanno eletto i curdi a nemici per garantire la propria unità».

Le radici di tutto questo sono indirettamente evocate ed indagate nel nuovo libro di Bachtyar Ali, L’ultimo melograno: un viaggio fiabesco nella storia del Kurdistan iracheno, composto come un’epica partigiana, all’epoca della feroce repressione compiuta da Saddam Hussein, di cui i curdi furono le prime vittime. «Milioni di esseri umani sono stati assassinati sotto il suo regime» ricorda Bachtyar Ali. «Saddam Hussein ha imposto al suo popolo una guerra dopo l’altra. Violento e sanguinario ha creato un nazionalismo basato sull’odio verso curdi ed ebrei. Ciò nonostante – sottolinea lo scrittore curdo iracheno – non è mai riuscito a controllare completamente il Kurdistan». E questa era una cosa insopportabile per lui. «Puntava a un dominio incontrastato, ma a dispetto della lucida e sistematica brutalità con cui mise in atto il proprio progetto, il suo potere rimase traballante, fragile».

Anche per questo è stato così spietato nei confronti dei curdi? «Ci ha considerati, senza eccezione alcuna, dei traditori. Chiunque non gli dimostrasse lealtà assoluta, veniva eliminato».

Drammaticamente oggi il passato ritorna. Dopo aver combattuto l’Isis ed essere stati celebrati come eroi, ora i curdi sono di nuovo oggetto di un micidiale attacco a freddo che mira ad eliminarli. Questa volta da parte della Turchia che l’Europa continua a foraggiare perché blocchi il flusso dei profughi siriani. Mentre scriviamo, Recep Tayyip Erdogan bombarda le zone a sud di Afrin, minaccia villaggi curdi iracheni e annuncia operazioni militari contro i combattenti del Pkk in Iraq, e dichiara di aver già ucciso più di tremila curdi dall’inizio dell’operazione “Ramo d’ulivo”. «Erdogan è un fascista», denuncia Ali. Ma il fatto ancor più tragico è che «in Medio Oriente il fascismo appartiene ormai al quotidiano. Da quasi un secolo siamo alle prese con dittature, società militarizzate, piani di sterminio, pulizia etnica e discriminazioni sistematiche». Erdogan, spiega Bachtyar Ali, purtroppo non è un fenomeno anomalo. «Nei fatti è una copia, una versione turca di Saddam Hussein: ossessionato dal potere, ha creato a sua volta uno stretto legame tra religione e nazionalismo. Usa slogan populisti per soggiogare la popolazione. Ad Afrin ha fatto uccidere centinaia di innocenti». Con la complicità diretta o indiretta di Assad, Putin, Trump, aggiungiamo noi. Protetto dal silenzio dell’Europa e delle Nazioni Unite. «Qui in Europa in molti sono a conoscenza delle azioni intraprese da Erdogan in Kurdistan», rimarca Ali. «D’altronde, molti sanno anche del reclutamento da parte del governo turco di centinaia di jihadisti dell’Isis per combattere i curdi, eppure continua ad avere il completo supporto dei Paesi europei».

In questo silenzio assordante risuonano potenti le pagine de L’ultimo melograno, romanzo dal sapore epico, che racconta la storia locale trasformandola in una storia universale. Nazionalismo e religione al contrario ci rendono ciechi e sordi verso ciò che ci unisce?

«Ovunque nel mondo gli esseri umani si trovano ad affrontare gli stessi problemi, condividono gli stessi sentimenti, e anche i diversi concetti di morale non sono del tutto estranei l’uno all’altro. Cercare l’universale – avverte Ali – non significa negare la diversificazione e l’alterità. Gli aspetti universali trovano una loro funzione solo se collegati alla dimensione locale, ed è attraverso narrazioni locali che i valori universali hanno modo di emergere. Religione e nazionalismo ci fanno più piccoli: non solo rendono ciechi, ma ci trasformano in mostri».

In questo libro il protagonista, Muzafari, riesce a sopravvivere a 21 anni di prigionia anche grazie a un messaggio scritto che riceve, una volta all’anno, da un compagno lontano. La scrittura può essere anche uno strumento di resistenza? «Se non la concepissi come tale mi sarebbe difficile continuare a scrivere», risponde Bachtyar Ali. «Il Medio Oriente è dominato da forze oppressive e distruttive, la scrittura diventa necessariamente un atto di resistenza. Laddove manca la libertà di pensiero, allora la scrittura non può che essere sentita come un atto di resistenza. In una società schiacciata dalla paura, la scrittura mi ha dato il coraggio di continuare a combattere il razzismo e il fanatismo religioso. È solo attraverso la scrittura che posso continuare a vivere».

Fin dal medioevo le valli del Kurdistan risuonano di canti e poesia. L’antica tradizione dei dengbêj, cantastorie simili agli antichi aedi sembra risuonare nella prosa poetica di Bachtyar Ali, nella sua narrazione onirica fra buie prigioni, inaspettati boschi, castelli, piogge rigeneranti.

«La letteratura curda ha radici molto antiche» racconta Ali. «Fino all’inizio del XX secolo la produzione scritta comprendeva soprattutto poesia e componimenti in versi. Alcuni poeti curdi come Nali, Mahwie, Goran und Sherko Bekashanno mi hanno molto influenzato». Ma non sono stati i soli. «A casa ho avuto una grandiosa narratrice, mia nonna: è lei che mi ha insegnato come si raccontano le storie».

*

L’appuntamento Lunedì 10 settembre alle 19, la libreria GRIOT di Roma presenta “L’ultimo melograno” del romanziere curdo-iracheno Bachtyar Ali (2018, Chiarelettere). Insieme all’autore partecipanno Simona Maggiorelli, direttrice della rivista Left, Chiara Comito di Editoriaraba, Soran Ahmad dell’Istituto Internazionale di Cultura Kurda e il professore Adriano Rossi, presidente dell’Ismeo. Info: www.facebook.com/events/255909885263179/

Bannon arruola Salvini con l’obiettivo di distruggere l’Unione europea

Il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha incontrato stamani a Roma l'ex stratega del presidente Usa Donald Trump, Steve Bannon, e un altro dei fondatori di The Movement, il movimento per sostenere i populisti anti-Ue per le elezioni europee di maggio 2019, il belga Mischael Modrikamen. Lo rivela lo stesso Modrikamen con un tweet in cui pubblica la foto di una sua stretta di mano con Salvini, sotto lo sguardo di Bannon, e commenta: "E' dei nostri!". TWITTER MISCHAEL MODRIKAMEN +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES - EDITORIAL USE ONLY ++

L’internazionale nera che verrà: Matteo Salvini ha aderito a The Movement la fondazione dell’ex chief strategist di Donald Trump, Steve Bannon. «È dei nostri!», ha esclamato su twitter Mischael Modrikamen, avvocato editore e leader del Parti Populaire belga, che ha postato una foto al termine dell’incontro avuto a Roma con Bannon e Salvini, scrivendo: «Meeting ce matin avec Steve Bannon et Matteo Salvini. The Movement: il est des notres!». Il giorno appresso, il New York Times titolerà: «Vittoria per Steve Bannon» nel raccontare come Matteo Salvini, definito «la figura più potente nel nuovo governo populista italiano», sia sia unito al progetto di conquistare l’intera Europa. «Per Bannon – si legge ancora – è il primo grande acquisto in grado di legittimare il suo progetto e di attirare altri leader euroscettici e populisti». Proprio oggi, 10 settembre, un importante quotidiano romano, Il Messaggero, fa parlare proprio l’ex stratega di Trump: «Salvini è un leader globale, oggi l’Italia è il centro politico perché è un laboratorio». «La nostra – dice a propostito del Movement – è una libera associazione, un club. Spingeremo per formare un gruppo unico populista al Parlamento europeo. Ma conta di più che i leader populisti, indipendentemente dai partiti, si incontrino prima dei Vertici europei per prendere posizioni comuni». I populisti-sovranisti sono già al potere anche in Finlandia, Danimarca, Austria, nei 4 di Visegrad. Il progetto di Bannon è «portare tutti i populisti sotto lo stesso tetto: dall’Europa agli Stati Uniti al Sud America, Israele, India, Pakistan, Giappone, per rappresentare la gente comune ovunque sia guardata dall’alto in basso e abbandonata dalle élites. Il primo obiettivo, la pietra miliare, è acquisire una leva alle Europee».

«In Italia – ripete Bannon – due partiti guidati da due giovani con grandi idee, Salvini e Di Maio, usano le tecnologie moderne in modo dinamico e hanno rottamato i vecchi politici di nord, sud, destra e sinistra, avendo tutti contro. Nessuno sa dove va questo esperimento, però mi impressiona il coraggio politico. Per stare insieme hanno rinunciato alle proposte più glamour». E profetizza: è «un momento della Storia di cui si parlerà per cent’anni». E Salvini, parlando da Cernobbio, ha rilanciato quella “Lega delle Leghe” battezzata dal palco del tradizionale raduno di Pontida lo scorso luglio. Sempre a margine del forum Ambrosetti, anche il leader del Partito per la Libertà olandese, Geert Wilders ha confermato l’apertura del cantiere: «È troppo presto per dirlo ma spero che molti partiti si uniscano – ha detto in una pausa dei lavori del workshop – stiamo lavorando insieme nel gruppo al Parlamento europeo: il mio partito, la Lega, il Partito della Libertà austriaco e il Raggruppamento nazionale francese. Sarebbe positivo se più partiti condividessero le forze alle prossime elezioni».
Due giorni prima di Salvini, Bannon aveva incontrato anche Giorgia Meloni, leader indiscussa di Fratelli d’Italia. Una notizia riportata solo da Libero e subito ripresa da Fascinazione, sito di riferimento per le “fascisterie”.

«Non era la prima volta che i due si incontravano. E infatti anche in quest’occasione il vertice si è svolto in un clima molto cordiale. Un colloquio durato più di un’ora nel corso del quale i due hanno parlato non solo di politica internazionale, ma anche dei problemi riguardanti l’Italia. Prima di concentrare la loro attenzione sulle elezioni europee del prossimo maggio che potrebbero rappresentare un vero e proprio punto di svolta per il futuro di Bruxelles». Nelle stesse ore la stessa Meloni liquidava l’appello del presidente della Liguria, Toti, per una lista comune alle europee tra forzisti e postfascisti di Fdi. «Non c’è alcuna possibilità di una fusione tra Fratelli d’Italia e Forza Italia. Su troppi temi, dalla sovranità nazionale al rapporto con l’Europa, le nostre posizioni sono spesso non convergenti, e l’esperienza di una fusione a freddo tra partiti diversi è fallita anni fa e non avrebbe senso riproporla», ha detto Giorgia Meloni, interpellata dall’Ansa.
«Noi – spiega la presidente di Fdi – per rifondare il centrodestra, lavoriamo a una crescita di Fratelli d’Italia, anche aprendolo a nuove sensibilità, per renderlo un partito sempre più forte, che insieme alla Lega porti il nuovo centrodestra a vincere e governare senza bisogno dei Cinquestelle o del Pd».
E prima di questo benservito, Meloni s’era esibita in un tremendo «Bene l’annuncio di Salvini di voler abolire la sedicente protezione umanitaria» a ricordare che comunque non ha nulla da invidiare al senso del vicepremier per la dignità della vita e della dignità delle persone.

Non possiamo sapere se l’Internazionale sovranista e xenofoba – una sorta di ossimoro politico – sia una possibilità reale ma non c’è dubbio che la ripresa di fine estate registra una sovraesposizione di questa opzione con il vertice di Salvini con Orban e con la calata di Bannon in occasione della Mostra del cinema di Venezia. Se entrambi gli statisti italiani sono attratti nell’orbita di Bannon, allo stesso tenpo sono competitor nel medesimo spazio elettorale. Inoltre, il partito di Orban, Fidesz, fa parte del Ppe, e i Popolari non sono un gruppo politico di estrema destra, ma di centrodestra, con un accento sul centro. Sarebbe molto problematico per Orban mettere in piedi un movimento di estrema destra e nel contempo far parte del Ppe dove, tuttavia, esiste una tensione con settori di destra-destra, come la Csu bavarese, che scalpitano per un’egemonia e il polo di Bannon potrebbe ritrovarsi contenuto lì dentro.

Dunque Bannon, ex banchiere, poi giornalista, politico, regista e produttore, fiero promotore del populismo, era al Lido dove, fuori concorso, si presentava American Dharma di Errol Morris, suo ex compagno di università. «Senza cambiamenti profondi nella società ci sarà una rivoluzione che spazzerà via tutto… e non sarebbe un male un pò di pulizia». È il punto su cui torna più volte l’ex capo stratega di Trump. La giornata si è colorata anche di un giallo intorno alla sua presenza al Lido, dove sarebbe arrivato per suo conto per assistere alla proiezione. C’è chi giuria di averlo visto entrare in Sala Grande, ma il dubbio rimane perché alla fine della proiezione, quando in sala si sono riaccese le luci, di lui non c’era traccia. «Quando ho incontrato Bannon mi ha chiesto perché volessi fare un film su di lui e gli ho risposto che era perché non capivo nè lui nè quello che stava facendo. Pensavo che farci un film sarebbe stata la migliore maniera per comprenderlo», raccontava intanto il regista. Anni in Marina, master all’Harvard Business School, conoscitore di Hollywood, nel documentario Bannon si mostra acuto, abile conversatore, pronto all’ascolto ma con idee ferme come macigni. «Essere populista per me vuol dire restituire il governo al popolo che ora non decide nulla, sono le elite a farlo, lo so perché le ho frequentate – spiega- dovendo scegliere se farmi governare da 100 persone con il cappellino rosso in testa prese a un comizio di Trump o 100 che vanno al Forum mondiale economico di Davos, sceglierei le prime, so che farebbero un lavoro migliore». Quella di Trump «non è l’America profonda, nascosta, ma l’America che hai davanti ai tuoi occhi». Morris, tra filmati e domande, ripercorre la parabola ascendente e discendente dell’uomo, dai fasti di Breitbart, all’entrata nella campagna elettorale di Trump, al quale, colpo su colpo (di cui molti bassi) riesce a far recuperare i 16 punti di distacco da Hillary Clinton, fino alla vittoria.

«L’80/90% delle persone sputa per terra quando entro in una stanza ma indicandomi dicono “è quello che ha portato Trump alla presidenza”», aggiunge lui. Considerato un simpatizzante delle frange più estreme dell’ultradestra, le definisce invece «senza alcuna importanza nell’alt-right, sono i cattivi e non contano nulla». Nonostante sia stato licenziato da Trump dopo i fatti di Charlottesville (dove un militante neonazista ha travolto con l’auto alcuni manifestanti, uccidendone una), dice, paragonando Trump a Enrico V e se stesso a Falstaff, attraverso le immagini del film di Orson Welles, di non sentirsi tradito dal presidente, che starebbe semplicemente seguendo «il suo destino». Ora la missione che si è posta Bannon, oltre a riformare il Partito repubblicano, è unire i populisti d’Europa. E i toni sembrano famigliari quando gli sentiamo dire in un filmato: «vi chiameranno razzisti e xenofobi, considerate quei termini come medaglie».
Il Movimento sarà il suo veicolo per sostenere i partiti popolari nazionali magari in un “supergruppo” euroscettico. «Un cavallo di Troia per disintegrare l’Unione: questa è la fantasia di Bannon», hanno scritto Pablo De Llano e Bernardo De Miguel su El Pais. «Quello che sta arrivando è il populismo di destra. Questo governerà», ha detto a The Daily Beast lo stesso 64enne che immagina un ritorno all’Europa divisa degli Stati nazionali «con le loro identità e i loro confini».

I suoi critici screditano i suoi piani. Kurt Bardella, un ex stretto collaboratore di Bannon, convertitosi al Partito democratico, ritiene che la missione in Europa dell’ex consigliere di corte di Trump sia solo un modo per alimentare il suo personaggio: «Di per sé non è nulla. Non è un leader. È un organismo che ha bisogno di un altro per vivere, come un parassita». Secondo l’esperto olandese sull’estremismo, Cas Mudde, «è così ridicolo quello che proclama così come i media che lo ripetono in modo acritico». Nulla avrebbe di un “Rasputin” ma solo la capacità di «vendersi come operatore politico di successo agli investitori e ai giornalisti».
Prima dell’adesione di Salvini, ministro di polizia e vicepremier italiano, Bannon aveva raccolto l’adesione solo di due partitini marginali, lo spagnolo Vox, e i popolari belgi (di estrema destra). La simpatia di Marine Le Pen non impedisce a quel partito di escludere qualsiasi livello “sovranazionale”. Né i neonazi tedeschi di Afd avrebbero voglia di collaborare al suo disegno. Gli va meglio in Gran Bretagna dove però i suoi amici, l’eurofobico Farage (quello che ha costituito il gruppo a Bruxelles assieme ai grillini) e Boris Johnson, ex premier del Tory che aspira a succedere a Theresa May, non prenderanno parte alle elezioni causa Brexit. A Londra c’è anche il suo partner Raheem Kassam, 32 anni, un dandy anti-islamico di origine musulmana.

Il modello di successo in Europa, per Bannon, è il governo giallonero italiano: «L’Italia è il cuore pulsante della politica moderna», ha detto a The Daily beast prima della sua gita in Italia. I liberali di Bruxelles lo prendono sul serio: «Bannon ha il piano e il denaro per influenzare le prossime elezioni europee. Vuole unire gli Orbans, i Pens, i Wilder e altri estremisti con lo scopo di mettere fine ai valori europei», accusano i Liberali, quarto gruppo parlamentare con 68 dei 751 seggi. Yascha Mounk, autrice di The People Against Democracy (che sarà pubblicata a giorni), avverte che i partiti populisti europei hanno dimostrato negli ultimi anni «di poter imparare gli uni dagli altri ad un livello sorprendente». Se Bannon appare solo con piani incerti, nelle capitali europee si diffonde l’irrequietezza non tanto per la forza del propagandista quanto per la fragilità dell’Ue, che secondo le fonti diplomatiche è in uno dei momenti più delicati della sua storia. Sarebbe un’ironia oscura che la partecipazione alle elezioni sia aumentata per la prima volta grazie a Bannon e che sia servito solo a provare a demolire l’Ue.

E, se Venezia lo ha accolto senza battere ciglio, Steve Bannon non sarà al New Yorker Festival, in calendario dal 5 al 7 ottobre prossimi. Il magazine che ne cancellato la partecipazione dopo le violente critiche e la decisione di molti altri partecipanti all’incontro di rinunciare in protesta contro la presenza di Bannon. Quando il New Yorker ha annunciato il programma con la presenza di Bannon in soli 30 minuti hanno annunciato la loro rinuncia a essere parte degli incontri una serie di vip, fra i quali John Mulaney, Judd Apatow, Jack Antonoff e Jim Carrey. «Se Steve Bannon è al festival del New Yorker io ne sono fuori. Non sarò parte di un evento che normalizza l’odio», ha twittato Judd Apatow. Un effetto domino che ha spinto il direttore del New Yorker, David Remnick, a cancellare l’invito per Bannon. Immediata la reazione dell’ex stratega della Casa Bianca: «Il motivo per cui avevo accettato era semplice: mi sarei trovato di fronte uno dei giornalisti più coraggiosi della sua generazione – ha detto Bannon – in quello che avrei definito un momento decisivo, David Remnick ha mostrato di essere un debole quando è stato confrontato dalle urla della folla online».

«Se i politici non ascoltano gli scienziati, perché mai dovrei studiare?»

In Svezia, anche in Svezia, la campagna elettorale si è giocata tutta sull’immigrazione. Anche lì i socialdemocratici hanno cominciato a inseguire la destra (o meglio: si sono fatti mangiare dalla destra e dal centrodestra visti i risultati elettorali) riuscendo nel capolavoro di fare apparire un illuminato moderato il leader destrorso Jimmy Akesson che in cerca di voti al centro si è lanciato a dichiarare: «non potremo essere per sempre un Paese dai capelli biondi e dagli occhi azzurri». Roba che qui da noi sarebbe derubricata come buonismo, per dire.

Sicurezza, integrazione, cifre (sparate un po’ a caso) sull’accoglienza sono state all’ordine del giorno, tutti i giorni, sulle prime pagine di tutti i giornali. Se la capacità di un leader sta nell’autorevolezza di ristabilire le priorità di un Paese la vincitrice delle elezioni però è una ragazzina di 15 anni che ha spaginato la propaganda restando seduta per settimane fuori dal Parlamento. Greta Thunberg ha scioperato dalla scuola per distribuire volantini per raccontare ai suoi concittadini che l’estate svedese più calda degli ultimi 262 anni non è un accidente del meteo ma il frutto (marcio) di un’economia che considera i cambiamenti climatici l’inevitabile conseguenza delle folle rincorsa alla produttività e al capitalismo. L’hanno intervistata da tutto il mondo, quella ragazzina con il suo cartello appoggiato di sbieco vicino allo zaino viola. Ha costretto la politica nazionale a rispondere.

In molti si sono uniti alla sua protesta: il suo professore Benjamin Wagner ha rinunciato a tre settimane di stipendio pur di essere lì. «Tutti sanno e nessuno reagisce. Greta è una rompiscatole, ma in questi casi l’unica cosa ragionevole da fare è essere irragionevoli», ha dichiarato ai giornali. Quando la ragionevolezza diventa un benpensare comodo per proteggere gli interesse di pochi danneggiando i molti diventa un dovere reagire.

Qualcuno ha detto che Greta dovrebbe studiare piuttosto che rompere le scatole. Lei ha risposto: «Se i politici non fanno niente, è mia responsabilità morale fare qualcosa. E poi perché dovrei andare a scuola? I fatti non contano più. Se i politici non ascoltano gli scienziati, perché mai dovrei studiare?». E io, non so voi, la trovo la dichiarazione più politica che mi sia capitato di ascoltare in questi ultimi mesi.

Io voto Greta. Voto le persone che escono dai social, che non si fanno bastare gli inorridimenti privati, che sono disposte a manifestarsi oltre che genericamente manifestare, quelli che ritengono doveroso avere risposte reali piuttosto che fumosi annunci. Quelli che sono disposti a rimetterci qualcosa. “Quando l’ingiustizia diventa legge, ribellarsi è un dovere”, diceva Brecht. Prima o poi vincono, i fatti.

Buon lunedì.

La rivolta delle arabe contro la dittatura del patriarcato

RABAT, MOROCCO - NOVEMBER 24 : Moroccon women hold placards and shout slogans during a demonstration protesting violence against women outside the parliament in the Moroccan capital Rabat on November 24, 2013. (Photo by Jalal Morchidi/Anadolu Agency/Getty Images)

«Mi hanno tenuta prigioniera per due mesi. Non li perdonerò mai. Hanno distrutto la mia vita». Khadija ha accettato di parlare in tv, senza mostrare il suo volto. Ha invece mostrato i segni che resteranno per sempre, quelli degli abusi e le torture subite per mano di una gang. Lei, marocchina di Olan Ayad, nel distretto di Beni Mellal, appena 17 anni, contro un gruppo di 15 uomini, tra i 18 e i 27 anni. Lei contro una brutalità agghiacciante che ha sconvolto l’intero Paese nordafricano. Perché è devastante dare un volto alla riduzione di una donna al suo corpo, violato come non fosse umano.
Per due mesi l’hanno violentata, picchiata, le hanno spento sigarette addosso, l’hanno privata del cibo, le hanno riempito il corpo di tatuaggi – “disegni”, una svastica, dei nomi – a marchiarla come proprietà altrui. La sua storia ha sconvolto il Marocco: dopo la sua liberazione ha raccontato, ha denunciato. E mentre i marocchini scendevano in piazza, in decine di migliaia firmavano petizioni e si mobilitavano per chiedere giustizia, gli investigatori individuavano almeno 12 dei responsabili – fa sapere Ibrahim Hashane, uno degli avvocati volontari che stanno seguendo il caso pro bono – e li accusavano di rapimento, abusi e stupro.
«Khadija è ancora sotto choc anche se prova a essere forte – ha detto Loubna El Joud, dell’associazione per i diritti delle donne Nsat, che le sta offrendo sostegno medico e psicologico -. Quando parla le sue mani tremano». E se l’opinione pubblica marocchina ha già deciso da che parte stare, non manca chi insinua accuse, chi tenta di spostare la colpa sulla vittima. Conduceva una vita dissoluta, dicono i parenti degli accusati, parole che stavolta cadono nel nulla. Ma non sempre accade: nella società marocchina la violenza sessuale…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 7 settembre 2018


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La poesia operaia che scuote Pechino

È passato poco più di un anno da quando il presidente cinese Xi Jinping ha arringato il 47° Forum economico di Davos sui pregi della globalizzazione e gli effetti nefasti di populismo e protezionismo, difendendo a spada tratta quel libero mercato che ha permesso alla Cina di diventare la seconda potenza mondiale grazie a un bacino inesauribile di manodopera a basso costo, a cui le multinazionali occidentali hanno attinto a piene mani. Di Cina e globalizzazione si è tornato a discutere nel corso del festival della poesia di Berlino, organizzato dalla Haus für poesie (Casa della poesia) alla fine di maggio. Questa volta però da una prospettiva inusuale. «Mentre assemblavo quei piccoli oggetti mi sentivo parte del resto del mondo», racconta Zheng Xiaoqiong, classe 1980, ex lavoratrice migrante originaria del Sichuan, una delle province ad aver contribuito di più alla più massiccia migrazione di forza lavoro verso le zone costiere, vero cuore pulsante del manifatturiero cinese. 

Nel 2001 Zheng ha lasciato il villaggio d’origine per un posto in uno stabilimento di Dongguang, città industriale del Guangdong a cui la Repubblica popolare deve per estensione il soprannome di “fabbrica del mondo”. Vi sarebbe rimasta sei anni, alternando le mansioni quotidiane sulla catena di montaggio alla narrazione in versi dell’alienazione fisica e spirituale sperimentata in fabbrica. Nel 2007, l’assegnazione del Liqun literary prize le ha permesso di lasciare la linea di produzione per un impiego in una casa editrice, primo passo verso un presenzialismo internazionale nell’ambito della cosiddetta dagong shige (poesia dagong), espressione letteraria del disagio sociale vissuto dai lavoratori migranti cinesi, anonimi artefici della strabiliante crescita economica degli ultimi quarant’anni.

«In fabbrica lavoravo dieci ore al giorno, eppure riuscivo a trovare il tempo per scrivere e leggere», raccontava tempo fa in un’intervista all’Ong All-China women’s federation, «ho continuato a farlo per perseguire i miei sogni ed è questo che…

L’articolo di Alessandra Colarizi prosegue su Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Remo Bodei: «Ricongiungiamo il lavoro alla conoscenza»

Il mutamento del lavoro nella società globale impone nuove sfide e problemi, la disoccupazione tecnologica è uno di questi. Disoccupazione di massa, precarizzazione, lavori a chiamata (che rendono impossibile ogni progetto di vita) sono alcuni dei molti problemi sul tavolo. Di questo si discute al festival Con-vivere a Carrara fino al 9 settembre, con una serie di interventi di storici, sociologi, politologi e filosofi che ripercorrono la storia umana in cui il lavoro è stato visto e vissuto in modi molto diversi fra loro. Se nell’antichità l’otium letterario era l’aspirazione del cittadino sulla pelle degli schiavi e delle donne, nel medioevo cattolico il lavoro era castigo divino, condanna biblica. Sono stati i protestanti poi a creare l’etica del lavoro e del razionalismo ascetico a tutto vantaggio del capitalismo. Se per molti secoli il lavoro è stato per i più una necessità per la soddisfazione dei bisogni oggi potrebbe essere mezzo per una realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Paradossalmente però proprio ora che la rivoluzione tecnologica ci potrebbe permettere di affrancarci dai lavori di fatica il turbo capitalismo produce disoccupazione e nuovi schiavi. Abbiamo chiesto al filosofo Remo Bodei, ideatore e direttore del festival di ripercorrere con noi alcune tappe di questa storia millenaria del lavoro per arrivare ai problemi che si aprono oggi.
Professor Bodei, come era considerato il lavoro nella Grecia antica, dove a lavorare erano soprattutto schiavi e meteci?
Non bisogna pensare che i cittadini liberi non lavorassero, che stessero sempre in assemblea con la pelle del leone politico. Ciò che era condannato era il lavoro alle dipendenze di qualcun altro.
Gli schiavi non erano visti come pienamente umani, a differenza del cittadino greco libero e maschio?
Accadeva loro ciò che è successo anche alle donne. Non si dava il diritto di voto alle donne perché si pensava che dovessero essere i mariti, padri, i fidanzati a guidarne le scelte. Nel mondo antico si procuravano gli schiavi con le guerre. C’è un grande mito fondativo di tutta la società occidentale basato in realtà sulla necessità economica. La parola «servus», per esempio viene da servare, avere salva la vita, più che da servire. Invece di essere uccisi in quanto nemici si aveva salva la vita in cambio del lavoro coatto. Nell’antichità gli schiavi venivano considerati come individui a cui manca la pienezza del Logos, si negava la loro capacità di guidarsi da soli, la loro capacità di decidere. Hanno bisogno di qualcuno che li comanda, di una mente di cui loro siano il braccio, dicevano i Greci antichi.
Una negazione dell’identità umana degli schiavi che è durata millenni?
Per un lunghissimo periodo la schiavitù non è stata messa in discussione da nessuno. Persino gli schiavi che diventavano liberti volevano avere schiavi. Il Cristianesimo considerava gli uomini uguali davanti a Dio ma non su questa terra. Tutto cambia quando la schiavitù diventa meno conveniente, quando per la prima volta le macchine non era più solo delle specie di giocattoli che creavano meraviglia, perché non si capiva come una semplice leva riuscisse a sollevare grandi pesi con piccolo sforzo. Tutte le macchine antiche erano macchine pneumatiche ad aria calda, ma l’unica che serviva a qualcosa era quella inventata da Ctesibio, un ingegnere meccanico di Alessandria d’Egitto del III sec. che aveva il padre barbiere e inventò le sedie che si alzano e si abbassano come quelle de Il grande dittatore di Chaplin. Poi un’invenzione importante è stato il molino ad acqua romano nel I sec d.C. Le macchine erano considerate un’astuzia, un inganno alla natura. Le arti meccaniche erano considerate degne di operai manuali ed erano ben distinte da quelle liberali considerate arti nobili.
Una svolta ci fu con la cosiddetta civiltà delle macchine?
Un punto di svolta ci fu quando Galileo dimostrò matematicamente che non c’era nessuna astuzia, che l’uomo non gioca tiri mancini alla natura, non è come un astuto Odisseo che uccide la natura stupida e grossa, come Polifemo. L’unica astuzia che c’è nelle macchine è quella economica, la forza del vento, costa meno della forza degli animali e dell’uomo. Così nasce la civiltà delle macchine. Con la rivoluzione industriale per la prima volta si vede che la schiavitù non è conveniente. Si avviò in questo modo un grande processo per cui dallo schiavo antico si passò marxianamente allo schiavo salariato delle grandi fabbriche. Per cui gli schiavisti nel Sud degli Stati Uniti ebbero buon gioco a dire: in fondo allo schiavo diamo vitto e alloggio e il suo lavoro è sicuro, mentre in fabbrica non vedono la luce del sole, c’è un clima pessimo, acidi, rumore ecc. Inoltre possono essere licenziati, tanto il padrone della fabbrica troverà sempre chi li sostituisce.
Discorsi che sentiamo fare ancora oggi, purtroppo. E qui veniamo al tema della sua lectio per Con-vivere, quest’anno dedicato a tema del lavoro: il passaggio dal modello taylorista all’intelligenza artificiale.
C’è un punto da considerare: le macchine ausiliatrici, quelle della catena di montaggio taylorista, impegnano solo il corpo mentre la mente è libera di vagare. Non così le macchine calcolatrici su cui riflette già Leibniz. Per la prima volta permettono all’uomo di sottrarsi a quegli automatismi che le macchine possono espletare lasciando libero il pensiero creativo. L’invenzione del primo computer, lo sviluppo delle macchine di Touring, sono passaggi chiave. Con la cosiddetta intelligenza artificiale noi abbiamo questo miracolo, in apparenza: per la prima volta il Logos, la decisione non abita in corpi viventi ma è trasferita nell’inorganico, nelle macchine, nei robot in tutti i dispositivi di intelligenza artificiale. E questo provoca grandi cambiamenti che hanno ripercussioni enormi. C’è chi dice – ma l’ipotesi è dubbia – che le macchine possano diventare talmente intelligenti da poter a un certo punto emanciparsi dall’intelligenza umana. Quel che vediamo oggi sono i risvolti che riguardano il lavoro.
Come affrontare la disoccupazione tecnologica?
La disoccupazione tecnologica è un problema che c’è da due secoli ma che oggi è molto più ampio. La difficoltà è anche tenere il passo con le macchine. Certamente per quanto riguarda il calcolo sono più efficienti di noi.
Già Marx parlava di tempo liberato. Le macchine potrebbero liberare dalla fatica e in questo modo indirettamente favorire così la piena realizzazione umana?
Non c’è dubbio. Altrimenti si cade nel vittimismo e si prospetta questa gigantomachia, macchina – uomo, come due entità contrapposte che chiedono soluzioni unilaterali. In realtà le macchine sono un grande vantaggio. Ma va detto anche che si calcola che il 40 per cento della produzione umana sarà frutto di robot di ultima generazione, si parla di robotica cloud, capace di collegarsi momento per momento all’archivio di dati.
Lei insegna all’Università della California, qual è l’ultima frontiera della robotica oltreoceano e quale impatto ha sul mercato del lavoro?
A San Francisco alcuni robot non vengono messi in produzione perché sarebbero un disastro dal punto di vista sindacale e umano. Ci sono robot capaci di fare 400 panini con hamburger all’ora. È facile immaginare che impatto abbiano sul lavoro nelle catene di fast food: disoccupazione di massa. A Las Vegas ci sono automi che preparano cocktail al posto dei barman. Nella contea delle arance in California stanno per essere messi in commercio raccoglitori velocissimi che lasceranno senza lavoro i poveri messicani. In prospettiva il numero dei posti di lavoro potrebbe riequilibrarsi, ma il problema è anche quanto tempo ci metteremo ad adeguarci e che tipo di formazione serve. Le macchine hanno un deep learning o un machine learning che le rende molto veloci dal punto di vista produttivo. Ciò che ci salva sono la nostra unicità e imperfezione. Non ci possono copiare completamente. Un calciatore che tira in porta un pallone è inimitabile per intuizione, velocità della palla, eleganza del tiro, l’angolazione ecc. Non è vero che il nostro cervello sia l’hardware e il pensiero sia il software.
Quanto alla disoccupazione tecnologica?
Si calcola che 820 mestieri saranno cancellati. Alcuni studiosi di Oxford sostengono che il 47 per cento dei lavori spariranno. In Paesi tecnologicamente avanzati anche dal punto di vista della robotica come la Germania la disoccupazione è al 4 per cento. Questa innovazione tecnologica colpirà soprattutto i Paesi più arretrati che potrebbero soffrire di danni irreversibili. Lo scenario rischia di essere un mondo spaccato in due come nel romanzo di Huxley.
Come evitare che le persone più anziane, gli adulti analogici siano esclusi da questa rivoluzione tecnologica per mancanza di know how?
Questo è il problema più importante. Provo a dirlo con una battuta: dovremo curare la formazione continua, fare come l’esercito svizzero: c’è un periodo di ferma ed è quello degli studi che ciascuno fa, poi ci dovrebbe essere un richiamo continuo, non solo per i singoli mestieri, ma per la conoscenza generale, altrimenti saremo una società di idioti nel senso greco della parola, di gente che capisce solo il suo mondo piccolo, il suo mestiere.
È una questione politica, dunque?
Non si può ignorare, per esempio, che gli algoritmi segreti di Facebook e altri social possono essere usati dai militari, dall’industria, ecc. (il caso di Cambridge analytica insegna). Assistiamo al ritorno dei poteri occulti, c’è un lavaggio (soft) del cervello. Facebook, Google, sembrano gratis in realtà li paghiamo alimentando le loro banche di dati. I Big data sono fattori che ormai condizionano. Una serie di nodi vanno sciolti. Ma ripeto, al centro c’è l’educazione del cittadino. Nella catena di montaggio l’operaio compie movimenti standardizzati, ma il sapere riguardo a ciò che fa ce l’hanno solo ai vertici amministrativi della fabbrica. Bruno Trentin diceva che il problema era ricongiungere il lavoro alla conoscenza. Nuovi tipi di lavoro catturano l’intelligenza, non solo il corpo delle persone, solo che questa intelligenza è spesso catturata dal general intellect che è quello del capitalismo algoritmico, come vien chiamato. E dei rischi ci sono. Faccio un esempio: le auto senza pilota sono un sistema innocuo, ma i sistemi missilistici che sparano senza che ci sia un immediato controllo umano. Oppure pensiamo gli algoritmi finanziari di Wall street che avendo un linguaggio segreto sfuggono alla democrazia conosciuta che vive di linguaggi naturali e confronti fra persone.
La democrazia rappresentativa attraversa un momento di crisi ma sovranismo e nazionalismo sono gli strumenti per affrontare le sfide di cui stiamo parlando?
Stiamo assistendo ad un ritorno agli anni Trenta: nazionalismo e protezionismo economico. È una involuzione. Certo, tanti si sono fatti della globalizzazione un’idea tout court emancipatoria. Ma i processi globali non possono essere affrontati con referendum: globalizzazione sì, globalizzazione no. Bisogna cercare di capire leggendo il quadro mondiale. Non con l’ottica sovranista ristretta. Quanto al ministro Salvini, che si mette con Orban chiedendo la solidarietà in certo modo dell’Europa, mi sembra faccia un atto del tutto contraddittorio. Non sarà certo Orban o il gruppo di Visegrad ad accettare la redistribuzione dei migranti.
Servono anticorpi?
Il problema grosso è il mantenimento dei nostri valori di uguaglianza, libertà ecc. Come dice la sociologa Saskia Sassen i super ricchi si sono tirati fuori dagli eventi dell’umanità e hanno creato un loro Aventino escludendo il resto dell’umanità. Ogni elemento di contrasto alla povertà è stato abbandonato. Il darwinismo sociale è diventato darwinismo mondiale: si arrangi chi può. Come in certi posti in Brasile dove le case dei ricchi hanno il filo spinato, poliziotti, guardie armate. Si va verso un neo feudalesimo. Chi può si arrocca, gli altri rischiano di diventare clienti o servi della gleba. Non è che non esistano anticorpi, serve una sinistra che abbia la capacità di reagire, non semplicemente ricordando il passato, ma con una nuova visione, lavorando per cambiare la percezione distorta che la gente ha della migrazione.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Remo Bodei tratta da Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Allarme, son rossobruni! I pasdaran dello Stato nazione

È un virus che si sta diffondendo: tanti piccoli Diego Fusaro che spuntano come funghi. È il rossobrunismo che avanza e che sfonda a sinistra. Il più delle volte gli adepti sono inconsapevoli di aver abbracciato tale corrente di pensiero, ma tant’è. Il terreno è scivoloso: i confini per definire chi è rossobruno e chi no sono labili, di certo ci possono essere degli indizi e più indizi fanno una prova. Tra gli eminenti rappresentati dei rossobruni annoveriamo sicuramente sia i noeuro come Alberto Bagnai, divenuto pasdaran salviniano, che i tanti che dall’opposizione non sdegnano apprezzamenti per il nuovo esecutivo come, per citare qualche nome, lo scrittore di Educazione siberiana Nicolai Lilin, il giornalista Giulietto Chiesa, Fulvio Grimaldi finanche il deputato di Liberi e Uguali Stefano Fassina (l’8 settembre a Roma la presentazione della sua nuova associazione Patria e Costituzione, ndr). Gente che, forse, non ha mai fatto i conti fino in fondo con lo stalinismo e che subisce, oggi, la fascinazione per la Russia di Vladimir Putin.

In Italia negli anni 60 abbiamo già assistito a tale fenomeno ma, diversamente da oggi, erano i settori neofascisti che rimanevano infatuati dal pensiero sinistrorso. Da qui sorgeranno il filone del nazimaoismo e il movimento d’estrema destra Terza posizione che, dietro la teorizzazione di un’ipotetica alleanza tra rossi e neri contro la società borghese, mimetizzava propaganda neofascista, tramite lessico e immagini della parte opposta. Sono gli anni in cui si diffondeva il pensiero del filosofo Costanzo Preve. Ora ci sorbiamo il suo allievo, Diego Fusaro. Il giovane studioso di Gramsci, così ama definirsi, è il guru per eccellenza del rossobrunismo, un personaggio che gioca a fare l’anti-Sistema pur vivendo nei salotti televisivi del Paese. Mentre sul web il rossobrunismo sguazza perfettamente nel complottismo esoterico-politico, così come nelle bufale razziste.

I punti di pericoloso contatto con i neofascisti – ma pure con la Lega e il M5s – sono…

L’articolo di Giacomo Russo Spena prosegue su Left in edicola dal 7 settembre 2018


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Campi di battaglia, cosa (non) si fa contro il caporalato

Migrant workers travel in a mini-bus as others take part in a march near Foggia on August 8, 2018, held in the aftermath of the death of 16 migrant workers in two road accidents. - The two near-identical crashes, which came within 48 hours of each other outside the city of Foggia in the Puglia region, have put a spotlight on the plight of foreign seasonal tomato-pickers during harvest season. The Foggia province hosts thousands of African migrants who spend the summer harvesting season picking tomatoes in blazing temperatures alongside workers from eastern Europe, typically Romanians, Bulgarians and Poles. (Photo by ROBERTO D'AGOSTINO / AFP) (Photo credit should read ROBERTO D'AGOSTINO/AFP/Getty Images)

Due schianti, due boati nelle strade della Capitanata, a pochi giorni di distanza. Medesima dinamica: furgoni stipati di braccianti di ritorno dalla raccolta dei pomodori si schiantano contro un tir. Ci troviamo nella provincia di Foggia, ed è l’inizio di agosto. A perdere la vita sono 16 operai agricoli stranieri. La loro morte si fa simbolo di questa ennesima estate di sfruttamento e violenza padronale sugli immigrati nelle campagne italiane. Una violenza quotidiana, ininterrotta, sommersa. Di cui media, istituzioni e opinione pubblica si accorgono però solo quando arriva, puntuale come i ritmi che governano l’agricoltura, la tragedia, capace di irrompere nelle tv degli italiani.

Abbiamo però scoperto un dettaglio non di poco conto, in questa vicenda, che ancora non è emerso dalle cronache. Proprio nel foggiano, una prima sperimentazione relativa al trasporto dei braccianti verso i loro luoghi di lavoro – in condizioni di sicurezza e di legalità – era da mesi sul tavolo delle istituzioni. E li è rimasta. I pulmini, quelli in regola, sicuri e legali, sono rimasti fermi. E 16 persone sono morte.

Per capire perché una buona idea non si è tradotta in prassi, è necessario fare un passo indietro al settembre del 2015 quando si è messa in moto la macchina della Rete del lavoro agricolo di qualità. Voluta dall’allora premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, avrebbe dovuto promuovere l’agricoltura virtuosa, e osteggiare così la piaga del caporalato. In che modo? Permettendo alle aziende agricole di iscriversi alla Rete – previa autocertificazione di essere in regola col fisco, di non avere precedenti per sfruttamento del lavoro, di rispettare i contratti. Una vetrina di imprese pulite. A coordinare i lavori della Rete, una cabina di regia presieduta dall’Inps, e partecipata da numerose realtà, tra cui vari ministeri, sindacati, organizzazioni di categoria. Una whitelist, dicevamo, che ha avuto sin da subito un destino infelice, come già in altre occasioni abbiamo spiegato sul nostro settimanale (v. Left n. 39 del 30 settembre 2017). Nel 2016, le aziende iscritte erano solo 2mila, su un totale di circa un milione e mezzo e di almeno 100mila potenzialmente interessate. A settembre 2017 le iscrizioni salivano a 2.800. Oggi sono circa 3.500. Numeri che perpetuano il racconto di un palese fallimento.

D’altronde, per quale motivo le ditte – che dall’iscrizione ricevono solo l’ennesimo “bollino di qualità”, senza nessun reale aumento del potere contrattuale rispetto a fornitori, industriali e giganti della grande distribuzione – dovrebbero iscriversi?

Di questo limite ne è consapevole anche la Flai Cgil, che per prima si è impegnata nella promozione della Rete. E che ora lavora a renderla più appetibile. «Abbiamo avuto alcuni esperimenti che hanno funzionato in questo senso, e vanno replicati», spiega Giovanni Mininni, segretario nazionale Flai e membro della cabina di regia nazionale della Rete. «In Emilia Romagna, nei bandi legati al Piano di sviluppo rurale alle aziende iscritte alla Rete veniva attribuito un punteggio più alto, stessa cosa è accaduta con il bando per rivitalizzare il mercato di San Teodoro a Roma. Ciò ha portato ad impennate di iscrizioni. E perché, seguendo questo indirizzo, non fare in modo ad esempio che le mense scolastiche scelgano frutta eticamente a posto, raccolta dalle aziende che si sono autocertificate presso la Rete, che hanno dimostrato di essere in regola? Chissà cosa potrebbe accadere, se meccanismi del genere partissero in tutta Italia».

Il grimaldello nelle mani del governo italiano per sfidare i caporali non consta solo della iscrizione a una lista tramite autocertificazione. La legge 199 approvata ad ottobre 2016, meglio conosciuta come “anticaporalato”, oltre a irrobustire l’impianto repressivo per i fenomeni di sfruttamento del lavoro, prevede il potenziamento della Rete tramite sezioni territoriali in tutte le province. Nelle sezioni, istituzioni e parti sociali dovrebbero promuovere modalità sperimentali di intermediazione fra domanda e offerta di lavoro e servizi di trasporto da e verso i campi. Ma i due incidenti nel foggiano ci dicono che siamo ben lontani da un’entrata a pieno regime di questi meccanismi. Eppure è noto che potrebbero contribuire a  rendere inutile la figura del caporale. Un ruolo che si è consolidato – è bene ricordarlo – a causa dello smantellamento del collocamento pubblico in agricoltura, e dell’insufficienza cronica di mezzi pubblici per spostarsi nelle zone rurali. Dove lo Stato si ritrae, il caporalato, lo sfruttamento del lavoro e i rischi per i lavoratori proliferano.

Ad aggiungere sconcerto allo sconcerto c’è il fatto che nel marzo scorso si è insediata la prima (e a oggi unica) sezione territoriale. Indovinate dove? Proprio a Foggia. E proprio qui – a poco meno di due anni dall’entrata in vigore della legge – era sulla via dell’approvazione il primo progetto pilota per garantire lo spostamento dei braccianti in sicurezza. Cosa ne rallentava l’entrata in funzione?

«I fondi per poter acquistare i furgoni erano stati trovati, sarebbero stati anticipati dalla Regione e poi reperiti grazie ai Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione, ndr) – spiega nei dettagli Mininni -. L’ipotesi era di costituire una cooperativa di giovani che li avrebbero guidati, magari gli stessi braccianti. Alcuni di loro, tra coloro che sono ospiti del centro autogestito Casa Sankara, erano pronti a partecipare alla sperimentazione. Ma in tutti questi mesi le associazioni datoriali, Confagricoltura, Coldiretti e Cia, non hanno mai fornito nomi di aziende disponibili a ricevere e far lavorare gli operai agricoli da questa filiera legale. Mai. Neanche una».

Abbiamo sottoposto la questione a rappresentanti delle tre associazioni ma solo Cia e Coldiretti hanno voluto rispondere ai nostri quesiti. Il direttore della sezione di Foggia della Cia, Danilo Lo Latte, ha così replicato: «Non ci sono arrivate richieste di questo tipo e quello degli spostamenti dei braccianti non era il tema principale della discussione. La priorità della sezione era un’altra, ossia individuare luoghi dove strutturare moduli abitativi per favorire l’accoglienza dei lavoratori stranieri».

Giuseppe De Filippo, presidente provinciale della Coldiretti di Foggia, ha invece proposto una soluzione diversa: «Se ci fosse veramente voglia di istituire una forma di trasporto alternativa, dovrebbe essere il pubblico a prendere l’iniziativa. Si realizzino una decine di linee che partono all’alba dai ghetti, e poi vediamo se funziona. Come Coldiretti abbiamo consegnato al prefetto Mariani un elenco di zone di interesse dove i veicoli potrebbero fare tappa». Il punto è che «l’imprenditore è intimorito, è intimidito, di andare a parlare con l’ente pubblico». Forse perché questo significherebbe sottoporsi a dei controlli non graditi? Fatto sta che l’esperimento non è mai partito. E 16 persone sono morte.

In tutto questo, mentre la Rete stenta a decollare, il governo giallonero ha iniziato a muovere le sue pedine nell’ambito dell’agricoltura, almeno a parole. Da un lato il ministro del Lavoro Luigi Di Maio il 3 settembre a Foggia ha lanciato l’idea di «un piano triennale per il contrasto al caporalato», che punti non solo a potenziare i controlli ma anche a «far funzionare i centri per l’impiego» e a implementare «un meccanismo dei trasporti», tutto ciò dopo aver già potenziato l’uso dei voucher in agricoltura (v. Sentimenti a pag. 26); dall’altro, il titolare del dicastero delle Politiche agricole, Gianmarco Centinaio (quello della casella mail “terronsgohome”), in una intervista a La Verità ha definito il caporalato come una «questione di ordine pubblico». «È bene che la gestisca il ministero dell’Interno di cui mi fido ciecamente», ha aggiunto. Una frase che lascia presagire il peggio. Vale a dire un’ondata di sgomberi dei ghetti che colpisca gli sfruttati anziché lo sfruttamento, lasciando intatte le dinamiche economiche e “politiche” attraverso cui si genera questo crimine. 

Nemmeno una parola riguardo lo strapotere della grande distribuzione organizzata (Gdo), che dall’alto impone i suoi prezzi e (indirettamente o meno) incide sul costo del lavoro. A denunciarlo, da tempo, è l’associazione Terra!, che con inchieste e campagne di sensibilizzazione punta a responsabilizzare politica e consumatori sulle pratiche sleali adottate dai supermercati. Come le aste elettroniche inverse, bandite dalla Gdo: i fornitori fanno una prima offerta di prezzo di vendita della passata di pomodoro o dell’olio, la distribuzione prende l’offerta più bassa e la usa come base d’asta per una seconda asta online al ribasso. È così che possono arrivare negli scaffali prodotti come una bottiglia di passata di pomodoro a 39 centesimi, un litro di latte a 59 centesimi, una confezione di würstel a 19 centesimi. Una cifra che viene spartita tra distribuzione, logistica, industria, e che arriva solo in minima parte al primo anello della catena: l’agricoltura e i suoi lavoratori.

«È chiaro che se costringi l’agricoltore a venderti un prodotto a pochi spicci, questo poi da qualche parte si deve rifare. E gli elementi su cui si può farlo sono qualità del prodotto e costo del lavoro», spiega Fabio Ciconte, direttore di Terra! onlus. «Ma finalmente, nel mondo della grande distribuzione e in parte della politica si è aperto un bel dibattito sul tema. Di aste si è parlato anche durante la manifestazione dei sindacati a Foggia l’8 agosto». Una sensibilità che cresce anche tra chi fa la spesa. «La Gdo ha una grande capacità di leggere le intenzioni del consumatore e adeguarsi. Vedi la rapidità nel cambio di prodotti sugli scaffali all’indomani dell’allarme sull’olio di palma. Per questo le nostre scelte, insieme all’intervento della politica, possono fare la differenza».

Di strapotere della grande distribuzione parla anche la rete Campagne in lotta, che dal 2011 opera nei campi per sostenere le lotte e i processi di autorganizzazione dei braccianti: «C’è una macchina dell’irregolarità che non ha mai smesso di funzionare ed è frutto dell’attuale sistema di gestione dell’immigrazione, oltre che dello strapotere della grande distribuzione organizzata sulle filiere agro-industriali». Per questo motivo «chiedere documenti e contratti per i lavoratori signfica, da una parte, puntare il dito contro le attuali politiche migratorie, e dall’altra esigere che le categorie che più traggono profitto dall’agricoltura – le organizzazioni dei produttori, le industrie e la grande distribuzione organizzata – sostengano i costi di casa e trasporto per i lavoratori e le lavoratrici, e più in generale garantiscano loro condizioni eque». Secondo Campagne in lotta, dunque, «sequestri, arresti e indagini non scalfiscono di una virgola l’organizzazione del comparto agro-industriale, che si serve dell’irregolarità fatta sistema per spremere profitti prima di tutto dai braccianti, siano essi africani, rumeni o bulgari. Non solo chi lavora in campagna è segregato in campi, ghetti o casolari, isolati e controllati in forme più o meno esplicite e istituzionalizzate. Le emergenze create ad arte su immigrazione e criminalità generano un clima di ostilità e ignoranza diffuse, che cercano di impedire a chi è sfruttato di fare fronte comune». E sul futuro, segnato dal tandem Salvini – Centinaio? «Quel che questo governo sarà in grado di fare dipenderà anche da ciò che sapremo mettere in campo noi».

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left in edicola dal 7 settembre 2018


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